Personaggi: Libanese, Freddo
Genere: -
Avvisi: -
Rating: SAFE
Note: Scritta per il Cow-t#8 (prompt: giungla)

Riassunto: Libano spiega al Freddo la sua visione di Roma
YOU CAN'T PLAY CITY RULES WHEN YOU LIVE IN A JUNGLE


Il Freddo osserva Libano che guarda fuori dalla finestra e pensa che finalmente ha proprio la faccia di uno che è arrivato dove voleva arrivare e alla vita non si sente di chiedere altro, almeno per il momento. Erano settimane – no, mesi a dire il vero – che quell'uomo era stanco e sfinito, con le occhiaie profonde, la barba sfatta e la rabbia frustrata di quello che aveva un piano, uno buono per altro, che aveva della gente per metterlo in pratica e poi si era trovato per le mani soltanto coglioni che non capivano le cose nemmeno a ripetergliele fino allo sfinimento.

C'è stato un momento che Freddo è stato quasi tentato di dirgli guarda, lascia perdere, evidentemente non è una cosa che si può fare. E invece lui niente, come una trivella, ha messo avanti la capoccia ed è andato avanti come un ariete da sfondamento, perché quello ha sempre fatto: ha sfondato, qualsiasi cosa, la testa a un mare di gente, le semplici regole della batteria singola per formare un'unica grande batteria, il muro di cemento che Freddo si era costruito intorno e il regno del Terribile, che ora è un cumulo di macerie a testimonianza di come Libano affronta ogni cosa.

Però ha avuto ragione lui e ora può ridere.

“Freddo, vie' qua,” dice all'improvviso, con le labbra che s'increspano in un mezzo sorriso, ma senza voltarsi verso di lui. Il Freddo nemmeno si chiede più come ha fatto a sapere che era nella stanza perché ormai sa che Libano le persone – quelle a cui tiene davvero – non ha bisogno di vederle, le sente perché le fa sue, diventano una parte di lui. Freddo non è più se stesso da quando lo conosce, è una sua emanazione.

Si avvicina lentamente – perché va bene essere emanazioni, ma se c'è qualcuno in questa città che può non scattare quando Libano schiocca le dita quello è lui ed è bene che Libano se lo ricordi – e gli si ferma di fianco. Libano attende pazientemente e intanto guarda fuori. Oltre le finestre enormi di questa casa ridicola e anacronistica di cui si è appropriato soltanto perché poteva, ma che non lo rappresenta per niente, Roma si è appena messa a letto e il rosso del tramonto sta quasi sfumando nella notte. Da qui non si sente neanche un rumore, ma li possono immaginare i suoni di Roma, l'hanno fatta gemere fin troppe volte per non sapere che effetto fa quando la tocchi come si deve.

“Freddo, la vedi? Sta città è 'na giungla,” dice Libano, indicando la distesa di palazzi che lentamente scompaiono nell'oscurità prima che si accendano i lampioni. “Ce so' le scimmie. Tutte quante. Quelle piccolette che se grattano er culo tutto 'r giorno e fanno un gran casino senza combina' gnente. Poi ce stanno quelle un po' più grandi, ma mica tanto. Quelle so' cattive, te mozzicano. Se fanno grosse perchè so' tante, ma se tu ce vai giù pesante scappano. Ce so' gli scimpanzé, che se comportano come l'omini ma non lo sono. E ce so' i gorilla, che nun so' tanto intelligenti, ma è meglio nun falli incazza'.”

“Famme capi', m'hai chiamato per parlamme de scimmie?”

“Nun ho finito,” commenta Libano, ma senza arrabbiarsi. Alza una mano, però, che vuol dire stai zitto, per favore, che sto parlando, non mi interrompere o ti prendi una mano in faccia senza passare dal via. “Ma le scimmie so er popolo, Freddo. Nun so fatte pe' comanda'. So fatte per magna' le noccioline e spulciasse tra de loro. Poi ce so' i serpenti, quelli so lunghi lunghi e viscidi. O piccoli piccoli e fetenti. So' intelligenti, eh, sopravvivono avvelenando la gente, ma nun comandano manco loro. Ce so' gli sciacalli, che so' i peggiori de tutti. Quelli aspettano che te stai a mori' e poi te sartano addosso.”

Freddo non vorrebbe interromperlo perché gli piace sentirlo parlare anche quando sta dicendo stronzate. Queste non sono proprio stronzate, ma ci si avvicinano molto. “E noi che siamo, Libano? Tu un po' na scimmia ce sembri oggi.”

Libano si volta a fulminarlo con lo sguardo, come fa lui, incassando il collo nelle spalle e gli occhi nelle orbite, piegando il capo, pronto a sfondare di testa. Ma poi si ammorbidisce di nuovo, Freddo vede la tensione scivolare via dalle sue spalle. “Noi semo leoni, Fre',” dice tornando a guardare la città che ora risplende di un miliardo di luci. Si fa bella anche per andare a letto, Roma. Soprattutto per quello. “Semo fatti pe' comanda'. Per rimette' le scimme e tutti l'atri al loro posto. Siamo nati re e come re dovemo vive' e mori'.”

Freddo guarda lui e non la città perché Roma la conosce e un po' si è stancato di lei e del fatto che non gli dà mai niente. Libano, invece, alle volte sembra lì per lui, per dargli tregua, per dargli quello che Roma non gli dà. E il momento è così intenso che ha bisogno di smontarlo, solo un po', solo quel tanto che basta per tornare a respirare dopo che ha trattenuto il fiato, gli sembra, per mesi. “A' Libano, ma il branco di leoni ne ha uno solo. Che volemo fa?”

Si aspetta di vederlo incupirsi, invece no. “E allora se vede che sei 'na leonessa,” replica e poi ride come un imbecille.

“Tu comunque de animali non ce capisci gnente,” gli fa notare Freddo, seguendolo con lo sguardo mentre si stacca dalla finestra e raggiunge il divano, dove si lascia andare stancamente. “Nun ce stanno i leoni nella giungla. Quelli stanno nella savana. Nella giungla ce stanno tigri e leopardi.”

Libano si stringe nelle spalle. “Tigri, leopardi, come te pare. Il punto è che noi c'amo gli artigli e noi comandiamo.”

“Dovemo pure ringhia'?”

“La nostra voce l'hanno già sentita, Fre', nun te preoccupa'.”

Mentre si siede accanto a lui, suo malgrado Freddo sorride.
Roma è bella, Roma è una giungla, ma soprattutto Roma è loro.

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