Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah
Genere: Fantasy, Introspettivo
Avvisi: Pre-slash
Rating: PG
Note: Questa storia è ispirata all'ambientazione in cui si sta svolgendo il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole ed è ambientata prima di All the arms we need are for hugging; nello specifico parla del primo incontro fra Iatho e Noah, quando il primo si sentiva un gran figo e il secondo era ancora molto più ingenuo. Partecipa alla quarta settimana del COW-T per la squadra dei vampirli (prompt: Angelo). Sono abbastanza soddisfatta di com'è venuta fuori, anche se avrei preferito di gran lunga raccontare qualcosa di un po' più consistente. Immagino che mi rifarò nelle prossime, se ci saranno ;)

Riassunto: A Iatho è proibito varcare il confine che divide il regno dei vampiri da quello degli angeli ma, curioso di vedere più da vicino la dimora che si intravede aldilà delle mura della città celeste, disobbedisce agli ordini di Lord Zenir e s'introduce nel regno degli angeli, incontrandone uno in particolare.
THE ZONE


Iatho aveva sempre avuto problemi di disciplina, anche quando era umano. Suo padre le aveva provate tutte – le lusinghe, le ricompense, le minacce e perfino le botte – ma non era mai riuscito a fargli fare qualcosa se non voleva farla e suo fratello, che aveva avuto il compito di istruirlo nell'arte della spada, aveva avuto con lui diverse discussioni sull'argomento. Patrel era così devoto alla disciplina che non concepiva come il fratello minore potesse vivere senza. Ma Iatho non era mai stato in grado di stare alle regole degli altri perché gli andavano strette. Quando era diventato un vampiro, tenersi a freno era stato molto difficile. C'erano molte cose che non poteva fare. La comunità era piena di regole e viveva secondo un codice d'onore il cui tradimento era punibile con la morte; per non parlare dell'esercito, nel quale era finito perché combattere era l'unico modo che aveva per sfogare tutta l'energia che lo faceva smaniare se stava fermo a non fare nulla. E poi suo fratello era stato un cavaliere, lui avrebbe dovuto diventarlo prima di morire, fare il soldato sembrava la cosa più logica.
La disciplina militare, comunque, non aveva potuto niente contro la sua insofferenza alle regole. Era per questo che, nonostante Lord Zenir gli avesse detto di perlustrare il confine con i Territori Celesti mantenendosi all'interno dei loro territori, lui stava ora costeggiando le alte mura della città degli angeli che si trovava a circa quattro chilometri dal confine. Attraversare la foresta era stato più facile del previsto. Aveva percepito la presenza di qualche piccola pattuglia, formata da una decina di angeli minori e uno, forse due Hashmallim, ma gli era bastato tenersi a debita distanta e non sotto vento perché quelli non si accorgessero di lui. Le Dominazioni erano abbastanza potenti da ucciderlo, se lo avessero trovato da solo, ma, invece di spaventarlo, questo aveva reso le cose molto più eccitanti.
Le mura della città degli angeli erano altissime e bianche come quel poco che s'intravedeva delle torri aldilà di esse. Lord Zenir sosteneva che quelle creature vivessero tutte quante insieme, in una dimora enorme, simile ad un castello, che si accendeva di luce ogni volta che era irradiata dai raggi del sole. A Iatho sarebbe piaciuto osservarla durante il giorno, ma si sarebbe accontetato anche di vederla immersa nella luce della luna, che da lassù era molto più brillante di come l'avesse mai vista.
Saggiò la consistenza dei mattoni e faticò a trovare appigli fra l'uno e l'altro. Qualunque cosa fosse ciò che li teneva insieme era perfettamente levigato e dovette premere bene i palmi delle mani contro la pietra per riuscire a scovare i punti utili ad arrampicarsi. Non c'era dubbio che gli angeli, oltre a cantare le lodi del Signore e spargere amore, fossero anche degli ottimi muratori, ma nessun muro era privo di appigli e lui era bravo a scalare, soprattutto da quando aveva unghie abbastanza forti per farlo.
Arrivò in cima e si affacciò con circospezione nel caso qualche guardia stazionasse proprio là sotto, ma non c'era nessuno. Si sedette e osservò l'immenso giardino che si estendeva sotto ai suoi piedi. Gli alberi erano di ogni tipo, Iatho sapeva riconoscerli tutti. Suo padre era stato un contadino, e tutto ciò che aveva potuto insegnargli era il proprio mestiere. Era ironico che sapesse piantare ogni genere di verdura, quando non poteva più mangiarne.
Dal gruppetto di querce di fronte a lui spuntava un piccolo sentiero che girava intorno ad un gazebo in pietra e si infilava in una limonaia completa di panchine e steccati di legno dipinto sul quale si avvolgevano stralci d'edera e graticci di rose. Sullo sfondo di questo delizioso giardino la dimora celeste si innalzava immensa e luminosa. Iatho non aveva mai visto niente del genere. Non c'erano edifici così alti nel regno degli esseri umani e nel sottosuolo dove viveva adesso non abbondavano i grattacieli. La costruzione più alta era la ciminiera del generatore di nebbia, su uno degli spuntoni di roccia nuda che si ostinavano a definire montagne. Iatho ricordava com'era vivere in un mondo popolato di artisti che costruivano edfici bellissimi e dipingevano affreschi dai colori brillanti. Perfino nella chiesa del suo piccolo villaggio la natività dipinta sulle pareti di una delle navate era così splendida che sembrava prendere vita. E quel ricordo era ancora così vivido dentro la sua testa, nonostante gli anni che erano trascorsi, che non riusciva ancora ad accettare di vivere in un luogo freddo e inospitale, il cui unico guizzo di creatività era rappresentato dalle miriade di tombe tutte diverse che spuntavano come funghi nel terreno appena fuori dal cimitero. Per questo si innamorò della dimora degli angeli non appena vi posò gli occhi sopra. Osservò con grande interesse la struttura quadrata, abbellita ai lati da quattro torri. Il corpo centrale era sormontato da una copertura tondeggiante che andava affinandosi verso l'alto e che si illuminava ogni tanto delle strature azzurrognole della luna. All'esterno quattro file di balconi giravano intorno all'edificio e c'erano più finestre di quante Iatho potesse contarne. Gli venne la curiosità di sapere come fosse l'interno, se fosse davvero tappezzato di cuscini bianchi e colonne lisce di marmo come se lo immaginava.
Lanciò un'occhiata dubbiosa al giardino in basso. Si era avventurato nel territorio nemico con l'idea ben precisa di arrivare fino a quel muro ma non aveva ancora deciso se si sentiva coraggioso abbastanza da saltare giù ed esplorare ancora. In fondo la sicurezza sarebbe stata ben più stretta e probabimente anche meno comprensiva. Tra il popolo dei vampiri e quello degli angeli c'era una tregua secolare che non aspettava altro che una scusa per annullarsi. Iatho era quasi certo che un vampiro che s'introduceva nella fortezza degli angeli, il cuore stesso della communità, fosse un motivo sufficiente a far scoppiare la guerra. Se avesse saputo che da lì a qualche mese la Veggente stessa avrebbe dato loro l'esplicito ordine di combattere, forse si sarebbe calato nel giardino fin da subito, invece di rimanersene appollaiato come un pappagallo.
Mentre valutava la situazione e cercava di prevedere che cosa gli avrebbe fatto Zenir se solo si azzardava a scatenare una guerra solo per curiosità, dalla limonia spuntò un caschetto di strettissimi riccioli biondi.
Iatho si aquattò subito in cima al muro, cercando di rimanere nascosto dietro le fronde di una quercia che si allungava verso di lui. La creatura fece qualche passo incerto, guardandosi intorno ma non sembrava preoccuparsi di lui, quanto di essere seguito.
Quando Iatho si rese conto che non era stato scoperto, si accucciò meglio e rimase ad osservare. Non aveva mai visto un angelo così da vicino. Si era aspettato una creatura imponente, dall'aria severa, rigida e marziale nei movimenti, con l'espressione aliena tipica delle creature eterne che vivono lontane dai mortali, ma lui non assomigliava per niente alle sue fantasie e, se per questo, neanche alle illustrazioni che aveva sbirciato nei libri di Zenir. Tanto per cominciare sembrava giovanissimo, forse perfino più piccolo di lui quando era stato trasformato, e aveva un viso tondo e rubicondo che non avrebbe fatto paura proprio a nessuno. Camminava scalzo sull'erba e piroettava di tanto in tanto, ridendo per qualcosa che stava leggendo su un libriccino. Iatho seguì ogni suo movimento, cercò di capire il colore dei suoi occhi e rimase affascinato dalla luce che sembrava emanare, come una lucciola.
L'angelo rimase sotto la sua quercia a lungo, leggendo ad alta voce ma in una lingua che Iatho non conosceva; era fatta di suoni acuti ma graziosi che insieme al frullare delle sue ali bianche lo facevano somigliare ad un passerotto bellissimo ma un po' troppo cresciuto. Ogni tanto, quando un passaggio del libro lo colpiva particolarmente, o quando era fermo da troppo tempo, le apriva soltanto un pochino e risistemava le piume che, per un attimo, andavano avanti e indietro per poi quietarsi ordinatamente.
Iatho si trovò ben presto così affascinato dalla creatura che lasciò perdere ogni cautela e, quando quella si diresse nuovamente alla limonaia, allontanandosi da lui, uscì dalla protezione dell'albero e la seguì camminando acquattato lungo il muro.
L'angelo avanzava tranquillamente, tendendo la lunga tunica bianca ad ogni passo. Iatho era curioso di vedere le forme di quel corpo che poteva soltanto intuire quando la stoffa vi aderiva per un breve istante. C'era qualcosa di incredibilmente affascinante nella figurina esile dell'angelo; in quel momento credeva ancora che fosse la curva morbida e bianca del suo collo.
Sperava che si fermasse a sedere su una delle panche accanto alle piante di limoni ma lui non si fermò e si diresse spedito verso la dimora. Iatho rischiava di perderlo di vista, così ignorò la voce nella sua testa, per altro molto somigliante a quella di Zenir, che lo avvertiva di stare per fare un'idiozia.
“Non pensavo che poteste uscire di notte,” esclamò.
L'angelo cacciò un urletto sorpreso e quando, voltandosi, vide che a parlare era stato un estraneo seduto in cima al muro, ne cacciò un altro ancora più forte. Le sue ali scattarono in avanti racchiudendolo protettive in un bozzolo di piume, da dentro il quale lanciò un qualche tipo di richiamo che gli perforò le orecchie.
“No! No! Non fare così” Esclamò il vampiro, cercando di preservare timpani che una volta esplosi non era troppo sicuro di poter far ricrescere come i capelli. “Mi chiamo Iatho e non sono qui per farti del male!”
Il richiamo s'interruppe e le ali si aprirono, ma solo un po', per permettere ad un paio di occhi azzurri di far capolino. “Che cosa sei?” Chiese, osservando con grande attenzione il suo pallore di porcellana e i lunghi capelli neri. “Tu non sei un angelo.”
Iatho rise. “No, decisamente no,” rispose. “Sono un vampiro, vengo dal sottosuolo.”
Le ali si richiusero subito. “Non posso parlare con te e tu non dovresti essere qui,” disse. La sua voce era ovattata e sembrava lontanissima, così racchiusa dal guscio delle sue ali.
“E' vero, ma mi sono perso,” mentì. “Ti ho sentito cantare, così mi sono fermato.”
L'angelo dischiuse di nuovo le ali, anche se con diffidenza. “Non stavo cantando,” puntualizzò. “Pregavo.”
Iatho sollevò un sopracciglio. “Ballando?”
L'angelo si strinse nelle spalle. “Perché no? Non facevo niente di male.”
“Assolutamente niente,” concordò Iatho. “Ballare non è mica peccato. E' per questo che eri qua fuori? Là dentro non si può ballare?”
L'angelo si voltò a guardare la dimora che il vampiro stava indicando. “Là dentro non si può fare niente,” commentò con una mezza smorfia, ma si rese subito conto di quello che aveva detto e si tappò la bocca con entrambe le mani, diventando tutto rosso.
Iatho scoppiò a ridere divertito e gettò indietro la testa. “Qualcuno non è molto contento di questo posto.”
“Oh no! No!” Si affrettò a dire l'angelo. “Mi piace qui. E' la mia casa.”
“Solo che ogni tanto, ci sono troppe regole,” suggerì Iatho e l'angelo annuì con foga.
Iatho sorrise e gli accennò il muro. “Mi fai compagnia?”
L'angelo esitò e si stropicciò le dita, guardandosi intorno come si aspettasse di veder spuntare qualcuno da un momento all'altro. Iatho non sentiva la presenza di nessun angelo, a parte quello che aveva davanti, quindi era tranquillo. “Non posso lasciare neanche il giardino,” lo informò.
Iatho sorrise. “E io non posso entrarci,” confermò. “Staremo qui sul muro. Né dentro né fuori. Tecnicamente, non violeremo nessuna regola.” Si chinò in avanti a tendergli la mano.
L'angelo sbuffò una risatina. Sulle labbra di qualunque altra persona sarebbe stata di scherno, ma sulle sue fu soltanto deliziosamente chiara e limpida, così dolce che Iatho non si offese per niente. Anzi, osservò meravigliato le grandi ali bianche aprirsi fin quasi a sfiorare i rami più bassi degli alberi e sbattere un paio di volte, come a saggiare l'aria. “Ti avverto,” disse l'angelo, sollevandosi in volo con un piccolo salto e planando seduto accanto a lui. “Se questo è un trucco per azzannarmi, comincerò ad urlare così forte che l'intero essercito sarà su di te prima che te ne accorga.”
Iatho continuò a sorridere, sollevando entrambe le mani. “Vengo in pace. E ho già mangiato,” rispose.
L'angelo si lisciò le pieghe della tunica sulle ginocchia e ripiegò ordinatamente le ali, posando le mani in grembo con molta cura. “Come faccio a fidarmi?”
“Se avessi voluto attaccarti, non avrei perso tempo a parlarti,” gli fece notare Iatho.
L'angelo sembrò trovarla un'affermazione sensata, ma rimase comunque seduto a debita distanza. “Non assomigli per niente ad un vampiro,” gli disse dopo un po'.
“Ah davvero? E come sono i vampiri esattamente?”
“Cattivi, spietati e assetati di sangue,” rispose subito l'angelo, imbronciandosi con aria preoccupata fino a farsi venire una riga sopra la fronte. “Ringhiano e sbavano.”
“Sbavano?” Esclamò sconvolto Iatho.
“E rapiscono i putti,” insistette l'angelo, annuendo con grande serietà.
Iatho inarcò un sopracciglio, non sapendo se essere più divertito o sorpreso dall'affermazione. “Noi non rapiamo i putti,” commentò. “Cosa dovremmo farcene?”
“Per mangiarli, naturalmente,” rispose l'angelo. “O per renderli come voi. Non sono sicuro, le lezioni sull'argomento mi spaventano molto e mi confondo.”
Iatho scosse la testa. “Queste sono stupidaggini, noi non facciamo niente del genere,” esclamò, a dire il vero un po' oltraggiato. Poi si schiarì la voce, imbarazzato. “I putti sarebbero troppo piccoli comunque, per l'una e per l'altra cosa.”
“E gli angeli adulti sì?”
Iatho si inclinò un po' verso di lui. Non tanto da toccarlo, ma abbastanza da farlo arrossire. Fu un'impresa abbastanza complessa perché l'angelo emanava un odore dolcissimo e invitante, qualcosa di così intenso che copriva anche quello del sangue, ed era intossicante. Iatho sarebbe rimasto lì ad inspirare per ore. “Loro hanno la possibilità di decidere per loro stessi,” mormorò.
L'angelo distolse lo sguardo. Le sue ali si chiusero un po' intorno a lui, ma non così tanto da nasconderlo alla vista. “Potresti allontanarti un po'?” Chiese a disagio, lanciandogli un'occhiata di tanto in tanto, quasi volesse essere sicuro di non offenderlo.
Iatho si tirò su dritto. “Nessun problema,” rispose. Per un po' rimasero in silenzio. Iatho con le gambe che penzolavano una da una parte e una dall'altra del muro e l'angelo seduto composto e con lo sguardo basso, entrambi impegnatissimi a sostenere la presenza dell'altro che si era fatta ingombrante. “Non mi hai detto come ti chiami!” Esclamò Iatho all'improvviso, con tanto entusiasmo che l'angelo sussultò.
“Puoi chiamarmi Noah,” balbettò incerto.
Proprio allora, dalla piccola macchia di alberi si alzò un richiamo acuto, simile ma non esattamente identico a quello che Noah aveva emesso poco prima, chiudendosi dietro al rifugio protetto delle sue ali. Il suono era breve e ripetuto a distanza di qualche secondo. Noah incassò la testa nelle spalle. “Mi stanno chiamando,” si giustificò, guardando prima lui e poi gli alberi. “Devono essersi accorti che non sono nel mio letto.”
Iatho ascoltò quel richiamo e si rese conto che non era esattamente un grido, che c'era qualcosa di musicale, delle sillabe, che lo componevano. Era la stessa lingua nella quale l'angelo aveva pregato poco prima. “Quello è il tuo nome,” esclamò sgranando gli occhi, mentre qualcuno continuava a chiamare. “Non ti chiami Noah.”
L'angelo sospirò. “Il mio vero nome non potresti pronunciarlo,” rispose a mo' di scuse. “Noah andrà bene.”
“E hai intenzione di usarne uno diverso ogni volta che verrò a trovarti?” Chiese Iatho, sorridendo.
Noah aprì la bocca sorpreso. “Perché, quante volte hai intenzione di venire, ancora?”
“Tutte quelle che serviranno.”
“A fare che cosa?” Chiese confuso, Noah.
Iahto sorrise e basta. “Per scoprirlo dovrai essere qui, quando verrò, non ti pare?” Chiese. Poi accennò verso gli alberi, la voce si faceva più vicina e più preoccupata. Gli angeli erano nei paraggi e lui cominciava ad innervosirsi, ma cercò di mantenere il sorriso perché l'espressione dell'angelo lo ripagava di ogni paura. “Ora va', o finiranno per punirti.”
Noah non sembrava affatto convinto di quella risposta. Era troppo vaga per farlo stare tranquillo. Saltò giù dal muro e planò dolcemente con le ali appena aperte. Quando atterrò sull'erba, non fece alcun rumore. “Non è... non è detto che m'interessi saperlo,” esclamò cercando di fare il sostenuto e fallendo miseramente, soprattutto quando continuava a guardare verso gli alberi per paura di veder spuntare chi lo cercava.
“Io farò comunque un tentativo,” disse Iatho, tornando ad accucciarsi sul muro, pronto a saltare giù. “E se non ci sarai, sarò costretto ad entrare per venirti a cercare.”
“Questo sarebbe inaccettabile!”
Iatho sorrise. “E allora non costringermi a farlo.”
Noah lo guardò un po' storto, comprendendo di aver perso un qualche tipo di battaglia senza sapere quale. Due angeli adulti, dalle ali immense, sbucarono dagli alberi emmettendo nello stesso istante un sospiro di sollievo di fronte al ritrovamento del fratello perduto. Noah, invece, non rispose ai loro richiami e si voltò di nuovo verso il muro, convinto che da lì a qualche istante avrebbero visto anche Iatho, ma scoprì che lui non c'era già più. Mentre i suoi fratelli lo abbracciavano con affetto prima ancora di sgridarlo, come se fosse mai uscito dal giardino o fosse stato lontano intere settimane, Noah pensò che Iatho non sarebbe affatto tornato, che stava soltanto scherzando.
Ciononostante, la notte dopo si fece trovare sulla panchina della limonaia e, quando il vampiro comparve seduto sul muro, gli disse che aveva soltanto avuto voglia di pregare di nuovo alla luce della luna.
La terza notte, Noah gli disse che si preoccupava per la sicurezza dei suoi fratelli, sapendo che lui era in giardino, e quindi era venuto a controllare.
La quarta notte raccoglieva fiori e la quinta era troppo caldo per dormire tra le pareti.
Iatho rise ogni volta, ma tornò ancora e ancora. E allora Noah smise di dire bugie.

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