tom+ofc

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Bill, Tom, OFC
Genere: Comico, Demenziale
Avvisi: Slash, Het
Rating: R
Note: Da un'idea di Yulin. La storia - comparsa inizialmente con il solo sottotitolo - si è classificata prima al concorso "2018", indetto sulla kaulizestIta.
La storia è un compendio di stupidità e io ne sono molto orgogliona.
L'idea di questa famiglia allargata dove non si sa cosa nè chi, in realtà, mi intrigava già da parecchio e racchiudere il tutto in una shot piuttosto che ammorbarvi con 60 capitoli (che poi sarebbero sfumati nel dramma definitivo) mi sembrava una buona soluzione.
Per quanto riguarda Nena, la vacca - che dire?
Nena andava inserita (per essere perfetti bisognava anche sbagliare un po' delle date che la legano ai Tokio Hotel per falsare la presumibile realtà storica, ma questa volta credo di non esserci riuscita. E un po' mi dispiace: era il mio marchio di fabbrica) e ho pensato che si meritasse una parte di spicco. No offense intended nei confronti di sua maestà la vera Nena.

Riassunto: Allora l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa. Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.
Quando, da piccoli, ne parlavamo, sembrava davvero un grande idea: io, Tomi, una casa enorme e magari una ragazza che la pensasse esattamente come noi a completare l'ameno quadretto perché Tom ha sempre adorato i bambini; li voleva, nonostante tutto, e ne voleva di suoi per cui l'adozione era fuori discussione.
Ora come ora, in realtà, ho come l'impressione che più che i bambini in sé gli piacesse farli ma, all'epoca, quando mi disse che adorava l'idea di mettere al mondo tante nostre piccole copie in miniatura, la cosa mi sembrò romanticissima.

Io e Tom ne parlavamo di continuo. A quindici anni era solo un'idea molto confusa di me e di lui, e di una casa con le porte sempre aperte. Una sorta di castello incantato con le stanze comunicanti che ci avrebbero permesso di romperci vicendevolmente le palle in allegria. Eravamo ancora ai livelli per cui vivere insieme significava coccole ventiquattrore su ventiquattro senza altri futili pensieri per me, sesso ovunque e pizza a cena per Tom. Era tutto molto semplice a ben pensarci.

A diciotto anni, l'idea divenne più precisa e iniziammo ad adoperarci per realizzarla. Io volevo trovare un modo per stare con mio fratello senza finire in galera. Tom, fondamentalmente, voleva sempre far sesso ovunque e pizza a cena ma ci aggiunse i bambini e quindi il necessario elemento femminile.

A ventidue anni le ragazze divennero due e la mia bellissima idea di una bifamiliare in centro a Berlino si tramutò in un surrogato tedesco della Casa nella Prateria. La pizza rimase, naturalmente.

Allora, come dicevo, l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa perché, se qualcuno era arrivato alla nostra stessa idea, allora non eravamo poi così fuori dal mondo.
Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.


L'ASSUNTO APODITTICO PUO' ESSERE EUFONICO?
Io, mio fratello e il giorno che mi lasciarono
solo con l’anticristo.



Sono seduto sul divano di casa, che non è più veramente un divano da quasi tre anni. Mi pare di ricordare che fosse nero, una volta, ma non posso accertarmene perché è sommerso da ogni genere di oggetto. Sbuffo e appoggio la testa allo schienale morbido, guardando il soffitto quattro metri sopra di me. Il lampadario è l'unica cosa che sia ancora nel posto in cui si trovava quando abbiamo comprato questa fattoria.

Sono le dieci del mattino e vorrei già tornare a letto. Sono stanco per fare qualunque cosa, ultimamente. Questo è perché non dormo né quanto né come dovrei: la responsabilità è delle acrobazie sessuali di mio fratello, naturalmente. D'accordo, forse non è proprio tutta colpa sua ma di sicuro buona parte delle mie ore insonni ormai la devo a lui. E a loro.

E anche agli altri naturalmente.

Sembra che tutti qua dentro agiscano sotto l'effetto della stamina. Tanta stamina. Possono stare svegli per ore, a fare qualunque cosa. Non è solo questione di sesso, no. Si parla, si scherza, si urla, si piange e si gioca. Si gioca tanto; perlopiù tra una scopata e l'altra. Ecco.
Così mi tocca prima giocare, e poi scopare. O anche l'inverso, dipende da che metà del giorno viene prima. In definitiva, però, non dormo.
Ecco perché alle dieci del mattino sono già seduto su questo divano senza nemmeno la forza di recuperare il telecomando e abbrutirmi davanti al televisore.

Voglio solo morire.
Morire in mezzo a una valanga di oggetti inutili, su quello che un tempo è stato il mio bellissimo divano di pelle nera. E invece no. Qua non si muore nemmeno.

"Bill, noi usciamo."

Le parole, in realtà, mi arrivano dopo. Prima mi arriva il concetto, che è notevolmente peggio; questo perchè il cervello archivia il significato immediatamente e poi ci mette i suoi dieci minuti buoni a recuperarlo, elaborarlo in una sequenza logica e ripresentartelo in modo che tu, coscientemente, sia in grado di afferrarlo.

E a quel punto loro sono già uscite.

In realtà, il mio è un problema di tipo logico.
Ieri sera Tomi e io siamo nella nostra stanza al secondo piano e Tomi mi sta drappeggiato addosso, con la sua bella faccia soddisfatta e la mano sul mio sedere. Se ne sta lì così e io sono portato a credere che per oggi ho finito sia di giocare che di scopare, e che forse posso anche dormire. Sono così felice che mi addormento pure, dalla felicità.

Lui ovviamente mi sveglia, perché ha la stamina. Lui.
Mi pianta nel viso gli occhi da triglia e mi dice: "Domani devo andare allo studio a registrare la linea di chitarra." Agli occhi di un profano che non vive nella nostra condizione, potrebbe suonare come una frase di una banalità imbarazzante. Io sono un cantante, lui è un chitarrista, abbiamo una band: è puramente logico che ogni tanto si registri anche qualche pezzo nuovo invece di continuare a vendere per dieci anni singoli rimasterizzati di Durch den monsun. Cosa che non ci esimiamo dal fare, comunque.

In realtà no. Questa non è una notizia come un'altra, è l'annuncio dell'apocalisse imminente: E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che recavano sette flagelli, gli ultimi, perché con essi si compie l'ira di Dio. Mi libero dalla sua amorevole stretta e lo guardo negli occhi. Chiedo che cos'ha detto e lui ripete - che il cielo abbia pietà di noi tutti - esattamente le stesse parole. Lui va a registrare allo studio.

Se lui non c'è, rimaniamo in tre contro l'Anticristo.

Mi rendo conto che non posso urlare: è una questione di sopravvivenza. Se viveste come vivo io, lo capireste. Se urli, ti sentono. E se ti sentono, la loro percezione distorta del mondo li convincerà che urlare sia giusto. E ti imiteranno, emuli malvagi che tu stesso hai creato.
Così non urlo, annuisco e cerco di riaddormentarmi ma ovviamente la stamina di Tom mi nega anche il più piccolo conforto. Sia mai che oltre ad affrontare l'apocalisse in svantaggio, io possa farlo senza due occhiaie sfiguranti.

Sia mai.

Quindi, tornando al nodo centrale della questione: Tom non c'è.
Da qui se ne deduce che quelle due non possono uscire. Eppure lo hanno fatto. Se loro escono, e Tom non c'è, questo lascia me solo contro l'Anticristo.

Ho appena finito di raggiungere questo alto grado di consapevolezza ascetica che sento la porta chiudersi. Nei minuti che il mio cervello ha impiegato, come dicevo, a propormi questo grande spaccato di verità, Emma e Julie sono uscite.

Mi alzo dal divano e mi getto fuori dalla porta, pregando che le gambe mi reggano quel tanto che basta a gettarmi in mezzo al vialetto di casa. Sono pronto a farmi investire dal SUV ma vi prego non lasciatemi qui. Non da solo. Non sono neanche troppo sicuro di avere qualche responsabilità in tutto questo. La dinamica è sempre stata molto confusa, tutte e sette le volte.

Quando raggiungo l'esterno, però, ci trovo solo le sgommate dell'auto.
E quando avranno terminato la loro testimonianza, la bestia che sale dall'abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà.

***


Sono sette.

Sette sembra un bel numero. Ci sono i giorni della settimana, le note, le meraviglie del mondo. Sono sette i mesi dell'anno con 31 giorni, le vite del gatto, i nani di Biancaneve!

Poi ti viene a mente che sono sette anche i peccati capitali, e in quel momento capisci tante cose. In particolar modo comprendi che la felice idea di bifamiliare, gioiosamente arredata di bambini è una gran vaccata. E che il tuo gusto per il design non potrà mai andare d'accordo con il gusto malsano di tuo fratello di riprodursi.

Quando rientro in casa mi rendo conto che qualcosa ha colonizzato il divano; definire il numero di creature che vi si sono arrampicate sopra potrebbe essere complesso. Vedo braccia e gambe ma niente di numericamente distinguibile.

"Bill!" E' il grido primordiale che mi accoglie non appena entro nella loro visuale. Nessuno che viva sotto questo tetto può sostenere con assoluta certezza che io sia il padre di qualcuno. Nessuno può sostenere la stessa cosa di Tom. Pertanto, la convivenza civile - nella persona del sottoscritto - ha obbligato il resto del parentado all'equo utilizzo dei nostri adorabili nomi propri.

Ora che si sono rotolati in posizioni quasi umanamente vivibili, posso vedere che sono soltanto tre e mi guardano tutti fisso, come bambole di porcellana in casa di una vecchia sciroccata e piena di gatti. Sono quelli della fascia alta d'età. Sei, cinque e quattro anni.

Sembra il conto alla rovescia di Capodanno.

"Ho fame," esordisce il più grande che di nome fa Samuel. E se un giorno si lamenterà per questo gli dirò che poteva andargli peggio e che, se io e sua madre Julie non avessimo insistito, ora avrebbe il nome di un rapper che faceva già schifo quando uno dei suoi possibili padri era ancora minorenne. Se non ci fossi stato io, il primo dei nostri Kaulitz avrebbe avuto DELUXE sul certificato di nascita.

Quando mi espone il suo problema, puntualmente anche le altre due che gli siedono a fianco, e che a tutto pensavano tranne che a riempirsi lo stomaco, scoprono all'improvviso di avere fame. E succede sempre così, con qualsiasi cosa. Quando uno vuole andare in bagno, altre sei persone si pisciano addosso. Quando uno vomita, ci ritroviamo istantaneamente il salotto riverniciato di pezzettoni.

"Anch'io ho fame," proclama con veemenza la più grande delle bimbe. Si chiama Nina, perchè a Nena si sono opposti tutti quanti. E dire che era un gran bel nome.
Sua sorella, di madre diversa, le fa eco. Nei suoi quattro anni, il vocabolario è ridotto alla sola parola fame ma si avvale delle dichiarazioni dei fratelli per dare forza ai propri discorsi.
Ogni volta che la guardo mi viene in mente il volto di mia madre e quello della madre di Emma che si ringhiano l'un l'altra sopra un tavolo da caffé per chiamare quella creatura col proprio nome.

Peccato che abbia finito per chiamarsi Angelina, come la Jolie. E questo perché ho un gemello e una compagna che ancora sbavano dietro a quella donna. Quando li troviamo di fronte alla quarta visione settimanale di Wanted, è sempre un momento molto imbarazzante per tutta la famiglia.

Io non sono mai stato bravo nelle materie scientifiche ma ora so che, da qualche parte, dev'esserci qualche legge fisica che stabilisce esattamente questo: quando sei intento a preparare la colazione per i tuoi tre figli e ad ascoltare ciò che hanno da dirti, uno o più eventi si abbatteranno sulla tua persona e tu non potrai fare niente per fermare nessuno di essi.

Infatti, mentre sto posando sul tavolo un numero sufficiente di waffles a sfamare la corte del sultano del Brunei e il suo popolo tutto, perché i tre pargoli vi si gettino sopra come cavallette, squilla il telefono, suonano alla porta e - tanto per gradire - dai piani superiori urla e strepiti mi ricordano che io e Tomi, forse, dovremmo fare causa alla casa che produce i nostri profilattici.

Il corollario alla legge fisica di cui sopra, in effetti, dice: se quando sei intento a preparare la colazione ai tuoi tre figli ne hai anche altri quattro da qualche parte, sottoponiti a vasectomia.

Nell'aprire alla porta, rispondo anche al telefono, così mi ritrovo a salutare il mio postino con un bel PRONTO! squillante e ad invitare David ad entrare attraverso la cornetta.
Il postino mi guarda basito e non so se lo faccia perché ho appena detto quello che ho detto o perché mi ritrovo addosso un pigiama di Emma che ha la mia stessa taglia ma non i miei stessi gusti e adesso ho elefantini rosa sui pantaloni. Ignoro la mia situazione, prendo la posta con un cenno e gli richiudo la porta sul muso prima che uno dei paparazzi là fuori mi ritragga in questo modo e poi venda la foto a BRAVO. Abbiamo già abbastanza imbarazzanti problemi con il gioco che hanno indetto la scorsa settimana e che, con uno stupro di eleganza non indifferente, invita le adorate lettrici a dare la loro opinione su chi sia figlio di chi.

"Bill?" Dice David.

David è uno di quelli che sta cercando di supporlo da sei anni, ne sono certo. Scommetto che manda anche gli sms a Bravo per dire la sua.

"Sì, ci sono," rispondo mentre lancio occhiate alla cucina dove le tre malattie infettive si stanno facendo lo shampoo con la panna dei waffles. Quando hai sette figli, tutti di età compresa tra lo zero assoluto e i sei anni compiuti da un giorno, arrivi ad un certo punto in cui non te ne importa più niente, neanche se si facessero lo shampoo con il tuo sangue. Intanto salgo le scale, perchè il coretto dei neonati si sente fin troppo forte e chiaro.

"Ci sarebbe un servizio fotografico..." inizia David. Quell'uomo non conclude mai le frasi, le lascia in sospeso. E' un manager allusivo.

"Quando?"

"Oggi."

Rido.

"Magari sul tardi," offre lui.

"Magari quando Samuel parte per il militare," propongo io.

I bambini hanno due stanze. Una per il primo gruppo, una per il secondo. I quattro figli che mancano all'appello sono quelli nella fascia bassa d'età, il che significa due anni e meno di un anno. I gemelli - sì, i gemelli; a quanto pare quella dei gemelli che saltano una generazione è un'altra leggenda metropolitana - hanno due anni e mezzo; si chiamano Jorg, come mio padre. E Gordon, come mio padre, sempre. Mi rendo conto che la nostra situazione assume contorni perversi e contorti anche nei dettagli più smaccatamente normali. Questi due, dei Kaulitz, hanno qualunque cosa: i capelli, il naso, la bocca, la forma assurda delle orecchie. Dalla loro madre hanno preso l'unica cosa che mancava a noi: l'occhio azzurro. E lì un po' t'incazzi perchè, essendo due maschietti, sono praticamente uguali a noi ma sono più belli. Sono una versione aggiornata dei gemelli Kaulitz!

Gli ultimi due hanno sei mesi uno e quattro l'altra. Lei si chiama Simone: mia madre l'ha spuntata perché, nel frattempo, la madre di Emma è morta.
Lui invece si chiama David. Glielo dovevamo, soprattutto quando si è ritrovato coperto dalla testa ai piedi di placenta e liquido amniotico in un claustrofobico ascensore della Universal con Julie che gli stritolava la mano, massacrandogli le dita e dandogli la colpa di ogni cosa che riguardasse noi altri due che eravamo bloccati in sala stampa ad annunciare il nuovo album.

Prendo in braccio David e Simone, mentre libero i gemelli dal loro lettino con le sbarre. Il bello degli omozigoti è che si autogestiscono in quasi tutte le occasioni. So per esperienza personale che nessuno dei due permetterà che l'altro si faccia del male. Molto probabilmente tra qualche anno li troverò a limonare dentro un armadio ma credo proprio che saprò essere comprensivo.

"Ci sei?" Mi dice David. Quello adulto.

"Sì, ma devo cambiare il tuo omonimo."

"Allora niente servizio fotografico?"

Guardo nel vuoto per qualche istante e mi immagino come sarebbe passare il resto della mia vita in galera per aver ammazzato il mio manager che non ha ancora capito che dopo 6 anni e 7 figli sono ben giustificato a dire di no ad un servizio fotografico quando ho due neonati in braccio e altri due che mi corrono tra le gambe urlando parolacce che il padre - o lo zio - ha insegnato loro.

David attende. Non è che gli passa per l'anticamera del cervello che io non possa cambiare idea. Il mio David invece, puzza. E anche tanto. "Dalla cacca che fai, si direbbe che tu sia figlio di Tom," borbotto mentre lo appoggio sul fasciatoio. Simone l'ho messa nel seggiolone e attende paziente che mi occupi anche di lei.
I due gemelli li ho persi di vista ma inizierò a preoccuparmi solo quando ne sentirò piangere uno. Abbiamo dei metodi educativi molto spicci in questa casa.

"Stavi parlando con me?" Mi chiede il mio manager.

"David, se pensi che io possa interessarmi alle tue abitudini intestinali, credo che tu abbia bisogno di rivedere l'opinione che hai di me," dico intanto che cerco di allontanare da mio figlio la quantità industriale di escrementi che ha prodotto nelle ultime cinque ore senza rovinarmi la manicure. Io odio cambiare i pannolini, credo che dovrei avere una dispensa per essere esonerato da una cosa del genere.

Non mi si addice, per la miseria.

Sto vagliando l'ipotesi di riattaccare ed occuparmi della figliolanza, quando sento un gran frastuono provenire dal piano inferiore e allora mi passa di mente sia di spedire il mio manager a farsi benedire, sia il fatto che io una volta ero un giovane efebo, il cui unico compito era quello di ansimare in un microfono per scombussolare gli ormoni di un'orda di ragazzine.

Mi avvio al piano inferiore, stringendomi David contro un fianco e scopro che l'altro, il manager, sta parlando da solo da ore e non se n'è nemmeno accorto. Il che è perfettamente normale: ha passato gli ultimi dieci anni a farlo perché nessuno di noi gli ha mai dato retta. Per non sentirsi solo ha imparato ad ascoltarsi.

"D'accordo, se non riesci proprio a fare un salto qui per le foto, non fa niente," sta dicendo, con il sotto tono di uno che vorrebbe sentirsi rispondere che in realtà mi dispiace molto non esserci e che sono pronto a sacrificare il mio primogenito al demonio pur di essere lì con lui a farmi ricoprire le occhiaie di fondotinta e a posare sensualmente di fronte ad un fotografo quando ho alle spalle un complessivo di 2 ore di sonno... durante le quali non posso garantire che Tom non si sia approfittato sessualmente del mio corpo ormai esanime.

"Ad ogni modo," riprende quando non sente alcuna risposta da parte mia, "c'è questa manifestazione tra un paio di settimane e, calcolando l'uscita del vostro ultimo dvd, sarebbe forse il caso che ci foste tutti e quattro per pubblicizzarlo un po'."

Mentre scendo le scale recupero anche Angelina, che si è seduta in equilibrio precario sul primo gradino. Non ho voglia di vederla ruzzolare di testa per tutte le rampe di scale. Lo ha già fatto Tom il primo anno che eravamo qui: lui, però, una volta disteso, la rampa di scale la copre tutta. Nostra figlia invece rimbalzerebbe ben bene almeno una ventina di volte prima di arrivare in fondo e non credo se la caverebbe con due bernoccoli.

"Chi viene?" Chiedo a David, il manager, mentre faccio il mio ingresso nel mio salotto. O ciò che ne resta per lo meno. "NENA!"

Come dicevo sostanzialmente prima, quando sei impegnato a fare più cose contemporaneamente, è molto più facile che altre cose decidano di capitare proprio in quel momento. E' una legge imperscrutabile dell'universo e nessuno può sfuggire alle leggi imperscrutabili dell'Universo, nemmeno io.

Posso sfuggire abilmente alle leggi umane, e compiere incesto.
Prevenire gli eventi del fato universale, ecco... quello mi viene male.

Ad ogni modo, l'Universo non si fa mai vivo di per sé: salve io sono l'Universo e sono qui a portarti le mie leggi. No. Lo fa attraverso messaggeri di vario genere e forma, in questo specifico frangente lo fa attraverso i cinquecento chili del corpo di Nena, la vacca.

So che in questo momento vi state chiedendo cos'ha spinto me, Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel, famoso per le sue plurime dichiarazioni internazionali in cui sostiene di adorare fin dalla più tenera età Gabriele Susanne Kerner, classe 1960, a dare del bovide al mio mito d'infanzia.

Ora vi spiego.

Si da il caso che noi abbiamo una mucca. Una Pezzata Rossa Bavarese, per la precisione.
E che questa mucca si chiami Nena; ma non per colpa mia, sia chiaro. La nomina di questo animale è sfuggita al mio controllo l'attimo stesso in cui Tom l'ha comprata.

Quel cretino di mio fratello ha pensato di regalarmela già provvista di quel nome.
Pensava di farmi cosa gradita facendomi trovare sotto l'albero di natale un animale di quasi una tonnellata che portasse il nome dell'unica donna al mondo che io vorrei davvero... essere.

Chiunque mi avrebbe regalato un chihuaha. Lui no, la vacca.

Non ho il tempo di soffermarmi a pensare a quanto infelice sia la mia vita con due ragazze, un fratello-amante, sette figli e una mucca perchè Samuel sta strillando e, avendo ereditato la mia voce da usignolo, è probabilmente destinato a farsi venire una cisti alle corde vocali molto, molto presto.

Il pargolo è attaccato alla coda della mucca che, oltraggiata, sta riversando la propria frustrazione in una corsa sfrenata tra i mobili del salotto. "Bill, non riesco a fermarla!" Mi grida il bambino, che si sta facendo trascinare dalla vacca ovunque.

Il piccolo David ride tra le mie braccia mentre sua sorella Angelina pensa bene di spaventarsi come la mucca e mettersi a gridare nelle mie orecchie. In tutto questo, il mio manager non ha capito un accidenti e sembra entusiasta delle mie doti di preveggenza. "Bravo, Nena sarà presente," mi dice, convinto di aver finalmente trovato la motivazione definitiva per convincermi a presenziare ad uno dei suoi stupidi programmi. "Come hai fatto ad indovinare?"

"La vacca!" Sbraito io, col cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre lascio David e Angelina sulla prima superficie libera disponibile e mi lancio all'inseguimento dell'animale e di mio figlio che le struscia dietro.

"Ora, Bill, questa mi sembra una mancanza di educazione," commenta David. E se fossi abbastanza in me mi accorgerei che è un po' interdetto. "E' vero che ultimamente non è stata esattamente disponibile, te lo concedo, ma ha comunque una certa età e le si dovrebbe rispetto."

"Samuel lascia la presa!" Ordino e mio figlio esegue. Non capita spesso, pertanto mi permetto di gioirne interiormente. Nena corre ancora come un'invasata per un paio di metri e poi si ferma, riprendendo a masticare placida erba che probabilmente ha ingoiato ieri. Che schifo, io odio le mucche.

Mio figlio è steso a terra a quattro di bastoni e un po' mi preoccupo perché anche io ho un cuore, alla fine. Sono consapevole di odiare quella piccola miniatura di essere umano per gran parte della giornata perché urla, si muove e produce rifiuti organici, ma vederlo lì, abbandonato a terra come una borsa di Prada dell’anno scorso, un po' mi sconvolge.

In fondo quel cosino lo abbiamo fatto io e Tom.
D’accordo, io o Tom. Vogliamo forse star qui a far le pulci alle congiunzioni quando una mucca corre nel mio salotto?

"Bill, vuoi farmi la cortesia di rispondere?" Mi chiama il manager.

"David non ora. Samuel è morto," esclamo con tono piatto, forse vagamente sotto shock.

"Che cosa?" Mi urla lui nell'orecchio. E me lo immagino che si spettina tutto, perché David ha la tendenza a farsi venire i boccoli fuori posto quando l’isteria lo coglie. “Bill cos’è successo? Vuoi che chiami un’ambulanza?”

Mi avvicino a mio figlio riverso sul pavimento e lui apre gli occhi e mi guarda. Sollevo due dita e gli chiedo quante ne vede. Mi dice “Forse due,” e decido che va bene così: non posso chiedere certezze assolute ad un bambino di sei anni appena travolto da una mucca.

”Bill?” David sembra davvero molto preoccupato.

“Allarme rientrato, è solo un po’ impolverato,” rassicuro il vecchio mentre tiro su Samuel e gli tiro due pacche sul sedere per spolverarlo. “Nena lo ha travolto, ma sta bene.”

David farfuglia qualcosa sul rispetto per gli anziani ma non lo sento perché Angelina richiama la mia attenzione tirandomi la stoffa dei pantaloni. “Che cosa c’è?” Sospiro.

Lei si limita a tapparsi il minuscolo naso e ad indicare perentoria alle nostre spalle.

Ora provate ad immaginarvi il fermo-immagine.
Vedete me, con il telefono ancora incastrato fra la spalla e l’orecchio e vedete una delle mie figlie che si tappa il naso. Quello che troverò lo sapete voi, e lo so io.

E sappiamo tutti che non mi farà affatto piacere.

Nena è un animale esageratamente grosso se paragonato al mio salotto. Ed ella ha l’abitudine di evacuare in quantità direttamente proporzionali a quello che mangia. E a farlo istantaneamente.
Quello che si trova ora accanto al mio divano di pelle non sono escrementi.

E non so cosa sia.
Ma è semplicemente troppa per essere soltanto cacca.
Forse Nena si è sciolta.

Sfortunatamente l’adorabile regalo di natale di mio fratello è ancora lì, in tutta la sua ruminante placidità. In questo preciso frangente, con mezzo chilo di fertilizzante naturale sul mio tappeto persiano Isfahan da 8.000 euro, non mi preoccupo se Nena si è messa a ruminare anche le tende. Cosa può importarmi ormai?
Sono un uomo distrutto.

“Bill?” E’ la voce del manager.

”Davi, ti prego, abbi pietà di me. Nena ha fatto la cacca nel mio soggiorno,” pigolo disperato e non riesco a distogliere lo sguardo dal mucchio di escrementi che, nel buio grigio della mia disperazione, mi appare perfino sorridente. Allegro. Felice di essere stato evacuato. “E’ una cosa tremenda.”

David tace.

E con ogni probabilità lo fa perché nella sua mente, in questo momento, c’è un’immagine che non sono davvero sicuro di voler visualizzare. Io provo del rispetto per la mia cantante preferita: non voglio vederla accovacciata sul mio tappeto, con la carta igienica in mano come la sta pensando lui. Non voglio e basta, ecco. Sono già abbastanza insonne per cause indipendenti dalla mia volontà, per aggiungere anche questo dettaglio raccapricciante alle mie notti. “David… sto parlando della mia mucca,” dico.

Il mio manager è un uomo buono. Dico davvero.

Lo conosco da quando non ero altro che un ragazzino e lo conosco bene, nella sua vita non ha fatto niente di male, a parte aver lanciato sulla scena musicale quattro mocciosi incapaci di mettere insieme due note. Probabilmente si meriterebbe qualcosa di più che stare qui al telefono con il suo frontman ad implorarlo di lavorare almeno una volta al mese come un impresario da quattro soldi qualunque.
E certo non si merita che io lo confonda con tutti i miei figli e la cacca della mia vacca che per altro ha un nome che lui potrebbe facilmente equivocare. Io lo so. Lo so eppure non gli evito mai niente di tutto questo, lo trascino all’inferno con me, sempre. Ledo la sua dignità ogni volta che mi rivolge la parola.

Mi sento un po’ in colpa.

La cacca è pur sempre là, però. E puzza.
Decido che la dignità di David può aspettare le mie scuse ancora un altro po’.
”David, ne riparliamo un’altra volta, va bene?” Gli dico. Mentre chiudo il telefono mi sembra di sentirlo piangere, ma forse mi sbaglio.

Solo quando chiudo la conversazione e la stanza piomba di nuovo nel silenzio – fatto salvo per il borbottio continuo dei miei figli e il macinare dei denti di Nena – che mi rendo conto che quella cacca va spostata.
Ora, tu puoi contemplare gli escrementi del tuo enorme animale da fattoria che staziona erroneamente in salotto e sentire le lacrime che ti salgono agli occhi per il semplice fatto che tutta quella merda non dovrebbe affatto trovarsi dove si trova, e va bene. Quando però ti rendi conto che osservare tristemente quanta sfiga ti abbia colpito tutta quanta insieme non è l’unica cosa che l’Universo ti richiede, capisci che fino a quel momento non hai davvero avuto abbastanza motivi per piangere.

“Chi ha fatto entrare Nena in casa?” Chiedo, senza voltarmi.

”Nessuno l’ha fatta entrare, è entrata da sola,” Samuel mente con una facilità estrema. Le parole gli escono di bocca liquide come acqua. Se non è a te che sta sparando cazzate consapevolmente, lo trovi quasi commovente da quanto è bravo. Un talento naturale.

Mi giro verso di lui con una sguardo e un sopracciglio sollevati costruiti ad arte in quindici anni di onorata carriera e lo osservo. Lui rimane impassibile. “E come avrebbe fatto, di grazia, ad aprire la sua recinzione e il chiavistello della porta d’entrata?”

Samuel sostiene il mio sguardo e tira su il naso. Ha una mano sul fianco e l’anca spostata prepotentemente di lato. “E io come faccio a saperlo, non sono mica una mucca!”

Io voglio strangolarlo.

Il pensiero si palesa nella mia testa con tanta chiarezza che non sono certo di trattenermi dal farlo. “No, sei un bambino che ha fatto entrare una mucca in casa. E per questo pulirai il disastro che ha fatto,” proclamo, recuperando al volo segatura, paletta e cestino.

”Tu non puoi farmi questo!” Esclama Samuel. Spalanca gli occhi e la bocca in maniera così teatrale che mi viene quasi un groppo alla gola. E’ così oltraggiato, così insensatamente offeso e pronto all’autocommiserazione che per la prima volta sento l’orgoglio di padre esplodermi in petto. Se i geni della Diva esistono, come sostiene Tom, allora forse il primogenito di questa casa è opera mia.

Credo che mi vanterò in maniera indecorosa con mio fratello.
Forse ballerò anche. Non so, devo ancora decidere bene i dettagli.

Ad ogni modo, non è questo il punto. Devo concentrarmi. “Oh sì che posso signorino,” commento. E lo faccio proprio così, con queste parole, perché sono quelle che mi sibilava mia madre e io ho aspettato per anni il momento di poterle ripetere. “Tu hai portato la vacca in casa, tu pulisci quell’enorme mucchio di cacca.”

”Io non lo faccio,” proclama Samuel, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente.

”E io non ti porto al cinema a vedere i cartoni animati,” replico io, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente, ma molto meglio di lui. L’età ha un certo peso in queste cose. Significa pratica.

“Sei un uomo orrendo!” Mi sbraita contro, offeso oltre il limite umano.

”E tu un bambino insopportabile!” Replico, con lo stesso tono.

Rimaniamo lì così, decisi a non guardarci in faccia mai più, cadesse il mondo, anche se io fossi l’ultimo padre della terra e lui l’ultimo bambino sul pianeta. Decido che ho altri sei figli da vestire, svestire e truccare, non ho assolutamente bisogno di lui. Sono mortalmente offeso dal suo comportamento.

Lui è mortalmente offeso dal mio, ovvio.
Pensa pure di avere ragione, il nano da giardino.

La cacca invece è lì.
E sembra sempre felice.

Potremmo rimanere in quella posizione per ore.
E' già successo altre volte e nessuno, per altro, ha mai fatto una piega. In questa famiglia il divismo è una malattia ereditaria, come il diabete o i calcoli renali, e di conseguenza la gente ti ignora se tenti di dimostrare la tua indignazione con pose studiate a tale scopo. Trovo tutto ciò discutibile e quasi offensivo ma durante le riunioni di famiglia sono l'unico adulto a pensarla così e la mia minoranza è senza dubbio penalizzante.

Ad ogni modo, io e Samuel non abbiamo abbastanza tempo per orchestrare il nostro melodramma perché la porta di casa si spalanca. O meglio, si spalancherebbe se non fosse già spalancata per via della vacca e di tutto il resto.

Emma e Julie fanno due passi in casa e urlano.
Hanno questo vizio indegno di travolgerti con grida insensate quando trovano qualcosa fuori posto.

"Cosa diavolo è successo qui dentro?" Esclama una.

"Nena!" Esclama l'altra. Poi vede e si disgusta. "Oddio!"

Tutto questo, almeno dieci decibel sopra la norma.
E cosa sarà mai? E' solo un po' di cacca!
Piuttosto, io e mio figlio stiamo girando il remake di Mezzogiorno di Fuoco e non se ne accorge nessuno. Siamo senza pubblico, non è divertente. Voglio dire: tutto questo talento sprecato dove lo vogliamo mettere?

La cacca è qui.
Io sono qui.
Eppure è lei quella più felice.

E lei è una cacca, mentre io sono Bill Kaulitz.

"Bill ma non ti si può lasciare un attimo da solo!" Esclama Julie, raccogliendo David e Simone da terra come se li avessi lasciati in chissà quale luogo pericoloso.

"Beh non ero esattamente da solo, ma con i vostri sette marmocchi!" Puntualizzo io, che a questo punto mi girano anche un po', se permettete.

"Adesso sono i nostri figli?" Esclama Emma, ed è li che mi accorgo che c'è qualcosa di strano perché una frase del genere avrebbe dovuto dirla con un tono infastidito e sul limite dell'incazzatura. E invece lei è serena.

Troppo serena.

Da qualche anno a questa parte ho sviluppato la capacità di prevedere le catastrofi, forse perché vivo in perenne stato di emergenza. Al primo accenno di disastro il mio stomaco si ribalta e capisco che di fronte a me ci sono mesi di disperazione duante i quali la mia persona verrà ripetutamente traumatizzata in qualche modo.

Il mio primo istinto sarebbe quello di fuggire. Afferrare le mie cose, le chiavi della mia auto e infilare l'autostrada nella prima direzione disponibile per non fare mai più ritorno.
Non so neanche da cosa desidero fuggire ma non ha importanza.

So già che è una cosa tremenda.
Lo so perché Emma sorride. Perché Julie sorride. Lo so perché Nena è entrata in casa a brucarmi il divano mentre cinque dei miei sette figli distruggevano il resto della casa, e ne ho persi due che non so dove sono. Questo è il karma che torna indietro.

Ho fatto del male nella mia vita precedente.
O forse perfino in questa.

Karma is gonna get you.
Forse è John Lennon che si vendica per come ho ridotto la sua canzone.

"Abbiamo una bella notizia," esclama quella donna infernale. "Aspettiamo un altro bambino!"

Ora, la mia idea di buona notizia comprende molteplici avvenimenti.
Un disco d'oro è una bella notizia.

Una vacanza alle Maldive. Andi che viene a trovarci.
Io e mio fratello da soli, a limonare lontano dalla pazza folla.
UNA LARINGITE.

Qualunque cosa, ma di certo non la venuta al mondo dell'ottava emanazione dell'anticristo.
Trovo che qui ci si stia approfittando della mia pazienza, andando oltre ciò che Iddio stesso aveva previsto come il male in terra.

"Allora? Non dici niente?" M'incalza l'altra. E sorride. Una donna felice di portare in terra la nuova apocalisse non può che essere malefica quanto la prima.

Vorre dirle che persino le più Grandi Catastrofi Naturali lasciano il tempo all'uomo di illudersi che potrà ricostruire e ricominciare a vivere, perché loro due non possono regalarmi questo piccolo sollievo di tanto in tanto? Sono sei anni che non fanno nient'altro che produrre umanità.

Vorrei dire questo e molto altro ma il mio corpo ha pietà di me. E' l'unico ad averne in questa casa; e prima che tutto si faccia buio e scuro mi rendo conto di quanta tristezza ci sia nel fatto che se desidero un po' di comprensione io debba darmela da solo.

Tutto questo è troppo da sopportare.

La voragine si apre e m'inghiotte, ed è finita, non soffrirò più.
Quelle due, le streghe, non hanno occhi che per se stesse anche nel mio uiltimo istante. Megere, egoiste. "Ma non dovrei essere io a svenire?" Dice una.
"Lo sai quanto è delicato," dice l'altra.

Poi il vuoto.

Sono sicuro che è colpa di Tom.
E' sempre colpa sua.

Svengo.
Personaggi: Bill, Tom, OFC
Genere: Drammatico
Avvisi: Lemon, slash
Rating: R
Note: Dunque, io odio le note. Lo sapete questo, vero? Ma non è che posso sprecare l'occasione di ammorbarvi, per cui le scrivo; tantopiù che questa volta ho delle cose da raccontarvi.
1. Com'è nata questa storia? Sedetevi che è folle.
Inizialmente doveva essere un mpreg incredibilmente demenziale, da collocarsi nell'universo di Cuteness is not a Good Reason: David voleva un figlio da Tom, che si rifiutava categoriamente. Fortunatamente per il manager, Bill voleva un figlio con gli occhi azzurri...
Poi, visto che avrei dovuto metterci di mezzo gli alieni di The Sims e la questione si sarebbe fatta eccessivamente complicata, ho pensato bene di trasferire il tutto su un piano decisamente più razionale.
2. Io sono molto orgogliona di questa one-shot e la amo particolarmante, ma non per la storia in sè, quanto perchè a) è una one-shot e a me non riescono mai; b) perché è finita. E voi non potete capire cosa significa scrivere per 10 anni e finire qualcosa per una volta.
3. Per quanto possa essere drammatico: Bill sono io. Senza scherzi. Tutti i ragionamenti che fa sono prettamente miei, la quantità di cinismo che sono riuscita a riversare nelle sue parole viene direttamente dalla vostra affezionatissima.
E sì, lo avrei fatto anche io. Assolutamente.

Riassunto: Io non ho mai negato niente a mio fratello.
KAREN

It's meeting the man of my dreams
And then meeting his beautiful wife
And isn't it ironic...don't you think
(Alanis Morissette - Ironic)



Sono entrambi seduti davanti a me sul divano e aspettano che io risponda, suppongo.
Ciò che più mi colpisce è la loro espressione: mi guardano come se mi avessero chiesto 10 euro per andare al cinema. Ora, io non sono molto esperto in materia, ma non credo che questa sia l'espressione più appropriata.
"Dì qualcosa, ti prego" esclama all'improvviso lui.
Cosa vuole che gli dica? "Sono un po' sconvolto" ammetto, sinceramente.
"E' normale che tu lo sia" si affretta a rassicurarmi lei, con un sorriso incerto. "Davvero, non ti chiediamo di risponderci subito."
Mio fratello mi guarda e il suo sguardo mi dice tutt'altro. Non credo che pretenda davvero da me una risposta immediata ma di certo non riesce a nascondermi la sua impazienza.
Comincio a credere che si aspettasse piuttosto di non dover proprio sopportare quel silenzio imbarazzante. Forse credeva che avrei iniziato a saltellare su e giù e a battere le mani in preda ad un folle entusiasmo.
Sì, è questo che si aspettava. E mi sembra un po' ingenuo da parte sua.
"Bill..." inizia, con un tono di voce che conosco alla perfezione.
C'è quella nota di delusione e di disappunto, come se avessi fatto qualcosa di male che non si aspettava da me. Non è così evidente per tutti, comunque. Lei non se ne accorge, per esempio.
"Devo pensarci" rispondo, come se mi avesse fatto un discorso lungo due ore invece che avermi soltanto chiamato per nome. "E' una cosa seria."
Mi alzo e lei scatta in piedi con la speranza negli occhi.
A quanto pare lei ha aspettative più basse del mio gemello. Il solo fatto che io abbia preso in considerazione l'idea di pensarci l'ha resa felice e questo mi sembra più naturale.
"Prenditi il tempo che vuoi" mi dice.
Solo non troppo, mi viene da pensare leggendo negli occhi di mio fratello.
A quanto pare l'orologio biologico che ci ha riuniti tutti in questa stanza sta ticchettando più velocemente di quello che pensavo.

Mio fratello mi raggiunge qualche ora più tardi nella camera d'albergo in cui alloggerò per i prossimi Dio-solo-sa quanti giorni e mi dà molto fastidio che lo faccia, anche se me lo aspettavo.
Sapeva che la richiesta di Karen sarebbe stata inutile, mi conosce.
Lo vedo dai suoi occhi che aveva già previsto di venire a parlarmi di persona prima ancora di fissare il giorno per accompagnare Karen da me.
Mi chiedo quanto sia importante questa cosa per lui. Non è mai stato particolarmente interessato ai bambini, ma nel suo caso credo che il problema sia Karen.
E' lei che lo vuole e lui non sa negare niente alle persone che ama. Neanche a me, del resto. Vedi qual'è il problema ad essere vagamente bisessuali, Tom? Le donne vogliono figli di solito.
Io non li avrei voluti.
Ma non è questo il momento di recriminare: in fondo io non odio Karen.
Lei non mi ha fatto niente: si è comportata esattamente come avrebbe fatto qualunque altra ragazza al suo posto.
Tom si è innamorato di lei e io non ho mai avuto niente da ridire su questo.
In realtà avevo sempre pensato che Tom sarebbe stato costretto a sposarsi perchè ne aveva messa incinta una. E invece, prima l'ha sposata e ora chiede a me di metterla incinta. Ironico.
Karen è mora con i riccioli. Non è molto alta - mi arriva a malapena al petto - ma è graziosa e ben proporzionata. Non mi stupisce che Tom la trovi attraente: la trovo attraente perfino io! E poi è dolce, e molto educata.
I primi tempi, quando tutto sembrava molto facile e niente aveva la benchè minima parvenza di quella serietà che ha adesso, io e lei andavamo perfino a fare compere insieme. Una cosa che permetteva a me di avere consigli sui miei pantaloni, e sollevava Tom dall'obbligo morale di farle da cavaliere e stare lì ad annuire convinto, qualunque cosa lei dicesse.
Ad ogni modo, non le ho mai voluto male per avermelo portato via.
E non posso volerle male adesso. Si è abbassata a chiedere lo sperma al fratello gay di suo marito. Non si può voler male a tanta disperazione.
"Entra" dico a Tom. Mi sorride ma non reagisco. Li conosco tutti i suoi sorrisi e quello non mi piace perchè lo ha tirato fuori per rabbonirmi.
Lui si chiude la porta alle spalle e si guarda intorno. Sono in quella stanza d'albergo da meno di dodici ore e l'ho già resa mia: i miei vestiti sono ovunque e il bagno è stato colonizzato dai miei fondotinta.
Quando dormo in albergo io voglio starci come a casa mia e se non posso farlo, allora cambio albergo. Non c'è nessuna persona al mondo che lo sappia meglio di Tom. Beh, David forse.
Comunque, non parla e io non ho nessuna intenzione di intavolare quella discussione. Prendo una coca dal minibar e gli faccio cenno per capire se la vuole anche lui.
Annuisce e gli lancio la lattina. Quasi gli cade a terra: io non sono mai stato bravo a lanciare e lui non è mai stato capace di ricevere.
Certe cose non cambiano.
"Lo farai vero?" esordisce, e mi sorprende lo ammetto.
Pensavo che ci avrebbe girato intorno un po' di più.
Tom è bravo ad aggirare le questioni.
Bevo un sorso e lo guardo. Non sono mai veramente riuscito a fare il sostenuto con Tom. Forse perchè lui riesce a leggermi dentro anche quando nessun altro può. O forse perchè mi è sempre piaciuto guardarlo e anche quando sono arrabbiato con lui adoro perdermi nei suoi occhi.
"Non ho ancora deciso" rispondo, ed è vero.
Il mio primo pensiero è stato quello di rifiutare ma c'è qualcosa che mi turba. E io non prendo mai decisioni definitive se non ne sono sicuro al cento per cento.
"Dopo la malattia, sei la nostra unica speranza Bill" esclama.
Anche se suona come la principessa Leia di Guerre Stellari, non rido.
La malattia. La chiamiamo così perchè ci fa paura e la esorcizziamo non nominandola. Si è quasi portata via Tom tre anni fa.
E' stato il periodo più brutto della mia vita.
Fortunatamente così com'è venuta se n'è andata ma, tra medicine e chemio, non è stato un bello spettacolo.
I capelli di Tom sono ricresciuti ormai - e lui si è rifatto di nuovo i dreadlocks. Un po' per marketing, un po' perchè con i boccoli è davvero improponibile - ma la parte consistente del suo apparato riproduttivo è fottuta.
Non che a lui sia importato qualcosa, allora. Anzi.
Essendo sterile, ha solo pensato a quante poteva farsene senza rischio.
Sempre assolutamente pratico mio fratello. Il lato lirico della vita lo ha sempre buttato nel cesso. Oppure lo delegava a me.
"Tom, esistono le banche del seme, lo sai questo vero?" Gli faccio notare con un mezzo sorriso oltre il bordo della lattina.
Lui scuote la testa con decisione. "Non voglio. Sarebbe innaturale" commenta.
Alzo un sopracciglio e tanto gli basta per capire cosa gli voglio dire.
E' sempre stato facile non parlare con Tom.
"Non è normale" ripete. Ha lasciato la lattina sul tavolo senza neanche aprirla. E' così nervoso che si tortura le dita da quando è entrato. "Io non voglio che Karen usi la… roba di un altro"
"Un modo interessante di dirlo" commento. "Eppure non sarebbe tanto diverso se usasse la mia di roba."
"Rimarrebbe tutto in famiglia" mi dice.
"Ah, beh allora."
Sbuffa. Guarda ovunque tranne che me. "Bill" esclama alla fine, sempre con lo stesso tono. "Siamo gemelli, sarebbe come se fosse mio. Stesso patrimonio genetico."
"Ma non lo sarebbe" gli faccio notare.
"Oh detto che sarebbe come…"
"No" esclamo. "Non importa se a livello genetico siamo fatti allo stesso modo. Mi stai chiedendo di fare un figlio con tua moglie."
Tom ghigna, involontariamente. E' sempre stato così mio fratello: se qualcosa lo fa ridere, ride; non importa dove si trovi o quanto seria sia la situazione. "In realtà ti sto chiedendo di riempire un barattolo."
"Sei un cretino."
Per un po' non parliamo. E' come se tutto ciò che c'era da dire fosse già stato detto, anche se non è così.
Penso a questa cosa da quando Karen me l'ha chiesta. Ci penso continuamente, ogni singolo istante da quando sono venuto a saperlo; e non so risolvermi.
Innanzi tutto non ne capisco l'urgenza. Sono sposati da due anni, ci sono centinaia di altre opzioni. Potrebbero adottare. Perchè io?
E poi mi rendo conto che sono attaccato alla mia capacità di procreare molto più di quello che credevo. Se la cosa dovesse funzionare, se dovesse nascere un bambino: non finirò per pretendere che sia mio?
Lo sarebbe, ad essere pignoli.
E io sono pignolo.
Sono anche egoista, per la miseria. Non ho mai pensato a nessun altro tranne che a me stesso. E ho sempre preteso che tutti quanti facessero lo stesso.
Quello che era mio, era mio. E quello che non lo era, doveva diventarlo.
E' stato così anche per Tom. Le groupie lo hanno avuto per anni, ma soltanto perché io glielo concedevo.
E se adesso riempio quel baratto, se regalo a mio fratello una manciata di cellule ... quante probabilità ci sono che la mia gelosia le reclami indietro come prodotto finito?
Sospiro e sento mio fratello sollevare lo sguardo su di me. Non mi volto a guardarlo, perché non voglio che mi legga in faccia quello che sto pensando.
Ricordo il volto di Karen e le sue parole. Lei sembra tenerci davvero, e in fondo io spreco un sacco di quel materiale ogni giorno.
Non ho mai voluto un figlio.
Sto quasi per convincermi.
E' in quel preciso istante che Tom infila una dietro l'altra tutte le argomentazioni sbagliate che poteva trovare. E mi fa incazzare.
"Andiamo Bill, che cosa ti costa?" Chiede, infatti.
Alzo lo sgurdo, incredulo. "Cosa mi costa? E' un bambino, non un'auto che ti posso prestare. Io... non ci avevo mai nemmeno pensato!"
Spalanca le braccia, come al solito. "Tu non potrai comunque averne" replica immediatamente. "Quindi qual'è il problema? E' un'occasione anche per te... "
Lo guardo. Mi guarda. Quindi abbassa lo sguardo perchè sa di aver detto qualcosa di scomodo.
A Tom non è mai andata giù che io abbia finito per dichiararmi gay, la trova una mossa controproducente. Peccato che non sia una mossa.
Io sono omosessuale.
Ne ho avuti tanti dopo di lui.
E magari è questo che non ha mai digerito. Lui considera il suo periodo con me qualcosa che è legato soltanto a me. E credo che sia vero; ma la cosa non funziona così quando si tratta del sottoscritto.
Tom è l'unico uomo che io abbia mai amato. Ma non è l'unico con cui io sia andato a letto.
E il fatto che io abbia deciso di essere quello che sono, non significa niente. Non gli dà il diritto di convincermi che donando a loro lo sperma, farei un favore anche a me stesso. Non sono loro che mi concederanno un nipote tra nove mesi. Sono io, cazzo, che permetto loro di averlo.
"Bill, ascolta" Tom sospira. "D'accordo, ho scelto male le parole. Ma tu lo sai che è una cosa importante per me. E per Karen."
Rimango in silenzio.
"Pensala così, sarebbe un modo per essere di nuovo vicini" dice all'improvviso. E questa è la più brutta. La cosa peggiore che potesse recuperare per convincermi. Raschia il fondo del barile e raccoglie tutto lo sporco più velenoso. "Sarebbe un modo per continuare quello che avevamo. Anche se le cose non sono andate come volevamo."
Le cose sono io. E quello che c'è stato tra di noi prima della sua malattia.
Io sono le scopate che si è fatto prima di compiere 25 anni in un ospedale di Berlino. Poi tutto è finito e solo perché si è sentito troppo vicino alla morte per trovare il coraggio di stare ancora con me.
E adesso mi chiede di sistemare le cose - di sistemare me - dando a Karen la possibilità di generargli un erede.

Io non ho mai negato niente a mio fratello.

Alla banca del seme ci andiamo in due. Io e lui. Ho detto che non ritenevo opportuno che Karen mi aspettasse in sala d'attesa mentre mi masturbo per poi consegnarle suo figlio in un barattolo.
L'infermiera all'entrata ci guarda come se avesse altro di meglio da fare. Gli dico il motivo per cui sono lì anche se non ci sono altri motivi per esserci. Lei mi passa un foglio da compilare, indicandomi tre linee su cui firmare. Mi consegna un barattolino sterile. "Va riempito" mi dice. Annuisco, onestamente dubbioso di poterle riportare indietro anche solo la metà di quello che le serve.
"Qua ci sono delle riviste" dice ancora. Tira fuori dei mensili patinati da sotto il bancone, poi mi squadra da capo a piedi e decide di rimetterli via. Ne tira fuori altri: questi hanno degli uomini in copertina. Non dice una parola e mi indica una stanza in fondo al corriodio.
Mi avvio con le mie riviste porno gay e il mio barattolo; Tom mi segue. Non abbiamo mai avuto tanta voglia di sganasciarci dalle risate come adesso. E non ho neanche bisogno di guardarlo per capirlo.
Tutto questo è assurdo. Lo so io e lo sa anche lui, ma Tom mi sta troppo vicino perchè la sua presenza non mandi a puttane le mie facoltà razionali.
Mi fermo di fronte alla porta. "Sembra proprio che ci siamo."
Tom non risponde e fa quello che mi aspetto che faccia da anni. Me lo sogno ogni singola notte da quando è guarito. Da quando lui e Karen sono diventati l'unica speranza di mia madre di diventare nonna; il che è buffo perchè Karen è arrivata dopo la malattia, quando gli amichetti di mio fratello erano già fuori uso da un pezzo.
Mia madre non crede nelle adozioni, ma è ben disposta a credere nei miracoli, a quanto pare.
Quando mio fratello mi bacia, lì sulla porta dopo cinque anni che non mi sfiorava nemmeno, io però lo fermo. Mi concedo giusto il tempo di sentire la morbidezza delle sue labbra, il sapore della sua bocca quando la sua lingua sfiora la mia per un istante.
"Tom" mugolo, mentre mi schiaccia controllo la porta, un ginocchio tra le mie gambe. "Che stai facendo?"
Ricordo perfettamente la prima volta che gliel'ho chiesto. Avevo quattordici anni e lui era nel mio letto. Come sempre. Solo che quella volta, come adesso, si è allungato verso di me e mi ha baciato, stringendomi a sè come se avesse paura di perdermi.
Tom non risponde alla mia domanda. Mi bacia di nuovo e mi manca il fiato. Lo guardo e mi sorride, il suo sorriso speciale, quello che forse soltanto io e Karen abbiamo visto. Karen.
"Hai una moglie, te lo ricordi?" chiedo, agitando il prezioso barattolino di fronte ai suoi occhi.
Lui ride e fa scattare la porta senza lasciarmi andare. "E' anche per lei che lo sto facendo. Non c'è niente di male."
Avrei un mucchio di ragioni da dargli sul perchè Karen non sarebbe tanto contenta di sapere che per farle avere ciò che mi ha così gentilmente chiesto mi sono fatto aiutare direttamente da suo marito.
"Come glielo spieghi?" dico, mentre lui si chiude la porta alle spalle e poi si gira di nuovo verso di me. Non riesce a togliermi le mani di dosso. "Che volevi avere anche tu parte attiva nella faccenda?"
Mi morde il lobo dell'orecchio e ringhia leggermente, a bassa voce. "Qualcosa del genere."
Spalanco gli occhi, sembra dannatamente serio. "Qualcosa del... Tom?"
Non mi guarda. "Togliti i pantaloni" ordina, leccandomi il collo.
"Tom..."
Lo sento sorridere contro la mia pelle. "Fà come ti ho detto, Bill" mi dice di nuovo, ma dolcemente. E io non ho mai saputo resistergli.
Mai.

Mentre mi rivesto osservo l'innocuo barattolino e mi chiedo cosa stiamo combinando.
In realtà, pensavo che mi sarei sentito molto più in colpa. In fondo Karen è una mia amica. Ho perfino fatto da baby-sitter a quel suo orribile vecchio gatto, una volta. Un siamese che aveva tormentato il mio povero Scotty per due lunghe settimane.
Poi penso che lei è mia amica ma Tom è mio fratello gemello, il che significa che è la mia metà perfetta per volontà genetica.
E la genetica, se mi è permesso dirlo, ha un peso non indifferente sulla questione in oggetto.
Non abbiamo fatto niente che non avessimo già fatto prima. E non è nemmeno una questione di libido. E' una cosa nostra.
Ci sono fratelli che giocano insieme a calcetto, noi scopiamo.
Recupero il mio bottino per Karen mentre in testa mi rimbombano tutte le stronzate che mi sono somministrato per convincermi che i bei vecchi tempi sono tornati. In realtà so che mio fratello lo ha fatto per un motivo soltanto.
Nell'aria sento solo la sua volontà di arrivare in fondo a questa storia.
E niente di più.
Se mi avesse lasciato qui dentro da solo a guardare le foto di qualche energumeno palestrato e unto, il barattolino sarebbe ancora tristemente vuoto e io sarei probabilmente impegnato a fare il cruciverba del Suddeutsche Zeitung. E invece...
Invece quel bastardo di mio fratello ha pensato bene di realizzare le mi fantasie. Per fare prima, naturalmente.
"Sei pronto?" Mi chiede.
Annuisco. Io e mio figlio - o mio nipote? - siamo più o meno pronti.

"Non ho nessuna intenzione di firmare" e lo dico con un tono che non possano assolutamente fraintendere.
Karen è di 7 mesi ormai ed è decisamente enorme, più che un bambino sembrano tre. Siamo sicuri che non lo siano, comunque. A quanto pare i gemelli saltano una generazione. "Bill, io non capisco" mi dice piano, le mani in grembo.
Non ho cuore di risponderle. Sembra sempre così devastata quando parliamo di questa faccenda. Il foglio è sul tavolo tra di noi e io non lo degno di uno sguardo.
"Leggilo almeno" s'intromette Tom, seduto sul rientro della finestra. Ha lo sguardo contrariato, ma faccio finta di non accorgermene.
"Non ne ho bisogno. Lo so cosa c'è scritto" rispondo, le braccia incrociate.
"Allora firmalo" insiste lui, come se fosse la conclusione più naturale del discorso. E punta gli occhi nei miei, confidando nel loro potere persuasivo.
O nel fatto che l'ultima volta che me li ha messi addosso stavamo facendo sesso sul tavolo di una struttura medica.
Solo che può scordarsi che faccia come vuole lui stavolta. E' una cosa che mi è venuta in mente qualche giorno fa: ho acconsentito ad aiutarli ma questo non significa che rinuncerò alla paternità della bambina che dovrebbe nascere tra un paio di mesi. Non me lo hanno chiesto il giorno in cui ho fornito loro la materia prima, chiedermelo adesso quando Karen è ormai una balenottera spiaggiata mi sembra una grave dimenticanza.
"No, Tom, non lo farò" ripeto. Rimetto il foglio nella cartelletta di cartoncino nella quale me lo hanno portato questa mattina e riconsegno la penna a Karen che la prende ad occhi bassi senza insistere ulteriormente.
"Ma Cristo, Bill! Che ti prende adesso, si può sapere?" Sbotta Tom, scendendo dalla finestra e agitando le mani. Si veste ancora come se fosse uno di quei gangesta rapper del Bronx. Solite maglie, solite fasce. Soliti cappellini. Un turbinio di stoffa in eccesso che si dimena con una grazia che non ha mai acquisito. Nessuno di noi due ha cambiato stile.
Io non ho neanche cambiato taglia.
"Non voglio firmare, tutto qui" ripeto con tutta la calma del mondo. E mi sembra sufficiente a spiegare ogni cosa.
"Cosa ti costa?" Esclama. Ancora quella frase. Stando a quanto dice lui, a me non dovrebbe mai costare niente. "A te non importa neanche!"
"Questo non è vero!" replico. Con la coda dell'occhio vedo Karen alzare lo sguardo su di noi. Non sono tante le volte in cui ci ha visti litigare ma sa quanto possiamo essere cattivi l'uno con l'altro. "Mi importa esattamente quanto importa a te!"
Il che può voler dire qualunque cosa. E Tom capisce perfettamente quale dei mille significati volevo dare a quella frase.
"Se davvero fosse così, firmeresti quel fottuto foglio!" Sbatte una mano sul tavolo e Karen trasale.
Io non faccio una piega.
"Bill non è uno smalto da comprare, per la miseria! E' un bambino!" Esclama ancora. E lo odio, perchè fa sempre così quando finisce le argomentazioni: mette sempre di mezzo le mie frivolezze, come se fossi una di quelle oche idiote con le quali andava a letto a sedici anni.
"E' un bambino, Tom?" Sogghigno. "Uno a caso, oppure è il tuo?"
"Non farlo" mi minaccia, puntando il dito.
"Fare cosa?"
"Non giocare con quello che dico!" Mi abbaia contro. "Capisci sempre e solo quello che vuoi tu!"
Karen si muove a disagio, seduta sulla sua sedia. Forse prova a chiamarci ma l'abbiamo entrambi esclusa da quella conversazione. "Come ti pare, Tom. Non ha nessuna importanza" dico. "Ma questa volta sono io a dover decidere cosa fare e ti posso assicurare che non avrai la mia firma. Mi sembra di averti già dato quello che ti serviva!"
"Eravamo d'accordo, Bill!"
"Avevamo stabilito che vi avrei permesso di farlo, non che vi avrei dato il permesso di togliermi qualsiasi diritto"
Sgrana gli occhi, indignato. Ed è il caso di dire che in questo momento è una gloriosa replica di me stesso. "TU NON CI PENSAVI NEANCHE!" Ruggisce, all'improvviso. "Per te non è altro che un po' di sperma in un barattolo!"
"Magari ho cambiato idea, Tom!"
"Magari non ha nessuna importanza, perchè, visto quello che hai scelto di essere, un bambino non ti riguarda" replica.
Serro le labbra e lo guardo, ferito. Ha colpito dove sapeva di fare più male e lo odio per questo. Lo odio con tutto me stesso, con la stessa ferocia con la quale l'ho sempre amato.
"Adesso basta!"
La voce di Karen riempie la stanza all'improvviso. Ci voltiamo entrambi nello stesso identico modo. Nello stesso identico istante.
L'impeto che l'ha portata ad alzarsi di scatto e a gridare un po' vacilla ma continua a sostenerla. "Mi sono stancata di sentirvi litigare, sono mesi che questa storia va avanti" dice. Ed è fiera e bellissima: la gravidanza l'ha resa florida e i suoi occhi brillano. Provo un fascino inspiegabile per la forza che riesce a tirare fuori. "Non fa bene a voi due e non fa bene a me. E soprattutto, non fa bene a Sienna"
"Sienna?" sollevo un sopracciglio.
La rabbia di Tom sembra svanire all'improvviso. "E' così che abbiamo deciso di chiamarla" spiega, allargando le braccia quasi a volersi scusare.
E fa bene, cazzo. Ma che razza di nome è?
"Sarà immediatamente chiaro al mondo che non avete fatto uso del mio buon gusto quando avete deciso" esclamo.
C'è un attimo di silenzio, poi Tom inizia a ridere. E io lo seguo a ruota.
Karen ci guarda un po' stranita, ma poi le sue labbra si piegano e ride anche lei.
"Bill, sei un cretino" mormora mio fratello.
Karen ritrova la forza di respirare solo qualche istante dopo. "Pensi che sia davvero tanto brutto?" Mi chiede.
Scuoto la testa. "No, affatto" le sorrido, cercando di farle capire che qualsiasi nome le avessero dato a me sarebbe stato bene. Non è quello il punto.
"Forse... " Tom inizia e ci giriamo tutti e due, io e Karen. "Beh forse non è poi così importante che tu firmi. Non sei un estraneo, non corriamo certo il rischio che tu usi questa cosa contro di noi un giorno."
Lui e Karen si scambiano un'occhiata che vorrebbe essere intima, peccato per loro che io possa leggere negli occhi di mio fratello esattamente come lui può leggere nei miei; il che significa che non hanno la minima privacy in quello sguardo. Tom le ha comunicato che dovranno scendere a compromessi e a lei non è rimasto che accettare. Non c'è scelta quando l'alternativa sono i miei desideri.
"No, infatti" concordo.
In quel momento non vedo il motivo di impugnare quel foglio contro mio fratello.

Sienna è sempre uggiosa quando non ha dormito abbastanza.
Me la stringo addosso e dondolo leggermente, cercando di ignorare i suoi mugolii fastidiosi e strascicati. "Mamma..." chiama di nuovo. Non ha fatto nient'altro nell'ultima mezz'ora, forse perchè è l'unica parola che sa pronunciare come si deve.
Ha un anno e mezzo ormai, e somiglia a me e a Tom quando eravamo piccoli. Il visino rotondo e un cesto di capelli biondi appena mossi. Non ha preso niente di Karen, è assolutamente strabiliante.
Si dimena tra le mie braccia, cercando di liberarsi ma la tengo stretta. "Mamma..." dice di nuovo.
"La mamma arriva presto" le dico, accarezzandole i capelli.
Sono le tre di notte, la sala d'attesa dell'ospedale è quasi completamente vuota salvo una donna che sta aspettando di essere visitata e un ragazzo che dev'essere suo figlio.
Mi guardo intorno, cercando di distrarmi. Sienna continua a lamentarsi, a volte piagnucola ma non scoppia mai davvero in lacrime. E' come se volesse richiamare l'attenzione in quel modo ma ci rinunciasse subito vedendo che non ottiene alcun risultato.
"Shh.. buona" le dico distrattamente. Cerco di farle appoggiare la testa sulla mia spalla. Voglio che torni a dormire, è solo molto stanca.
Lei sembra accogliere l'idea, afferra una ciocca dei miei capelli e la stringe, so che le piace addormentarsi sentendo il mio profumo.
Sento rumore di passi e mi volto, ma è soltanto un'infermiera.
Tom è sparito quasi un'ora fa. Ha seguito la barella di Karen fin quasi dentro la sala operatoria ma non lo hanno fatto entrare. E' rimasto un po' a gironzolare in preda all'ansia in sala d'aspetto, poi mi ha passato Sienna e ha detto che doveva trovare un medico che gli dicesse qualcosa.
E' terrorizzato.
Karen era fuori città per lavoro oggi, mentre noi due portavamo Sienna al circo. Ha trovato traffico sull'autostrada, poi la fila si è dissipata e lei ha premuto l'acceleratore per ridurre il suo clamoroso ritardo.
Così mentre noi battevamo le mani per le tigri ammaestrate, lei si schiantava a centoventi all'ora contro un'altra auto.
Mentre inganno il tempo con sua figlia in braccio cerco di immaginare cosa stessimo facendo noi tre mentre il suo cofano si accartocciava contro una Cadillac Escalade nera. Ironico che sia la stessa macchina che lei si rifiuta di usare perchè le fa paura, e che marcisce in garage da quando Tom ne ha comprata una ancora più grossa.
Forse Sienna guardava i trapezzisti con la bocca aperta e il naso sporco di zucchero filato. Forse ridevamo.
Questa volta, quando la porta si apre, è davvero Tom.
Sienna non fa neanche il gesto di voler andare in braccio a lui: in un certo senso è come se già lo fosse. Lei percepisce il mondo prevalentemente attraverso i sensi. Io e Tom abbiamo lo stesso odore, la stessa pelle...
"Ci sono notizie?" Chiedo.
Lui scuote la testa.
Cerco di trovare qualche parola per consolarlo, ma la verità è che non c'è un bel niente da dire. Karen potrebbe morire in quella sala operatoria.
O potrebbe uscirne in uno stato talmente pietoso da non sembrare più neanche lei.
So che Tom condivide con me cinismo a sufficienza per poter pensare quello che penso io in questo momento: cosa farà se Karen rimane paralizzata, o magari cieca? Se perde un arto? Quando l'ha sposata quattro anni fa era una donna intera, riuscirà a stare vicino all'unica parte di lei che uscirà da quella sala operatoria? E se non si svegliasse più?
La moglie di Tom Kaulitz, un vegetale.
Ho sempre creduto nell'amore che supera ogni barriera, ma mi riferivo al mio per Tomi. Non ce ne sono altri altrettanto potenti e, per quanto io sappia che Tom prova amore nei confronti di Karen, so che non è quel tipo di amore che lo porterà ad accettare una moglie senza una gamba.
E lo sa anche lui mentre osserva la città oltre il vetro della finestra.
Il fatto che quei pensieri lo abbiano raggiunto prima ancora che si chiedesse se Karen sarebbe sopravvissuta lo spaventano.
Ha sempre avuto paura dei suoi sentimenti.
Guardate me, sono la prova vivente.
Sienna si è addormentata. Mi siedo, sistemandomela meglio in braccio. "Ci sai fare" mi dice Tom, staccandosi dalla finestra e guardando la bambina senza però far cenno di volerla prendere. "Sembra quasi figlia tua."
Stavo per sorridere ma il sorriso mi muore sulle labbra, trasformandosi in una smorfia.
"Bill, mi dispiace" mi dice subito. "Scusa, sono solo molto nervoso"
"Non importa. Lascia perdere" scosto una ciocca di capelli dalla fronte di Sienna.
Vorrebbe dire qualcos'altro, lo sento dal suo respiro, ma non c'è tempo perchè la porta si apre per l'ennesima volta.
Il medico si toglie la mascherina e ci guarda.
Karen è morta.

Sono passati dieci giorni.
Karen è distesa sotto due metri di terra. La sua storia è finita e così quella parte della vita di Tom.
E ora il mio gemello mi sta seduto di fronte, in un piccolo bar qui a Magdeburg, dove Karen è sepolta e io ho portato sua figlia a vivere nella nostra vecchia casa.
"Sai perfettamente che tutto questo non ha senso" mi dice, gli avambracci sul tavolo. E' teso, vorrebbe urlare.
Ho scelto un bar proprio per questo: non oserà dare spettacolo.
Gli occhiali scuri che ci coprono metà del viso bastano a malapena a non rivelare le nostre identità. Sebbene i Tokio Hotel non esistano più, ci conoscono tutti. Abbiamo carriere diverse, la gente ci adora comunque.
Alzare la voce in un luogo pubblico per noi significa ancora fotografie, richieste di autografi, baci da sconosciute.
E Tom non ha certo bisogno di questo mentre tenta di convincermi a non portargli via sua figlia.
"Karen era sua madre" commento, girando il cucchiaino nella mia tazza di caffé. Produco volontariamente quel rumore che gli da tanto fastidio. "E ora che è morta, è giusto che rimanga con il parente più prossimo."
"Io sono suo padre, Bill"
Faccio scorrere una cartelletta sul tavolo e gliela passo.
"Non secondo gli esami."
Tom legge gli esami clinici, quelli che attestano che il dna è il mio. E' anche il suo, certo, ma lui è sterile. Ci sono esami clinici che attestano anche quello.
E i miei legali sono in possesso di tutta la documentazione necessaria.
"Avevi promesso" sibila.
Annuisco, perché fin qui ha ragione. "Ti avevo detto che vi avrei aiutati. Tu e Karen" spiego, con tutta la calma che possiedo. Ed è tanta perché ho pianificato questa cosa così bene che potrei anticipare ogni sua singola risposta. "Ma non ti lascerò la bambina perché tu possa rifarti una famiglia con qualcun'altra."
"Si può sapere cosa cazzo stai dicendo?" Esclama. "Bill, la bambina non è tua. Non hai nessun diritto su di lei!"
Sollevo un sopracciglio. "Se mi ricordo bene ce l'ho ancora" dico, indicandogli uno dei fogli. E' la rinuncia alla paternità.
Che non ho mai firmato.
"Cazzo!" Tom chiude di scatto la cartella. Stringe i pugni e impreca pesantemente. Quando torna a guardarmi ha sul viso un'espressione incredula e sconvolta insieme. "Bill non puoi essere così bastardo da fare una cosa simile"
"Non è una bastard-"
"Sì che lo è invece!" Insiste. "Lo stai facendo soltanto per ripicca; perchè sei un fottuto egoista! Ti è preso il capriccio di avere un figlio e ora pretendi di averne uno, come hai sempre preteso tutto quanto il resto!"
Non rispondo.
"Metterò di mezzo gli avvocati."
"Karen e io siamo i suoi genitori biologici" esclamo, appoggiando il gomito sul tavolo e gettando in fuori una mano. "Sei tu che non hai posto nell'equazione."
"Nessuno ti permetterà una cosa simile."
Sorrido. "Vuoi rischiare?"

A quel punto ha due possibilità.
Può alzarsi da quel tavolo e spendere migliaia di euro nel tentativo di strapparmi una paternità convalidata da test clinici inappuntabili e da una serie di voci che mi sono già permesso di mettere in giro.
Oppure può rimanere lì seduto e decidere di passare il resto della sua vita con me. E con lei.
Tom sospira e ordina un altro caffé.