Personaggi: Fler, Bushido, Bill, Chakuza
Genere: Introspettivo
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: NC-17
Prompt: #63 ("No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no.") della Criticombola.
Note: La genesi di questa storia è molto complicata e anche totalmente assurda. Tutto inizia da un cavallo, che però non c'è. E dalla mano di Chakuza, che in sostanza c'è, ma non come inizialmente era stata pensata. Il tutto doveva poi proseguire con Chakuza che picchiava Bill, e questo c'è. Quindi mi è stato chiesto che finisse in Flerkuza. E questo è quanto. Il nesso logico che sta dietro a tutte queste cose non lo so quale sia, ma tant'è...
Un grazie a Liz per il titolo e per aver aiutato Chakuza ad avere delle motivazioni. Un grazie a Fedy perché si è sopportata la piaga, cioè io.
Riassunto: In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.
Genere: Introspettivo
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: NC-17
Prompt: #63 ("No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no.") della Criticombola.
Note: La genesi di questa storia è molto complicata e anche totalmente assurda. Tutto inizia da un cavallo, che però non c'è. E dalla mano di Chakuza, che in sostanza c'è, ma non come inizialmente era stata pensata. Il tutto doveva poi proseguire con Chakuza che picchiava Bill, e questo c'è. Quindi mi è stato chiesto che finisse in Flerkuza. E questo è quanto. Il nesso logico che sta dietro a tutte queste cose non lo so quale sia, ma tant'è...
Un grazie a Liz per il titolo e per aver aiutato Chakuza ad avere delle motivazioni. Un grazie a Fedy perché si è sopportata la piaga, cioè io.
Riassunto: In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.
UNINTENDED
Nella mia vita ho sempre avuto pochi punti fermi. Quando vieni al mondo senza un padre e tu e tua madre avete così pochi soldi che non sapete mai se il giorno dopo arriveranno con le ruspe a portarvi via la casa, lo capisci subito che niente rimane mai del tutto certo e che da un momento all'altro potrebbe ribaltartisi il terreno sotto i piedi. Per questo impari a non fidarti di nessuno perché tanto sai che bene o male, così i fatti della tua vita, anche le persone prima o poi ti gireranno il culo e se ne andranno per la loro strada.
Io ho imparato a fidarmi solo di me stesso a cinque anni, il giorno che mia madre mi lasciò come un cretino davanti al portone della scuola quando invece avrebbe dovuto venirmi a prendere. Io esco e vedo tutti i miei compagni di classe che si gettano tra le braccia delle loro madri e della mia neanche l'ombra. Così mi siedo, aspetto, ma lei non viene. Aspetto fino a quando la bidella non si rende conto che io sono lì da chissà quanto e allora cerca di rintracciare mia madre. Quando sono cresciuto ho capito che quel giorno lei era solo troppo presa dai suoi debiti e si era dimenticata per quello, mica perché non mi volesse bene – io non ce l'ho con mia madre – ma certe cose ti segnano e in qualche modo non te le levi di dosso più.
Io però non sono un pessimista. Io non penso che le cose andranno sempre male, metto solo in conto che potrebbero farlo, così mi preparo psicologicamente alla colata di merda che poi viene giù. Una parte di me, però, ci spera che tutto vada bene. E' per questo che alla fine, nel corso dei miei ventisette anni, un po' di costanti le ho messe da parte. La costante più grossa, quella che proprio non posso ignorare è Anis. E non tanto lui in quanto lui, che voglio dire sì potrebbe anche costituire una variabile costante della mia vita di per sé, ma in particolar modo quello che intorno ad Anis si crea, si distrugge e gravita.
Anis non è una persona normale. Voglio dire, un ragazzo che a diciassette anni è già uno degli spacciatori più noti del quartiere è uno che si avvia a passare più tempo in galera che a casa, o a diventare un rapper di fama mondiale, o magari a crepare giovane. Una delle tre cose, ma di certo non è normale. Questo tipo di persone generalmente sono dotate o di armi estremamente pericolose o di molto fascino. Anis aveva solo una Heckler risalente con ogni probabilità all'anno di fondazione della fabbrica e un coltellino a serramanico che, sì, poteva farti l'appendicite ma per stenderti dovevi proprio mirare alla giugulare e non è che Templehof fosse una giungla dove la gente combatteva corpo a corpo. Più che altro si sparava, quindi il coltello serviva a tagliare la roba e a dimostrarsi molto cazzuti. In quanto alla pistola, Anis l'ho visto sparare due volte e vorrebbe dimenticarle entrambe anche lui perché ci ha perso più di quanto ci ha guadagnato. Insomma, questo per dire che il signor Ferchichi aveva molto carisma.
Il problema delle persone come Anis, che spargono fascino intorno a sé come fosse colonia e chiunque lo annusi anche solo di striscio finisce poi per corrergli dietro come un cagnolino, è che generano caos. Voglio dire, Anis non è una persona cattiva. Ha rubato, spacciato, ha anche ammazzato, okay, ma di base non è uno cattivo. Quello che ha fatto, lo ha fatto perché era l'unico modo che conoscesse di sopravvivere nell'ambiente in cui il buon Dio aveva deciso di farlo crescere. Non è che lui un giorno si è svegliato e ha deciso che avrebbe fatto il delinquente. Lui, se lo conosco bene – e sì, lo conosco bene – si è svegliato una mattina e ha deciso che avrebbe governato la Germania, perché è egocentrico e megalomane, ma visto che di studiare, fare carriera e magari candidarsi in politica non aveva possibilità, ha percorso l'unica altra strada possibile e si è messo a spacciare per diventare un boss di quartiere. C'è da dire che ha avuto il culo di diventare famoso cantando, così adesso non ha bisogno di contrattare per l'eroina e ha i soldi e la faccia sufficienti per candidarsi. Vedete? Obbiettivo raggiunto. Ma in tutta questa strada, lui non ha mai pensato di rovinare la vita delle persone o di generare meccanismi di distruzione. Lui ha fatto solo quello che voleva, sono gli altri – siamo noi, tutti – che gravitandogli intorno come satelliti abbiamo finito per cozzare e farci del male. Non incolpi il sole perché attira i pianeti, in fondo con la sua forza li tiene anche insieme, no?
E io non incolpo Bushido se è successo quello che è successo – perché davvero non ne ha colpa, non era nemmeno presente il più delle volte – però so che è lui il motore scatenate di questa tragedia. E' stato lui a mettere per primo il dito sulla tessera del domino che poi si è portata dietro tutte le altre. Quindi è da lui che devo iniziare a raccontare.
*
Otto settimane fa, l'Aggro Berlino ha iniziato a chiudere.
Un'etichetta è un'attività come qualsiasi altra, per cui per chiuderla non impieghi né più né meno del tempo che impiegheresti a chiudere la bottega di un salumiere. Innanzi tutto bisogna decidere di chiudere e poi inizia la lunga trafila burocratica che è sostanzialmente composta da troppi fogli in doppia copia con altrettante firme. Ora, generalmente chi lavora per una certa etichetta, sa che questa chiude dopo che l'ultima firma è già stata messa, a meno che non ci sia la volontà di aprire un'altra etichetta e di trasbordare un po' degli artisti in questa nuova attività. Sido non voleva niente del genere. Sido voleva semplicemente chiudere bottega, sedersi sul suo divano e contare il mazzetto di soldi che gli avrebbero dato come conseguenza, dopodiché alzarsi, cambiare look, genere e atteggiamento e rivendersi da solo sul mercato come l'uomo che si è ravveduto, ha fatto pace con la sua ex e ora porta il bambino a spasso, un po' infastidito dall'attenzione mediatica, anche. Una cosa ben più disgustosa di ciò che ha fatto Anis, che per lo meno è sempre stato una testa di cazzo con manie di grandezza, non è che passando alla Universal ha agito fuori dal suo personaggio. Ha tradito me, ma non è questo il punto.
Sido ha l'accortezza di invitarmi fuori a pranzo per dirmi che ha intenzione di chiudere l'etichetta, questo otto settimane prima che ciò avvenga. Lo fa, mi dice, perché è anche grazie a me che l'etichetta è andata avanti dopo la defezione del tunisino – come lo chiama lui – e che così posso guardarmi un po' in giro e vedere se ci sono altre direzioni da prendere. Grazie, penso, meno male che me lo hai detto, stronzo. Ci mancava solo che arrivassi un giorno, mentre io qui sto già preparando roba per il prossimo album, e con il tuo bel sorriso tirato da ragioniere mi avvertissi che la baracca chiudeva, così di punto in bianco. Ovviamente io non posso avvisare nessuno, quindi passo tutto il tempo che mi resta in tensione e mi sento anche un traditore perché io già mi sto muovendo per pararmi il culo ma nessuno qui ha idea di cosa li aspetta.
Anis a quel punto deve subodorare qualcosa. Non so se è lui che annusa l'occasione come un cane da tartufo o io che mi muovo un po' troppo goffamente tra i nuovi produttori, fatto sta che a tre giorni esatti dalla chiusura lui mi telefona e m'invita a cena a casa sua.
Casa di Anis è un vergognoso spreco di spazio. Lui ci vive da solo e anche volendo credere alle voci che lo dipingono mentre si intrattiene con un numero elevato di procaci signorine tutte quante assieme, il numero dev'essere per forza minore delle stanze che possiede o gli verrà un infarto prima dei quarant'anni. Questo è quello che penso quando ci metto piede per la prima volta e una volta in salotto mi sembra di stare in mezzo ad una reggia. Diciamo che è stato abbastanza stronzo da incontrarmi dopo quasi sei anni in un terreno famigliare soltanto a lui e, soprattutto, uno che mi facesse sentire estremamente inadeguato. Ma casca male, perché è stato lui ad insegnarmi che anche se vieni dalla merda questo non vuol dire che non vali niente, quindi io lo saluto con una scrollata di capo e dei suoi pavimenti in marmo me ne infischio totalmente.
E questo è tutto ciò che succede, facciamo pace così. Due settimane dopo decide che è arrivato il momento per un altro Carlo Coxx Nutten e quello è il vero inizio della fine.
Imparo fin da subito che Sonny Black non ha abbandonato l'idea di un regno diventando Bushido e quindi la prima cosa che mi tocca fare, dopo aver conosciuto il re, è conoscere la sua corte. Io non so perché mi tocchi quest'onere. Suppongo sia perché questa corte non è composta da un gruppo di persone che lavorano per lui, ma da un gruppo di persone che è legato a lui per le motivazioni più svariate e lui non solo vuole farmele conoscere perché è orgoglioso e tronfio di avere una corte ma perché da qui in avanti ne farò parte anch'io – come ogni altra persona che intorno a lui gravita – e non posso non conoscere i miei compagni di sventura. Alla trappola di Anis non c'è mai veramente scampo – gli vendi l'anima, è come stare appresso al demonio – ma se avessi voluto scappare, allora forse non avrei risposto alla sua telefonata.
L'impatto iniziale non è negativo. Voglio dire, quando faccio la mia comparsa sulla porta dell'Ersguterjunge ne seguono due minuti di insulti ma, in generale, poi tutti si placano e la scelta del sovrano è unanimemente accettata senza un fiato. La cosa, devo dire, un po' m'inquieta perché è come osservare un gruppo di ipnotizzati pronti a saltare come conigli al primo schiocco di dita. Mi vengono in mente le riunioni all'Aggro Berlin dove qualunque decisione doveva essere presa al vaglio urlando e poi finiva che Sido decideva per tutti, mandandoci ripetutamente a zappare l'orto in maniera molto meno fine. E la cosa, per quanto poco professionale, mi sembrava molto più sana. La riverenza che si respira in questo posto mi ricorda la riverenza che avevo io per lui a quattordici anni, mentre sul muretto di fronte alla stazione mi raccontava com'è che bisognava contrattare con i nigeriani.
Ricordo all'improvviso che il mio rapporto con Bushido non è mai stato neanche lontanamente vicino all'amicizia. Era qualcosa che l'amicizia la superava e poi se ne allontanava così tanto che a guardarci da fuori non lo so esattamente cosa si vedesse. Lui mi ha fatto da padre quando ne avevo bisogno, ma quando poi ho imparato a farne a meno lui si è trasformato in qualcos'altro. E allora abbiamo smesso di dare un nome a quello che rappresentava. Mi chiedo come ci abbia visto questa gente che lo ha conosciuto dopo che abbiamo litigato, cosa sappiano di me. Niente, immagino, perché Anis non poteva dirgli quello che siamo, visto che quello che siamo non ce lo siamo mai detti neanche tra di noi.
Quel primo incontro tra me e loro, come dicevo, non va poi così male ma nel gruppo di persone presenti quel giorno mancano le due più importanti e le conoscerò qualche tempo dopo, per caso – o forse perché Bushido ha deciso che il caso facesse come voleva lui – a casa di Anis.
Tutti sanno che Bushido un giorno ha deciso che si sarebbe seduto sul divanetto di uno studio televisivo, avrebbe guardato in camera e avrebbe chiesto a Bill Kaulitz del sesso orale. Questo per due ragioni fondamentali: la prima, è che questo avrebbe aumentato l'immagine da stronzo strafottente che si era creato con tanta cura. La seconda è che Bill è famoso, molto famoso, e chiedere un pompino ad una principessa come Bill in diretta televisiva avrebbe fruttato un sacco di soldi, ascolti, e fan aldilà di una frontiera che mai e poi mai si deciderà a valicare. Quello che tutti non sanno è che questi due sono amici. Ma amici veramente, intendo. Anis ha preso questo ragazzino travolto da un successo più grande di lui e lo ha praticamente preso sotto la sua ala – lo ha strapazzato un po' nel processo, d'accordo, ma questo è un atteggiamento molto da lui. La sua è una tenerezza molto ruvida.
Quando incontro Bill, inizialmente mi chiedo cosa ci stia a fare lui in casa di Bushido e perché, fra tutte le cose possibili, sia seduto in pigiama sul suo divano a mangiare waffle freschi appena sfornati. Lo guardo e lui mi sorride. “E' da tanto che volevo conoscerti,” mi fa, dopo essersi presentato educatamente, senza dare per scontato che io conosca il suo musino truccato solo perché è stampato su qualsiasi superficie disponibile. “Ma Bu non voleva... fino ad oggi.”
Bu? So che in questo momento mi passa per il cervello ogni genere di possibilità, ma poi mi dico che qualunque sia il motivo che spinge Anis ad accettare questo nomignolo deve aver a che fare con qualcosa che davvero non voglio sapere. Voglio dire, io entro in questa casa e Bill Kaulitz – non propriamente un modello di mascolinità – ha tutta l'aria di averci passato la notte e di averlo fatto spesso, anche! E poi il nomignolo.
Io sapevo che Bushido era molto etero, ma so anche che è molto fisico. E molto disposto a superare certe barriere se in quel momento lo ritiene necessario. E poi questo ragazzino sembra una ragazza, non lo so. Quindi due più due...
E invece no. No nella maniera più assoluta. Questo lo scopro ovviamente una sera a caso nei mesi successivi, quando alla fine non ce la faccio più e l'ennesima volta che trovo il ragazzino che dorme nel suo letto gli faccio notare che poteva anche dirmelo che aveva passato la sponda. La butto lì così, un po' sul ridere, ma in realtà sono nervoso come non mai perché non chiedi mai veramente una cosa del genere ad un altro uomo con leggerezza. Non quando ha effettivamente un ragazzo nel letto. Ricordo che Anis ha riso e ha detto: “Bill non è una principessa che spetta a me.” Ora lo so cosa voleva dire e mi piacerebbe poter tornare indietro nel tempo, dare due sberle a Bushido per la leggerezza con la quale ha affrontato la questione, poi prendere Bill in braccio e portarlo via. Ma in quel momento io non so proprio niente, quindi sollevo solo un sopracciglio e dico: “Quindi tu e lui, non...”
“No, Patrick,” quindi si alza e mi passa una birra, cambiando discorso.
Da quel momento, parlare con lui di Bill in questi termini è assolutamente fuori questione. Non è che si arrabbi, ma fa sempre in modo di cambiare argomento. E allora lo osservo trattare questo ragazzino assurdo come se fosse uno dei suoi, ma un po' più speciale degli altri. E vedo gli altri che si adeguano ai voleri del re e gli fanno spazio perché sia adeguatamente protetto, da chi e da cosa non importa. La protezione di Bushido non implica necessariamente che ci sia qualcuno che ti voglia male adesso. E' come un rifugio. Proteggerti è il suo modo di esserti amico e siccome non è in grado di relazionarsi con le persone senza possederle in un modo o nell'altro, Bill è diventato una cosa sua. Una cosa che lui sta curando.
Il giorno che lo trovo a mangiare i waffle sul divano di Anis, è anche il giorno che scopro Chakuza, anche se scoprire forse non è la parola più giusta. Non è che io non conoscessi Peter Pangerl, voglio dire, non vivevo sotto una roccia e poi Sido lo aveva inserito nel suo grande elenco di gente a cui tirare della merda, per cui lo sapevo chi era. Non mi aspettavo di trovarlo nella cucina di Anis, però. Ricordo perfettamente che ad un certo punto mi sono anche chiesto cos'altro nascondesse quella villa, dal momento che non era poi così vuota. Comunque sia, il nodo centrale della mia scoperta è che Chakuza è colui che prepara i waffle. Immaginatevi la scena: Bill mi saluta e poi trotterella scalzo verso la cucina. Io lo seguo con lo sguardo e trovo quest'uomo alto un barattolo che prepara dolci in una cucina non sua. Grazie a Dio, penso, almeno non è in pigiama.
Il ruolo di Chakuza in questa faccenda mi è inizialmente molto chiaro, nel senso che l'austriaco è comproprietario della Beatlefield e la Beatlefield è finanziata dall'EGJ, di conseguenza quest'uomo lavora per Bushido. Non solo, ma a giudicare dal ciarpame che quest'etichetta produce, lui è anche uno che ci sa fare e Anis ci tiene molto. Pare che Chakuza lo abbia proprio inseguito, Anis, per farsi ascoltare e la sua testardaggine lo ha premiato perché adesso Anis non fa un passo senza di lui. Ma non è questo che mi sconvolge in quel momento e non è neanche il fatto che stia cucinando e fischiettando mentre lo fa. Quello che mi sconvolge è che quando sente entrare Bill si gira e incrocia il mio sguardo. Per un istante lunghissimo, tipo, non lo so, mille ore, io rimango lì così a guardarlo e non so nemmeno perché visto che lui è oggettivamente bruttino, e lui fissa me e dallo sguardo che ha penso invece che io non sia tanto bruttino per lui. Se ci penso, immagino che avrei dovuto chiedermi di lui come mi ero chiesto di Anis, ma per qualche motivo non mi è venuto di farlo. Forse perché lui ce l'aveva scritto in faccia che mi si sarebbe saltato addosso anche subito, che ne so?
Comunque, dicevo, che inizialmente il suo ruolo in questa casa – che poi è il centro dell'Universo di Bushido, perché c'è sempre gente che entra, che esce, che resta a dormire, cucina, fa i piatti e gioca ai videogiochi. Tutto qui, come se fosse una specie di casa comune – mi era apparso quasi cristallino, ma in effetti sarebbe stato troppo semplice che questo austriaco fosse qui a cantare in rima e a fare dolcetti. Cioè, forse non cristallino ma sensato o forse nemmeno quello. In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.
*
Nel corso delle settimane successive mi rendo conto di due cose: Bill è perdutamente innamorato di Chakuza e Chakuza vuole disperatamente entrarmi nelle mutande. Ovviamente le due cose creano un incidente diplomatico che non ha bisogno di nessuna spiegazione. Io qui dovrei aprire bocca, magari parlare con Bill, o con Anis, ma non lo faccio. L'unica cosa che mi permetto e continuare a rifiutare con insistenza gli insistenti tentativi di schienarmi di Chakuza.
Volendo analizzare entrambe le situazioni non credo di essere in grado di trovarne le cause o le motivazioni. Voglio dire, Bill è una creatura estremamente delicata e non è sfuggito a nessuno, nel mondo, che è molto carino e che ha un certo senso estetico. Come questo senso estetico gli abbia permesso di trovare Chakuza appetibile, io non lo so. E non voglio nemmeno saperlo, perché se ripenso al modo in cui Chakuza mi ha guardato la prima volta che l'ho visto, forse una motivazione la trovo e non credo che sia sano per me farlo.
Ad ogni modo, accorgersi che Bill è innamorato non è difficile. Il ragazzino è piccolo, nella testa, ma soprattutto nel cuore, quindi la sua attrazione per quell'uomo lo coinvolge a tutti i livelli e fa sì che in sostanza non veda praticamente nient'altro, nemmeno il fatto che Chakuza non è dello stesso avviso. Quando siamo da Bushido o alla sede dell'Ersguterjunge, Bill non fa che trotterellargli intorno e cercare il suo sguardo in continuazione. E' di una tenerezza disarmante, perché lo vedi che evidentemente è la prima sbandata che si prende e fa i salti mortali per anche solo sederglisi accanto. Tutto questo suo gran frullare di ciglia, però, non serve a molto perché Chakuza non sembra affatto interessato. Gli dedica poca attenzione, anche quando Bill praticamente gli muore davanti, addosso e lo ascolta come se dalle sue labbra uscisse la verità del mondo. Inizialmente penso che lo faccia perché non vuole incoraggiarlo, poi mi trovo schienato nel gabinetto dell'Ersguterjunge e, improvvisamente, la questione mi appare più chiara.
Ora, io sono piuttosto alto, sfioro quasi i due metri, e sono grosso di costituzione. Perfino da piccolo ero alto e largo il doppio di tutti i miei compagni. Ero uno di quei ragazzini, per intenderci, che quando li vedi accanto ai loro coetanei pensi che siano di due o anche tre anni più grandi. E adesso che sono passati anni e che con la palestra ho perso un po' di goffaggine e ho guadagnato dei pettorali, sono un discreto armadio, so di esserlo e quindi non sono abituato ad essere sbattuto contro una superficie. Non da un uomo che all'età di nove anni deve aver smesso di crescere. Chakuza mi arriva allo sterno, capite? Eppure riesce a prendermi e spostarmi di peso contro la porta di un gabinetto. Non voglio nemmeno giustificarmi dicendo che mi ha colto di sorpresa, perché non lo ha fatto. Io stavo camminando lungo il corridoio e lui mi veniva incontro dalla parte opposta. L'ho visto arrivare! Eppure non è servito.
“Che cosa vuoi?” Chiedo.
“Non pensavo di doverlo spiegare,” fa lui, tenendomi schiacciato contro la porta con il bacino. Credo che sia il suo modo di consegnarti il biglietto da visita, o una cosa del genere. Mi permetto di notare che ha della motivazione con sé e poi mi permetto anche di dimenticarmi istantaneamente di averlo pensato anche solo per un secondo. Non so cosa mi prende, ma è sicuramente colpa di Bushido.
“Chiedere non si usa più?” Vorrei che la domanda suonasse molto più, tipo, non so, minacciosa ma è la domanda stessa a non permettermi un certo atteggiamento. E ad ogni modo ho una mano del nano nei pantaloni. “Okay, senti, molto lusingato, ma no.”
“Non ho ancora fatto niente.”
“Ed è già no,” insisto. “Immagina cosa sarebbe se facessi qualcosa.”
Un attimo dopo, lui ci riprova e quello subito successivo sono io che lo stampo contro i lavandini del gabinetto ed esco. Mi aspetto che ciò non avvenga mai più, ma capita nemmeno ventiquattro ore dopo. Quell'uomo è sfiancante ed insistente. In tutta la concentrazione del suo scarso metro e quaranta non demorde nemmeno quando gli dico chiaro e tondo che non scoperò con lui né ora né mai. Sinceramente io potrei dire a Bushido che uno dei suoi collaboratori è un ninfomane e che, dal momento che lavoro qui, si potrebbe ben parlare di molestie sessuali ma nonostante tutto ho ancora dell'amor proprio e in ogni caso credo che Anis mi guarderebbe con un'espressione perfettamente scettica e mi farebbe notare che, nel caso, sono fisicamente in grado di difendermi. E non potrei che dargli ragione. Così proseguo la mia vita, nella costante oscillazione tra il lavoro e il tentativo di fermare questa trottola impazzita delle Alpi. Il tutto mentre mi chiedo cosa ne penserebbe il ragazzino se sapesse come stanno le cose.
Bill parla di Chakuza come se fosse la cosa più bella del mondo e io davvero non lo so da dove gli venga tutto questo amore. Chakuza non ci tenta neanche ad essere carino con lui. Voglio dire, non è un essere umano carino in generale: è disarmonico, ha una voce totalmente sbagliata per il corpo che ha e quando ride è sguaiato, ma non fa neanche niente – ma proprio niente – per far vedere a quel ragazzino che almeno lo ha notato. Eppure Bill lo adora.
Quando mi viene da fare questo ragionamento, penso che a quattordici anni io ero convinto che uno che iniziava metà delle frasi che mi rivolgeva con “Fler, coglione, vieni qua!” fosse un grand'uomo, quindi forse dovrei stare zitto. E' che ci sono delle persone che quando ti stanno intorno, senti lo stomaco che si ribalta. E' una specie di potere che hanno su di te e tu non puoi farci niente. Quelli se ne stanno lì, occupano tutto lo spazio anche senza muovere un dito e tu senti quest'ondata in fondo allo stomaco che si porta via tutto. Io stavo così con Anis. Era una roba tremenda. Quando sapevo che dovevamo uscire mi si chiudeva la gola e mi prendeva l'ansia perché volevo essere perfetto – mica poteva pensare fossi un cretino! - e controllavo ogni parola che stavo per dire e il modo in cui muovevo le mani, perché lui non faceva mai un movimento fuori posto e invece io non sapevo bene come gestire braccia e gambe. Stargli vicino era un lavoro, perché vivevo nella speranza di diventare come lui o almeno guadagnarmi il suo rispetto. E non ce l'avrei mai fatta se continuavo a parlare a vanvera o a buttare giù cose quando agitavo le mani. Così penso che Bill si senta allo stesso modo, che il suo cervello escluda i difetti evidenti di quest'uomo e ne veda solo le caratteristiche che scatenano quell'onda calda che gli chiude la gola.
Generalmente quando arrivo a questo punto del ragionamento evito di pensare oltre: a Bill, a Chakuza e soprattutto ad Anis che ogni tanto mi chiede le cose e io mi fermo cinque minuti a decidere come rispondere. Sì, ancora.
*
Certe situazioni, quando si protraggono sempre uguali a loro stesse per troppo tempo, hanno due modi di concludersi: o si modificano lentamente, fino ad estinguersi, oppure all'improvviso esplodono, degenerando, come se qualcuno, da qualche parte, avesse premuto un grilletto. Naturalmente a noi capita la seconda. Il nostro grilletto lo preme Chakuza, il giorno che per l'ennesima volta ci prova, infila le mani e il sottoscritto lo ferma un attimo prima che il suo cervello smetta di lottare. Il processo degenerativo di questo quadrilatero di disperazione è molto lento, comunque, nel senso che non c'è una vera propria esplosione sul posto, è più un rotolare nell'insolvibile.
Tutto inizia che siamo tutti e quattro a casa di Anis, tanto per cambiare. Tra me e lui stiamo cercando di dare un senso a quattro pagine di vaneggiamenti che ho scritto mentre ero ubriaco. Sappiamo che c'è del salvabile, ma dobbiamo trovarlo tra il marasma generato da quattro bottiglie di birra e così ci mettiamo sul tappeto a rileggere tutto. Bill è qui da ieri sera, anzi, è qui da una settimana perché suo fratello si è regalato una vacanza con il loro amico Andreas e insieme, i due deficienti, hanno intenzione di devastarsi in vari locali della nazione. Bill non aveva alcuna intenzione di seguirli e siccome da solo si deprime come una pianta al buio, Anis lo ha invitato a stare da lui. Quando sono entrato era in pigiama ma ha fatto in tempo a mettersi in tiro per l'arrivo di Chakuza, che è qui in veste di non so cosa ma che probabilmente è stato mandato da Dio. Non ho ancora capito se per punire me della mia vita di delinquente, o per punire Bill – con la sua indifferenza – per la sua vita immorale agli occhi del Signore.
Ad ogni modo lo vedo che si siede sul divano e vedo Bill che lo raggiunge e cerca di fare conversazione, una qualsiasi. Mentre sono lì che mi canto la canzone a mezza voce per trovare un senso ad una rima che non ce l'ha, sento lo sguardo dell'austriaco che mi perfora il retro della testa, lo sento tutto il tempo e devo ammettere che ho quasi paura, ad un certo punto, ad alzarmi ed andare in bagno.
La villa di Bushido non è veramente una casa, come dicevo, è un labirinto. E prima di trovare un gabinetto, ho tutto il tempo di ricordarmi la storia dei Minotauro e di come gli sacrificassero delle giovani vergini di tanto in tanto. Io non sono vergine, ma il Minotauro spunta lo stesso da dietro un angolo. E ha la faccia di Chakuza.
Per un attimo mi chiedo se sto vedendo davvero quello che mi sembra di vedere, perché non è davvero possibile che quest'uomo sia appoggiato con una spalla al muro, le gambe incrociate all'altezza delle caviglie e mi guardi come uno che sa già con assoluta certezza che stasera batterà cassa con il sottoscritto. No, perché è questo che Peter Pangerl – in arte Chakuza – sta facendo e io non riesco a crederci. Forse il racconto di questi ultimi tempi è stato un po' troppo veloce e quindi, forse, la situazione è un po' confusa. Io e lui non abbiamo mai nemmeno cenato insieme, che non è un modo carino per dire che io non lo do via così dal nulla – cioè, anche sì, ma non è questo il punto. Il punto è che io e quest'uomo non abbiamo fatto niente di più che stazionare nella stessa stanza mentre facevamo cose completamente diverse. Abbiamo chiacchierato, anche, sì, ma non tra noi due. Voglio dire, io ero ospite di Bushido. Lui era ospite di Bushido. E qui finisce il nostro tentativo di relazionarci, se si escludono le sue occasionali escursioni non permesse nei miei pantaloni. Non c'è stato, in nessun modo e per nessuna ragione, un ragionevole svolgersi di eventi che possa ventilare l'ipotesi che io voglia andare a letto con lui. Quindi non so che cosa gli dia la certezza matematica che anche se per cento volte che me lo ha chiesto, io cento volte gli ho detto no, comunque mi si farà. Forse è questo che rende Chakuza così affascinante: è una creatura che non dovrebbe esistere in natura e invece, per uno sbaglio genetico o forse l'intervento di un ragno radioattivo, egli è qui di fronte a me.
“Patrick, ascolta...”
“No,” lo blocco subito. E poi non dovrebbe chiamarmi col mio nome di battesimo, non è corretto. Non si fa così tra rapper che non si conosco. Non è buona educazione.
“Non sai nemmeno che cosa voglio chiederti.”
“Ti pare di aver portato alla mia attenzione molti argomenti diversi nelle ultime... trecento mila volte che mi hai inchiodato in un angolo?” Gli faccio notare con un'alzata di sopracciglia.
Lui ride. “Magari questa volta è diverso.”
Non mi abbasso nemmeno a rispondergli.
“Insomma,” fa, avvicinandosi pericolosamente e, per altro, iniziando a spiegarmi una cosa che non voglio che mi spieghi perché sono sicuro che non ha assolutamente logica. “Le mie intenzioni le sai, okay? Ed è chiaro che lo vuoi anche tu...”
Qui mi chiedo se da queste parti dire molte volte no e lanciarti dall'altra parte della stanza con una spinta ben assestata sia un segno inequivocabile di disponibilità sessuale, come tra i gorilla o roba simile. “Quando, per l'amor di Dio, ti è sembrato che io fossi d'accordo?”
Lui non si prende la briga di rispondermi perché evidentemente questo, tra i gorilla, non è necessario, quindi mi ritrovo schienato contro il muro e lui è ovunque, che non so come faccia essendo quello che è, ma ci riesce. Mi coglie di sorpresa, quindi gli regalo qualche minuto di onnipotenza, ma poi mi riprendo e gli tiro un pugno in faccia. “Non parlavano tedesco gli austriaci?” Sbraito.
E sbraito principalmente perché lui non è che sia piegato in due dolorante. Sta anche quasi ridendo mentre si tiene la mascella. “Certo che ci vai giù pesante tu,” mi dice.
“E non hai ancora visto niente.”
“Cambierebbe qualcosa se io fossi Bushido?” Mi chiede, con un sorriso che potrebbe anche venirmi voglia di devastarlo.
“Vaffanculo,” sibilo.
Lui ride. “Non resisterai per sempre,” mi dice, convinto della propria supremazia. Sui puffi, immagino. “E alla fine cambierai idea.”
“No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no,” replico. “E lo sarà sempre.”
“Vedremo,” insiste, allontanandosi.
*
Parlavo di grilletti e di conseguenze deprecabili.
Io e Bushido riusciamo a rimettere insieme la canzone che stavo scrivendo e dal momento che dobbiamo lavorarci sopra anche a livello musicale, io mi perdo un po' dietro a questo progetto e non faccio caso a quello che mi succede intorno. Non faccio caso nemmeno al fatto che Chakuza non mi tormenta più. Si sarà stancato, penso.
Questo perché non so che la prima regola di Chakuza è che su queste cose non si stanca mai.
Ha solo diretto altrove i suoi sforzi e visto che li ha diretti su Bill, non ci ha messo molto ad ottenere quello che voleva. Ora, io questo lo vengo a sapere quando una mattina allo studio dell'etichetta arrivano insieme e Bill sta indossando quello che gli ho visto addosso ieri sera, una cosa che non capiterebbe mai, neanche se qualcuno gli desse fuoco all'armadio. A meno che non abbia dormito fuori casa. Certo potrei anche sbagliarmi, non è che ce l'ha scritto in faccia ma diciamo che il trovarlo poi disteso su un divano al piano di sopra con Chakuza addosso mi fa pensare che forse ho ragione. E non è che mi piaccia tanto averla.
Bill voleva questo fin dall'inizio ma lo voleva in maniera diversa, come succede sempre quando non chiarisci fin da subito il tipo di rapporto che vuoi avere con una persona. Lui è innamorato di Chakuza. Chakuza si sta solo sfogando. E non ho bisogno di conoscerlo da vent'anni per sapere che lo sta facendo, perché io non credo nell'amore eterno all'improvviso e ci credo ancora meno quando so che quest'uomo, non solo non ha mai dato a Bill più di un briciolo di attenzione in tutto il tempo che sono stato qui, ma come dicevo prima, ci provava con me. Quindi non credo proprio che sia sincero. Diciamo che il solo fatto che sembra particolarmente tenero con Bill solo quando gli allunga le mani addosso, ecco, non aiuta la sua presunta innocenza.
Io però sto zitto, perché non sono affari miei. E perché, dopotutto, potrei anche sbagliarmi – non credo, ma potrei – e tutto ciò che faccio è sperare che Bushido veda e intervenga, come il grande signore che vuole farci credere di essere, ma questo non succede.
Bushido non sembra nemmeno vederli, questi due. Voglio dire, sembra quasi che a chiederlo a lui non sia cambiato niente. Questi ogni tanto spariscono e lui non dice una parola. E dire che è casa sua, cioè, va bene l'ospitalità e tutto ma io non ce lo vorrei un austriaco che scopa al piano superiore. Il punto centrale della questione, non è che questi due si divertano, comunque. Voglio dire se fosse così, il problema non si porrebbe e io sarei un uomo felice, libero dall'ansia di dover fuggire alle grinfie di un altro uomo, una cosa che non mi è mai capitata nemmeno quando spacciavo droga. Il punto è che non è così. E giorno dopo giorno questa cosa è piuttosto evidente anche al primo che passa per strada, figuriamoci se non dovrebbe esserlo a Bushido.
Una sera, dopo che Chakuza si è alzato da tavola e ha annunciato al mondo che lui e Bill se ne andavano perché avevano da fare – con grande sorpresa di Bill, che non lo sapeva affatto e si è visto trascinare via praticamente di peso – decido che forse potrei anche parlare al tunisino e informarmi, così tanto per... E' che mi sento in colpa, come se quest'ondata vendicativa del nano malefico l'avessi scatenata io, negandomi com'era mio diritto fare. Solo che Bushido mi precede.
“Cosa c'è che non va?” Mi dice.
“A parte l'inquinamento e la fame nel mondo?” Chiedo, sollevando un sopracciglio. “Che vuoi dire?”
Lui prende uno stecchino dal tavolo e se lo infila in bocca, come faceva quand'era più giovane. Mi colpisce di nuovo la nitidezza del movimento. Solo il braccio si è mosso, tutto il resto di lui è rimasto immobile, come sempre si limita ai movimenti essenziali e nulla di più. Io questa cosa non ce l'ho mai avuta, mi agito un casino.
“C'è qualcosa che non ti torna,” commenta. “Sei nervoso.”
“Non sono nervoso,” protesto.
“Patrick.” Netto, proprio. Mi dice sempre così quando vuole che la pianti con le stronzate e mi muova a rispondergli o fare ciò che mi ha chiesto di fare. Ci vuole una certa abilità a racchiudere una richiesta del genere in sette lettere.
“Okay, senti, lo so che non sono affari miei,” butto lì. “Ma secondo me questa cosa tra Bill e Chakuza non va bene.”
Lui mi osserva ma non fa nient'altro. “Perché?”
“Perché Chakuza non è affatto interessato a Bill.”
Dopo qualche secondo di silenzio mi accorgo che annuisce, anche se piano. “Lo so.”
“E non fai niente?”
“Non posso fare niente,” mi corregge lui. “E poi non spet-”
“Le palle!” Esclamo. E non so nemmeno perché me la prendo tanto, davvero. Cioè, anche se fosse senso di colpa, voglio dire, non sono mica il fratello di quel ragazzino, Dio Santo. “Prima te lo tieni qui in casa nemmeno fosse un orfanello e non un cantante che vale miliardi. Te lo coccoli e tutto e fingi di proteggerlo da solo tu sai cosa, e quando arriva il momento di proteggerlo davvero, non spetta a te?”
Lui ascolta lo sproloquio e poi dice: “Vedo che non hai perso il vizio di interrompere sparando idiozie che ti saresti benissimo risparmiato stando a sentire.”
Arrossisco e fine del mio amor proprio. “Spiega,” sibilo, guardando altrove.
“Bill si è innamorato di Peter dal primo momento che l'ha visto, Dio solo sa perché,” inizia, alzando gli occhi al cielo. E io vorrei dirgli che non lo so neanch'io com'è stato possibile ma che, se non se n'è accorto, quell'uomo c'ha qualcosa negli occhi, quando ti guarda. Sarà libido, sarà strabismo o sarà che magari ipnotizza la gente, che ne so? Però lui farebbe bene a fare una ricerca su questo Pangerl per essere sicuro che non sia uno svalvolato qualunque in grado di friggerti il cervello con la sola imposizione delle pupille. Comunque non gli dico niente di tutto questo e lui prosegue. “Ho cercato di fargli capire che non era la persona adatta a lui ma non ha voluto ascoltarmi, perché è una testa dura, tale e quale a sua fratello. D'altronde sono uguali...” Non mi soffermo a chiedermi che cosa c'entri Tom Kaulitz in tutto questo. Se tre è una folla, quattro è un'invasione. Non mi sembra il caso di aggiungere un quinto elemento a questa già complicata equazione. “D'altra parte,” prosegue, “Chakuza può essere ingestibile quando s'impegna, ma non è cattivo. Quindi forse, chissà, magari Bill riesce a fare il miracolo.”
“Tu non credi a queste cose.”
Bushido mi passa una birra e poi ne apre una per sé. “No, infatti,” beve e guarda un punto indefinito sul pavimento. “Immagino sia arrivato il momento che Bill impari le cose come le abbiamo imparate tutti.”
Battendoci la testa.
*
Io però continuo a sentirmi in colpa, soprattutto perché non sto facendo niente anche se sono l'unico che, in definitiva, conosce tutti i dettagli della faccenda. Bushido, per dire, non ha idea che l'uomo tra le cui possenti braccia ha deciso di affidare il ragazzino, ci ha ripetutamente provato con me. Mi sento in dovere morale di agire in qualche modo, anche solo in funzione del fatto che sono stati i miei no a lasciare Chakuza libero di spezzare il cuore di Bill.
E dal momento che Bill non mi ascolterebbe mai, visto che non ascolta nemmeno Bushido, io decido di andare direttamente alla fonte di ogni male. Per estirparla, se possibile.
Chakuza passa alla Beatlefield un tempo variabile fra le due e le sei ore ogni giorno, dimostrando che c'è qualcos'altro nella vita che gli interessa oltre a saltare addosso alla gente. Ed è lì che lo trovo oggi pomeriggio, quando decido che è l'ora che qualcuno gli dica qualcosa.
Quando entro nella stanza non mi sente arrivare perché è girato di schiena e ha su due cuffie enormi che rendono la sua testa esageratamente buffa. Ho l'occasione di strangolarlo, se voglio, ma non ne ricaverei niente di buono: Bill che piange come una vedova inconsolabile, i titoli sui giornali e tutti i suoi amici e colleghi riuniti in una trasmissione che parlano bene di lui anche quando non lo pensano affatto. Così decido che posso iniziare schiarendomi la voce e quando si gira e mi vede, ha anche il coraggio di sorridermi come se l'ultima volta che abbiamo scambiato due parole noi due da soli non lo avessi mandato a quel paese.
“Fammi indovinare, hai cambiato idea?” Mi chiede, mentre il film che ha girato da solo riparte nella sua testa.
Quest'uomo è oltre la mia comprensione. “No, non ho cambiato idea,” commento, lanciando un'occhiata a quest'ufficio che sembra fatto a misura sua. E' uno sgabuzzino minuscolo con un gran casino dentro. Esattamente come lui. “Anzi, direi che sono ancora più convinto di prima.”
Lui solleva un sopracciglio.
“Quello che stai facendo a Bill è da stronzi,” commento.
Lui mi guarda con l'occhio rotondo che vorrebbe essere ignaro di ciò che sto dicendo, ma ovviamente non riesce perché non lo è affatto. “Non ti capisco,” dice.
“E' davvero innamorato di te, Chakuza,” insisto.
“Quindi?”
“Quindi dovresti smetterla di illuderlo,” sospiro. “Se è un giocattolo che ti serve, vai a cercare da un'altra parte.”
“Ad esempio?” Mi guarda e sorride. “Bill non è un bambino. Non ho fatto niente che lui non volesse.”
“A te non interessa di lui.”
Chakuza si stringe nelle spalle. “L'interesse è una cosa soggettiva, non credi?” Mi fa. “Scopare m'interessa. Quindi in sostanza, mi interesso di lui.”
E io lì potrei mettergli le mani addosso, anzi voglio proprio farlo. Tirargli un pugno come si deve sul naso e vederlo rotolare sul pavimento finché la sua testa tonda non prosegue per inerzia. E non tanto per Bill, cioè anche per lui ma fino ad un certo punto, è proprio una questione di principio. Tu non puoi guardarmi con quella faccia, con quegli occhi, con quel sorriso così sicuro anche dal tuo scarso metro e venti d'altezza e dirmi una cosa simile. Tu dovresti pagarla, cazzo, la gente per scopare. E' surreale che tu, proprio tu, possa dirmi una cosa tanto meschina nello stato in cui sei. No, davvero. Non ci si crede! Bill è tipo... cioè, è carino. Si merita di meglio, Dio Santo. Vorrei che fosse qui a cavarti gli occhi con quelle unghie!
E Bill c'è. Immobile sulla porta. Come poteva non esserci dopo quest'immensa piazzata in cui io vengo qui, nell'ufficio di quest'uomo, a sbraitare cose che non mi competono in difesa di un ragazzino che non è nemmeno cosa mia? E' una cosa di Anis, naturalmente. E altrettanto naturalmente Anis ha deciso che non deve metterci bocca, lasciare che il disastro si compia e poi non so, a quel punto fare la parte dell'angelo salvatore nella vita di Bill. Non so, forse. E' che se me la racconto così mi sembra anche plausibile e mi sento pure scemo ad essere qui.
“Ero... passato a trovarti,” dice Bill, anche abbastanza inutilmente. Il suo sguardo non si sposta mai da Chakuza.
“Sono occupato, al momento,” fa lui.
“Quello che hai detto è vero?” Chiede.
“Bill, ho da fare.”
E io mi chiedo: cosa ci stai a fare, qui, Fler? Qualunque sia il problema, non è un tuo problema. Quello che ti sentivi in dovere di fare lo hai fatto, ora puoi anche uscire.
“E' vero quello che hai detto?” Insiste Bill, serio. “Non... non te ne frega niente?”
“Bill-”
“Rispondi!” Sbraita.
“No,” è l'urlo esasperato di Chakuza. “Che cosa ti aspettavi? Sei tu che ti sei fissato che stessimo insieme, io non ti ho mai lasciato credere niente del genere!”
Bill apre bocca, ma non dice niente. Quello che succede dopo è che si avventa su Chakuza per colpirlo e lo fa. Chakuza però risponde e lo spedisce in terra con un ceffone che avrebbe steso anche me, forse. Lo vedo sbattere malamente contro la libreria e finire sul pavimento. Quando alza la testa ha gli occhi sgranati e un po' di sangue che gli esce dal labbro.
“Dico, ma ti ha dato di volta il cervello?” Lo aggredisco, raggiungendo Bill che non si sta alzando. Lo guarda e basta come a chiedersi perché si trova lì quando un attimo prima era in piedi. Gli tendo la mano e lui ci si aggrappa, barcollando.
“Smettetela di trattarlo come una ragazzina,” fa Chakuza. Nei suoi occhi c'è qualcosa oltre alla strafottenza, però. Evidentemente non si è reso conto della forza che c'ha messo. Immagino che questo almeno lo abbia scosso. “Non lo è.”
“Sto bene...” pigola Bill, scuotendo la testa. Si pulisce il sangue dalla bocca e lo vedo che guarda un po' ovunque, non so se per evitare di incrociare lo sguardo di Chakuza o se per rendersi effettivamente conto di quello che è successo.
“Non ti muovere da qui,” sibilo a Chakuza, mentre accompagno Bill fuori dall'ufficio.
Lui protesta, ma è un sacco confuso. Non dal ceffone, immagino, ma dal fatto che quello in cui credeva si è appena sgretolato come polvere. E' così che succede. Tu sei sicuro di una cosa, o almeno vuoi esserne sicuro, e quella come niente svanisce. Quando ci credi tantissimo e poi non funziona, devi fare i conti con il pugno di sabbia che ti rimane in mano. Non sai se aprire le dita e lasciare che quello che era scompaia del tutto, o stringerle e farti male, ma almeno sentirlo ancora un po'. Mentre lo faccio salire in macchina, alzo lo sguardo e vedo l'ombra di Chakuza alla finestra.
Io e te dobbiamo parlare.
*
“Sto bene,” mi ripete Bill, quando lo riporto nel suo appartamento.
So dove si trova perché Bushido ha il vizio di mandarlo a prendere e farlo riportare, quando lui è impegnato con qualcos'altro. La prima volta che mi ha chiesto di farlo pensavo che scherzasse. E invece lui era serissimo, com'è sempre serio lui quando gli vengono queste idee assurde. Anzi, più sono assurde e più lui è serio. Non dovrebbe stupirmi più di tanto, comunque. Per uno che pensa di essere il re dei re, suppongo sia normale dare ordini di questo tipo.
Lo faccio sedere sul divano e medito sul da farsi. Alla fine gli dico di aspettare e m'infilo in cucina, col telefono premuto contro l'orecchio.
“Che succede?” La voce di Bushido è tesa. So che registrava qualcosa oggi, quindi devo averlo disturbato. E questa telefonata mi è così familiare che quasi mi commuovo. Ricordo quando eravamo nel quartiere e succedeva casino con una consegna, che mi toccava chiamarlo perché non riuscivo a sbrigarmela da solo.
“Il ragazzino... “ inizio. “Senti, è un casino, magari è meglio se vieni.”
Io non lo so come faccia, ma capisce subito al volo. Ce l'ha sempre avuta questa cosa di capire le situazioni anche quando aveva solo la metà delle informazioni che gli servivano. Così mi dice: “Sto venendo lì, aspettami.” Che mi chiedo come facesse a sapere che volevo andarmene.
Arriva dopo venti minuti, Bill li ha passati sul divano ad abbracciarsi le ginocchia. Non ha ancora pianto ma non ha detto neanche niente e io, sinceramente, non so da che parte prenderlo. Così me ne sto qui sulla poltrona e lo guardo. Dopo un po' gli chiedo: “C'è qualcosa che posso fare?” e lui risponde: “No,” e poi “Anis viene?”
Gli dico che sta arrivando e questo sembra rassicurarlo. Annuisce e poi torna ad accoccolarsi su se stesso, guardando il pavimento.
Mi aspetto di sentire il campanello ma, a quanto sembra, Anis ha le chiavi di casa, qui. Quando sente aprire la porta, Bill si getta letteralmente nel corridoio e sento lo sbuffo ovattato del suo corpo che si scontra con quello di Bushido. Quando li raggiungo, Bill sta piangendo e Anis lo stringe a sé in silenzio, come se non ci fosse bisogno di nessuna spiegazione.
Mi ipnotizza la sua mano che gli accarezza la nuca, con il movimento lento e rodato di chi è abituato a farlo spesso. Mi chiedo quante serate ha passato a cercare di tranquillizzarlo e per quali e quanti motivi. Mentre li osservo non posso fare a meno di notare come le sue dita conoscano il corpo di Bill e chiedermi distrattamente se questo non dovrebbe significare qualcosa.
Guardarli mi mette a disagio, così tossisco e Anis solleva la testa. Mi guarda. “Devo andare,” dico un po' confuso. “Qui, ci pensi tu?”
Lui mi osserva e mi sembra quasi che sappia perfettamente cosa sto per fare, la cosa non dovrebbe inquietarmi come invece fa. “Sì, non preoccuparti.”
*
Da Chakuza ci arrivo nella metà del tempo che occorre ad una persona normale che rispetta le regole della strada e non curva su due ruote. Non so esattamente cosa gli dirò prima di sbatterlo contro un muro e tirargli tante di quelle botte che nemmeno sua madre saprà riconoscerlo. Non so nemmeno se gli dirò qualcosa prima di farlo o se invece prima lo ridurrò uno schifo e poi, forse, gli dirò qualcosa. Devo ancora decidere.
Parcheggio di traverso sotto lo stabile della Beatlefield che è una sorta di casermone fatiscente in cui tendenzialmente uno non penserebbe di poter registrare nemmeno una canzone alla radio, figuriamoci interi cd. Alzo lo sguardo verso la finestra, ma l'ombra del nano non c'è già più. Immagino sia tornato a fare quello che stava facendo prima di tirare un ceffone a Bill, il che, suppongo, fosse nulla, visto che nel poco tempo che sono stato lì non ha fatto altro che spostare fogli stampati da una parte all'altra della scrivania.
Agli studi della Beatlefield non c'è nessuno che controlli la porta, un usciere, tipo; forse perché il proprietario della Beatlefield è l'usciere dell'Ersguterjunge – chiunque, nel giro, ha visto il video su internet in cui Chakuza apre la porta – e quindi suppongo che un usciere non possa davvero avere un usciere anche lui. Sto delirando.
Salgo le scale a due a due e gli spalanco la porta dell'ufficio, senza chiedere il permesso. Lui allontana gli occhi dallo schermo del pc per guardarmi. Visto che non ha le cuffie stavolta mi ha sentito. Ci guardiamo per un tempo infinitamente lungo, durante il quale gli lascio la possibilità di alzarsi in piedi. Non che faccia molta differenza, dal momento che anche in piedi sembra seduto, ma credo che se devo pestarlo, è più giusto che stia sulle sue gambe, prima che gliele spezzi.
Sto per aprire bocca e dirgli non so cosa, perché sono cosciente che il mio cervello non ha ancora processato un discorso coerente in mezzo a tutta questa rabbia ingiustificata che provo nei confronti di quest'uomo che conosco appena, ma lui mi anticipa. “Se pensi che mi scuserò, sei fuori strada,” dice, interrompendo il contatto visivo per riprendere a sistemare sul tavolo. Stavolta ripone dei fogli in un faldone e attraversa la stanza per metterlo in una libreria. “Io non sono dispiaciuto per come sono andate le cose.”
Io lo seguo con lo sguardo, perché oggettivamente non so se non si rende conto che sta dicendo cose per le quali dovrei picchiarlo. Sembra tranquillo.
“Certo,” continua, “non sono qui a ridere come un invasato al pensiero di aver ferito Bill ma non me ne faccio neanche una colpa. Ognuno prende le cose come vuole e non è una mia responsabilità se lui ha deciso di prenderle così.”
Io sono senza parole. Dico davvero. Uno può anche decidere di farsi due piani di scale malridotte di corsa, può infilarsi in testa di prendere quest'uomo e sbatacchiarlo un po' dovunque per vedere se da quella testa tonda esce qualcosa. Dico, io queste cose le ho pensate e le penso ancora, ma di fronte alla naturalezza con la quale mi dice che se Bill adesso sta male è perché ha deciso di prenderla in un modo piuttosto che in un altro, io resto basito. Ho ancora voglia di farlo a pezzi, ma per il momento sono basito e basta. “Tu sei un pezzo di merda,” dico. E mi esce così, nemmeno come un'esclamazione. E' un dato di fatto, tipo. Non lo so. Lo sto solo informando di quello che dovrebbe essere oggettivamente riconosciuto dall'universo, quindi suppongo anche da lui.
Cioè lui deve sapere che è un pezzo di merda. Io non tollero l'idea che lui non lo sappia.
“Forse,” dice lui, scorrendo le dita tra altri faldoni in cerca di uno in particolare. “O forse no. Forse sono solo uno che vuole delle cose e quando non può ottenerle si arrangia.”
Si gira a guardarmi e mi trova sulla porta, perfino con la bocca un po' aperta credo, non lo so, perché tutto mi aspettavo tranne che sentirlo dire queste cose da genio del male. “Io volevo te. Non ti ho avuto e mi sono arrangiato,” solleva una spalla. “Che cosa dovevo fare? Andare a puttane per il resto della mia esistenza per non spezzare il cuore della povera ragazzina innocente, che per altro mi voleva? Bushido non mi paga abbastanza.”
Quand'ero un ragazzino, Bushido mi diceva sempre che ogni uomo ha due interruttori. Uno per quando è felice – e quello possono premerlo solo le donne, Patrick. E rideva come un cretino, fin quasi a soffocarsi, con la birra che gli usciva dal naso – e uno per quando s'incazza. Sta qui, mi diceva spingendomi forte con due dita sulla pancia. Sta in fondo allo stomaco. E quando scatta, non ce n'è più per nessuno anche se spesso, non sai nemmeno bene perché.
Ecco, il mio è appena scattato. E non so il perché, di preciso, tra tutte le stronzate che gli stanno uscendo di bocca. So solo che sono più incazzato di prima. “No, tu non volevi me, cazzo! Tu volevi un buco qualsiasi in cui infilarti” Sbraito, avvicinandomi.
“Se vuoi vederla così...”
“Non cercare di passare per quello deluso che c'è magari stato anche male, perché-”
“Perché cosa, Fler?” E la sua voce rimbomba. Me la sogno, io, un urlata a quei livelli. “Eri forse nella mia testa? Sai per caso come mi sono sentito a venirti dietro per settimane e non ottenere un cazzo di niente? Sai cosa pensavo o cosa provavo?”
Io non rispondo mentre lui mi si avvicina. Sono arrabbiato e spiazzato. Okay, sono più spiazzato che arrabbiato. Queste non sono parole da genio del male. Forse lo preferivo prima.
Si ferma di fronte a me e per una volta il fatto che mi arrivi a malapena ad una spalla non conta molto, perché in faccia c'ha un'espressione così sofferente che mi chiedo dove sia andato l'ometto di prima che diceva che era colpa di Bill se Bill stava male.
“Non solo sono pronto a scommettere che non lo sai,” si risponde da solo, “Ma scommetto anche che non te lo sei nemmeno chiesto. Non t'importava proprio. Perciò Vaffanculo! Non provarci nemmeno a farmi la morale!”
Ora io potrei stare qui a raccontarvi del sole che picchiava attraverso il vetro della finestra senza tende di questa topaia, dritto sul testone lucido di quest'uomo e di come l'ho picchiato finché non ha chiesto pietà e ha promesso di chiedere perdono a Bill. Potrei, dico, la fantasia non mi manca. Ho inventato tante di quelle balle nel corso della mia vita, che potrei benissimo scriverci un romanzo e sarebbe pure credibile. Il punto è che non ha senso arrivare fino a qui e poi raccontarvi la fine di qualcun altro. La verità è che io Chakuza non l'ho menato. Lo inchiodato alla libreria, ho fatto cadere i faldoni e gli ho infilato la lingua in bocca. E sul perché, che il cielo mi perdoni, ci devo ancora ragionare. Il punto è che non mi viene tanto bene mentre rotoliamo sul pavimento. Lui mi sta artigliando gli avambracci ai quali si è aggrappato mentre lo tiravo giù e ora è un gran miscuglio di gambe e di braccia mentre più che baciarlo lo mordo e lui più che stringermi graffia.
“Il tuo problema,” ringhio mentre lo inchiodo sul pavimento e non so più nemmeno dove ho le mani. “E' che sei un cretino.” Sento le sue mani scorrermi sullo stomaco e poi sulla schiena. Stamattina, quando mi sono svegliato, non avevo idea che sarei finito ad avere i pollici di un uomo nell'ombelico. “Avresti dovuto aprire bocca e parlare, invece di saltarmi addosso.”
“Non ti sta dispiacendo,” fa lui e m'infila un ginocchio tra le gambe. Nel farlo mi fa male, cazzo, quindi si becca un morso.
“Sono stato io a saltarti addosso ora,” puntualizzo.
Lui ghigna. “Io te l'avevo detto che lo volevi anche tu.”
Quest'uomo è senza pudore e mentre su questo pavimento sembriamo fare a cazzotti, più che scopare – e io non l'ho detto davvero – il pudore lo perdo anch'io, perché mi attacco alla sua maglietta e la strattono. Sono sempre più convinto che quest'uomo emani feromoni di qualche tipo. Ed è per questo e solo per questo, che io sono qui disteso sul pavimento di questo studio dimenticato da Dio e gli permetto cose.
Cose del tipo che sono disteso su di lui e lui ha una mano nei miei pantaloni. “Ti ho forse dato il permesso?” Sibilo e cerco di farlo sembrare un ringhio virile, non una specie di mugolio perché le sue dita mi stringono abbastanza bene da chiedersi se quest'uomo non abbia passato gli ultimi mesi a masturbarmi nel sonno, per conoscermi tanto bene.
“Io non chiedo il permesso.”
Gli allontano la mano tanto forte che batte il dorso in terra. “Beh, impara a chiederlo perché potrei farti del male, altrimenti,” lo minaccio a due centimetri dal viso. Grave errore.
Lui m'infila una mano dietro la nuca e mi tira giù. “Sta zitto,” sibila, per poi baciarmi.
Quest'uomo non dovrebbe davvero poter fare di queste cose, non dovrebbe potermi schienare, non dovrebbe potermi togliere tutto quello che ho addosso ed entrarmi dentro. Non dovrebbe essere così eccitante quando lo fa, anche se fa male e vorrei pestarlo. Stringo le dita intorno al tappeto che si arriccia contro le mie falangi mentre le sue spinte si fanno più forti e so, anche senza vederlo, che quel poco di cervello che ha gli si è spento dieci minuti fa. “Ti dispiace darti una controllata?” Sbraito.
Lui in risposta mi morde una spalle e un dolore copre l'altro. Più o meno.
Quando scende a toccarmi penso che ho sofferto dolori peggiori in passato, così appoggio la fronte al tappeto, inspiro ed espiro mentre mi accarezza. L'ultima pensiero coerente prima dei nostri grugniti quasi contemporanei – ma non del tutto, perché non siamo affatto perfetti – sono io che mi chiedo come abbia potuto col suo unico neurone mantenere la coordinazione e fare tutto quanto discretamente bene.
*
Siamo su questo tappeto da, non so, ore credo.
“Nano, che ore sono?” Chiedo, sovrappensiero.
E' tutto arricciato contro la mia schiena, così riesce bene a tirarmi una ginocchiata dietro una gamba. “Vaffanculo.”
“Che ore sono?”
“Non ne ho idea,” commenta. “Non ho più neanche l'orologio.” La risata che gli scappa dalla bocca mi vibra per tutta la spina dorsale. Sorrido anch'io.
“Potrebbe entrare qualcuno?”
“Molto probabile,” dice calmo.
“E la cosa non ti turba, immagino.”
Scuote il capo rotondo. “Nemmeno un po'.”
“Devono essere abituati a trovarti nudo come un verme sul tappeto.”
“Non con un uomo,” rimane disteso mentre io mi siedo, alla ricerca della mia maglietta.
Mi vesto in silenzio, poi gli lancio un'occhiata. “Senti ma....”
“A cena,” mi ferma subito lui e quando aggrotto le sopracciglia è l'ora che finalmente si tira su anche lui e smette di mostrarmi la mercanzia che non sono ancora abituato a vedere. Non è che ci sia venuto a patti con quest'idea. “Facciamo che ne parliamo a cena. Ti va?”
E penso che questo sia un invito, credo.
Mi va, penso. Ed è tutto lì.
Un'altra delle mie certezze che se ne va.
Ed è colpa di Bushido.
Nella mia vita ho sempre avuto pochi punti fermi. Quando vieni al mondo senza un padre e tu e tua madre avete così pochi soldi che non sapete mai se il giorno dopo arriveranno con le ruspe a portarvi via la casa, lo capisci subito che niente rimane mai del tutto certo e che da un momento all'altro potrebbe ribaltartisi il terreno sotto i piedi. Per questo impari a non fidarti di nessuno perché tanto sai che bene o male, così i fatti della tua vita, anche le persone prima o poi ti gireranno il culo e se ne andranno per la loro strada.
Io ho imparato a fidarmi solo di me stesso a cinque anni, il giorno che mia madre mi lasciò come un cretino davanti al portone della scuola quando invece avrebbe dovuto venirmi a prendere. Io esco e vedo tutti i miei compagni di classe che si gettano tra le braccia delle loro madri e della mia neanche l'ombra. Così mi siedo, aspetto, ma lei non viene. Aspetto fino a quando la bidella non si rende conto che io sono lì da chissà quanto e allora cerca di rintracciare mia madre. Quando sono cresciuto ho capito che quel giorno lei era solo troppo presa dai suoi debiti e si era dimenticata per quello, mica perché non mi volesse bene – io non ce l'ho con mia madre – ma certe cose ti segnano e in qualche modo non te le levi di dosso più.
Io però non sono un pessimista. Io non penso che le cose andranno sempre male, metto solo in conto che potrebbero farlo, così mi preparo psicologicamente alla colata di merda che poi viene giù. Una parte di me, però, ci spera che tutto vada bene. E' per questo che alla fine, nel corso dei miei ventisette anni, un po' di costanti le ho messe da parte. La costante più grossa, quella che proprio non posso ignorare è Anis. E non tanto lui in quanto lui, che voglio dire sì potrebbe anche costituire una variabile costante della mia vita di per sé, ma in particolar modo quello che intorno ad Anis si crea, si distrugge e gravita.
Anis non è una persona normale. Voglio dire, un ragazzo che a diciassette anni è già uno degli spacciatori più noti del quartiere è uno che si avvia a passare più tempo in galera che a casa, o a diventare un rapper di fama mondiale, o magari a crepare giovane. Una delle tre cose, ma di certo non è normale. Questo tipo di persone generalmente sono dotate o di armi estremamente pericolose o di molto fascino. Anis aveva solo una Heckler risalente con ogni probabilità all'anno di fondazione della fabbrica e un coltellino a serramanico che, sì, poteva farti l'appendicite ma per stenderti dovevi proprio mirare alla giugulare e non è che Templehof fosse una giungla dove la gente combatteva corpo a corpo. Più che altro si sparava, quindi il coltello serviva a tagliare la roba e a dimostrarsi molto cazzuti. In quanto alla pistola, Anis l'ho visto sparare due volte e vorrebbe dimenticarle entrambe anche lui perché ci ha perso più di quanto ci ha guadagnato. Insomma, questo per dire che il signor Ferchichi aveva molto carisma.
Il problema delle persone come Anis, che spargono fascino intorno a sé come fosse colonia e chiunque lo annusi anche solo di striscio finisce poi per corrergli dietro come un cagnolino, è che generano caos. Voglio dire, Anis non è una persona cattiva. Ha rubato, spacciato, ha anche ammazzato, okay, ma di base non è uno cattivo. Quello che ha fatto, lo ha fatto perché era l'unico modo che conoscesse di sopravvivere nell'ambiente in cui il buon Dio aveva deciso di farlo crescere. Non è che lui un giorno si è svegliato e ha deciso che avrebbe fatto il delinquente. Lui, se lo conosco bene – e sì, lo conosco bene – si è svegliato una mattina e ha deciso che avrebbe governato la Germania, perché è egocentrico e megalomane, ma visto che di studiare, fare carriera e magari candidarsi in politica non aveva possibilità, ha percorso l'unica altra strada possibile e si è messo a spacciare per diventare un boss di quartiere. C'è da dire che ha avuto il culo di diventare famoso cantando, così adesso non ha bisogno di contrattare per l'eroina e ha i soldi e la faccia sufficienti per candidarsi. Vedete? Obbiettivo raggiunto. Ma in tutta questa strada, lui non ha mai pensato di rovinare la vita delle persone o di generare meccanismi di distruzione. Lui ha fatto solo quello che voleva, sono gli altri – siamo noi, tutti – che gravitandogli intorno come satelliti abbiamo finito per cozzare e farci del male. Non incolpi il sole perché attira i pianeti, in fondo con la sua forza li tiene anche insieme, no?
E io non incolpo Bushido se è successo quello che è successo – perché davvero non ne ha colpa, non era nemmeno presente il più delle volte – però so che è lui il motore scatenate di questa tragedia. E' stato lui a mettere per primo il dito sulla tessera del domino che poi si è portata dietro tutte le altre. Quindi è da lui che devo iniziare a raccontare.
Otto settimane fa, l'Aggro Berlino ha iniziato a chiudere.
Un'etichetta è un'attività come qualsiasi altra, per cui per chiuderla non impieghi né più né meno del tempo che impiegheresti a chiudere la bottega di un salumiere. Innanzi tutto bisogna decidere di chiudere e poi inizia la lunga trafila burocratica che è sostanzialmente composta da troppi fogli in doppia copia con altrettante firme. Ora, generalmente chi lavora per una certa etichetta, sa che questa chiude dopo che l'ultima firma è già stata messa, a meno che non ci sia la volontà di aprire un'altra etichetta e di trasbordare un po' degli artisti in questa nuova attività. Sido non voleva niente del genere. Sido voleva semplicemente chiudere bottega, sedersi sul suo divano e contare il mazzetto di soldi che gli avrebbero dato come conseguenza, dopodiché alzarsi, cambiare look, genere e atteggiamento e rivendersi da solo sul mercato come l'uomo che si è ravveduto, ha fatto pace con la sua ex e ora porta il bambino a spasso, un po' infastidito dall'attenzione mediatica, anche. Una cosa ben più disgustosa di ciò che ha fatto Anis, che per lo meno è sempre stato una testa di cazzo con manie di grandezza, non è che passando alla Universal ha agito fuori dal suo personaggio. Ha tradito me, ma non è questo il punto.
Sido ha l'accortezza di invitarmi fuori a pranzo per dirmi che ha intenzione di chiudere l'etichetta, questo otto settimane prima che ciò avvenga. Lo fa, mi dice, perché è anche grazie a me che l'etichetta è andata avanti dopo la defezione del tunisino – come lo chiama lui – e che così posso guardarmi un po' in giro e vedere se ci sono altre direzioni da prendere. Grazie, penso, meno male che me lo hai detto, stronzo. Ci mancava solo che arrivassi un giorno, mentre io qui sto già preparando roba per il prossimo album, e con il tuo bel sorriso tirato da ragioniere mi avvertissi che la baracca chiudeva, così di punto in bianco. Ovviamente io non posso avvisare nessuno, quindi passo tutto il tempo che mi resta in tensione e mi sento anche un traditore perché io già mi sto muovendo per pararmi il culo ma nessuno qui ha idea di cosa li aspetta.
Anis a quel punto deve subodorare qualcosa. Non so se è lui che annusa l'occasione come un cane da tartufo o io che mi muovo un po' troppo goffamente tra i nuovi produttori, fatto sta che a tre giorni esatti dalla chiusura lui mi telefona e m'invita a cena a casa sua.
Casa di Anis è un vergognoso spreco di spazio. Lui ci vive da solo e anche volendo credere alle voci che lo dipingono mentre si intrattiene con un numero elevato di procaci signorine tutte quante assieme, il numero dev'essere per forza minore delle stanze che possiede o gli verrà un infarto prima dei quarant'anni. Questo è quello che penso quando ci metto piede per la prima volta e una volta in salotto mi sembra di stare in mezzo ad una reggia. Diciamo che è stato abbastanza stronzo da incontrarmi dopo quasi sei anni in un terreno famigliare soltanto a lui e, soprattutto, uno che mi facesse sentire estremamente inadeguato. Ma casca male, perché è stato lui ad insegnarmi che anche se vieni dalla merda questo non vuol dire che non vali niente, quindi io lo saluto con una scrollata di capo e dei suoi pavimenti in marmo me ne infischio totalmente.
E questo è tutto ciò che succede, facciamo pace così. Due settimane dopo decide che è arrivato il momento per un altro Carlo Coxx Nutten e quello è il vero inizio della fine.
Imparo fin da subito che Sonny Black non ha abbandonato l'idea di un regno diventando Bushido e quindi la prima cosa che mi tocca fare, dopo aver conosciuto il re, è conoscere la sua corte. Io non so perché mi tocchi quest'onere. Suppongo sia perché questa corte non è composta da un gruppo di persone che lavorano per lui, ma da un gruppo di persone che è legato a lui per le motivazioni più svariate e lui non solo vuole farmele conoscere perché è orgoglioso e tronfio di avere una corte ma perché da qui in avanti ne farò parte anch'io – come ogni altra persona che intorno a lui gravita – e non posso non conoscere i miei compagni di sventura. Alla trappola di Anis non c'è mai veramente scampo – gli vendi l'anima, è come stare appresso al demonio – ma se avessi voluto scappare, allora forse non avrei risposto alla sua telefonata.
L'impatto iniziale non è negativo. Voglio dire, quando faccio la mia comparsa sulla porta dell'Ersguterjunge ne seguono due minuti di insulti ma, in generale, poi tutti si placano e la scelta del sovrano è unanimemente accettata senza un fiato. La cosa, devo dire, un po' m'inquieta perché è come osservare un gruppo di ipnotizzati pronti a saltare come conigli al primo schiocco di dita. Mi vengono in mente le riunioni all'Aggro Berlin dove qualunque decisione doveva essere presa al vaglio urlando e poi finiva che Sido decideva per tutti, mandandoci ripetutamente a zappare l'orto in maniera molto meno fine. E la cosa, per quanto poco professionale, mi sembrava molto più sana. La riverenza che si respira in questo posto mi ricorda la riverenza che avevo io per lui a quattordici anni, mentre sul muretto di fronte alla stazione mi raccontava com'è che bisognava contrattare con i nigeriani.
Ricordo all'improvviso che il mio rapporto con Bushido non è mai stato neanche lontanamente vicino all'amicizia. Era qualcosa che l'amicizia la superava e poi se ne allontanava così tanto che a guardarci da fuori non lo so esattamente cosa si vedesse. Lui mi ha fatto da padre quando ne avevo bisogno, ma quando poi ho imparato a farne a meno lui si è trasformato in qualcos'altro. E allora abbiamo smesso di dare un nome a quello che rappresentava. Mi chiedo come ci abbia visto questa gente che lo ha conosciuto dopo che abbiamo litigato, cosa sappiano di me. Niente, immagino, perché Anis non poteva dirgli quello che siamo, visto che quello che siamo non ce lo siamo mai detti neanche tra di noi.
Quel primo incontro tra me e loro, come dicevo, non va poi così male ma nel gruppo di persone presenti quel giorno mancano le due più importanti e le conoscerò qualche tempo dopo, per caso – o forse perché Bushido ha deciso che il caso facesse come voleva lui – a casa di Anis.
Tutti sanno che Bushido un giorno ha deciso che si sarebbe seduto sul divanetto di uno studio televisivo, avrebbe guardato in camera e avrebbe chiesto a Bill Kaulitz del sesso orale. Questo per due ragioni fondamentali: la prima, è che questo avrebbe aumentato l'immagine da stronzo strafottente che si era creato con tanta cura. La seconda è che Bill è famoso, molto famoso, e chiedere un pompino ad una principessa come Bill in diretta televisiva avrebbe fruttato un sacco di soldi, ascolti, e fan aldilà di una frontiera che mai e poi mai si deciderà a valicare. Quello che tutti non sanno è che questi due sono amici. Ma amici veramente, intendo. Anis ha preso questo ragazzino travolto da un successo più grande di lui e lo ha praticamente preso sotto la sua ala – lo ha strapazzato un po' nel processo, d'accordo, ma questo è un atteggiamento molto da lui. La sua è una tenerezza molto ruvida.
Quando incontro Bill, inizialmente mi chiedo cosa ci stia a fare lui in casa di Bushido e perché, fra tutte le cose possibili, sia seduto in pigiama sul suo divano a mangiare waffle freschi appena sfornati. Lo guardo e lui mi sorride. “E' da tanto che volevo conoscerti,” mi fa, dopo essersi presentato educatamente, senza dare per scontato che io conosca il suo musino truccato solo perché è stampato su qualsiasi superficie disponibile. “Ma Bu non voleva... fino ad oggi.”
Bu? So che in questo momento mi passa per il cervello ogni genere di possibilità, ma poi mi dico che qualunque sia il motivo che spinge Anis ad accettare questo nomignolo deve aver a che fare con qualcosa che davvero non voglio sapere. Voglio dire, io entro in questa casa e Bill Kaulitz – non propriamente un modello di mascolinità – ha tutta l'aria di averci passato la notte e di averlo fatto spesso, anche! E poi il nomignolo.
Io sapevo che Bushido era molto etero, ma so anche che è molto fisico. E molto disposto a superare certe barriere se in quel momento lo ritiene necessario. E poi questo ragazzino sembra una ragazza, non lo so. Quindi due più due...
E invece no. No nella maniera più assoluta. Questo lo scopro ovviamente una sera a caso nei mesi successivi, quando alla fine non ce la faccio più e l'ennesima volta che trovo il ragazzino che dorme nel suo letto gli faccio notare che poteva anche dirmelo che aveva passato la sponda. La butto lì così, un po' sul ridere, ma in realtà sono nervoso come non mai perché non chiedi mai veramente una cosa del genere ad un altro uomo con leggerezza. Non quando ha effettivamente un ragazzo nel letto. Ricordo che Anis ha riso e ha detto: “Bill non è una principessa che spetta a me.” Ora lo so cosa voleva dire e mi piacerebbe poter tornare indietro nel tempo, dare due sberle a Bushido per la leggerezza con la quale ha affrontato la questione, poi prendere Bill in braccio e portarlo via. Ma in quel momento io non so proprio niente, quindi sollevo solo un sopracciglio e dico: “Quindi tu e lui, non...”
“No, Patrick,” quindi si alza e mi passa una birra, cambiando discorso.
Da quel momento, parlare con lui di Bill in questi termini è assolutamente fuori questione. Non è che si arrabbi, ma fa sempre in modo di cambiare argomento. E allora lo osservo trattare questo ragazzino assurdo come se fosse uno dei suoi, ma un po' più speciale degli altri. E vedo gli altri che si adeguano ai voleri del re e gli fanno spazio perché sia adeguatamente protetto, da chi e da cosa non importa. La protezione di Bushido non implica necessariamente che ci sia qualcuno che ti voglia male adesso. E' come un rifugio. Proteggerti è il suo modo di esserti amico e siccome non è in grado di relazionarsi con le persone senza possederle in un modo o nell'altro, Bill è diventato una cosa sua. Una cosa che lui sta curando.
Il giorno che lo trovo a mangiare i waffle sul divano di Anis, è anche il giorno che scopro Chakuza, anche se scoprire forse non è la parola più giusta. Non è che io non conoscessi Peter Pangerl, voglio dire, non vivevo sotto una roccia e poi Sido lo aveva inserito nel suo grande elenco di gente a cui tirare della merda, per cui lo sapevo chi era. Non mi aspettavo di trovarlo nella cucina di Anis, però. Ricordo perfettamente che ad un certo punto mi sono anche chiesto cos'altro nascondesse quella villa, dal momento che non era poi così vuota. Comunque sia, il nodo centrale della mia scoperta è che Chakuza è colui che prepara i waffle. Immaginatevi la scena: Bill mi saluta e poi trotterella scalzo verso la cucina. Io lo seguo con lo sguardo e trovo quest'uomo alto un barattolo che prepara dolci in una cucina non sua. Grazie a Dio, penso, almeno non è in pigiama.
Il ruolo di Chakuza in questa faccenda mi è inizialmente molto chiaro, nel senso che l'austriaco è comproprietario della Beatlefield e la Beatlefield è finanziata dall'EGJ, di conseguenza quest'uomo lavora per Bushido. Non solo, ma a giudicare dal ciarpame che quest'etichetta produce, lui è anche uno che ci sa fare e Anis ci tiene molto. Pare che Chakuza lo abbia proprio inseguito, Anis, per farsi ascoltare e la sua testardaggine lo ha premiato perché adesso Anis non fa un passo senza di lui. Ma non è questo che mi sconvolge in quel momento e non è neanche il fatto che stia cucinando e fischiettando mentre lo fa. Quello che mi sconvolge è che quando sente entrare Bill si gira e incrocia il mio sguardo. Per un istante lunghissimo, tipo, non lo so, mille ore, io rimango lì così a guardarlo e non so nemmeno perché visto che lui è oggettivamente bruttino, e lui fissa me e dallo sguardo che ha penso invece che io non sia tanto bruttino per lui. Se ci penso, immagino che avrei dovuto chiedermi di lui come mi ero chiesto di Anis, ma per qualche motivo non mi è venuto di farlo. Forse perché lui ce l'aveva scritto in faccia che mi si sarebbe saltato addosso anche subito, che ne so?
Comunque, dicevo, che inizialmente il suo ruolo in questa casa – che poi è il centro dell'Universo di Bushido, perché c'è sempre gente che entra, che esce, che resta a dormire, cucina, fa i piatti e gioca ai videogiochi. Tutto qui, come se fosse una specie di casa comune – mi era apparso quasi cristallino, ma in effetti sarebbe stato troppo semplice che questo austriaco fosse qui a cantare in rima e a fare dolcetti. Cioè, forse non cristallino ma sensato o forse nemmeno quello. In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.
Nel corso delle settimane successive mi rendo conto di due cose: Bill è perdutamente innamorato di Chakuza e Chakuza vuole disperatamente entrarmi nelle mutande. Ovviamente le due cose creano un incidente diplomatico che non ha bisogno di nessuna spiegazione. Io qui dovrei aprire bocca, magari parlare con Bill, o con Anis, ma non lo faccio. L'unica cosa che mi permetto e continuare a rifiutare con insistenza gli insistenti tentativi di schienarmi di Chakuza.
Volendo analizzare entrambe le situazioni non credo di essere in grado di trovarne le cause o le motivazioni. Voglio dire, Bill è una creatura estremamente delicata e non è sfuggito a nessuno, nel mondo, che è molto carino e che ha un certo senso estetico. Come questo senso estetico gli abbia permesso di trovare Chakuza appetibile, io non lo so. E non voglio nemmeno saperlo, perché se ripenso al modo in cui Chakuza mi ha guardato la prima volta che l'ho visto, forse una motivazione la trovo e non credo che sia sano per me farlo.
Ad ogni modo, accorgersi che Bill è innamorato non è difficile. Il ragazzino è piccolo, nella testa, ma soprattutto nel cuore, quindi la sua attrazione per quell'uomo lo coinvolge a tutti i livelli e fa sì che in sostanza non veda praticamente nient'altro, nemmeno il fatto che Chakuza non è dello stesso avviso. Quando siamo da Bushido o alla sede dell'Ersguterjunge, Bill non fa che trotterellargli intorno e cercare il suo sguardo in continuazione. E' di una tenerezza disarmante, perché lo vedi che evidentemente è la prima sbandata che si prende e fa i salti mortali per anche solo sederglisi accanto. Tutto questo suo gran frullare di ciglia, però, non serve a molto perché Chakuza non sembra affatto interessato. Gli dedica poca attenzione, anche quando Bill praticamente gli muore davanti, addosso e lo ascolta come se dalle sue labbra uscisse la verità del mondo. Inizialmente penso che lo faccia perché non vuole incoraggiarlo, poi mi trovo schienato nel gabinetto dell'Ersguterjunge e, improvvisamente, la questione mi appare più chiara.
Ora, io sono piuttosto alto, sfioro quasi i due metri, e sono grosso di costituzione. Perfino da piccolo ero alto e largo il doppio di tutti i miei compagni. Ero uno di quei ragazzini, per intenderci, che quando li vedi accanto ai loro coetanei pensi che siano di due o anche tre anni più grandi. E adesso che sono passati anni e che con la palestra ho perso un po' di goffaggine e ho guadagnato dei pettorali, sono un discreto armadio, so di esserlo e quindi non sono abituato ad essere sbattuto contro una superficie. Non da un uomo che all'età di nove anni deve aver smesso di crescere. Chakuza mi arriva allo sterno, capite? Eppure riesce a prendermi e spostarmi di peso contro la porta di un gabinetto. Non voglio nemmeno giustificarmi dicendo che mi ha colto di sorpresa, perché non lo ha fatto. Io stavo camminando lungo il corridoio e lui mi veniva incontro dalla parte opposta. L'ho visto arrivare! Eppure non è servito.
“Che cosa vuoi?” Chiedo.
“Non pensavo di doverlo spiegare,” fa lui, tenendomi schiacciato contro la porta con il bacino. Credo che sia il suo modo di consegnarti il biglietto da visita, o una cosa del genere. Mi permetto di notare che ha della motivazione con sé e poi mi permetto anche di dimenticarmi istantaneamente di averlo pensato anche solo per un secondo. Non so cosa mi prende, ma è sicuramente colpa di Bushido.
“Chiedere non si usa più?” Vorrei che la domanda suonasse molto più, tipo, non so, minacciosa ma è la domanda stessa a non permettermi un certo atteggiamento. E ad ogni modo ho una mano del nano nei pantaloni. “Okay, senti, molto lusingato, ma no.”
“Non ho ancora fatto niente.”
“Ed è già no,” insisto. “Immagina cosa sarebbe se facessi qualcosa.”
Un attimo dopo, lui ci riprova e quello subito successivo sono io che lo stampo contro i lavandini del gabinetto ed esco. Mi aspetto che ciò non avvenga mai più, ma capita nemmeno ventiquattro ore dopo. Quell'uomo è sfiancante ed insistente. In tutta la concentrazione del suo scarso metro e quaranta non demorde nemmeno quando gli dico chiaro e tondo che non scoperò con lui né ora né mai. Sinceramente io potrei dire a Bushido che uno dei suoi collaboratori è un ninfomane e che, dal momento che lavoro qui, si potrebbe ben parlare di molestie sessuali ma nonostante tutto ho ancora dell'amor proprio e in ogni caso credo che Anis mi guarderebbe con un'espressione perfettamente scettica e mi farebbe notare che, nel caso, sono fisicamente in grado di difendermi. E non potrei che dargli ragione. Così proseguo la mia vita, nella costante oscillazione tra il lavoro e il tentativo di fermare questa trottola impazzita delle Alpi. Il tutto mentre mi chiedo cosa ne penserebbe il ragazzino se sapesse come stanno le cose.
Bill parla di Chakuza come se fosse la cosa più bella del mondo e io davvero non lo so da dove gli venga tutto questo amore. Chakuza non ci tenta neanche ad essere carino con lui. Voglio dire, non è un essere umano carino in generale: è disarmonico, ha una voce totalmente sbagliata per il corpo che ha e quando ride è sguaiato, ma non fa neanche niente – ma proprio niente – per far vedere a quel ragazzino che almeno lo ha notato. Eppure Bill lo adora.
Quando mi viene da fare questo ragionamento, penso che a quattordici anni io ero convinto che uno che iniziava metà delle frasi che mi rivolgeva con “Fler, coglione, vieni qua!” fosse un grand'uomo, quindi forse dovrei stare zitto. E' che ci sono delle persone che quando ti stanno intorno, senti lo stomaco che si ribalta. E' una specie di potere che hanno su di te e tu non puoi farci niente. Quelli se ne stanno lì, occupano tutto lo spazio anche senza muovere un dito e tu senti quest'ondata in fondo allo stomaco che si porta via tutto. Io stavo così con Anis. Era una roba tremenda. Quando sapevo che dovevamo uscire mi si chiudeva la gola e mi prendeva l'ansia perché volevo essere perfetto – mica poteva pensare fossi un cretino! - e controllavo ogni parola che stavo per dire e il modo in cui muovevo le mani, perché lui non faceva mai un movimento fuori posto e invece io non sapevo bene come gestire braccia e gambe. Stargli vicino era un lavoro, perché vivevo nella speranza di diventare come lui o almeno guadagnarmi il suo rispetto. E non ce l'avrei mai fatta se continuavo a parlare a vanvera o a buttare giù cose quando agitavo le mani. Così penso che Bill si senta allo stesso modo, che il suo cervello escluda i difetti evidenti di quest'uomo e ne veda solo le caratteristiche che scatenano quell'onda calda che gli chiude la gola.
Generalmente quando arrivo a questo punto del ragionamento evito di pensare oltre: a Bill, a Chakuza e soprattutto ad Anis che ogni tanto mi chiede le cose e io mi fermo cinque minuti a decidere come rispondere. Sì, ancora.
Certe situazioni, quando si protraggono sempre uguali a loro stesse per troppo tempo, hanno due modi di concludersi: o si modificano lentamente, fino ad estinguersi, oppure all'improvviso esplodono, degenerando, come se qualcuno, da qualche parte, avesse premuto un grilletto. Naturalmente a noi capita la seconda. Il nostro grilletto lo preme Chakuza, il giorno che per l'ennesima volta ci prova, infila le mani e il sottoscritto lo ferma un attimo prima che il suo cervello smetta di lottare. Il processo degenerativo di questo quadrilatero di disperazione è molto lento, comunque, nel senso che non c'è una vera propria esplosione sul posto, è più un rotolare nell'insolvibile.
Tutto inizia che siamo tutti e quattro a casa di Anis, tanto per cambiare. Tra me e lui stiamo cercando di dare un senso a quattro pagine di vaneggiamenti che ho scritto mentre ero ubriaco. Sappiamo che c'è del salvabile, ma dobbiamo trovarlo tra il marasma generato da quattro bottiglie di birra e così ci mettiamo sul tappeto a rileggere tutto. Bill è qui da ieri sera, anzi, è qui da una settimana perché suo fratello si è regalato una vacanza con il loro amico Andreas e insieme, i due deficienti, hanno intenzione di devastarsi in vari locali della nazione. Bill non aveva alcuna intenzione di seguirli e siccome da solo si deprime come una pianta al buio, Anis lo ha invitato a stare da lui. Quando sono entrato era in pigiama ma ha fatto in tempo a mettersi in tiro per l'arrivo di Chakuza, che è qui in veste di non so cosa ma che probabilmente è stato mandato da Dio. Non ho ancora capito se per punire me della mia vita di delinquente, o per punire Bill – con la sua indifferenza – per la sua vita immorale agli occhi del Signore.
Ad ogni modo lo vedo che si siede sul divano e vedo Bill che lo raggiunge e cerca di fare conversazione, una qualsiasi. Mentre sono lì che mi canto la canzone a mezza voce per trovare un senso ad una rima che non ce l'ha, sento lo sguardo dell'austriaco che mi perfora il retro della testa, lo sento tutto il tempo e devo ammettere che ho quasi paura, ad un certo punto, ad alzarmi ed andare in bagno.
La villa di Bushido non è veramente una casa, come dicevo, è un labirinto. E prima di trovare un gabinetto, ho tutto il tempo di ricordarmi la storia dei Minotauro e di come gli sacrificassero delle giovani vergini di tanto in tanto. Io non sono vergine, ma il Minotauro spunta lo stesso da dietro un angolo. E ha la faccia di Chakuza.
Per un attimo mi chiedo se sto vedendo davvero quello che mi sembra di vedere, perché non è davvero possibile che quest'uomo sia appoggiato con una spalla al muro, le gambe incrociate all'altezza delle caviglie e mi guardi come uno che sa già con assoluta certezza che stasera batterà cassa con il sottoscritto. No, perché è questo che Peter Pangerl – in arte Chakuza – sta facendo e io non riesco a crederci. Forse il racconto di questi ultimi tempi è stato un po' troppo veloce e quindi, forse, la situazione è un po' confusa. Io e lui non abbiamo mai nemmeno cenato insieme, che non è un modo carino per dire che io non lo do via così dal nulla – cioè, anche sì, ma non è questo il punto. Il punto è che io e quest'uomo non abbiamo fatto niente di più che stazionare nella stessa stanza mentre facevamo cose completamente diverse. Abbiamo chiacchierato, anche, sì, ma non tra noi due. Voglio dire, io ero ospite di Bushido. Lui era ospite di Bushido. E qui finisce il nostro tentativo di relazionarci, se si escludono le sue occasionali escursioni non permesse nei miei pantaloni. Non c'è stato, in nessun modo e per nessuna ragione, un ragionevole svolgersi di eventi che possa ventilare l'ipotesi che io voglia andare a letto con lui. Quindi non so che cosa gli dia la certezza matematica che anche se per cento volte che me lo ha chiesto, io cento volte gli ho detto no, comunque mi si farà. Forse è questo che rende Chakuza così affascinante: è una creatura che non dovrebbe esistere in natura e invece, per uno sbaglio genetico o forse l'intervento di un ragno radioattivo, egli è qui di fronte a me.
“Patrick, ascolta...”
“No,” lo blocco subito. E poi non dovrebbe chiamarmi col mio nome di battesimo, non è corretto. Non si fa così tra rapper che non si conosco. Non è buona educazione.
“Non sai nemmeno che cosa voglio chiederti.”
“Ti pare di aver portato alla mia attenzione molti argomenti diversi nelle ultime... trecento mila volte che mi hai inchiodato in un angolo?” Gli faccio notare con un'alzata di sopracciglia.
Lui ride. “Magari questa volta è diverso.”
Non mi abbasso nemmeno a rispondergli.
“Insomma,” fa, avvicinandosi pericolosamente e, per altro, iniziando a spiegarmi una cosa che non voglio che mi spieghi perché sono sicuro che non ha assolutamente logica. “Le mie intenzioni le sai, okay? Ed è chiaro che lo vuoi anche tu...”
Qui mi chiedo se da queste parti dire molte volte no e lanciarti dall'altra parte della stanza con una spinta ben assestata sia un segno inequivocabile di disponibilità sessuale, come tra i gorilla o roba simile. “Quando, per l'amor di Dio, ti è sembrato che io fossi d'accordo?”
Lui non si prende la briga di rispondermi perché evidentemente questo, tra i gorilla, non è necessario, quindi mi ritrovo schienato contro il muro e lui è ovunque, che non so come faccia essendo quello che è, ma ci riesce. Mi coglie di sorpresa, quindi gli regalo qualche minuto di onnipotenza, ma poi mi riprendo e gli tiro un pugno in faccia. “Non parlavano tedesco gli austriaci?” Sbraito.
E sbraito principalmente perché lui non è che sia piegato in due dolorante. Sta anche quasi ridendo mentre si tiene la mascella. “Certo che ci vai giù pesante tu,” mi dice.
“E non hai ancora visto niente.”
“Cambierebbe qualcosa se io fossi Bushido?” Mi chiede, con un sorriso che potrebbe anche venirmi voglia di devastarlo.
“Vaffanculo,” sibilo.
Lui ride. “Non resisterai per sempre,” mi dice, convinto della propria supremazia. Sui puffi, immagino. “E alla fine cambierai idea.”
“No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no,” replico. “E lo sarà sempre.”
“Vedremo,” insiste, allontanandosi.
Parlavo di grilletti e di conseguenze deprecabili.
Io e Bushido riusciamo a rimettere insieme la canzone che stavo scrivendo e dal momento che dobbiamo lavorarci sopra anche a livello musicale, io mi perdo un po' dietro a questo progetto e non faccio caso a quello che mi succede intorno. Non faccio caso nemmeno al fatto che Chakuza non mi tormenta più. Si sarà stancato, penso.
Questo perché non so che la prima regola di Chakuza è che su queste cose non si stanca mai.
Ha solo diretto altrove i suoi sforzi e visto che li ha diretti su Bill, non ci ha messo molto ad ottenere quello che voleva. Ora, io questo lo vengo a sapere quando una mattina allo studio dell'etichetta arrivano insieme e Bill sta indossando quello che gli ho visto addosso ieri sera, una cosa che non capiterebbe mai, neanche se qualcuno gli desse fuoco all'armadio. A meno che non abbia dormito fuori casa. Certo potrei anche sbagliarmi, non è che ce l'ha scritto in faccia ma diciamo che il trovarlo poi disteso su un divano al piano di sopra con Chakuza addosso mi fa pensare che forse ho ragione. E non è che mi piaccia tanto averla.
Bill voleva questo fin dall'inizio ma lo voleva in maniera diversa, come succede sempre quando non chiarisci fin da subito il tipo di rapporto che vuoi avere con una persona. Lui è innamorato di Chakuza. Chakuza si sta solo sfogando. E non ho bisogno di conoscerlo da vent'anni per sapere che lo sta facendo, perché io non credo nell'amore eterno all'improvviso e ci credo ancora meno quando so che quest'uomo, non solo non ha mai dato a Bill più di un briciolo di attenzione in tutto il tempo che sono stato qui, ma come dicevo prima, ci provava con me. Quindi non credo proprio che sia sincero. Diciamo che il solo fatto che sembra particolarmente tenero con Bill solo quando gli allunga le mani addosso, ecco, non aiuta la sua presunta innocenza.
Io però sto zitto, perché non sono affari miei. E perché, dopotutto, potrei anche sbagliarmi – non credo, ma potrei – e tutto ciò che faccio è sperare che Bushido veda e intervenga, come il grande signore che vuole farci credere di essere, ma questo non succede.
Bushido non sembra nemmeno vederli, questi due. Voglio dire, sembra quasi che a chiederlo a lui non sia cambiato niente. Questi ogni tanto spariscono e lui non dice una parola. E dire che è casa sua, cioè, va bene l'ospitalità e tutto ma io non ce lo vorrei un austriaco che scopa al piano superiore. Il punto centrale della questione, non è che questi due si divertano, comunque. Voglio dire se fosse così, il problema non si porrebbe e io sarei un uomo felice, libero dall'ansia di dover fuggire alle grinfie di un altro uomo, una cosa che non mi è mai capitata nemmeno quando spacciavo droga. Il punto è che non è così. E giorno dopo giorno questa cosa è piuttosto evidente anche al primo che passa per strada, figuriamoci se non dovrebbe esserlo a Bushido.
Una sera, dopo che Chakuza si è alzato da tavola e ha annunciato al mondo che lui e Bill se ne andavano perché avevano da fare – con grande sorpresa di Bill, che non lo sapeva affatto e si è visto trascinare via praticamente di peso – decido che forse potrei anche parlare al tunisino e informarmi, così tanto per... E' che mi sento in colpa, come se quest'ondata vendicativa del nano malefico l'avessi scatenata io, negandomi com'era mio diritto fare. Solo che Bushido mi precede.
“Cosa c'è che non va?” Mi dice.
“A parte l'inquinamento e la fame nel mondo?” Chiedo, sollevando un sopracciglio. “Che vuoi dire?”
Lui prende uno stecchino dal tavolo e se lo infila in bocca, come faceva quand'era più giovane. Mi colpisce di nuovo la nitidezza del movimento. Solo il braccio si è mosso, tutto il resto di lui è rimasto immobile, come sempre si limita ai movimenti essenziali e nulla di più. Io questa cosa non ce l'ho mai avuta, mi agito un casino.
“C'è qualcosa che non ti torna,” commenta. “Sei nervoso.”
“Non sono nervoso,” protesto.
“Patrick.” Netto, proprio. Mi dice sempre così quando vuole che la pianti con le stronzate e mi muova a rispondergli o fare ciò che mi ha chiesto di fare. Ci vuole una certa abilità a racchiudere una richiesta del genere in sette lettere.
“Okay, senti, lo so che non sono affari miei,” butto lì. “Ma secondo me questa cosa tra Bill e Chakuza non va bene.”
Lui mi osserva ma non fa nient'altro. “Perché?”
“Perché Chakuza non è affatto interessato a Bill.”
Dopo qualche secondo di silenzio mi accorgo che annuisce, anche se piano. “Lo so.”
“E non fai niente?”
“Non posso fare niente,” mi corregge lui. “E poi non spet-”
“Le palle!” Esclamo. E non so nemmeno perché me la prendo tanto, davvero. Cioè, anche se fosse senso di colpa, voglio dire, non sono mica il fratello di quel ragazzino, Dio Santo. “Prima te lo tieni qui in casa nemmeno fosse un orfanello e non un cantante che vale miliardi. Te lo coccoli e tutto e fingi di proteggerlo da solo tu sai cosa, e quando arriva il momento di proteggerlo davvero, non spetta a te?”
Lui ascolta lo sproloquio e poi dice: “Vedo che non hai perso il vizio di interrompere sparando idiozie che ti saresti benissimo risparmiato stando a sentire.”
Arrossisco e fine del mio amor proprio. “Spiega,” sibilo, guardando altrove.
“Bill si è innamorato di Peter dal primo momento che l'ha visto, Dio solo sa perché,” inizia, alzando gli occhi al cielo. E io vorrei dirgli che non lo so neanch'io com'è stato possibile ma che, se non se n'è accorto, quell'uomo c'ha qualcosa negli occhi, quando ti guarda. Sarà libido, sarà strabismo o sarà che magari ipnotizza la gente, che ne so? Però lui farebbe bene a fare una ricerca su questo Pangerl per essere sicuro che non sia uno svalvolato qualunque in grado di friggerti il cervello con la sola imposizione delle pupille. Comunque non gli dico niente di tutto questo e lui prosegue. “Ho cercato di fargli capire che non era la persona adatta a lui ma non ha voluto ascoltarmi, perché è una testa dura, tale e quale a sua fratello. D'altronde sono uguali...” Non mi soffermo a chiedermi che cosa c'entri Tom Kaulitz in tutto questo. Se tre è una folla, quattro è un'invasione. Non mi sembra il caso di aggiungere un quinto elemento a questa già complicata equazione. “D'altra parte,” prosegue, “Chakuza può essere ingestibile quando s'impegna, ma non è cattivo. Quindi forse, chissà, magari Bill riesce a fare il miracolo.”
“Tu non credi a queste cose.”
Bushido mi passa una birra e poi ne apre una per sé. “No, infatti,” beve e guarda un punto indefinito sul pavimento. “Immagino sia arrivato il momento che Bill impari le cose come le abbiamo imparate tutti.”
Battendoci la testa.
Io però continuo a sentirmi in colpa, soprattutto perché non sto facendo niente anche se sono l'unico che, in definitiva, conosce tutti i dettagli della faccenda. Bushido, per dire, non ha idea che l'uomo tra le cui possenti braccia ha deciso di affidare il ragazzino, ci ha ripetutamente provato con me. Mi sento in dovere morale di agire in qualche modo, anche solo in funzione del fatto che sono stati i miei no a lasciare Chakuza libero di spezzare il cuore di Bill.
E dal momento che Bill non mi ascolterebbe mai, visto che non ascolta nemmeno Bushido, io decido di andare direttamente alla fonte di ogni male. Per estirparla, se possibile.
Chakuza passa alla Beatlefield un tempo variabile fra le due e le sei ore ogni giorno, dimostrando che c'è qualcos'altro nella vita che gli interessa oltre a saltare addosso alla gente. Ed è lì che lo trovo oggi pomeriggio, quando decido che è l'ora che qualcuno gli dica qualcosa.
Quando entro nella stanza non mi sente arrivare perché è girato di schiena e ha su due cuffie enormi che rendono la sua testa esageratamente buffa. Ho l'occasione di strangolarlo, se voglio, ma non ne ricaverei niente di buono: Bill che piange come una vedova inconsolabile, i titoli sui giornali e tutti i suoi amici e colleghi riuniti in una trasmissione che parlano bene di lui anche quando non lo pensano affatto. Così decido che posso iniziare schiarendomi la voce e quando si gira e mi vede, ha anche il coraggio di sorridermi come se l'ultima volta che abbiamo scambiato due parole noi due da soli non lo avessi mandato a quel paese.
“Fammi indovinare, hai cambiato idea?” Mi chiede, mentre il film che ha girato da solo riparte nella sua testa.
Quest'uomo è oltre la mia comprensione. “No, non ho cambiato idea,” commento, lanciando un'occhiata a quest'ufficio che sembra fatto a misura sua. E' uno sgabuzzino minuscolo con un gran casino dentro. Esattamente come lui. “Anzi, direi che sono ancora più convinto di prima.”
Lui solleva un sopracciglio.
“Quello che stai facendo a Bill è da stronzi,” commento.
Lui mi guarda con l'occhio rotondo che vorrebbe essere ignaro di ciò che sto dicendo, ma ovviamente non riesce perché non lo è affatto. “Non ti capisco,” dice.
“E' davvero innamorato di te, Chakuza,” insisto.
“Quindi?”
“Quindi dovresti smetterla di illuderlo,” sospiro. “Se è un giocattolo che ti serve, vai a cercare da un'altra parte.”
“Ad esempio?” Mi guarda e sorride. “Bill non è un bambino. Non ho fatto niente che lui non volesse.”
“A te non interessa di lui.”
Chakuza si stringe nelle spalle. “L'interesse è una cosa soggettiva, non credi?” Mi fa. “Scopare m'interessa. Quindi in sostanza, mi interesso di lui.”
E io lì potrei mettergli le mani addosso, anzi voglio proprio farlo. Tirargli un pugno come si deve sul naso e vederlo rotolare sul pavimento finché la sua testa tonda non prosegue per inerzia. E non tanto per Bill, cioè anche per lui ma fino ad un certo punto, è proprio una questione di principio. Tu non puoi guardarmi con quella faccia, con quegli occhi, con quel sorriso così sicuro anche dal tuo scarso metro e venti d'altezza e dirmi una cosa simile. Tu dovresti pagarla, cazzo, la gente per scopare. E' surreale che tu, proprio tu, possa dirmi una cosa tanto meschina nello stato in cui sei. No, davvero. Non ci si crede! Bill è tipo... cioè, è carino. Si merita di meglio, Dio Santo. Vorrei che fosse qui a cavarti gli occhi con quelle unghie!
E Bill c'è. Immobile sulla porta. Come poteva non esserci dopo quest'immensa piazzata in cui io vengo qui, nell'ufficio di quest'uomo, a sbraitare cose che non mi competono in difesa di un ragazzino che non è nemmeno cosa mia? E' una cosa di Anis, naturalmente. E altrettanto naturalmente Anis ha deciso che non deve metterci bocca, lasciare che il disastro si compia e poi non so, a quel punto fare la parte dell'angelo salvatore nella vita di Bill. Non so, forse. E' che se me la racconto così mi sembra anche plausibile e mi sento pure scemo ad essere qui.
“Ero... passato a trovarti,” dice Bill, anche abbastanza inutilmente. Il suo sguardo non si sposta mai da Chakuza.
“Sono occupato, al momento,” fa lui.
“Quello che hai detto è vero?” Chiede.
“Bill, ho da fare.”
E io mi chiedo: cosa ci stai a fare, qui, Fler? Qualunque sia il problema, non è un tuo problema. Quello che ti sentivi in dovere di fare lo hai fatto, ora puoi anche uscire.
“E' vero quello che hai detto?” Insiste Bill, serio. “Non... non te ne frega niente?”
“Bill-”
“Rispondi!” Sbraita.
“No,” è l'urlo esasperato di Chakuza. “Che cosa ti aspettavi? Sei tu che ti sei fissato che stessimo insieme, io non ti ho mai lasciato credere niente del genere!”
Bill apre bocca, ma non dice niente. Quello che succede dopo è che si avventa su Chakuza per colpirlo e lo fa. Chakuza però risponde e lo spedisce in terra con un ceffone che avrebbe steso anche me, forse. Lo vedo sbattere malamente contro la libreria e finire sul pavimento. Quando alza la testa ha gli occhi sgranati e un po' di sangue che gli esce dal labbro.
“Dico, ma ti ha dato di volta il cervello?” Lo aggredisco, raggiungendo Bill che non si sta alzando. Lo guarda e basta come a chiedersi perché si trova lì quando un attimo prima era in piedi. Gli tendo la mano e lui ci si aggrappa, barcollando.
“Smettetela di trattarlo come una ragazzina,” fa Chakuza. Nei suoi occhi c'è qualcosa oltre alla strafottenza, però. Evidentemente non si è reso conto della forza che c'ha messo. Immagino che questo almeno lo abbia scosso. “Non lo è.”
“Sto bene...” pigola Bill, scuotendo la testa. Si pulisce il sangue dalla bocca e lo vedo che guarda un po' ovunque, non so se per evitare di incrociare lo sguardo di Chakuza o se per rendersi effettivamente conto di quello che è successo.
“Non ti muovere da qui,” sibilo a Chakuza, mentre accompagno Bill fuori dall'ufficio.
Lui protesta, ma è un sacco confuso. Non dal ceffone, immagino, ma dal fatto che quello in cui credeva si è appena sgretolato come polvere. E' così che succede. Tu sei sicuro di una cosa, o almeno vuoi esserne sicuro, e quella come niente svanisce. Quando ci credi tantissimo e poi non funziona, devi fare i conti con il pugno di sabbia che ti rimane in mano. Non sai se aprire le dita e lasciare che quello che era scompaia del tutto, o stringerle e farti male, ma almeno sentirlo ancora un po'. Mentre lo faccio salire in macchina, alzo lo sguardo e vedo l'ombra di Chakuza alla finestra.
Io e te dobbiamo parlare.
“Sto bene,” mi ripete Bill, quando lo riporto nel suo appartamento.
So dove si trova perché Bushido ha il vizio di mandarlo a prendere e farlo riportare, quando lui è impegnato con qualcos'altro. La prima volta che mi ha chiesto di farlo pensavo che scherzasse. E invece lui era serissimo, com'è sempre serio lui quando gli vengono queste idee assurde. Anzi, più sono assurde e più lui è serio. Non dovrebbe stupirmi più di tanto, comunque. Per uno che pensa di essere il re dei re, suppongo sia normale dare ordini di questo tipo.
Lo faccio sedere sul divano e medito sul da farsi. Alla fine gli dico di aspettare e m'infilo in cucina, col telefono premuto contro l'orecchio.
“Che succede?” La voce di Bushido è tesa. So che registrava qualcosa oggi, quindi devo averlo disturbato. E questa telefonata mi è così familiare che quasi mi commuovo. Ricordo quando eravamo nel quartiere e succedeva casino con una consegna, che mi toccava chiamarlo perché non riuscivo a sbrigarmela da solo.
“Il ragazzino... “ inizio. “Senti, è un casino, magari è meglio se vieni.”
Io non lo so come faccia, ma capisce subito al volo. Ce l'ha sempre avuta questa cosa di capire le situazioni anche quando aveva solo la metà delle informazioni che gli servivano. Così mi dice: “Sto venendo lì, aspettami.” Che mi chiedo come facesse a sapere che volevo andarmene.
Arriva dopo venti minuti, Bill li ha passati sul divano ad abbracciarsi le ginocchia. Non ha ancora pianto ma non ha detto neanche niente e io, sinceramente, non so da che parte prenderlo. Così me ne sto qui sulla poltrona e lo guardo. Dopo un po' gli chiedo: “C'è qualcosa che posso fare?” e lui risponde: “No,” e poi “Anis viene?”
Gli dico che sta arrivando e questo sembra rassicurarlo. Annuisce e poi torna ad accoccolarsi su se stesso, guardando il pavimento.
Mi aspetto di sentire il campanello ma, a quanto sembra, Anis ha le chiavi di casa, qui. Quando sente aprire la porta, Bill si getta letteralmente nel corridoio e sento lo sbuffo ovattato del suo corpo che si scontra con quello di Bushido. Quando li raggiungo, Bill sta piangendo e Anis lo stringe a sé in silenzio, come se non ci fosse bisogno di nessuna spiegazione.
Mi ipnotizza la sua mano che gli accarezza la nuca, con il movimento lento e rodato di chi è abituato a farlo spesso. Mi chiedo quante serate ha passato a cercare di tranquillizzarlo e per quali e quanti motivi. Mentre li osservo non posso fare a meno di notare come le sue dita conoscano il corpo di Bill e chiedermi distrattamente se questo non dovrebbe significare qualcosa.
Guardarli mi mette a disagio, così tossisco e Anis solleva la testa. Mi guarda. “Devo andare,” dico un po' confuso. “Qui, ci pensi tu?”
Lui mi osserva e mi sembra quasi che sappia perfettamente cosa sto per fare, la cosa non dovrebbe inquietarmi come invece fa. “Sì, non preoccuparti.”
Da Chakuza ci arrivo nella metà del tempo che occorre ad una persona normale che rispetta le regole della strada e non curva su due ruote. Non so esattamente cosa gli dirò prima di sbatterlo contro un muro e tirargli tante di quelle botte che nemmeno sua madre saprà riconoscerlo. Non so nemmeno se gli dirò qualcosa prima di farlo o se invece prima lo ridurrò uno schifo e poi, forse, gli dirò qualcosa. Devo ancora decidere.
Parcheggio di traverso sotto lo stabile della Beatlefield che è una sorta di casermone fatiscente in cui tendenzialmente uno non penserebbe di poter registrare nemmeno una canzone alla radio, figuriamoci interi cd. Alzo lo sguardo verso la finestra, ma l'ombra del nano non c'è già più. Immagino sia tornato a fare quello che stava facendo prima di tirare un ceffone a Bill, il che, suppongo, fosse nulla, visto che nel poco tempo che sono stato lì non ha fatto altro che spostare fogli stampati da una parte all'altra della scrivania.
Agli studi della Beatlefield non c'è nessuno che controlli la porta, un usciere, tipo; forse perché il proprietario della Beatlefield è l'usciere dell'Ersguterjunge – chiunque, nel giro, ha visto il video su internet in cui Chakuza apre la porta – e quindi suppongo che un usciere non possa davvero avere un usciere anche lui. Sto delirando.
Salgo le scale a due a due e gli spalanco la porta dell'ufficio, senza chiedere il permesso. Lui allontana gli occhi dallo schermo del pc per guardarmi. Visto che non ha le cuffie stavolta mi ha sentito. Ci guardiamo per un tempo infinitamente lungo, durante il quale gli lascio la possibilità di alzarsi in piedi. Non che faccia molta differenza, dal momento che anche in piedi sembra seduto, ma credo che se devo pestarlo, è più giusto che stia sulle sue gambe, prima che gliele spezzi.
Sto per aprire bocca e dirgli non so cosa, perché sono cosciente che il mio cervello non ha ancora processato un discorso coerente in mezzo a tutta questa rabbia ingiustificata che provo nei confronti di quest'uomo che conosco appena, ma lui mi anticipa. “Se pensi che mi scuserò, sei fuori strada,” dice, interrompendo il contatto visivo per riprendere a sistemare sul tavolo. Stavolta ripone dei fogli in un faldone e attraversa la stanza per metterlo in una libreria. “Io non sono dispiaciuto per come sono andate le cose.”
Io lo seguo con lo sguardo, perché oggettivamente non so se non si rende conto che sta dicendo cose per le quali dovrei picchiarlo. Sembra tranquillo.
“Certo,” continua, “non sono qui a ridere come un invasato al pensiero di aver ferito Bill ma non me ne faccio neanche una colpa. Ognuno prende le cose come vuole e non è una mia responsabilità se lui ha deciso di prenderle così.”
Io sono senza parole. Dico davvero. Uno può anche decidere di farsi due piani di scale malridotte di corsa, può infilarsi in testa di prendere quest'uomo e sbatacchiarlo un po' dovunque per vedere se da quella testa tonda esce qualcosa. Dico, io queste cose le ho pensate e le penso ancora, ma di fronte alla naturalezza con la quale mi dice che se Bill adesso sta male è perché ha deciso di prenderla in un modo piuttosto che in un altro, io resto basito. Ho ancora voglia di farlo a pezzi, ma per il momento sono basito e basta. “Tu sei un pezzo di merda,” dico. E mi esce così, nemmeno come un'esclamazione. E' un dato di fatto, tipo. Non lo so. Lo sto solo informando di quello che dovrebbe essere oggettivamente riconosciuto dall'universo, quindi suppongo anche da lui.
Cioè lui deve sapere che è un pezzo di merda. Io non tollero l'idea che lui non lo sappia.
“Forse,” dice lui, scorrendo le dita tra altri faldoni in cerca di uno in particolare. “O forse no. Forse sono solo uno che vuole delle cose e quando non può ottenerle si arrangia.”
Si gira a guardarmi e mi trova sulla porta, perfino con la bocca un po' aperta credo, non lo so, perché tutto mi aspettavo tranne che sentirlo dire queste cose da genio del male. “Io volevo te. Non ti ho avuto e mi sono arrangiato,” solleva una spalla. “Che cosa dovevo fare? Andare a puttane per il resto della mia esistenza per non spezzare il cuore della povera ragazzina innocente, che per altro mi voleva? Bushido non mi paga abbastanza.”
Quand'ero un ragazzino, Bushido mi diceva sempre che ogni uomo ha due interruttori. Uno per quando è felice – e quello possono premerlo solo le donne, Patrick. E rideva come un cretino, fin quasi a soffocarsi, con la birra che gli usciva dal naso – e uno per quando s'incazza. Sta qui, mi diceva spingendomi forte con due dita sulla pancia. Sta in fondo allo stomaco. E quando scatta, non ce n'è più per nessuno anche se spesso, non sai nemmeno bene perché.
Ecco, il mio è appena scattato. E non so il perché, di preciso, tra tutte le stronzate che gli stanno uscendo di bocca. So solo che sono più incazzato di prima. “No, tu non volevi me, cazzo! Tu volevi un buco qualsiasi in cui infilarti” Sbraito, avvicinandomi.
“Se vuoi vederla così...”
“Non cercare di passare per quello deluso che c'è magari stato anche male, perché-”
“Perché cosa, Fler?” E la sua voce rimbomba. Me la sogno, io, un urlata a quei livelli. “Eri forse nella mia testa? Sai per caso come mi sono sentito a venirti dietro per settimane e non ottenere un cazzo di niente? Sai cosa pensavo o cosa provavo?”
Io non rispondo mentre lui mi si avvicina. Sono arrabbiato e spiazzato. Okay, sono più spiazzato che arrabbiato. Queste non sono parole da genio del male. Forse lo preferivo prima.
Si ferma di fronte a me e per una volta il fatto che mi arrivi a malapena ad una spalla non conta molto, perché in faccia c'ha un'espressione così sofferente che mi chiedo dove sia andato l'ometto di prima che diceva che era colpa di Bill se Bill stava male.
“Non solo sono pronto a scommettere che non lo sai,” si risponde da solo, “Ma scommetto anche che non te lo sei nemmeno chiesto. Non t'importava proprio. Perciò Vaffanculo! Non provarci nemmeno a farmi la morale!”
Ora io potrei stare qui a raccontarvi del sole che picchiava attraverso il vetro della finestra senza tende di questa topaia, dritto sul testone lucido di quest'uomo e di come l'ho picchiato finché non ha chiesto pietà e ha promesso di chiedere perdono a Bill. Potrei, dico, la fantasia non mi manca. Ho inventato tante di quelle balle nel corso della mia vita, che potrei benissimo scriverci un romanzo e sarebbe pure credibile. Il punto è che non ha senso arrivare fino a qui e poi raccontarvi la fine di qualcun altro. La verità è che io Chakuza non l'ho menato. Lo inchiodato alla libreria, ho fatto cadere i faldoni e gli ho infilato la lingua in bocca. E sul perché, che il cielo mi perdoni, ci devo ancora ragionare. Il punto è che non mi viene tanto bene mentre rotoliamo sul pavimento. Lui mi sta artigliando gli avambracci ai quali si è aggrappato mentre lo tiravo giù e ora è un gran miscuglio di gambe e di braccia mentre più che baciarlo lo mordo e lui più che stringermi graffia.
“Il tuo problema,” ringhio mentre lo inchiodo sul pavimento e non so più nemmeno dove ho le mani. “E' che sei un cretino.” Sento le sue mani scorrermi sullo stomaco e poi sulla schiena. Stamattina, quando mi sono svegliato, non avevo idea che sarei finito ad avere i pollici di un uomo nell'ombelico. “Avresti dovuto aprire bocca e parlare, invece di saltarmi addosso.”
“Non ti sta dispiacendo,” fa lui e m'infila un ginocchio tra le gambe. Nel farlo mi fa male, cazzo, quindi si becca un morso.
“Sono stato io a saltarti addosso ora,” puntualizzo.
Lui ghigna. “Io te l'avevo detto che lo volevi anche tu.”
Quest'uomo è senza pudore e mentre su questo pavimento sembriamo fare a cazzotti, più che scopare – e io non l'ho detto davvero – il pudore lo perdo anch'io, perché mi attacco alla sua maglietta e la strattono. Sono sempre più convinto che quest'uomo emani feromoni di qualche tipo. Ed è per questo e solo per questo, che io sono qui disteso sul pavimento di questo studio dimenticato da Dio e gli permetto cose.
Cose del tipo che sono disteso su di lui e lui ha una mano nei miei pantaloni. “Ti ho forse dato il permesso?” Sibilo e cerco di farlo sembrare un ringhio virile, non una specie di mugolio perché le sue dita mi stringono abbastanza bene da chiedersi se quest'uomo non abbia passato gli ultimi mesi a masturbarmi nel sonno, per conoscermi tanto bene.
“Io non chiedo il permesso.”
Gli allontano la mano tanto forte che batte il dorso in terra. “Beh, impara a chiederlo perché potrei farti del male, altrimenti,” lo minaccio a due centimetri dal viso. Grave errore.
Lui m'infila una mano dietro la nuca e mi tira giù. “Sta zitto,” sibila, per poi baciarmi.
Quest'uomo non dovrebbe davvero poter fare di queste cose, non dovrebbe potermi schienare, non dovrebbe potermi togliere tutto quello che ho addosso ed entrarmi dentro. Non dovrebbe essere così eccitante quando lo fa, anche se fa male e vorrei pestarlo. Stringo le dita intorno al tappeto che si arriccia contro le mie falangi mentre le sue spinte si fanno più forti e so, anche senza vederlo, che quel poco di cervello che ha gli si è spento dieci minuti fa. “Ti dispiace darti una controllata?” Sbraito.
Lui in risposta mi morde una spalle e un dolore copre l'altro. Più o meno.
Quando scende a toccarmi penso che ho sofferto dolori peggiori in passato, così appoggio la fronte al tappeto, inspiro ed espiro mentre mi accarezza. L'ultima pensiero coerente prima dei nostri grugniti quasi contemporanei – ma non del tutto, perché non siamo affatto perfetti – sono io che mi chiedo come abbia potuto col suo unico neurone mantenere la coordinazione e fare tutto quanto discretamente bene.
Siamo su questo tappeto da, non so, ore credo.
“Nano, che ore sono?” Chiedo, sovrappensiero.
E' tutto arricciato contro la mia schiena, così riesce bene a tirarmi una ginocchiata dietro una gamba. “Vaffanculo.”
“Che ore sono?”
“Non ne ho idea,” commenta. “Non ho più neanche l'orologio.” La risata che gli scappa dalla bocca mi vibra per tutta la spina dorsale. Sorrido anch'io.
“Potrebbe entrare qualcuno?”
“Molto probabile,” dice calmo.
“E la cosa non ti turba, immagino.”
Scuote il capo rotondo. “Nemmeno un po'.”
“Devono essere abituati a trovarti nudo come un verme sul tappeto.”
“Non con un uomo,” rimane disteso mentre io mi siedo, alla ricerca della mia maglietta.
Mi vesto in silenzio, poi gli lancio un'occhiata. “Senti ma....”
“A cena,” mi ferma subito lui e quando aggrotto le sopracciglia è l'ora che finalmente si tira su anche lui e smette di mostrarmi la mercanzia che non sono ancora abituato a vedere. Non è che ci sia venuto a patti con quest'idea. “Facciamo che ne parliamo a cena. Ti va?”
E penso che questo sia un invito, credo.
Mi va, penso. Ed è tutto lì.
Un'altra delle mie certezze che se ne va.
Ed è colpa di Bushido.