Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah, Lord Zenir, vampiri.
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico, Guerra, Fantasy
Avvisi: Slash, Violenza, (per certi versi) Non-con.
Rating: R
Note: Questa storia è ispirata all'ambientazione in cui si sta svolgendo il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole e, nello specifico, analizza più dettagliatamente il finale di All the arms we need are for hugging, ma ho fatto in modo che fosse perfettamente comprensibile anche da sola (o almeno ci ho provato), se vi va di leggere questa e non quella prima. Partecipa alla terza settimana del COW-T per la squadra dei vampirli (prompt: Amanti).

Riassunto: Quando il boia calò la scure, era pronto e non ebbe paura.
WAR GRAVEYARDS ARE FILLED WITH LOYALTY


Quando Noah aprì gli occhi, non aveva idea di dove si trovasse né perché fosse ancora vivo. Aveva ricordi confusi di quanto era accaduto sul campo di battagia, ma era certo di essere stato attaccato da cinque vampiri. L'ultima immagine che aveva in testa era il ritaglio di cielo grigio che aveva intravisto tra i volti dei suoi assalitori e sul quale si era concentrato per non vedere le loro fauci snudate. Avrebbe preferito morire guardando il cielo azzurro del paradiso, ma in fondo anche la lastra scura dalla quale filtrava debole la luce del sole era a suo modo una volta celeste e aveva dovuto accontentarsi di quella.
Ma qualcuno doveva aver deciso di risparmiarlo, difatti la catena che gli stringeva la caviglia dimostrava che non era stata una missione di salvataggio. Si tirò su a fatica dal pavimento, e scoprì di avere un'ala spezzata che non si muoveva e gli pendeva floscia lungo il braccio. Le richiuse entrambe con attenzione e fece una smorfia mentre si guardava intorno. Non si trovava dentro una cella, ma sotto una piccola tenda di tela scura. C'era odore di sporco e sangue e un altro più sottile ma pungente, appena percettibile che gli faceva agitare lo stomaco; faceva freddo. Il terriccio bagnato e la tunica strappata non facevano che peggiorare la situazione. Saggiò con il piede la lunghezza della catena che lo legava al palo centrale della tenda, e scoprì che poteva muoversi solo nel raggio di un metro. Si rannicchiò nell'angolo più lontano dall'apertura della tenda, trascinandosi dietro la catena pesante, ma la stoffa non offriva alcun riparo dal gelo esterno, era come trovarsi all'aperto comunque.
Sentiva rumori indistinti provenire da fuori, alle volte erano urla brutali, altre scoppi di risa incontrollate. Ogni volta che qualcuno si avvicinava, l'ombra si proiettava ingigantita all'interno della tenda, costringendolo a farsi ancora più piccolo. Nessuno venne a controllarlo per molte ore. Il sole sorse e all'esterno calò il silenzio, confermando quello che aveva temuto. Si arrischiò a sbirciare dallo spiraglio aperto della stoffa, e vide la landa desolata del sottosuolo, la luce solo vagamente più chiara che illuminava il cimitero di tombe inesorabilmente vuote e l'orizzonte piatto e privo di vita.
Era logico che se si era salvato da un attacco di vampiri, era perché i vampiri stessi non l'avevano portato a termine; quello doveva essere l'accampamento che aveva intravisto in lontananza durante la battaglia. Si chiese che cosa sarebbe successo al tramonto ed ebbe paura. L'unico vampiro che conoscesse era gentile, ma era consapevole che il resto della razza non corrispondeva esattamente alla stessa descrizione di Iatho e dubitava profondamente che lui si sarebbe fatto vivo, anche solo per non tradirsi. All'improvviso la prospettiva di essere lasciato per sempre a se stesso, anche se ferito, sporco e affamato, non gli sembrava più così terribile se l'alternativa era incontrare i suoi carcerieri. Tornò ad accasciarsi in un angolo, disperato.
Il momento che temeva arrivò prima di quanto si aspettasse. Nel pensare alla propria situazione, non aveva potuto impedirsi di piangere e lo aveva fatto con una tale violenza che aveva finito per addormentarsi e il sole era di nuovo tramontato senza che lui se ne rendesse conto. Stava cercando una posizione comoda che non gli facesse dolere le ali, quando qualcuno entrò nella tenda.
Noah si svegliò al suono di un respiro non suo e quando sollevò lo sguardo c'erano due vampiri, ed entrambi lo guardavano sorridendo.
Noah si fece indietro, schiacciandosi contro la tenda che si piegava sotto il suo peso, senza però dargli nessuna via di fuga.
“Si è svegliato,” disse il primo.
“Era l'ora, cominciavo a credere che fosse morto,” commentò il secondo avvicinandosi.
Noah si agitò in maniera irrazionale; l'aspetto, l'odore, l'energia, tutto di quelle creature lo spaventava a morte e il suo corpo gli diceva di scappare il più velocemente possibile. Aveva provato qualcosa di simile con Iatho la prima volta, ma aveva dimenticato la sensazione che era andata quietandosi man mano che lo conosceva. Eppure era quasi certo che il terrore che gli attanagliava lo stomaco non fosse mai stato così forte. Il suo cervello percepiva solo il pericolo, non gli veniva neanche in mente di parlare. Si alzò di scatto ma i suoi piedi scivolarono sulla fanghiglia e finì per inciampare nella catena mentre si spostava di lato. Cadde arrotolato sul pavimento, con la punta delle ali che fremeva, come fossero pronte a portarlo via di lì non appena avesse raggiunto uno spazio aperto.
“Non ti agitare,” disse il primo vampiro, “tanto non puoi andare da nessuna parte.”
Noah tentò di nuovo, strattonò la catena nell'arretrare, ma non la spostò di un millimetro e si graffiò la caviglia. Il secondo vampiro, che parlava poco e aveva continuato ad avvicinarsi, lo afferrò per un polso e lo tirò praticamente su di peso con una mano sola. Era enorme, e vecchio. Il caschetto dei suoi capelli grigi fu l'ultima cosa che vide prima di sentire il dolore acuto dei suoi denti che gli perforavano la pelle del collo. Spaventato, cercò di sottrarsi a quella stretta e le ali si aprirono di colpo strappandogli uno stridio disperato. Si sollevò in aria, schiacciandosi contro il soffitto della tenda, limitato dalla catena che lo teneva legato.
Sbattè furiosamente le ali, agitandosi e muovendosi in cerchio inutilmente mentre i due gli afferravano le gambe per tirarlo giù, c'erano le sue piume ovunque, e la terra che sollevava e che gli finiva negli occhi.
Il primo vampiro ringhiò qualcosa e con l'ennesimo salto lo riportò a terra. Noah sbattè violentemente la testa e per un attimo gli si confuse la vista. Quando riuscì a riprendersi abbastanza per capire cosa fosse successo, il più piccolo dei due gli aveva agguantato la caviglia e l'altro gli teneva la bocca chiusa con una mano. Lo morsero insieme e il dolore fu quasi troppo intenso da sopportare. Annaspò senza emettere alcun suono, e sapeva che se anche non glielo avessero impedito, non avrebbe fatto comunque rumore. Non ne aveva la forza.
Chiuse gli occhi e pregò che finissero in fretta, cercando fra le immagini che gli invadevano il cervello qualcosa a cui aggrapparsi per sostenere quel dolore, ma scoprì che le visioni piacevoli che gli attraversavano la mente quando Iatho lo mordeva, erano solo cortesie.
Quando riaprì gli occhi, molte ore dopo, era ancora vivo e di nuovo solo. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, né di quando esattamente fosse svenuto, ma si sentiva debole e la cella puzzava ancora più di prima. I segni sul suo corpo erano molti di più dei morsi che ricordava, e questo doveva spiegare il giramento di testa e l'incapacità di sollevarsi, se non a quattro zampe, posizione nella quale vomitò immediatamente. Non gli era mai capitato di stare così male, non solo con Iatho, ma in generale nella sua esistenza. Gli angeli erano creature perfette per definizione, immutabili e virtualmente eterne; ma in realtà lontano dal paradiso iniziavano a deperire, perché erano fatti della stessa materia e da esso traevano forza. Così più rimaneva in quella cella e più lentamente guariva, se mai glielo avessero lasciato fare.
Nelle giorni che seguirono dormì molto, stremato dalle ferite e dalla situazione, svegliandosi a fasi alterne nelle quali ogni tanto rimetteva e ogni tanto mangiava quello che i suoi carcerieri gli portavano, generalmente prima di morderlo di nuovo.
Perlopiù si trattava di pane vecchio, a volte di frutta. Una volta aveva trovato della carne, ma il solo odore lo aveva nauseato e così l'aveva lasciata lì a marcire, come era convinto che avrebbe fatto lui, che ormai non faceva altro che stare seduto sul pavimento in attesa del prossimo giro di morsi.
Le guardie erano sempre le stesse, ma ogni tanto ne arrivavano altre. Erano i momenti in cui pregava di perdere conoscenza prima di poter sentire qualcosa, ma non accadeva mai abbastanza in fretta e il ricordo di tutte quelle mani e bocche addosso non lo lasciava in pace.
Nessuno, però, veniva mai ad interrogarlo o a chiedergli chi fosse, tanto che a poco a poco perse la speranza che ci fosse una qualche ragione per quella reclusione. Forse era stata un'iniziativa personale dei due vampiri che lo tenevano rinchiuso, non era un prigioniero di guerra. Era solo cibo e divertimento.
Si chiese dove fosse Iatho e se sapesse davvero che si trovava lì o se invece non fosse convinto che era ancora fra la sua gente, o magari morto. L'idea che Iatho potesse aggirarsi in quell'accampamento ignaro della sua presenza lo faceva star male. Gli veniva voglia di urlare e farsi sentire, magari chiamarlo per nome nella speranza che si trovasse aldilà del telo di stoffa oltre il quale non riusciva a vedere, ma aveva sempre paura di metterlo nei guai. Non sapeva che, in effetti, Iatho nei guai c'era già.
Finalmente, dopo un tempo lunghissimo che aveva smesso di cercare di quantificare, venne a fargli visita un vampiro diverso dagli altri. Si presentò qualche minuto dopo che il sole era calato e lo fece da solo.
Non appena oltrepassò la soglia, Noah si ranicchiò lontano. L'ala spezzata non gli permetteva di nascondersi alla vista, così ne piegò soltanto una, abbastanza da non guardarlo negli occhi.
“Io sono Lord Zenir,” si presentò quello. “Sono il capo di questa colonia di vampiri. Sei stato preso prigioniero sei giorni fa, durante la prima fase della guerra.”
Il vampiro aveva una voce bassa e profonda e molto gentile. Noah ne fu attratto istintivamente perché non c'era stato niente di gentile finora in quella cella, e lui ne aveva invece un disperato bisogno; ma si trattenne. Rimase immobile dietro lo schermo delle sue piume, come se non lo avesse sentito.
“So che voi angeli amate considerarvi come una sola entità e non avete nomi come li intendiamo noi,” disse ancora il vampiro, ora in piedi vicino al palo con la catena. “Come possiamo chiamarti, dunque?”
L'angelo rimase in silenzio anche stavolta. Noah non era il nome con cui era nato, lo aveva scelto perché Iatho potesse chiamarlo in qualche modo. La parola che lo indicava sarebbe stata troppo complessa e troppo incomprensibile per lui da pronunciare. Era stata la prima delle sue disobbedienze: agli angeli non era permesso avere un nome personale, perché questo li avrebbe distinti dal resto dei loro fratelli.
Lord Zenir attese un tempo infinito, senza mai dare segni di fastidio. Forse perché ricordava come l'angelo fosse stato condotto in quella tenda e vedeva in che stato era ora.
Il Consiglio stava chiudendo un occhio su ciò che i soldati facevano al prigioniero per limitare il malcontento causato dalla notizia che Iatho, il vampiro che lo aveva salvato ai danni di un altro vampiro, sarebbe stato giudiciato soltanto alla fine della guerra, per intercessione di Lord Zenir stesso che ne era il protettore. C'era stata una mezza rivolta all'ultima assemblea, e il Consiglio era stato sul punto di revocare quella grazia momentanea, fortunatamente decidendo altrimenti.
Lord Zenir fissò la forma immobile e minuta del prigioniero e sospirò. Quell'angelo stava pagando più colpe di quante ne avesse in realtà: le proprie, quelle di Iatho e anche la sua testardaggine a voler proteggere un ragazzino che era indiscutibilmente colpevole sotto ogni punto di vista.
“Collaborare gioverebbe alla tua permanenza qui,” insistette, facendo un ultimo tentativo quando gli fu chiaro che l'angelo non avrebbe parlato. “Pensaci. “

*


Iatho stava ancora sfogando la rabbia nella città morta, dall'altra parte dell'accampamento. Lord Zenir vide i segni delle sue unghiate sulle vecchie lapidi ammuffite e su quel che restava dei vecchi edifici. Si diceva che un tempo quella fosse stata una città immensa, ma adesso non era che una distesa sterminata di macerie che secolo dopo secolo veniva mangiata viva dall'erba. Iatho veniva sempre qui quando qualcosa lo turbava; lo aveva trovato ranicchiato tra le pietre anche quando, dopo aver aperto per la prima volta gli occhi sulla luna, era scappato sconvolto dalla trasformazione che aveva subito. Adesso era più forte e più testardo, e invece di piangere aggrediva la pietra inerme, ma era sconvolto e spaventato come allora.
“Iatho,” lo chiamò.
“Vattene Zenir,” ringhiò il giovane, passandogli di fianco a velocità sovrumana.
Zenir poteva vederlo chiaramente, come fosse fermo, perché i suoi occhi e la sua mente si muovevano allo stesso passo. “Devo parlarti,” disse. Gli sembrava di non fare nient'altro da giorni. Parlare. Con il Consiglio, ai suoi soldati, all'angelo. E nessuno che lo stesse a sentire. “Fermati un secondo per favore.”
Iatho ringhiò furioso ma si fermò a qualche centimetro da lui, guardandolo dall'alto in basso e mostrando i denti incurante dei gradi che li separavano e dell'età, tanto ormai non aveva più niente da perdere.
“Che cosa vuoi?”
Lord Zenir non sembrò scosso dall'atteggiamento, e d'altronde lo aveva visto rispondere in malo mondo ad uno degli anziani tre giorni dopo la sua trasformazione, rischiando l'esposizione al sole per direttissima, quindi niente della sua indisponenza lo sorprendeva più. “Come stai?”
Iatho sbuffò dal naso infastidito, stava per allontanarsi di nuovo ma Zenir gli serrò le dita intorno al polso e gli impedì di scappare.
“Lasciami. Se sei venuto qui a fare conversazione, non sono in vena,” rispose.
“Iatho, per favore...”
“Mi hanno condannato a morte,” lo informò ironico. “Ti basta come risposta?”
Lord Zenir sospirò, cercando di essere paziente. “Non ne sono felice, Iatho. Sto cercando di tirarti fuori dai guai, ma quello che hai fatto va oltre i miei poteri. Ho bisogno di tempo!”
“Non ne hai! E non ne ha lui!” Sbraitò Iatho, ansimando forte. Lo sbotto d'ira sembrava averlo sconvolto più del normale, così ci mise un po' a riprendersi e, mentre si calmava, continuò a guardarlo negli occhi. “Non so nemmeno dove lo tengono! Non sento il suo odore. Per quanto ne so potrebbe essere già morto!”
“E' vivo,” lo rassicurò Zenir.
“Voglio vederlo,” esclamò subito Iatho. Aveva provato a fargli visita fin dal primo giorno che lo avevano condotto al campo e non era mai riuscito ad ottenere il permesso. Quando i suoi compagni non minacciavano di farlo a pezzi, il Consiglio lo diffidava, promettendo ritorsioni.
“Lo vedrai,“ annuì Lord Zenir. “Ti hanno concesso di vederlo, ma ad una condizione.”

*


Iatho si stupì quando trovò una sola guardia di fronte alla tenda in cui Noah era tenuto prigioniero. Si era aspettato un qualche tipo di vigilanza, vista l'importanza del soggetto ma, quando entrò, capì che non ce ne sarebbe stato bisogno. Noah giaceva a terra immobile, rannicchiato sotto la cupola spettinata e sporca delle sue ali. Lo tenevano legato per un piede e c'era un tale fetore nell'aria che gli venne voglia di vomitare.
Si avvicinò piano perché Noah tremeva. La sommità delle piume esterne vibrava leggermente, come se là sotto stesse singhiozzando. Quando allungò una mano a sfiorarlo, l'angelo sussultò e si allontanò nell'angolo più lontano, fermandosi di scatto con un violento strattone quando la corda non gli permise di proseguire oltre. Emise un verso acutissimo e impaurito, uno che Iatho non aveva mai sentito.
Con una mano si tappò un orecchio, mentre agitava l'altra di fronte al viso. “Noah! Noah, sono io!” Cercò di calmarlo. Si allungò verso di lui, ma ci ripensò quando l'angelo si mise ad urlare ancora più forte e arretrò fino a graffiarsi la caviglia con la catena. “Noah, sono Iatho! Iatho. Non mi riconosci?”
Quel lamento stridulo, simile al verso spaventato di un uccello, continuò ancora per qualche secondo, finché Noah non si convinse ad aprire gli occhi e l'immagine del vampiro non si mise a fuoco tra le sue lacrime, allora si gettò fra le braccia di Iatho e gli si aggrappò addosso disperato, stringendo tra le dita la stoffa della sua maglietta e nascondendogli il viso nel collo, quasi volesse sparirci dentro. L'ala sinistra sbatté un paio di volte in aria, la destra rimase immobile, come atrofizzata, lungo la sua schiena.
Iatho finì seduto a terra per lo slancio, ma non se ne curò; lo strinse con attenzione e gli posò un bacio sulla sommità della testa. I suoi capelli erano incrostati di terra e sangue e il suo profumo era quasi scomparso, ma lo sentiva ancora. “Va tutto bene,” cercò di calmarlo, mentre Noah veniva scosso dai singhiozzi fin quasi a non riuscire a respirare. “Ci sono qui io, adesso.”
Noah pianse per un tempo lunghissimo e Iatho lo cullò fra le braccia finché non si calmò abbastanza da sollevare il viso e guardarlo negli occhi mentre tirava su col naso. Il vampirò gli asciugò le lacrime che ancora gli scivolavano sulle guance e avevano formato un solco più chiaro nella terra che gli copriva il viso. “Ehi,” lo salutò, provando a sorridere.
Noah, però, non rispose. Continuava a tremare e il suo viso era così addolorato e triste da stringere il cuore. Iatho gli accarezzò ancora la testa. Aveva bisogno di un bagno, di cibo e di un posto più pulito in cui vivere. Quella tenda sembrava una gabbia per animali. A fatica riuscì ad alzarsi con lui addosso e lo convinse a staccarsi dalla sua maglietta. Quando lo vide allontanarsi verso l'uscita, Noah emise di nuovo quel verso stridulo e Iatho gli promise che sarebbe tornato.
Dal momento che parlare lui stesso alle guardie non sarebbe servito perché quelle ce l'avevano con lui, Iatho andò direttamente da Lord Zenir, entrando nella sua tenda di forza, nonostante le proteste della vigilanza, e pretese una cella a modo, un bagno e del cibo per l'angelo, sottolineando che se volevano che li aiutasse dovevano prima trattarlo con il rispetto che si meritava. Urlò tanto che Lord Zenir finì per acconsentire a qualsiasi sua richiesta anche solo per levarselo di torno; le proteste che sarebbero arrivate da parte del Consiglio di fronte ad un tale favoritismo nei confronti del prigioniero sarebbero state niente in confronto alla testardaggine di Iatho. E poi il ragazzo aveva ragione, il prigioniero non li avrebbe mai aiutati se la prospettiva era comunque morire di fame in mezzo allo sporco.
Noah fu spostato in una vera e propria cella, con un letto, un tavolo e sbarre che ne impedissero la fuga anche senza una catena a segargli le caviglie. Prima di rinchiuderlo, Iatho si fece portare la vasca e l'acqua calda, pretese che tutti uscissero e quando non gli vollero dare retta, si voltò verso Lord Zenir che ribadì l'ordine, prendendosi ogni responsabilità.
La parte più difficile fu spogliarlo, perché Noah non voleva. Quando Iatho allungò le mani sulla fibbia che gli teneva legata la tunica sulla spalla, l'angelo si fece indietro scuotendo la testa. “Noah, non posso lavarti vestito,” gli fece notare.
L'angelo si rifiutò ancora e ancora, finché Iatho non si risolse a costringerlo, seppur dolcemente. Non aspettò che si spogliasse o gli desse il permesso di farlo, sganciò il fermaglio e quel che rimaneva della tunica cadde a terra in un mucchietto di stracci. Noah guardò altrove, ma non si coprì.
Iatho avrebbe voluto essere così ingenuo da sorprendersi di quello che vide, ma la cosa non lo stupì, lo rese solo furioso. Noah era stato morso ovunque, e i morsi erano così profondi e recenti che non erano ancora guariti. La sua pelle era livida dove le zanne l'avevano trapassata e incrostata delle ultime gocce di sangue che ne erano uscite. Era stato attaccato in più di un'occasione e da più vampiri, in maniera tanto violenta che le ferite avevano i bordi frastagliati. Quello che non capiva era perché nessuna di esse si fosse ancora rimarginata. Lo accarezzò piano, strappandogli una smorfia infastidita. L'ala sana frullò lentamente e ne caddero molte più piume del solito, sgualcite e spettinate. Noah stava sfiorendo.
“Mi dispiace,” momorò, non sapendo che altro dire. “Non avrei dovuto lasciarti da solo.”
Strinse i pugni e ringhiò piano, senza volerlo. Lo avevano tenuto lontano, e lui non aveva fatto abbastanza sforzi per andare a trovarlo. Aveva pensato che se si fosse comportato bene, se avesse fatto quello che gli veniva chiesto, forse il Consiglio sarebbe stato più clemente con lui o con Noah. A formularlo chiaramente quel pensiero appariva davvero stupido. Si chiese come avesse potuto pensare che il Consiglio non si sarebbe vendicato, che facendo il bravo qualcosa gli sarebbe stato condonato e che le sue colpe non sarebbero ricadute su Noah. Gli avevano fatto del male, ed era stato a causa sua.
Noah allungò una mano e gli sfiorò una guancia, forzandolo ad alzare il viso. Quando lo guardò, Iatho vide che sorrideva gentile e sul suo viso era tornata l'ombra di compassione che aveva sempre avuto. Per un istante lo ricordò com'era stato soltanto una settimana prima: bellissimo e roseo e soffuso della luce del Creatore che lo illuminava tutto come una stella. Quella luminosità non si era spenta del tutto, era ancora lì, solo più prudente e triste. Ferita come lo era lui.
“Non è stata colpa tua,” mormorò pianissimo l'angelo, quasi le parole facessero fatica ad uscirgli di bocca.
Iatho fu solo felice di sentirlo parlare, per un attimo aveva temuto che si fosse ridotto a quello stridio che gli spezzava i timpani e gli stringeva il cuore. Lo scortò fin dentro la vasca tenendolo per mano e lasciò che si immergesse. Noah sospirò sollevato quando l'acqua calda gli sfiorò la pelle. Le su piume si appesantirono, appiccicandosi contro la sua schiena e facendo sembrare le sue ali incredibilmente più piatte. Iatho s'inginocchiò accanto alla vasca e lo lavò con cura, facendo attenzione a non riaprire le ferite. Man mano che lo puliva, lui tornava a risplendere. Era un po' come lucidare una lampada d'oro dimenticata in un cassetto troppo a lungo. Quando gli versò l'acqua sulla testa con una brocca, anche i boccoli tornarono ad avvolgersi su se stessi, lucidi e brillanti.
Mentre lo aiutava ad asciugarsi, Iatho gli chiese perché le sue ferite non si rimarginassero e lui sospirò, strofinandosi i capelli con un altro asciugamano. “E' troppo tempo che sono lontano dal paradiso, la sua forza non mi rigenera più e il mio corpo deve fare da solo. E' possibile, ci vuole soltanto più tempo.”
Iatho si chinò a lasciargli un bacio sulla fronte, ma Noah spostò il viso in cerca delle sue labbra e, mentre lo accontentava, il vampiro sentì il suo corpo rilassarsi gradualmente tra le sue braccia. L'ala sana si stese spruzzando minuscole goccioline d'acqua e poi tornò al suo posto, sfiorando umida il braccio di Iatho.
Il vampiro aveva pensato che stargli addosso, per quanto gli fosse tragicamente mancato in quei giorni, non fosse esattamente un'opzione dopo una settimana di reclusione – men che mai dopo aver scoperto quello che era successo – ma Noah non sembrava dello stesso avviso. Gli allacciò le braccia al collo e gli si strinse addosso. “Resti un po' qui con me? Puoi restare?”
Iatho non aveva esattamente discusso con Zenir del tempo che gli era permesso restare, ma dal momento che voleva e che lui non aveva specificato nessuna scadenza, annuì e si lasciò trascinare sulla branda, dove Noah gli si accoccolò addosso e si mise a tubare incosciamente, come faceva sempre per rassicurarsi.
Iatho gli accarezzò piano il viso e la testa, guardandolo come se non credesse di averlo davvero lì tra le braccia; in quel momento nemmeno le sbarre della cella che chiudevano dentro anche lui gli sembravano minacciose. Le cose andavano male solo se lui non era fisicamente al fianco di Noah a vedere che cosa succedeva.
“Pensavo che non saresti venuto,” mormorò l'angelo ad un certo punto, infilando le dita magre nelle asole dei suoi bottoni. “Sai, per non finire nei guai.”
Iatho sorrise amaramente. “Per quello è tardi, ci sono già dentro fino al collo,” rispose. E, visto che Noah aveva perso conoscenza poco prima che arrivasse a salvarlo e che Iatho non aveva idea di come fosse finito a rischiare la vita, si raccontarono com'erano andate le cose.
Durante la prima battaglia della grande guerra tra le quattro razze che abitavano il mondo, i vampiri avevano sfruttato un diversivo offerto da maghi e cavalieri per attaccare l'apparentemente invicibile esercito angelico. L'attacco era riuscito, l'esercito si era diviso in due e gli arcangeli avevano dato l'ordine di ritirarsi. Nello sbattere d'ali e nella mischia dei suoi fratelli sicuramente più addestrati di lui alla battaglia, Noah si era perso, ritrovandosi solo e circondato da cinque vampiri che non gli avevano dato il tempo di alzarsi davvero in volo. L'ultima cosa che Noah ricordava era che uno di loro aveva fatto un enorme balzo da terra per afferrarlo alla vita e tirarlo giù di peso. Aveva battuto la testa, forse su un sasso, ed era calato il buio.
Iatho, che si trovava da quelle parti e lo stava cercando proprio per evitare che capitasse una cosa simile, aveva sentito il suo profumo ed era intervenuto giusto in tempo.
Nel farlo aveva non tanto accidentalmente ucciso uno dei suoi simili per salvare un angelo, guadagnandosi un'accusa di tradimento e la condanna a morte, particolare che si riservò di non riferire a Noah.
Soltanto l'intervento di Lord Zenir, suo non voluto – ma in questo caso utile – protettore aveva permesso che Noah fosse tratto prigioniero invece che ucciso come era destinato a finire fin dall'inizio e che la sua esecuzione, seppur confermata, fosse posticipata alla fine della guerra, dando così a lui e a Zenir la possibilità di cercare una via d'uscita.
“Non avresti dovuto farlo,” gli disse subito l'angelo, serio come lo era stato la notte prima della battaglia, quando si erano incontrati per augurarsi buona fortuna. “In questa guerra sono tuo nemico.”
“Non tu,” precisò il vampiro. “La tua gente.”
“E' la stessa cosa,” sospirò Noah. “E se non vuoi rinunciare alla tua preziosa individualità, prova a pensarla al contrario. La mia vita vale forse più di quella di uno, due, tre dei tuoi simili?”
Iatho non riusciva proprio a capire come potesse ostinarsi a chiedergli di non avere pietà di lui a confronto di vampiri di cui nemmeno conosceva il nome. Eppure era un angelo, non avrebbe dovuto essere così difficile per lui comprendere il concetto di amore. Lo amava, per forza lo avrebbe salvato in ogni caso. Forse tutto dipendeva dal fatto che lui, come ogni vampiro, si percepiva come un entità singola mentre gli angeli si sentivano un'unica entità. Da questo punto di vista, l'idea di uccidere un nemico per salvare un tuo simile, significava salvare l'unità intera. Preferì non chiedergli che cosa avrebbe fatto al suo posto, preferì piuttosto farlo arrossire. “Avrei dovuto, ma sei felice che siamo entrambi vivi, ora,” lo prese in giro. “E' un pensiero incongruente.”
Noah sbuffò. “Sei tu che mi hai reso incoerente.”
“Uno dei miei migliori lavori,” si vantò il vampiro.
Noah scoppiò in una risatina che nascose nel suo collo e fu così graziosa che, al solito, anche a Iatho venne da ridere. C'era voluto un sacco di tempo perché imparasse a tenere a freno i propri istinti in modo che la naturale appetibilità dell'angelo non lo portasse ad azzannarlo alla gola ogni volta che lo vedeva. Era stato difficile, ma c'era qualcosa nel modo di fare di Noah che gli piaceva aldilà del suo sangue e della sua purezza, e quel qualcosa era tutto racchiuso in quella risata. Era a quella che si aggrappava quando guardarlo diventava difficile perché aveva fame, la amava perché rappresentava la possibilità per loro di stare insieme e l'amava di più adesso perché era tornata nonostante quello che era successo.
“E adesso che cosa vogliono farne di me?” Chiese Noah, all'improvviso.
Iatho sentì fisicamente l'allegria scivolargli di dosso. Se lo strinse contro un po' di più e si sistemò meglio sulla branda scomoda. “Ti tengono in vita perché vogliono che tu li aiuti.”
L'angelo piegò la testa di lato e lo guardò con occhi interrogativi. “Aiutarvi in che senso?” Chiese.
Iatho non si stupì della sua ingenuità, anche perché quello che aveva davanti non era un angelo soldato e non era uno di quelli che, ai piani alti, prendevano le decisioni a nome dell'Altissimo. Noah era un angelo custode, che non aveva una vera e propria concezione del mondo se non quella limitata ed esclusiva che riguardava solo lui e le persone che proteggeva. Di certo non ne sapeva un accidenti di strategia militare, di prigionieri e del perché le persone catturate venissero o meno uccise. Per altro si chiedeva se applicasse ai suoi protetti lo stesso ragionamento che applicava a lui: li avrebbe uccisi se li avesse trovati in battaglia? Fece a meno di domandarglielo, comunque. “Il Consiglio vuole sapere come funziona il vostro esercito e quali sono i vostri piani,” spiegò meglio. “E' disposto a scambiare la tua libertà con i dettagli sull'armata angelica.”
Noah si sollevò seduto e Iatho lo seguì a ruota. “Quindi dovrei fare la spia,” esclamò.
“Sì,” ammise il vampiro e abbassò la voce. “Ma non ti hanno chiesto niente di specifico perché non sanno cosa chiederti. Di' qualcosa, qualcosa che non vi metta troppo nei guai e falla sembrare importante. Andrà bene e ti lasceranno andare.”
Noah espirò dal naso. Iatho gli stava talmente vicino che sentì proprio lo sbuffo caldo. “Lo stai facendo di nuovo,” lo rimproverò.
“Cosa sto facendo di nuovo?”
“Stai mettendo me prima dei vampiri,” ripeté l'angelo per l'ennesima volta. “Io non lo farei, quindi non farlo nemmeno tu.”
Pur quasi del tutto atrofizzato, il cuore di Iatho si strinse un po', ma cercò di non darci peso. D'altronde Noah era cocciuto e veniva pure indottrinato con quella fesseria da secoli, non ci si poteva aspettare che cambiasse idea nel giro di qualche mese – o di anni o ere geologiche, probabilmente –, combinazione letale per qualunque tentativo di convincerlo a fare qualcosa che non voleva. Noah tendeva a non scostarsi mai da quello che gli era stato insegnato, se non dopo una lunga opera di convincimento. E se decine di notti faticosamente passate a ridurre la distanza fra di loro erano di una qualche indicazione, allora lui ne sapeva qualcosa. “Metto te e i vampiri sullo stesso piano,” sentenziò. “Questo almeno posso farlo?”
“No, non puoi,” rispose l'angelo. “Ad ogni modo non è importante, perché io non parlerò.”
“Ti uccideranno,” ribadì Iatho.
Noah abbassò lo sguardo. Non è che volesse morire, gli angeli non erano programmati per desiderare la morte o il suicidio, ma avevano priorità ben precise e così semplici che proprio non capiva come Iatho non potesse vederle. Anche lui avrebbe voluto che ci fosse un'altra soluzione, ma era evidente quanto fosse più importante salvare la razza degli angeli, piuttosto che un angelo solo. Non avrebbe nemmeno dovuto spiegare le sue motivazioni. Nessun altro angelo le avrebbe chieste. Sollevò una mano per accarezzargli una guancia, ma Iatho lo scostò, alzandosi con irritazione. “Tu preferisci morire,” sibilò furioso. “Io ti chiedo di aiutarmi a liberarti e tu preferisci morire! Che cosa ti costa prendere tempo perché i tuoi possano chiedere un dannato scambio?”
Noah era perfettamente sereno, ora. Era inginocchiato sul materasso, le mani appoggiate composte sulle cosce, e lo guardava con affetto. “Nessuno chiederà niente, Iatho,” gli rivelò. “Per loro sono perso, ed è giusto che sia così.”
“Che significa che sei perso?”
“Che non mi cercheranno e non tenteranno di riavermi indietro,” specificò Noah, con una lucidità e una calma quasi inquietanti. “Sarà come non mi avessero fatto prigioniero, perché non esisto più.”
Iatho coprì la distanza che li separava con due passi veloci e gli fu addosso all'improvviso, ma Noah non sussultò nemmeno. “Tu vuoi dirmi che ti hanno abbandonato qui ma tu comunque non vuoi parlare?” Gli chiese a muso duro, parlandogli a due centimetri dal viso.
“Non possono fare altrimenti, tentare un accordo potrebbe essere rischioso. Così facendo, invece, vi tolgono l'unica arma che avete per manovrarli: me.”
“Se tu parlassi, questo ragionamento non avrebbe senso,” gli fece notare.
Noah emise una risatina leggera, venata di qualche cosa di molto simile alla pietà, che fece imbestialire il vampiro. “Ma io non parlerò,” disse semplicemente. “Né ora né mai.”
“Anche se ti lasceranno a marcire, qui?”
“Anche se dovrò morire, sì,” Noah annuì con calma, socchiudendo appena gli occhi. Il vampiro emise un forte ringhio e si allontanò, sbattendo le mani contro le sbarre della cella per la frustrazione. Noah sospirò e gli tese una mano perché si avvicinasse di nuovo, ma lui non lo fece. “Iatho, so che per te è difficile da capire, ma sono la mia gente e non li tradirò. Ho disobbedito con te quando e nella misura in cui potevo farlo senza causare del male a nessuno, ma adesso è diverso. Devo pensare a tutti i miei fratelli.”
“E a me non ci pensi?” Esclamò. “Quando tu sarai morto, io che cosa dovrei fare? Guardare il cielo e rallegrarmi perché almeno gli altri angeli sono ancora vivi?”
Noah lo guardò triste. “Ricorderai che l'ho fatto perché amavo i miei simili e che sapere di non averli traditi mi rendeva orgoglioso.”
“E perché questo dovrebbe consolarmi, quando è evidente che ami l'universo creato ma non me?” Esclamò Iatho, allargando le braccia, sconvolto.
“Questo non è vero,” gli occhi di Noah si fecero più dolci e la sua voce più tenera e quando tese di nuovo la mano, stavolta Iatho si avvicinò e la tenne stretta tra le sue. “Io ti amo, è solo che ci sono cose più grandi di noi.”
Iatho sembrò rassegnarsi. Noah si alzò in ginocchio e gli prese la testa fra le mani. Strusciò il naso lungo il suo collo e il suo viso, e per un attimo sembrò che fosse una notte come le altre, appena fuori dalle mura della città degli angeli. Si baciarono a lungo, piano come se ci fosse tutto il tempo del mondo ad aspettarli fuori da quella cella, ma Iatho avrebbe voluto urlare. Serrò disperatamente le dita intorno alla sua vita e strizzò forte gli occhi, finché non fu Noah a sciogliersi gentilmente da quell'abbraccio. “Ora va da Lord Zenir e digli perché non posso fare quello che mi ha chiesto tanto gentilmente.”

*


Iatho aveva chiesto, aveva perfino implorato il Consiglio di aspettare, di dargli un'altra possibilità di convincere l'angelo a parlare; non importava che avesse ormai compreso che non ci sarebbe mai stato modo di riuscirci, erano solo loro che dovevano crederci. Si appellò a Lord Zenir e quello cercò di sostenere la sua causa, ma il Consiglio non volle starli a sentire. Avere un angelo vivo nell'accampamento li rendeva nervosi e, se non potevano nemmeno trarne vantaggio, allora lo volevano morto il prima possibile. Inoltre, l'uccisione dell'angelo rientrava nella condanna di Iatho, per il quale espiare le proprie colpe con la morte non era evidentemente sufficiente.
L'esecuzione fu fissata al tramonto di due giorni dopo e si stabilì di procedere con la decapitazione, in modo dal rendere tutto il più veloce e meno truculento possibile. Noah fu portato di fronte al boia dentro una gabbia. Trovargli una tunica era stato impossibile, così Iatho gli aveva fatto avere una delle sue maglie e un paio di pantaloni; era la prima volta in assoluto che indossava qualcosa di diverso da una tovaglia bianca drappeggiata con una spilla.
Noah si sarebbe trovato a disagio con le gambe così costrette, se con la mente non fosse stato altrove, così lontano da dimenticarsi dov'era veramente. Pensava a casa, ai colori tenui del giardino e alle stanze bianche e calde che lo avevano ospitato per così tanti anni. Chiuse gli occhi quando lo trascinarono per i tre scalini del palco. La sua maglia aveva il profumo di Iatho, così gli sembrava un po' che fosse lì insieme a lui. Il Consiglio lo condannò come prigioniero di guerra, e lui cercò Iatho tra la folla. Mentre lo costringevano a piegare la testa sul ceppo, lo vide che si agitava cercando di liberarsi dalla stretta di Lord Zenir che lo teneva fermo per impedirgli di correre da lui. Isolò la sua voce tra le molte che invocavano la sua morte, cercò di concentrarsi su quanto fosse bella e calda, e su quanta gioia gli avesse dato fino all'ultimo istante, piuttosto che sul dolore che la riempiva. Cercò di sorridere e pregò che Iatho potesse perdonare tutti quelli che avrebbe odiato dopo la sua morte. Quando il boia calò la scure, era pronto e non ebbe paura.

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).