Personaggi: Bill, Tom
Genere: Sci-Fi, Angst
Avvisi: Slash, lemon, AU, WIP
Rating: R
Capitoli: 7 (on hiatus)
Note: La storia nasce eoni fa. Inizialmente era un’idea vaga che, per arrivare dove poi è arrivata, è passata attraverso svariate mani e cervelli fino ad approdare ad un progetto quantomeno singolare.
La trama fu buttata giù dalla sottoscritta in treno, nella tratta Milano-Saronno, poi – causa blocco dello sceneggiatore e conseguente panico – fu comunicata a Majestrix nella quale la vostra affezionatissima ripone una gran fiducia. Majestrix creò, in venti minuti, quello che alla storia mancava. Si pensò inizialmente di scriverla a quattro mani ma c’era un problema fondamentale: la lingua in cui scriverla. Dopo svariate opzioni, tutte scartate – che per altro comprendevano la mia inconciliabile necessità di scrivere una storia di duemila capitoli e la sua struttura di sole sette parti, o quasi – ne abbiamo concluso che avremmo scritto due storie diverse a partire dallo stesso concetto iniziale.

Riassunto: Bevi il tuo succo d'arancia, avanti.
File 005

Essere umano. Adolescente.
Maschio, bianco, razza caucasica.
Età approssimativa: 17 anni.

Altezza: 1,80 cm.
Peso: 53 Kg.

Velocità di corsa: 20 Km/H.
15, 32 m di corridoio in linea retta, già percorsi.

Lui era ancora immobile.
Calcolò lo spazio fisico, la velocità e il punto esatto in cui l'essere umano si sarebbe trovato entro 5 secondi.

4.

3.

2.

1.

*


Tom si era messo a correre senza ricordarsi che non era mai stato veramente in grado di farlo. Il suo insegnante di educazione fisica aveva passato i primi tre anni a cercare di insegnargli inutilmente un leggero barlume di co-ordinazione. Quindi, accettata l'idea che Tom non avrebbe mai - in tutta la vita - eseguito movimenti anche solo vagamente simili a quelli di ogni altro essere umano sulla terra, aveva ripiegato sull'insegnargli come giocare a basket senza trucidare a gomitate improvvise tutto il resto della sua squadra.
In due anni avevano entrambi raggiunto il ragguardevole risultato che a fine partita erano rimaste almeno due persone sane in grado di andare a canestro.
Tom era molto fiero di questo.
Con Bill l'insegnante aveva rinunciato del tutto.
Il gemello minore odiava qualsiasi tipo di attività fisica in cui gli si richiedesse di indossare una tuta da ginnastica, palleggiare, correre o fare piegamenti. Quindi, dopo due anni di lotte, l'insegnante gli aveva dato in mano un fischietto e lo aveva fatto appollaiare sulla sedia dell'arbitro. Bill non sapeva neanche una regola, ma come fischiava lui la fine del primo tempo interpretando l'ultima hit delle classifiche, nessuno mai.
Tom si chiese ancora una volta perché nei momenti di maggior pericolo la sua mente decidesse di estraniarsi con le cose più idiote. Strinse i denti e cercò di non dar peso ai polmoni che già gli bruciavano: aveva corso troppo per una giornata sola. E aveva anche scalato un muro, evitato un'enorme lucertola gigante, la Polizia, le telecamere... si chiese perché non atterrasse la nave madre degli alieni, già che c'era, avrebbe combattuto anche loro.
Decise che non voleva voltarsi indietro per vedere se quell'androide fosse alle sue spalle.
Era ovvio che lo fosse. E invece no, se lo ritrovò davanti.

"Che cosa?!" Non trovò nient'altro di più intelligente da sbraitare quando fu costretto a consumare le suole delle scarpe da ginnastica nella frenata meno calcolata e meno utile della storia per non andargli addosso. In realtà non gli sarebbe mai andato addosso, perché l'androide sapeva di matematica e si era messo là dove poteva afferrarlo senza essere travolto dalla massa incongrua del suo corpo in corsa. Peccato che nel fare attrito sul pavimento, Tom mise male il piede destro e finì lungo disteso in terra, ai piedi del suo terrore.
"Fermo," disse l'androide.
Tom trovò il modo di sciogliere il nodo dei suoi stessi arti e si guardò bene dall'obbedire. Prese a farsi indietro, ancora seduto per terra, senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi dell'androide.
"Ripeto: fermo, per favore," chiese di nuovo.
Tom raggiunse il muro con le spalle. Il che significava essenzialmente due cose: non aveva più scampo e l'androide lo avrebbe ucciso. Fine della vita di Tom Trumper. E tanti saluti al suo adorato gemello, disperso chissà dove nei meandri della Corporazione.
Addio Bill, spero che tu riesca a salvarti da solo.
Io ci ho provato credimi!
Dite a mio fratello che l'amo!
No, forse quella non era una frase esattamente normale. Allora, dite a mio fratello che--
Tom chiuse gli occhi quando l'androide si chinò su di lui, adesso gli avrebbe sparato un raggio laser a distanza ravvicinata e sarebbe tutto finito. Addio mondo crudele, Bill fratello adorato... e di nuovo tutta la tiritera. Invece, la cosa se lo issò sulle spalle dimostrando una notevole forza fisica, calcolando che ad occhio avevano la stessa struttura.
"Hey, ascolta!"
"Fà silenzio, per favore," chiese l'androide con il suo tono schifosamente non-androide, e pure un po' troppo gentile.
Tom fece per replicare ma gli fu tappata la bocca.
"Fà silenzio, per favore," ripeté. Quindi iniziò a correre.
E non correre nel senso di Tom, correre nel senso di 200 - fottutissimi - Km/H, con il corridoio ridotto a una vaga macchia di colori indistinguibili agli occhi e l'aria che gli fischiava nelle orecchie come un aereo dell'Aviazione.
Quando si fermarono, Tom era spettinato.
E il suo stomaco non era più uno stomaco ma qualcosa che si aspettava da lui che aprisse la bocca perché stava per mandargli gli ultimi tre pasti consumati per via direttissima.
Il ragazzo si appoggiò al muro e vomitò anche l'anima, mentre intorno a loro le sirene continuavano imperterrite ad annunciare gli intrusi.
"Potresti interrompere il rigurgito del tuo cibo non digerito entro 3,5 secondi?" chiese candidamente la macchina.
Tom gli lanciò un'occhiata di traverso e lo trovò che lo fissava, con lo sguardo vitreo e le braccia ciondoloni lungo i fianchi.
"2,8 secondi."
Tom si passò la manica sulla bocca. "Sentì, ascolta, io non volevo rubare niente, d'accordo?" Mentì gioiosamente, il biondo. "Sono solo entrato qui per-"
"1,0 secondi."
"E comunque non sono pericoloso, lo hai visto anche tu io-"
La macchina lo afferrò di nuovo per la vita e balzò in aria.
Tom vide i due tentacoli uscire dal busto dell'androide e fare presa sul soffitto. L'androide mise le gambe e la mano libera in contrapposizione con le pareti e lì rimase, fissando l'entrata del corridoio.
"Ah! E' così che hai fatto prima!"
"Fà silenzio, per favore."
Un attimo dopo il corridoio fu invaso da tre di quei robot su ruote che avevano già visto in precedenza. Tom assistette di nuovo a tutta la scansione millimetrica e notò che, ancora una volta, nessuna delle macchine aveva scansionato il soffitto.
Sembrava che stessero per andarsene, quando a Tom scappò uno starnuto.
Le tre macchine si voltarono tutte contemporaneamente, la telecamera puntata dritta verso di lui. "Oh merda."
L'androide lasciò la presa, atterrò sul pavimento del corridoio ammortizzando il salto sulle lunghe gambe magre, quindi riprese a correre.
A Tom sembrò che le sirene aumentassero d'intensità e fu sorpreso di riuscire a seguire il movimento dei robot che li inseguivano, nonostante fosse nuovamente issato sull'androide e stessero andando a quella velocità assurda.
Svoltarono, quindi l'androide lo lasciò andare poco cerimoniosamente in terra e si mise a trafficare con un pannello di riconoscimento su un piccolo trespolo. Tom guardava freneticamente l'inizio del corridoio, in attesa di veder spuntare i robot su ruote.
"Essere umano!" Lo chiamò l'androide.
Tom lo guardò storto. "Agli ordini," bofonchiò, avvicinandosi.
"Apri."
Tom lo guardò ancora più storto, quindi guardò il pannello. C'era un piccolo schermo rettangolare, illuminato da una serie di led. E nient'altro. "E io cosa dovrei farci? Non me ne intendo di questi affari."
"E' un SURU, Sistema Unico di Riconoscimento Umano," spiegò l'androide.
Tom sapeva di cosa si trattava, ma non ne aveva mai visto uno prima di allora.
Qualche mese prima alcuni prototipi di robot erano entrati in corto-circuito e, inserendosi nel sistema di controllo dei laboratori che li custodivano, erano riusciti ad evadere.
I giornali erano andati avanti con quella storia per mesi, finché la Lab Tech, uno dei laboratori gestiti dalla Corporazione, non aveva inventato il SURU, un apparecchio in grado di riconoscere l'umanità della persona, attraverso la lettura dei suoi bioritmi e delle micro-variazioni cardiache e respiratorie, non riproducibili artificialmente.
Il SURU era più preciso e più affidabile di un comune lettore di retina o di impronte digitali, entrambi ingannabili dalle macchine più avanzate.
"Con questo sistema soltanto gli esseri umani che possiedono il codice possono lasciare l'edificio," commentò il rasta.
L'androide annuì impercettibilmente. "Ho immesso il codice. Ora tocca a te."
"Perché dovrei farlo?" Chiese all'improvviso Tom, rendendosi conto che se quell'apparecchio era stato installato, forse l'androide non doveva uscire. "Tu sei una macchina e dovresti stare qui dentro."
"Io non sono una macchina," precisò l'androide. "Comunque, quello è il motivo per cui dovresti farlo."
Gli indicò i robot su ruote che avevano appena svoltato l'angolo. Il led rosso che vagava sugli abiti enormi e fangosi di Tom stava lì ad indicare che stavano per sparargli.
"Ok, mi hai convinto! Che diavolo devo fare?" Tom si voltò verso il pannello.
"Mettici la mano sopra."
Tom si pulì le mani sudate sui pantaloni, quindi le piantò entrambe sul lettore. "Vai! Vai Vai!" Si lamentò, guardandosi convulsamente indietro.
Dopo due secondi eterni, sul muro si aprì uno sportello che Tom non aveva notato. E fu solo allora che si rese conto che forse avrebbe dovuto esserci una qualche porta se proprio stavano cercando di uscire. "Che diavolo ho aperto? Lo sgabuzzino delle scope?" Sbraitò, mentre ci si infilavano dentro entrambi.
"Stoccaggio dei Materiali Inutilizzati," annunciò l'androide. Tom vide i suoi occhi ambrati e leggermente a mandorla, baluginare nel buio prima che sparisse, trascinato giù dalla pendenza di uno scivolo.
"La pattumiera?" Tom non fece in tempo a finire la parola. L'eco dell'ultima vocale lo accompagnò per tutta la discesa finché non atterrò con un sonoro tonfo sull'unico pezzo di plastica in mezzo ad un mare di carta e cartone. L'androide era già in piedi, lindo e pulito come se fosse appena uscito dalla sua scatola. "La pattumiera! Tsk..." Ripeté, ancora più imbestialito, mentre cercava di rimettersi il cappello da baseball che gli era scivolato di traverso e ora gli pendeva dai dreads che c'erano infilati dentro.
Dall'alto Tom sentiva ancora le sirene. "Non credo che gli abbiamo seminati, sai?"
L'androide si stava guardando intorno.
"Da questa parte," annunciò. C'era una grata sul muro, appena sopra le loro teste. Vi mise le mani sopra e la tirò via con un sonoro strattone. "Il condotto d'areazione porta all'esterno. Abbiamo 1,30 minuti."
Tom emise un fischio. "Ah beh, allora siamo ricchi."
L'androide salì per primo, quindi tese la mano a Tom e lo tirò su senza sforzo, come fosse stato fatto di niente. "Non siamo ricchi. Non abbiamo denaro."
"Era una battuta."
L'androide rimase lì a fissarlo per qualche istante. "Non capisco."
Tom lo spinse, per dirgli di muoversi. "Lascia perdere," rise. "Forza, trabiccolo muoviti!"
"Io non sono un trabiccolo."
Il condotto non era più lungo di qualche centinaio di metri e sebbene fossero costretti a camminare a quattro zampe, lo spostamento fu più rapido del previsto.
Alla fine trovarono l'ennesima grata che l'androide butto giù con una spallata e quindi furono fuori all'aria aperta. Con somma gioia di Tom il condotto usciva all'esterno del perimetro del palazzo, praticamente sulla strada. "E' fatta, siamo fuori."
"Essere Umano, corri!" Esclamò la macchina, tirandoselo nuovamente dietro.
Tom era troppo confuso per chiedersi dove diavolo stessero andando e perché stava dando retta ad una macchina non-umana, alta quanto lui e con una forza sufficiente a strangolarlo che lo aveva convinto a farlo evadere dal luogo in cui era rinchiuso. Corse e basta.
Corse finché la macchina non si fermò in un vicolo.
Tom si gettò a terra e si trattenne dal baciare la pavimentazione soltanto perché i liquami che ci viaggiavano sopra gli avrebbero sicuramente regalato una pacifica morte fulminante.
"Certo che ne hai di energia per essere un apriscatole!"
"Io non sono un apriscatole."
"Allora già che ci siamo, io non sono Essere Umano," puntualizzò il ragazzo. "Io mi chiamo Tom."
"Tom," ripeté l'androide.
"Esatto, è il mio nome."
L'androide rimase immobile per qualche istante, come se stesse pensando.
Guardava un punto fisso di fronte a sé, senza concentrarsi esattamente su niente, proprio come un essere umano. Lasciò scorrere una mano esile lungo la maglietta e sollevò leggermente l'orlo, guardando l'inchiostro nero sulla pelle sintetica del suo bacino.
Tom arrossì perché la curva delle sue anche che spariva nei pantaloni era incredibilmente realistica.
L'androide sorrise. "Io mi chiamo K."

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