Personaggi: Bill, Tom
Genere: Sci-Fi, Angst
Avvisi: Slash, lemon, AU, WIP
Rating: R
Capitoli: 7 (on hiatus)
Note: La storia nasce eoni fa. Inizialmente era un’idea vaga che, per arrivare dove poi è arrivata, è passata attraverso svariate mani e cervelli fino ad approdare ad un progetto quantomeno singolare.
La trama fu buttata giù dalla sottoscritta in treno, nella tratta Milano-Saronno, poi – causa blocco dello sceneggiatore e conseguente panico – fu comunicata a Majestrix nella quale la vostra affezionatissima ripone una gran fiducia. Majestrix creò, in venti minuti, quello che alla storia mancava. Si pensò inizialmente di scriverla a quattro mani ma c’era un problema fondamentale: la lingua in cui scriverla. Dopo svariate opzioni, tutte scartate – che per altro comprendevano la mia inconciliabile necessità di scrivere una storia di duemila capitoli e la sua struttura di sole sette parti, o quasi – ne abbiamo concluso che avremmo scritto due storie diverse a partire dallo stesso concetto iniziale.

Riassunto: Bevi il tuo succo d'arancia, avanti.
File 006

La situazione si era fatta quantomeno imbarazzante.
Dopo la fuga dal palazzo A della Corporazione e le conseguenti presentazioni – io sono Tom, io sono K, tanto piacere di conoscerti – la conversazione si era fermata lì, così.
Tom era seduto su una vecchia cassetta della frutta e si guardava con attenzione maniacale le mani, cercando qualcosa da dire.
Essenzialmente, era combattuto.
Da una parte avrebbe voluto tirare su il suo vecchio zaino sbrindellato e tornarsene a casa per cercare di fare il punto della situazione e magari mettere insieme un piano che stesse in piedi stavolta, dall’altra si chiedeva se non fosse tenuto ad instaurare un qualche tipo di relazione con K. In fondo un androide non era propriamente un frullatore che lo trovi in una stanza dove pensavi non ci fosse niente e lo lasci lì una volta che esci.
In effetti lui c’aveva provato ad andarsene da solo ma quello lo aveva seguito. Anzi, a pensarci bene, era stato K a fuggire e lui a seguirlo. Tom lanciò un’occhiata di soppiatto all’androide che se ne stava in piedi a qualche metro da lui e guardava la strada buia. E se anche l’androide fosse stato lì a chiedersi cosa fare? Se conversare con un essere umano oppure andarsene per la sua strada e lasciarlo lì?
Tom si rese improvvisamente conto di essere lui il frullatore.
”Perché eri nel palazzo A?” Chiese all’improvviso K.
Tom si voltò e scoprì che lo fissava dritto negli occhi senza battere le ciglia. “Come scusa?”
”Perché eri nel palazzo A?” Ripeté l’androide con lo stesso, identico tono di prima. “Non sei una persona autorizzata.”
“Stavo cercando informazioni su una cosa,” rispose cauto.
Cosa è un sostantivo generico,” notò K, che non si era mosso dalla prima volta che aveva aperto bocca. Tom si era reso conto che, a guardarlo bene, era inquietantemente immobile. “Che cos’è questa cosa?”
”E’ una persona.”
”Una persona non è una cosa,” commentò l’androide. “Non capisco.”
Tom espirò, passandosi una mano sugli occhi. Non pensava proprio di essere in grado di affrontare un dialogo simile alle quattro del mattino, quindi pensò bene di cambiare discorso. “Tu che cosa sei, si può sapere? Una specie di… macchina della verità?” Esclamò.
”Io non sono una macchina della verità,” rispose l’androide, inclinando la testa di lato. “Io sono K.”
”E fin qui ci siamo,” concordò Tom. “Ma che cosa sei?”
L’androide rimase a lungo a fissarlo. Dal momento che non cambiava espressione, era difficile per Tom rendersi conto di cosa gli passasse nel cervello – o quello che aveva dentro quel cranio così incredibilmente realistico. “Non che cosa ma chi,” ripeté alla fine. “Io sono K, questo è il mio nome.”
Tom sgranò gli occhi di fronte a quella risposta.
Ne capiva abbastanza di robotica per sapere che la comunicazione tra la macchina e l’uomo avveniva attraverso un processo di analisi. La macchina analizzava il comando ricevuto – un ordine o una domanda – quindi cercava la risposta, tra quelle in suo possesso, che più si adattava a livello logico. Di solito una domanda riceveva sempre la stessa risposta, o le due o tre che più vi assomigliavano, secondo una graduatoria di plausibilità. Nessuna macchina era in grado di uscire dal seminato di risposte pre-costruite e, oltretutto, di modificare la domanda. Fu per questo che rimase inebetito per qualche istante di troppo, a cercare di capire con che cosa…. d’accordo, con chi avesse a che fare. “E quale sarebbe la tua funzione?”
”Non sono stato programmato,” ammise K.
”Aspetta un secondo,” esclamò il ragazzino alzandosi in piedi. “Tu-“
”Ho aspettato. Adesso?”
”Eh?
”Un secondo,” specificò K. “Ho aspettato un secondo.”
A Tom venne quasi da piangere.
Fu un impulso improvviso e incontrollato, come quando in un’unica giornata perdi le chiavi di casa in un tombino, piove, ti licenziano e si fottono la tua autoradio. Ecco, era quel tipo di crisi isterica: lui era drammaticamente stanco. Non era stato già abbastanza rischiare di essere sbranato vivo da una lucertola ed essere quasi arrestato? Pure l’androide di ultima generazione che si metteva a fare le pulci su quello che diceva? “Era un modo di dire,” esclamò affranto.
”Un modo di dire cosa?”
”Lascia perdere, d’accordo?” Optò per la via più breve. “Se tu non sei stato programmato, allora perché ti muovi, parli e tutto il resto?”
”Le mie funzioni primarie sono attive,” commentò l’androide.
”Nessuna macchina può muoversi senza programmazione.”
”Io non sono una macchina,” rispose cocciuto l’androide, appoggiando le mani sui fianchi. “Sono K e io posso.”
A Tom iniziava a stare sui nervi, seriamente.
Era consapevole del fatto che se il tostapane si ostinava a non cuocerti le fette alla temperatura indicata non gli potevi mettere il broncio e arrabbiarti con lui; ma era diverso quando il tostapane in questione aveva due fianchi deliziosamente arrotondati e le labbra così ben disegnate da far pensare che fossero vere. Poteva anche essere una macchina ma, per la miseria, non ci assomigliava per nulla. Sembrava vero! E soprattutto sembrava morbido!
Tom si spalmò una mano in faccia: qualunque fossero i meccanismi reconditi del suo cervello di adolescente, questa volta non li avrebbe assecondati. L’ultima volta che si era lasciato travolgere dagli ormoni imbizzarriti, Bill gli aveva tirato un pestone talmente forte che non era riuscito a camminare bene per settimane – diventava cattivo, suo fratello, quando Tom cominciava a sbavare per qualcuno che non fosse lui. E d’accordo che adesso Bill non era lì, ma lo sarebbe stato prima o poi e lo sarebbe venuto a sapere comunque, il come non lo sapeva ma di sicuro ci sarebbe riuscito. Bill ci riusciva sempre, era un cane da tartufo.
E ad ogni modo, la questione principale era un’altra: si stava perdendo in pensieri vagamente sessuali sulle forme umanoidi di un androide. E questo era irrazionale.
Era chiaro come il sole che gli mancasse suo fratello.
Che poi detta così sembrava che lo stesse cercando solo per riportarlo nel letto dal quale lo avevano rapito, ma non era affatto così. Diciamo che anche quello faceva parte della faccenda. Oh insomma, aveva pur sempre diciassette anni e una cosa sola nel cervello. A volte quella cosa era Bill, a volte quella cosa era Bill nel suo letto. Era sempre Bill, no? Che differenza faceva?
”Tom?”
Il biondo alzò lo sguardo, tragicamente caduto troppo oltre la vita di K. “Sì, ci sono,” saltò su, fingendo disinibita nonchalance. “Immagino che tu abbia delle cose da fare, comunque.”
”Sì.”
”Ottimo,” annuì Tom, sempre più soddisfatto. “Quindi io ti ringrazio per non avermi disintegrato con i tuoi raggi laser e ti saluto.”
”Non possiedo raggi laser,” gli fece notare K. “E ho bisogno del tuo aiuto.”
Tom si immobilizzò a metà di un passo, già pronto a dileguarsi fra i meandri oscuri di Berl, sperando intensamente che non avesse un qualche scanner di posizione o cose simili; che non potesse trovarlo, insomma, tanto per farla breve. “Hai bisogno del mio aiuto per fare cosa?”
”Voglio capire perché non sono stato programmato.”
”Buon per te, ma io non posso aiutarti,” Tom scosse la testa. “Io non lo so.”
K sollevò la maglietta, mostrando ancora una volta il suo tatuaggio. K483.
Tom si ritrovò a diventare rosso. “Lo vedi questo?”
”Direi di sì,” vagheggiò, con l’occhio un po’ fisso. Il numero, che era probabilmente quello di serie, sembrava tatuato sulla pelle di un essere umano, c’erano le stesse microscopiche imperfezioni. Quando K spostava il peso da un’anca all’altra, la pelle tirava, come quella vera.
”Nella stanza in cui mi trovavo c’erano altre due unità K disattivate,” continuò l’androide. “Ce ne sono altre. Voglio capire perché ero là dentro e perché non sono programmato.”
Quando Tom riuscì finalmente a staccare gli occhi da quel bacino, riuscì anche a comprendere che il ragionamento non faceva una piega. In realtà quella piega avrebbe dovuto farla perché K non ragionava come una macchina, e invece avrebbe dovuto. Il punto è che a Tom sembrava perfettamente legittimo da parte sua voler sapere da dove venisse. Non lo facevano forse tutti i bambini?
”A giudicare dal numero direi che siete parecchi,” commentò, cercando di concentrarsi sugli occhi dell’androide che erano imbarazzanti perché non ti lasciavano un istante. “Mi chiedo se siate tutti così.” Sospirò, quindi cerò di tornare al punto. “Comunque davvero non capisco come posso aiutarti io. Lo hai visto, no, che casino ho fatto là dentro. E poi, te l’ho detto, devo cercare una persona.”
”Esatto,” annuì l’androide. “Hai trovato le informazioni che cercavi?”
Tom valutò l’ipotesi di mettersi a piagnucolare un Ti prego non mi interessa, voglio solo andare a casa! con voce lamentosa nella speranza che K avesse installato un software che lo facesse desistere di fronte ad una palese manifestazione di disperazione. Poi si convinse a fare la persona matura, e soprattutto umana, e sospirò. ”No,” espirò. Grazie per aver girato il coltello nella piaga K, adesso sono molto più tranquillo.
”Se riguardano la Corporazione, io posso trovare le informazioni che cerchi,” disse l’androide.

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