Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah, Lord Zenir, James, vampiri
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico, Guerra, Fantasy
Avvisi: Slash, Erotico
Rating: NC-17
Note: Questa è la mia quarta storia ispirata all'ambientazione in cui si è svolto il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole (le altre sono: I - II - III) Partecipa alla settimana del COW-T dedicata al COW-T. Ridondanza nelle spiegazione, we haz it. L'ho scritta un po' di corsa, quindi penso che prima o poi ci rimetterò le mani... crediamoci.

Riassunto: La guerra si è conclusa da quasi un mese. Noah è morto. Eppure Iatho non perde la speranza.
THE FIRST STEP TO ETERNAL LIFE IS YOU HAVE TO DIE


La guerra si era conclusa all'inizio della primavera, quando gli alberi in superficie avevano iniziato a mettere i fiori e si era sciolta la prima neve. Sui campi di battaglia i morti giacevano ancora insepolti, su letti di primule appena spuntate. Non c'era stato il tempo di seppellirli tutti, né quello di trovare un posto abbastanza grande da contenerli. A poco a poco ogni comunità stava portando via i propri cadaveri, accatastandoli gli uni sugli altri su grandi carri che non erano mai abbastanza e sarebbero dovuti tornare per un altro viaggio. Soltanto i corpi dei cavalieri non c'erano più. Caduti in minor numero, nell'ultima fase della guerra, era stato facile per loro portare via i morti e, per certi versi, anche meno doloroso. La vittoria del loro popolo rendeva la morte dei compagni più sopportabile, perché il sangue versato lastricava la via che portava al comando delle altre razze ed era un prezzo che i paladini erano ben felici di aver pagato, ora.
Festeggiavano da quando la Veggente s'era affacciata in cima allo spuntone di roccia dov'era posta la sua caverna e, sollevando le belle braccia nude, le aveva poi abbassate di colpo dichiarando la fine delle ostilità e la loro vittoria. Mentre quel poco che rimaneva delle altre tre razze si ritirava sconfitto nel proprio territorio in attesa di capire che cosa sarebbe venuto dopo, la musica era salita dai villaggi dei cavalieri e aveva viaggiato ovunque, portata dal vento. L'avevano sentita perfino lungo i confini più remoti, come il rombo lontano del tuono prima del primo acquazzone d'estate. Le note allegre e l'euforia si erano sciolte nel terreno attraverso i fiori e sembravano gocciolare come rugiada lungo le radici nel sottosuolo fino a raggiungere le orecchie dei vampiri, che rancorosi, non avevano ancora smesso di digrignare i denti e maledire gli Dei che per quello stesso motivo li avevano un tempo reclusi lontani dal sole.
Il rumore dei tamburi si affievoliva durante il giorno per tornare più potente al calare della notte e pulsare attraverso la terra stessa, rendendo odioso ai vampiri persino il risveglio.
Garkos schiantò il pugno chiuso sulla scrivania, mandando un piccolo vaso a frantumarsi sul pavimento. Lord Zenir, che era intento a scrivere l'ennesimo inutile rapporto di una giornata passata a far niente, non alzò nemmeno la testa. “Calmati, Garkos” mormorò, mentre apponeva la sua firma sul pomposo timbro rosso sangue al quale i vecchi burocrati guardavano con compiacimento.
“Ma non li sente?” Ringhiò quello, accartocciando fogli tra le mani. “Non fanno che cantare e ballare da settimane.”
“Sono soltanto tamburi,” insistette Lord Zenir, con un sospiro. “Prima o poi si stancheranno di suonarli o gli verranno i calli alle mani. Non si può suonare in eterno.”
“A me sembra che lo stiano facendo,” replicò Garkos, impilando le pergamene che aveva raccolto in uno spazio sulla scrivania di lord Zenir che quello aveva giustappunto liberato.
Il capo dei vampiri guardò con un po' di sconforto quel quadrato di legno scuro che aveva faticosamente conquistato e già non si vedeva più. “Non puoi sapere davvero che cos'è l'eternità se non hai passato almeno dodici ore consecutive a firmare scartoffie,” mormorò.
“Come, scusi?”
Lord Zenir gli sollevò addosso un sorriso stanco e un po' divertivo. “Niente, mi lamentavo, amico mio,” ammise e poi visto che Garkos non accennava a darsi pace, posò la penna e sospirò ancora. “Questi festeggiamenti si esauriranno prima se smetti di ascoltarli,” suggerì.
“Non hanno nessun pudore,” commentò Garkos. “La sfacciataggine con la quale festeggiano è irrispettosa.”
“E' la stessa con la quale avremmo festeggiato noi,” gli fece notare l'altro, senza la minima nota di rimprovero. La sua era una semplice constatazione, una che aveva provato a rifilare un po' a tutti negli ultimi giorni, ma senza che qualcuno sembrasse coglierla.
“Noi abbiamo molto più onore dei cavalieri,” ritorse Garkos, leggermente punto sul vivo, mentre lanciava occhiate furiose fuori dalla finestra. “Avremmo già smesso di festeggiare da un pezzo per occuparci delle questioni importanti.”
Lord Zenir ne dubitava fortemente. Se la fortuna avesse voluto che fossero i vampiri a vincere, le pire si sarebbero innalzate nel cielo per mesi. Sarebbe scorso sangue a fiumi e non escludeva che, forti dei loro nuovi poteri, sarebbero corsi a caccia al di fuori dei propri confini. Forse, se fossero stati loro a vincere la guerra, ne avrebbero scatenata subito un'altra comportandosi come animali. Garkos era un bravo soldato e un ottimo amico, ma era così vecchio da non riuscire più a vedere al di fuori dello schema mentale nel quale aveva vissuto per secoli e così dimenticava spesso com'erano fatti davvero quelli della loro razza.
I vampiri erano creature troppo presuntuose per poter accettare la sconfitta in silenzio, senza sminuire la vittoria degli avversari in qualche modo, o accusarli di una qualche ingiustizia. Lord Zenir era circondato ogni giorno da individui simili che sapevano solo lamentarsi di come erano andate le cose.
Anche lui era scontento di com'era andata a finire, certo, ma era già stanco di piangersi addosso per quel risultato. Durante le prime fasi della guerra erano stati i più forti e se l'erano cavata egregiamente anche nelle settimane che erano seguite, ma sul finale qualcosa non aveva funzionato. Il fatto che fosse stato incaricato di capire cosa, esattamente, non lo aiutava a doversi sorbire anche il malcontento degli altri. Per come la pensava lui, c'era poco da fare adesso e lamentarsi dei tamburi non migliorava le cose, tuttalpiù le rendeva più insostenibili.
“Come fate ad essere tanto tranquillo, Lord Zenir?” Gli chiese all'improvviso Garkos, staccandosi finalmente dalla finestra per raggiunverlo alla scrivania. “Come fate ad accettare che i cavalieri, degli esseri umani mortali e deboli, debbano ora decidere delle nostre sorti?”
Lord Zenir pensò che poteva considerare conclusa quella stressante giornata di firme e al massimo dare la colpa all'insistenza delle domande di Garkos, se proprio doveva darsi una giustificazione. Certo non sarebbe bastato scaricare la responsabilità su di lui se mai il Concilio avesse chiesto spiegazioni sui ritardi di varia natura che stava per generare, ma non ne poteva davvero più e cominciava a fargli male la mano. “Innanzitutto, amico mio, i Cavalieri non possono decidere le sorti di nessuno,” iniziò, invitandolo a sedersi, cosa che Garkos non fece, preferendo ricominciare a girare in cerchio come un animale in gabbia. Lord Zenir intrecciò le mani in grembo e sospirò. “E' vero, potranno decidere di certe questioni per tutti quanti noi e non escludo che nel lasso di tempo che gli sarà concesso di comandare si riserveranno di vessarci fino alla nausea con i loro inutili tentativi di redimerci in quelche modo, ma alidà di questo e qualche altro fastidio che, ti assicuro, potremmo pur sopportare, non avranno grandi spazi di manovra.”
“E come fa ad esserne così sicuro?” Chiese Garkos, guardandolo dritto negli occhi. “Come fa a sapere che l'esercito dei Cavalieri non piomberà qui uno di questi giorni e in nome di una qualche legge che sarà stata creata a posta, non ci sterminerà tutti?”
Lord Zenir piegò la testa di lato e si torturò per qualche istante il labbro, come se stesse valutando a fondo la domanda. “A parte l'impossibilità pratica di far scendere un intero esercito qui sotto senza che noi ce ne accorgiamo, Garkos, per cortesia,” lo guardò, cercando di inculcare un po' di buon senso in uno dei suoi collaboratori migliori “c'è il fatto che quella ragazzina non permetterebbe mai una cosa simile.”
“Ragazzina?”
Lord Zenir annuì. “La Veggente, naturalmente. Ella è lì per impedire che l'equilibrio venga a mancare.”
“Ci ha mandati lei in guerra per stabilire a chi toccasse la supremazia,” commentò Garkos, poco convinto.
“Sì, ma certo. Naturalmente,” annuì di nuovo il capo dei vampiri. “Ma il suo compito era dare un ordine al caos, una qualche sorta di organizzazione razionale che stabilisse una volta per tutte lo stato delle cose, non certo eliminare una delle razze dalla faccia della terra.”
“Sarebbe potuto accadere,” insistette Garkos. “La lotta è stata dura.”
Lord Zenir si strinse nelle spalle. “Io sono propenso a credere che se questa fosse stata una possibilità, lei lo avrebbe saputo e impedito. E' il suo compito, dopotutto.”
“Quindi, forse, sapeva già che avrebbero vinto i Cavalieri.”
“Non lo so. Probabilmente no, queste profezie non funzionano mai con tanta precisione. Se così fosse, perché vivere in cima ad un monte invece che andare di regno in regno a chiedere denaro per prevedere gli esiti di guerre e battaglie? No, lei non lo sapeva. Sapeva solo che non ci sarebbe stato nessuno sterminio, ergo non ci farà sterminare nemmeno ora,” concluse Lord Zenir, per poi alzarsi e spolverarsi gli abiti con estrema cura. “E ora se vuoi scusarmi, devo passare all'ennesimo noioso compito da passacarte. Pensavo che i problemi sarebbero finiti con la guerra e invece ne ho sempre di più grossi.”
In quel momento, il corridoio al di fuori dell'ufficio fu attraversato da un ringhio bestiale, seguito da rumori sempre più forti di collutazione e dal nome di Zenir urlato a gran voce.
“Come questo?” Chiese Garkos, con un mezzo sorriso divertito e una punta di soddisfazione.
Lord Zenir socchiuse gli occhi. “No, lui non era previsto. Almeno per oggi.”
Più per evitare che le urla facessero venire giù il palazzo che per vera e propria voglia di occuparsene, Lord Zenir uscì dall'ufficio per incrociare due guardie che tenevano Iatho ben stretto, mentre quello si dimenava, urlando, ringhiando e imprecando contro tutto e tutti. “Si può sapere che cos'è questa confusione?”
Quando il ragazzo si rese conto di averlo davanti, smise subito di prendersela col mondo per concentrare tutta la propria rabbia su di lui. I suoi strattoni divennero più violenti e le guardie dovettero stringere la presa per evitare che si liberasse. “Zenir digli di lasciarlo stare!” Urlò. “Vogliono portarmelo via, ma possono anche scordarselo! Mi hai capito? Digli di lasciarlo in pace.”
Lord Zenir fece cenno alle guardie. “Lasciate pure. Ci penso io,” ordinò. Le due guardie esitarono, forse messe in allarme dalla violenza con la quale il ragazzo si dimenava. “Non preoccupatevi. Iatho non mi farà del male.”
Le due guardie annuirono e liberarno il prigioniero, per poi congedarsi. Iatho si allontanò da loro con un gesto rabbioso. Dietro di lui c'era la figura alta e dinoccolata di un altro vampiro, la cui pelle era di un bel bianco perlaceo, così liscia ormai da far pensare che fosse davvero molto antico, molto più di Lord Zenir a cui un buon pasto regalava ancora un'illusione di umanità. “Signore, ho cercato di fermarlo ma sa com'è fatto,” si giustificò. Era rosso di capelli e la luce delle candele lungo il corridoio lo accendevano quasi come una torcia. “Non sente ragioni.”
“Tu dovresti solo stare zitto!” Sibilò Iatho, voltandosi solo un istante per piantargli un indice accusatore in faccia. “Non hai mosso un dito per fermarli, dovresti vergognarti.”
“Che cos'è successo, stavolta?”
“I tuoi uomini sono venuti a prenderlo. Un'altra volta,” esplose Iatho, ansimando per tutte le urla che lo avevano faticosamente portato fino a lì. “Dicono che non c'è più niente da fare e devono liberare la stanza. Se non li tieni lontani, io ti giuro che trovo il modo di farteli a pezzi, uno dopo l'altro!”
“Iatho...” Il vampiro più anziano sospirò. “Pensavo che ne avessimo gà parlato. I miei soldati stanno solo cercando di fare il loro lavoro. So che per te è doloroso, ma devi capire che il tuo angelo è--”
“Noah non è morto!” Il ragazzo lo interruppe ringhiando, con l'aria di qalcuno che ha già detto così tante volte la stessa cosa da non disturbarsi più a trovare il tono giusto per ripeterla.
“Iatho...”
“Non è morto. Dobbiamo solo aspettare, a volte ci vuole tempo.”
“Ne abbiamo aspettato a sufficienza. Più di quanto fosse logico,” Zenir lo guardò stanco, ma con pazienza e affetto. Avrebbe volentieri allungato una mano per stringerlo a sé se non avesse avuto paura che Iatho potesse azzanargliela. “Noah non si risveglierà più.”
Il vampiro dai capelli rossi si fece avanti, appoggiandogli una mano sulla spalla per consolarlo, ma Iatho lo scostò in malo modo senza nemmeno voltarsi. “Lo abbiamo trasformato. Abbiamo fatto tutto come si deve, quindi lui si risveglierà. E' solo questione di tempo. Non è mai successo che la maledizione non avesse effetto!”
Erano passate settimane da quando avevano cercato di vampirizzare Noah, ma non era successo niente. Dopo averlo quasi del tutto privato del suo sangue e avergli fatto bere quello di Iatho, l'angelo aveva avuto una specie di collasso. Aveva perso i sensi e infine, lentamente, il suo cuore aveva smesso di battere e lui aveva smesso di respirare. Un processo del tutto normale, del quale non si erano preoccupati perché tutto procedeva esattamente nella maniera in cui avrebbe dovuto; ma da quel momento in poi, niente era più andato per il verso giusto. Noah, che avrebbe dovuto risvegliarsi da lì a qualche ora, aveva continuato a rimanere immobile e privo di vita.
Lord Zenir spostò lo sguardo oltre il ragazzo, dove l'altro vampiro era tornato a posare le mani in grembo, dispiaciuto di non essere di nessun conforto. “James?”
“Abbiamo fatto tutto il possibile, signore,” disse quello, scuotendo la testa. “Non so ancora per quale motivo Noah non abbia reagito come ci aspettavamo. Forse è la sua natura di angelo ad impedirgli di risvegliarsi--”
“Lui si risveglierà!” Ripeté Iatho, testardo. “E nessuno gli si deve avvicinare.”
James si schiarì la voce, facendo qualche passo avanti. “Signore, il Concilio ha inviato i soldati questa mattina e anche ieri. Non sappiamo che cosa fare.”
E mentre Iatho ricominciava a ringhiare, Zenir sospirò. “Per quanto tempo ancora possiamo aspettare e sostenere che è improbabile, ma non impossibile, che si risvegli?”
“Signore, io non credo che...”
“Una stima approssimativa. Una settimana? Due?” Insistette Zenir, guardandolo dritto negli occhi. “Possiamo dire con certezza che è morto per sempre?”
“E' passato quasi un mese,” mormorò James, incerto.
“Perché non si decompone, allora?” Chiese il capo dei vampiri, frustrato. Una parte di lui avrebbe voluto farla finita, permettere che il cadavere fosse rimosso e passare oltre ma gli occhi di Iatho gli impedivano di dare l'ordine e, anche senza di loro, era bastato il corpo intatto di Noah a fargli venire dei dubbi. “A quest'ora avrebbe dovuto già imputridirsi.”
“E' un angelo,” insistette James. “Forse i loro cadaveri si comportano diversamente.”
Lord Zenir indicò con il braccio teso oltre la finestra, verso un campo di battaglia distante chilometri ma che sia lui che James potevano ben vedere con gli occhi della mente. “Ci sono decine di cadaveri là fuori e sono pieni di vermi!”
“Si tratta di una cosa completamente diversa,” James tornò a scuotere la testa e si rimise bene gli occhiali sul naso appuntito. “Abbiamo tentato una trasformazione. Forse si tratta di un meccanismo di difesa, o magari il sangue vampirico è abbastanza potente da conservare il corpo ma non da rianimarlo. Potrebbe darsi che...”
“Forse, magari, potrebbe. C'è una cosa della quale sei sicuro?” Sbottò Zenir. “Dammi delle risposte concrete, una buona volta!”
“Signore, non ci sono risposte concrete. Come le avevo già detto all'inizio, questo tipo di tentativo non ha che pochi precedenti ed esiste un solo caso documentato che sia andato a buon fine. Io non posso, in tutta coscienza, darle delle informazioni sicure.”
Lord Zenir si chinò verso di lui, fin quasi a sfiorarlo. “Allora inventale, se necessario. Mi serviranno se vogliamo strappare una proroga al Concilio.”
Iatho sgranò gli occhi, assolutamente sorpreso da quella reazione. Vista la piega che avevano preso le loro discussioni sull'argomento nell'ultima settimana, aveva ormai perso le speranze di avere il supporto di Zenir e invece eccolo che tentava di guadagnare altro tempo. “Zenir, io...”
“E' Lord Zenir, Iatho,” il vampiro gli scoccò un'occhiata severa che si addolcì solo quando il ragazzo abbassò il capo, annuendo. “Parlerò al Concilio e vedrò che posso fare.”
“Grazie.”
“Ma non ti fare troppe illusioni. Anche se gli lasciassero tutto il tempo del mondo, io non credo che sarebbe sufficiente.”
“Ecco perché sono io che spero e tu che intercedi per il Concilio.”
Iatho sorrise, ma era un sorriso triste come quello di Zenir.

*


Noah era riuscito a creare un grande scompiglio tra i vampiri, anche senza fare assolutamente niente. Durante la guerra, Iatho lo aveva salvato dall'assalto di alcuni suoi simili e Lord Zenir aveva deciso di farlo prigioniero, per aiutare il proprio protetto e frenare, almeno temporaneamente, la sete di vendetta di quelli che si erano visti portare via sotto il naso una preda già spacciata.
Il Concilio aveva cercato di sfruttare il prigioniero facendosi dare informazioni utili per battere almeno gli angeli che erano i loro rivali più pericolosi, ma Noah non aveva voluto tradire il suo popolo anche a costo della sua stessa vita e così era stato condannato a morte.
Mentre saliva le scale che lo avrebbero portato al patibolo, non provava paura; solo un grande senso di liberazione. Per come era stato cresciuto e per quello che gli era stato insegnato, la morte non faceva paura. Non avrebbe fatto altro che chiudere gli occhi e, quando il suo corpo avrebbe cessato di vivere, il suo spirito lo avrebbe abbandonato, tornando a far parte di quell'energia divina che ben presto Dio si sarebbe occupato di utilizzare in qualche modo. Forse sarebbe stato un altro angelo, o forse sarebbe stato pioggia. Qualunque cosa Dio avesse deciso per lui, sarebbe stato libero e al sicuro, lontano dal dolore che aveva sofferto negli ultimi giorni. Iatho lo fissava disperato e urlante tra il pubblico di suoi simili che avrebbero assistito alla morte come ad uno spettacolo di intrattenimento. Gli dispiaceva lasciare Iatho, provava una grande malinconia al pensiero che sarebbero stati divisi. Si consolava pensando che, in qualche modo, Iatho lo avrebbe sempre portato nel cuore e lui, come parte di un'energia che componeva tutto ciò che li circondava, gli sarebbe stato comunque sempre vicino.
I vampiri urlavano cose che non avrebbe mai voluto sentire. Alcuni ringhiavano così forte da coprire, a tratti, le grida dei loro compagni. Tutti volevano il suo sangue come se da quello dipendesse la vittoria dell'intera guerra. Si chiese se anche gli angeli avrebbero provato lo stesso odio, lo stesso senso di stupido trionfo nell'avere per le mani uno di loro e poterlo uccidere. Non aveva mai assistito ad un'esecuzione, quant'era ingiusto che fosse proprio la sua?
Il boia non era incappucciato. Era un vampiro molto vecchio, Noah ne sentiva il potere enorme ma controllato appena sotto la superficie di una pelle dura e gelida come la pietra. Lo aveva strattonato lungo le scale, con fermezza ma non con vera e propria violenza. L'ondata d'odio proveniva soltanto dal pubblico ai suoi piedi, forse perché era più facile volere morto qualcuno quando si aveva la certezza di non doverlo ammazzare con le proprie mani. Quasi sempre togliere una vita faceva paura quasi quanto perderla, era per questo che uccidere non gli piaceva. Non gli piaceva avere paura.
Il ceppo sul quale il boia gli aveva fatto appoggiare la testa era di legno ruvido, Noah ne sentiva le venature contro la guancia e si concentrò su quello piuttosto che sullo stridio sinistro della pietra che affilava la lama alle sue spalle. Quando il boia si avvicinò, il ruggito della folla si fece più forte e lui cercò la voce di Iatho fra le centinaia che invocavano la sua morte per avere qualcosa di famigliare a cui aggrapparsi nel momento in cui il colpo di scure avrebbe posto fine alla sua vita. Si immaginava che sarebbe stato doloroso, seppure solo per un attimo; la voce di Iatho sarebbe stata un conforto.
Il vampiro fece tre passi verso di lui e Noah li sentì rimbombare attraverso il corpo premuto contro il legno di quel palco improvvisato. Non poteva vedere il suo assassino, perché una mano gli teneva ferma la testa, anche se non aveva alcuna intenzione di voltarsi, così come non ne aveva di scappare. Voleva soltanto che tutto finisse, l'attesa era quasi peggiore dell'idea della morte stessa.
Un tamburo si mise a suonare, dapprima velocemente per attirare l'attenzione della folla sulla quale calò un improvviso e ordinato silenzio, e poi iniziò a scandire il tempo, un colpo alla volta. Ad ogni colpo, Noah pensava che sarebbe morto e serrava gli occhi, ma ce n'era sempre un altro, dopo, che non faceva che aumentare la sua ansia. Inevitabilmente, una parte del suo cervello iniziò a pensare che il tamburo sarebbe andato avanti a suonare in eterno e proprio quando se ne fu convinto, il colpo successivo non arrivò e si sentì mancare il fiato. Annaspò in cerca d'aria e cercò di divincolarsi in quei pochi istanti che, sapeva, lo separavano dalla morte. L'urlo che gli scappò di bocca si perse nel sibilo della lama che si abbatteva su di lui.
“Fermi!” Gridò una voce che non conosceva.
Noah serrò gli occhi, ma non successe nulla. Si chiese se morire fosse così semplice, se il passaggio tra la vita e la morte fosse una questione di secondi di cui nessuno davvero si accorgeva. Intorno a lui c'era ancora silenzio, così si arrischiò a guardare, confuso soprattutto perché da morto non avrebbe dovuto poter sentire le cose come le aveva sentite da vivo. L'energia non ha orecchie, né occhi né naso, eppure lui sentiva e vedeva il buio dietro le palpebre.
La folla di vampiri urlanti si era zittita e guardava qualcuno alle sue spalle, probabilmente la stessa persona che aveva gridato un attimo prima che il boia colpisse, o si accingesse a farlo. Per un lunghissimo istante, tutto quanto rimase immobile così come lo vedeva. Noah sembrava essere l'unico a muoversi, cercando di liberarsi dalla stretta d'acciaio della mano che lo teneva bloccato al patibolo.
“Fermi,” ripeté di nuovo lo sconosciuto, infrangendo quell'incantesimo e ridando vita a tutto ciò che fino al momento prima si era fermato. “Non uccidetelo. Ho una soluzione migliore.”
A Noah quelle parole non piacquero affatto. Dopo tutto ciò che aveva subito nella tenda che gli aveva fatto da prigione nelle ultime settimane, non vedeva come una cosa qualsiasi, aldilà della libertà, potesse essere più desiderabile della morte. Uno dei consiglieri, quello più alto e con i capelli di un biondo quasi dorato che al processo era stato il primo ad opporsi alla sua sopravvivenza, si alzò in piedi e aspettò che la folla si zittisse di nuovo prima di parlare. “E tu chi saresti? Come osi interrompere l'esecuzione?”
La voce dello sconosciuto si fece più dimessa, quasi colpevole. “Mi chiamo James e vi chiedo perdono, Lord Kaynn. L'urgenza ha reso necessario il mio gesto.”
Lord Kaynn non sembrà colpito da quelle scuse. Intrecciò le mani davanti a sé e si fece ancora più rigido e severo. Noah vedeva solo parte del suo viso dietro il corpo enorme del boia, se sporgeva la testa quel tanto che la mano del suo aguzzino glielo permetteva. “Spero che tu abbia una ragione valida, ragazzo,” disse con voce gelida. “O assisteremo ad una doppia esecuzione.”
“Ce l'ho, signore,” annuì subito quello. Noah sentì i suoi passi incerti sul legno e poi un rumore come di pergamena. “Io credo che ucciderlo sarebbe un enorme spreco, soprattutto adesso che siamo in guerra. Il suo sangue e il nostro insieme potrebbero darci la forza che ci serve a sconfiggere le altre razze.”
“E come pensi di mischiarli? Anche ammesso che la nostra razza non fosse sterile e avessimo il tempo di crescere un ibrido, questa creatura è un maschio.”
Noah si sentì arrossire anche mentre pensava che Lord Kaynn doveva saperne ben poco di angeli se non era al corrente del fatto che erano tutti quanti come lui. Maschi, cioè. Anche se la definizione lasciava a desiderare giacché molti di loro diventavano quelle che lui avrebbe definito madri, e generavano.
“Signore, con tutto il rispetto,” disse James, con un colpetto di tosse che sembrò vagamente impietosito, “mi riferivo, naturalmente, ad una vampirizzazione.”
Noah sgranò gli occhi mentre la folla di fronte a lui veniva attraversata da un mormorio sempre più forte. “Calma! Calma, tutti quanti!” Lord Kaynn alzò entrambe le mani e chiese silenzio. “Adesso non agitiamoci per delle fantasie. Per secoli la nostra razza ha tentato di passare il proprio sangue ad altre creature che non fossero umane ma, come la storia ci insegna, questo non è possibile. Per quanto la cosa sia detestabile, possiamo solo trasformare in noi ciò da cui noi veniamo, e nient'altro. Tantomeno creature potenti come gli angeli. James, è per questo che ci stai facendo perdere tempo?” Il Consigliere fece cenno al boia che rinsaldò la presa sul manico dell'ascia, ma James lo fermò di nuovo.
“Aspetti, per favore!” Esclamò, facendosi più vicino. Noah riusciva a vedere i suoi stivali e parte di un abito che non somigliava alla divisa militare che aveva visto indossare a Iatho. “So che può sembrare improbabile, ma ho dedicato la mia vita a studiare questo genere di vampirizzazioni e io sono sicuro che questa volta abbiamo una possibilità.”
Lord Kaynn sembrò improvvisamente annoiato, ma uno degli altri consiglieri gli bisbigliò qualcosa all'orecchio, così si sedette e fece un cenno con la mano a James perché continuasse.
Il vampirò si schiarì la voce. “Ecco, sì. Dunque...L'angelo che vedete qui appartiene alla terza gerarchia. La società degli angeli è piramidale. In alto: Serafini, Cherubini e Troni,” spiegò tenendo la mano in alto, sopra la testa. Poi la spostò più in basso, “A seguire, Dominazioni, Virtù e Potestà. E infine...” spostò la mano più in basso, all'altezza delle spalle. “Principati, Arcangeli e Angeli.”
Lord Kaynn non fece alcun commento. Rimase immobile sul suo scranno di pietra, in annoiata attesa che James concludesse qualunque discorso stesse cercando di fare. Noah, invece, era interessato perché aldilà di qualche imprecisione, la visione di James era piuttosto veritiera.
“Un angelo di alto livello, diciamo una Potestà, non potrebbe mai essere vampirizzato. Più in alto si va nella piramide, più l'energia divina è intensa e potente. Cercare di mordere una Potestà, ammesso che questa lo permetta, non servirebbe a molto perché o il suo sangue, intriso di volontà divina, annullerebbe la nostra maledizione nel caso il dissanguamento riuscisse o peggio, ancora, sarebbe così forte da avvelenarci. Ma quest'angelo qui...” James gli si avvicinò ulteriormente e Noah vide un lungo l'indice lungo e innaturalmente bianco puntato su di lui “...questo è un angelo molto meno potente. Forse della seconda gerarchia, ma più probabilmente della terza. Un angelo comune. Il suo sangue contiene l'energia divina necessaria a renderlo virtualmente eterno, a curare le ferite più gravi e, in generale, a fare di lui il tramite divino che dovrebbe essere, ma non è abbastanza potente da tenerci lontani e non è velenoso.” Noah sentì la mano che lo teneva fermo allontanarsi e un attimo dopo era in piedi, di fianco a James, che gli fece piegare gentilmente la testa e mostrò ai presenti il suo collo e le braccia legate. “Come vedete, signori, quest'angelo è stato morso mentre si trovava qui. Le sue ferite sono in gran parte guarite, ma se ne vedono ancora le tracce. E non mi risulta che qualcuno sia arso vivo, ultimamente.”
Il borbottio fra la folla riprese, forse perfino più forte di prima. “Questo non dimostra niente,” rispose Lord Kaynn, i gomiti puntati sui braccioli dello scranno. “E' di sicuro un angelo inferiore dal momento che sarebbe morto prima ancora di farsi catturare se un atto di tradimento da parte di Iatho non lo avesse salvato e di certo il suo sangue non è velenoso, ma ciò non significa che possa essere vampirizzato. Tutti i tentativi precedenti sono finiti tragicamente. Sprecheremo del tempo prezioso e ci ritroveremo comunque con l'ennesimo corpo da smaltire.”
“Senza contare che tentare la vampirizzazione su un angelo potrebbe suscitare domande da parte degli altri popoli, soprattutto dai Cavalieri che sono molto devoti,” intervenne per la prima volta un altro dei Consiglieri, seduto all'estremità opposta della fila. “Potrebbero chiedere giustizia direttamente alla Veggente e considerarlo un atto di eresia. Andremmo incontro ad una serie di problemi che non varrebbero la pena nemmeno se il tentativo andasse a buon fine.”
“Sono d'accordo,” annuì Lord Kaynn. “Alla fine che cosa avremmo? Un vampiro più potente degli altri?”
“No, signori,” James stavolta sorrise. “Avremmo un demone.”

*


Iatho immerse la striscia di stoffa pulita nell'acqua e la passò delicatamente sul viso immobile di Noah.
Aveva sentito spesso di persone che, spentesi tranquillamente, conservavano nella morte l'espressione serena del sonno. Noah sembrava aver chiuso gli occhi soltanto un istante prima, come faceva sempre quando andava a trovarlo e si distendevano insieme sull'erba a guardare il cielo stellato del paradiso. L'angelo chiudeva gli occhi e sorrideva, fingendo di dormire, così che lui potesse giocare a svegliarlo. Iatho poteva quasi vedere l'ombra di quel sorriso sulle labbra chiuse e rigide del suo corpo privo di vita e quando le sfiorava, attratto dalla stessa forza irresistibile che lo portava a farlo anche prima, rimaneva deluso di non sentirle calde e morbide al tatto, di non vederlo arricciare il naso e posare un bacio lieve sui suoi polpastrelli per invitarlo ad insistere.
“Ancora con quel secchio d'acqua?” Chiese James, entrando in quel momento nella stanza e trovandolo intento a lavargli il viso e il collo dalla polvere che si andava accumulando giorno dopo giorno sul suo corpo perfetto. Perfino l'aria era sporca della cenere del generatore di nebbia e durante il giorno lasciava tracce scure sulla pelle che andavano lavate via la sera.
“Tu fatti gli affari tuoi,” ringhiò Iatho, senza nemmeno sollevare lo sguardo. “Piuttosto, hai trovato qualcosa che può esserci utile?”
James appoggiò sulla scrivania una pila di libri alta quasi il doppio di quella che già svettava in bella vista tra i suoi appunti. C'erano libri ovunque, in realtà, sulle sedie, sulla finestra, ammassati negli angoli per non impedire il passaggio e ce n'erano alcuni perfino su un vecchio letto scassato che era lì per fare arredamento. Sembrava che per quante volte andasse in biblioteca per recuperarli, ce ne fossero sempre degli altri ad aspettarlo quando ci tornava la volta successiva. “Assolutamente niente,” sospirò, rimettendosi gli occhiali rettangolari sul naso e cominciando a smistare i volumi tra quelli che aveva già letto, quelli che doveva ancora leggere e quelli a cui avrebbe fatto meglio a dare una ripassata. “Abbiamo fatto tutto ciò che dovevamo fare e lo abbiamo fatto nella maniera corretta, eppure lui continua a non svegliarsi. Ho riletto le procedure e tutti gli appunti che sono riuscito a trovare. Non siamo noi il problema.”
“Forse i tuoi appunti non sono corretti,” gli fece notare Iatho. “Quanti secoli hanno quelle pergamene? E se ti sbagliassi? Se il sangue di Noah fosse più potente di quello che dici? Magari è un angelo che appartiene alla prima categoria.”
“Se fosse un Serafino, io e te non saremmo più qui a parlarne,” commentò James, voltandosi verso di lui con un sospiro annoiato. “E comunque se non lo sai tu che cos'è il tuo angelo...”
“E' un custode,” rispose subito Iatho, cercando di non lasciar trapelare quella punta di esitazione che sentiva nella voce. In realtà lui e Noah non avevano mai parlato delle loro vite al di fuori di quei quattro metri di giardino in cui si incontravano. Lui aveva supposto che si trattasse di un custode perché diceva di aiutare gli umani, a volte. E perché non era un soldato e sapeva per certo che i custodi non lo erano; ma non poteva essere sicuro.
“E allora non può essere molto potente,” sospirò di nuovo James, finendo per lasciar perdere lo smistamento. Prese una sedia e si sistemò accanto a lui, al capezzale di Noah. “Davvero non capisco. Tu hai bevuto da lui e lui da te. A quest'ora dovrebbe già essere sveglio, forte abbastanza da scoperchiare il tetto di questa stanza, per altro.”
Iatho dedicò alle travi del soffitto soltanto un'occhiata, cercando di immaginare le dita morbide di Noah stringersi intorno ad esse e sradicarle, e non ci riuscì. “Che cosa succederà quando si sveglierà?”
“Questo propro non lo so,” James scosse la testa, allargando le braccia in segno di resa. “Non ci sono molti precedenti documentati e i racconti dicono tutti cose diverse. Probabilmente la natura del demone dipende dalla natura della creatura originaria.”

*


Noah non voleva. D'altronde Iatho non si era aspettato una risposta diversa quando si era recato nella cella in cui lo avevano messo per dargli la notizia. “Non volevo darvi informazioni, questo è perfino peggio!” Esclamò, seduto sulla sua branda, con le mani in grembo e le ali pietosamente piegate dietro la schiena, una delle quali ancora rotta. “Ero pronto a morire. Voglio morire. Perché non mi uccidete e basta!”
Iatho sospirò e si inginocchiò di fronte a lui prendendogli le mani. “Ti sembra davvero una soluzione migliore?”
“Sì, Iatho! Sì!” Esclamò Noah con enfasi. “Mi sembra l'unica soluzione. E' così difficile per te capire che non voglio in alcun modo tradire il mio popolo? Che morire non è così terribile in confronto al pensiero di fare in qualche modo del male alla mia gente?”
Iatho finì con l'arrabbiarsi. Era arrivato preparato a quel suo atteggiamento, lo aveva perfino previsto, ma la verità era che non lo comprendeva e che la sola idea che Noah preferisse morire piuttosto che vivere con lui, lo mandava in bestia. “Avevi paura,” disse perciò, alzandosi di nuovo in piedi e lasciandogli le mani, per l'irritazione.
“Cosa?”
“Aveva paura sul patibolo. Ho visto il terrore nei tuoi occhi, quindi non venirmi a dire che sei pronto a morire,” esclamò. “Perché non lo sei.”
Noah abbassò la testa e serrò le labbra, stringendo i pugni in grembo. “Iatho, io non ho mai detto che sarebbe una cosa facile da affrontare, solo che preferisco affrontare quella, indipendentemente dall'alternativa.”
“Beh, non hai più questa possibilità.”
Noah sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi, improvvisamente impaurito. “Cosa?”
L'attimo di irritazione svanì com'era arrivato, sciogliendosi nello sguardo terrorizzato dell'angelo. Non c'era niente che colpisse Iatho di più della paura di Noah, perché prima di conoscere lui non ne aveva mai provata di così violenta e che avesse un fondamento così reale. Noah aveva avuto paura di uscire dal giardino, paura di stare da solo, paura perfino della sua ombra, ma non era mai stato davvero in pericolo finché Iatho non era stato nella sua vita. Il vampiro si sentiva responsabile all'inizio, e si sentiva ancora più responsabile adesso. “Il Concilio ha deciso di vampirizzarti, che tu lo voglia o meno,” sospirò.
“Questo non è giusto! Io ho il diritto di poter decidere una cosa del genere,” protestò l'angelo, senza preoccuparsi di sembrare ingenuo. “Siamo... siamo in guerra, non c'è una legge, un onore, delle regole da rispettare?”
Iatho avrebbe voluto dirgli che di regole simili non ce n'erano nemmeno in tempo di pace, figurarsi durante la guerra, ma lasciò perdere. “Hanno mandato me a farlo,” disse, sperando che questo potesse far apparire la situazione un po' meno nera. “E ti prometto che ti renderò le cose il meno traumatiche possibile.”
“Io non voglio!” Esclamò Noah e quando Iatho fece per avvicinarsi ed abbracciarlo, si tirò indietro e si raggomitolò tutto in un angolo della branda, schiacciandosi contro il muro ed abbracciandosi le ginocchia, terrorizzato. “Non voglio, Iatho! Ho paura! Non voglio! Non voglio!”
Iatho rimase fermo dov'era, per evitare di peggiorare la situazione. “Ti prego, calmati,” chiese piano. Non aveva idea di come gestirlo, se faceva così. Sapeva solo che nemmeno lui voleva farlo in queste condizioni e sapere di non avere altra scelta che imporsi non lo aiutava a portare a termine il suo compito.
“Non voglio,” ripeté piano l'angelo, cercando disperatamente di chiudersi all'interno delle proprie ali e fallendo miseramente. “Sono un angelo. Io sono un angelo.”
Iatho rimase a guardarlo e per un attimo si chiese quanto sarebbero riusciti ad andare lontano se lo avesse preso e portato via adesso, lasciandosi tutto alle spalle. Probabilmente potevano passare il confine senza essere fermati, ma dove potevano andare? In superficie tutti sarebbero stati disposti a proteggere Noah, ma non lui. Era una causa persa.
Ad interrompere i suoi pensieri fu James che spalancò la porta senza nemmeno bussare. “A che punto siamo?” Chiese sbrigativo. “Il Concilio non vuole aspettare oltre.”
In tutta risposta, Noah si fece ancora più piccolo. Perfino i piedi nudi sparirono dentro l'orlo dei pantaloni. Iatho salì piano sulla branda, strappandogli un brivido ancora più forte degli altri e gli si avvicinò, trattenendo a sé la sua energia per quanto era possibile. Noah non si mosse, lasciò perfino che gli scostasse le ali e le mani dalla faccia, ma lo accolse con un'espressione così spaventata che il vampiro dovette raccogliere tutto il proprio coraggio per proseguire. “Lo faranno comunque,” mormorò, accarezzandogli il viso. “Lascia almeno che sia io.”
L'angelo cominciò a scuotere la testa, dapprima piano e poi sempre più forte, mugolando disperato per poi finire a mormorare nella sua lingua senza che Iatho potesse più distinguere anche solo le sue preghiere disperate. Iatho gli prese le mani, i polsi e le spalle quando Noah cercò di liberarsi, sebbene senza convinzione. “Noah, ti prometto che farò in modo che non sia tanto male,” mormorò piano, tenendolo stretto senza fargli male e premendo il naso contro il suo.
Noah strinse gli occhi e due lacrime pesanti gli scivolarono giù dalle ciglia. Iatho ne sentì quasi il sapore da quanto era vicino. Lo lasciò singhiozzare e aspettò che quei singhiozzi si facessero più forti per poi calmarsi, di fronte all'evidenza che sarebbe successo.
“Ti ho mai mentito?” Chiese Iatho, strusciando il naso contro la sua tempia. Noah scosse la testa, senza aprire gli occhi.
Il vampiro gli posò un bacio leggero sulla guancia, per poi seguire l'odore invitante della sua pelle lungo il collo e la spalla. “Vieni qua,” mormorò sedendosi e tirandoselo addosso. Arreso, Noah non fece alcuna resistenza. Gli si sedette in grembo senza mai aprire gli occhi e gli appoggiò la fronte su una spalla, con le mani raccolte sul suo petto, totalmente abbandonato. Mormorò qualcosa e le sue ali fremettero piano, fu come un brivido che sollevò le piume per un istante.
Iatho sollevò gli occhi su James che se ne stava immobile di fianco alla porta, con le braccia incrociate al petto. “Ti dispiace?” Gli chiese, indicandogli l'uscita con un cenno del capo.
James sospirò, ma con un colpo di reni si staccò dal muro al quale era appoggiato, senza sprecarsi a disincrociare le braccia. “Quando hai finito fammelo sapere. Sono qui fuori per ordine del Concilio.”
Iatho fissò la porta finché non la vide chiudersi e non sentì il rumore del chiavistello che li condannava là dentro senza possibilità di appello.
“Fallo e basta,” mormorò Noah, all'improvviso. La sua voce arrivò ovattata dalle sue labbra premute contro la sua spalla, ma comunque comprensibile. Strinse le mani intorno alla stoffa della sua maglia e tirò, senza sapere bene che cosa volesse fare. Iatho se lo scostò di dosso e lo costrinse a guardarlo negli occhi. L'angelo serrò la mascella. “Non ne posso più, quest'attesa mi sta uccidendo. E' una tortura. Prima il patibolo e poi il tamburo e ora questo! Fallo e basta!”
“Noah, tu non sai quello che stai dicendo.”
L'angelo scosse la testa. “No, non lo so. Ma ho tutta questa rabbia dentro e... voglio solo che tu la faccia finita. Mordimi, avanti. E' questo quello che devi fare.”
“Sarà un po' più complesso di così.”
L'angelo volse lo sguardo e gli porse il collo di sua spontanea volontà. “Fallo e basta.” Ripeté. “E non parlare.”
Iatho lo distese sul materasso ma Noah non sembrò apprezzare né quello né gli altri tentativi di metterlo a proprio agio. Rimase teso, nonostante il suo corpo si sistemasse sotto quello di Iatho per abitudine, cercando la curva dei suoi fianchi a cui appendere le gambe e premendo il ventre piatto contro il suo, mentre Iatho gli baciava il collo, stando bene attento a non sfiorarlo con la punta delle zanne prima del tempo.
Lo accarezzò come aveva fatto la prima volta, in un passato che sembrava lontanissimo, sfiorandogli le braccia e le gambe con la punta delle dita e trovandovi la stessa tensione, la stessa paura, lo stesso leggero tremore. Allora Noah non conosceva affatto il proprio corpo, non ne controllava le reazioni e si era abbandonato alle cure di Iatho con una fiducia commovente, di cui adesso non c'era più alcuna traccia.
Il vampiro lo sentiva muoversi sotto di sé, socchiudeva gli occhi alle carezze forse involontarie che Noah gli lasciava sulla schiena e alle unghie che gli affondava nelle spalle quando scendeva ad accarezzarlo ed indugiava tra le sue gambe, cercando di strappargli un mugolio che non fosse così doloroso, oltre che perso. Ma dell'abbandono che c'era stato, non c'era più niente.
Noah inseguiva sulla sua pelle gli ultimi istanti di piacere su cui poteva ancora mettere le mani, ma non si fidava più di lui al punto da lasciarlo fare, da concedersi il lusso di chiudere gli occhi e vedere che cosa sarebbe successo. Voleva essere presente a se stesso. Iatho lo capì quando forzò la sua apertura, trainato quasi a forza dai gemiti che l'angelo gli lasciava scivolare lungo il collo per incitarlo e fra i quali lo sentì mormorare a fatica. “Fallo adesso,” lo implorò, cercando la voce che gli era morta in gola, nel momento in cui Iatho si era spinto completamente in lui. “Mordimi finché posso sentirti. Fallo adesso.”
Le zanne scesero contro il suo volere. Iatho né sentì lo scatto involontario, al quale anche Noah ebbe un fremito e gli si strinse addosso ancora di più, strusciandosi contro di lui e cercando la frizione necessaria a fargli perdere quel briciolo di lucidità che gli era rimasta.
Iatho accarezzò la pelle morbida del suo collo con la punta dei denti e vi affondò con un morso deciso, assaporando sulla lingua il sapore del sangue e godendo del corpo di Noah che si serrava intorno al suo con uno scatto mentre l'angelo reclinava la testa all'indietro.
Cercò di bere piano, ma Noah non faceva niente per trattenerlo. Aveva ripreso ad accarezzarlo un attimo dopo, abituato all'orgasmo violento che seguiva il morso e precedeva quello fisico. Gli serrava le cosce intorno ai fianchi, abbracciandolo stretto, spingendolo verso il proprio collo e sulla ferita.
Iatho ringhiò e lottò per mantenere un contatto con quella cella e il luogo in cui si trovavano, con la realtà che stava all'esterno del corpo caldo sotto di lui che sembrava invitarlo a prenderselo, pezzo dopo pezzo, in ogni modo possibile. Seguì con attenzione il battito del cuore di Noah, né ascoltò il ritmo violento all'inizio e frenetico poi, finché non lo sentì rallentare, un passo alla volta. Oltrepassò il momento in cui avrebbe dovuto fermarsi e lo accompagnò fino a spegnersi, finché le sue gambe non persero la presa sui suoi fianchi e le sue braccia ricaddero stanche e pesanti accanto al corpo. Allora lo adagiò di nuovo sul materasso, gli ravvivò i capelli umidi di sudore e lo chiamò piano.
Noah si mosse lentamente, quasi troppo poco per poterlo notare, e cercò i suoi occhi, faticando a mettere a fuoco. “Iatho...” mormorò.
Il vampirò si aprì il polso senza darsi il tempo di pensare, gli appoggiò la ferita alla bocca e quando Noah fece per ritrarsi, gliela premette contro le labbra finché non fu costretto a schiuderle e bere il sangue che ne usciva. Rimase ad osservare la luce nei suoi occhi fissi nei suoi finché non si spense del tutto e il sangue non cominciò a colargli da un angolo della bocca, allora lo prese tra le braccia e si mise a piangere, aspettando che l'alba del mondo di sopra li raggiungesse entrambi.

*


Dopo altre due settimane, Lord Zenir dovette arrendersi all'evidenza che avrebbe dovuto convincere Iatho a lasciare perdere. Il Concilio aveva fatto non poche storie per concedere altro tempo. Adesso che la guerra era conclusa e le acque si erano, per così dire, calmate, i vampiri più anziani che gestivano la colonia erano irrequieti e temevano che si venisse a sapere della presenza di Noah nell'accampamento. Volevano servirsene o liberarsene il prima possibile ed erano poco propensi ad occuparsi di un cadavere solo per il cuore tenero di un vampiro che, fra le altre cose, visto il pessimo esito della vampirizzazione, avrebbe dovuto essere ucciso come voleva la sua condanna originaria.
L'ordine del Concilio era arrivato quella sera. In uno slancio di buon cuore che sapeva tanto di sarcasmo, Lord Kaynn l'aveva avvisato un'ora prima che la procedura iniziasse così che avesse il tempo, queste erano state le sue parole esatte, di confortare la debole natura del suo protetto con qualunque parola di conforto ritenesse necessaria.
Zenir aveva letteralmente dato fuoco alla pergamena con il messaggio e distrutto un altro paio di incartamenti, prima di calmarsi e cercare le parole adatte da dire a Iatho. Non ce n'erano, naturalmente. Conosceva la testardaggine del ragazzo, sapeva che non accettava mai un no come risposta e l'insistenza con la quale aveva continuato quella relazione nonostante gli avesse più volte detto dove sarebbe andata a parare, rendeva impossibile, ora, dirgli che doveva accettare l'idea che fosse finita.
Noah era morto più di un mese prima, e lui non avrebbe voluto capirlo.
Quando arrivò nello studio di James che aveva ospitato il cadavere per tutto quel tempo, Iatho stava già urlando e in quattro lo tenevano fermo, mentre Lord Kaynn in persona gli comunicava che la pazienza sua e del Concilio era finita e che questo esperimento, come tutti i precedenti, poteva dichiararsi concluso e fallito. La condanna a morte di Iatho sarebbe stata eseguita all'alba del giorno dopo.
Lord Kyann si fece da parte e, con un cenno del capo, indicò ai suoi uomini di prendere il cadavere che giaceva perfettamente composto al centro della stanza. James se ne stava defilato e in silenzio, forse più dispiaciuto per il fallimento che non per la morte di Noah, per il quale non riusciva a provare nessun trasporto e nessuna pietà, nonostante si fosse in parte scoperto emotivamente coinvolto nel dolore di Iatho che sembrava così vero e così profondo da suscitare in lui una certa, scientifica curiosità.
I soldati di Kyann stavano avendo dei problemi a tenere fermo Iatho che aveva preso a ringhiare così forte da dare l'impressione di essere pronto ad uccidere, cosa che Lord Zenir non dubitava affatto.
Quando uno dei soldati si avvicinò a Noah, però, uno dei sue bracci pallidissimi scattò in alto e le sue dita si serrarono intorno al collo del vampiro che emise un gorgoglio doloroso, cercando di liberarsi. Gli occhi dell'angelo si spalancarono fissi sul soffitto e per un lungo istante calò il silenzio prima che il soldato venisse lanciato dall'altra parte della stanza e impattasse violentemente contro il muro.
“Noah!” Iatho fu il primo ad urlare e, colti di sorpresa come tutti i presenti, i soldati che lo tenevano, lo lasciarono libero di muoversi. Corse verso l'angelo ma quando questi, che si era ormai alzato seduto, si voltò verso di lui, i suoi occhi erano rossi come il sangue e non dava alcun segno di riconoscerlo.
“Noah, sono io!” Iatho sorrise, troppo stupidamente felice di vederlo muoversi per poter pensare alla forza che aveva appena dimostrato.
L'angelo lo fissò per qualche istante ma, quando Iatho fece un passo avanti, saltò sul tavolo ed emise un sibilo furioso e un rumore secco e vibrante, di gola, qualcosa di simile al verso di un qualche animale che però nessuno di loro aveva mai sentito prima.
“Non aver paura. Sono io, Iatho,” continuò il vampiro, ma più avanzava, più quel verso si faceva forte e Noah tendeva i muscoli, quasi tremando. “Non mi riconosci?”
Quando gli fu abbastanza vicino da toccarlo, Noah ringhiò – un ringhio potente e violento, incredibilmente più spaventoso dei propri, provenendo dalle sue labbra angeliche – si gettò giù dal tavolo e con due lunghe falcate a quattro zampe, saltò contro il muro e fuori dalla finestra.
Quando Iatho corse ad affacciarsi, lui non c'era già più.
“Cosa diavolo era?” Esclamò sconvolto Lord Kyann, guardando prima Lord Zenir, che era sorpreso quanto lui, e poi James che invece sorrideva soddisfatto. “Quello, signore. E' un demone,” rispose.
“Beh non stare lì impalato,” gridò. “E anche voi. Organizzate delle squadre, trovatelo! Quella creatura non deve uscire dai confini del regno!”
Lord Zenir si incaricò di organizzare le ricerche, ma non nutriva alcuna speranza di trovarlo. Dopo altri due di quegli strani richiami, non lo avevano più sentito ed erano andati alla cieca fino all'alba senza trovare nemmeno una traccia, come si fosse volatilizzato nel nulla.
Iatho aveva cercato con gli altri, aveva annusato l'aria ma, fin da quando si era svegliato, Noah aveva avuto un odore diverso e lui non era stato abbastanza sveglio da registrarlo. Poi, quando ormai aveva perso le speranze di ritrovarlo e il sole stava ormai per fare capolino dalle fessure della terra, aveva capito. “So dove trovarlo!” Aveva detto a Lord Zenir. “Ma devo andare da solo.”
Aveva varcato i confini dei territori dei vampiri, sfidando il sole nascente all'orizzonte. Aveva corso più forte che poteva e si era arrampicato sulla montagna che collegava la terra ai territori angelici. Il calore del sole gli aveva quasi bruciato la pelle.
Quand'era arrivato in cima, Noah era là come aveva previsto. Sfinito dal giorno che bussava alle porte – forse non più angelo e forse non del tutto demone, ma di sicuro in parte vampiro – dormiva accasciato ad un passo dalle porte del paradiso, incapace di attraversarle. Iatho notò i graffi delle sue mani sul terreno, quando aveva cercato di avvicinarsi oltre ed era stato respinto dalla forza divina, le unghie rotte e le dita sanguinanti. Si tolse il mantello della divisa e ce lo avvolse dentro con cura, portandolo via.
Solo allora, sorreggendo il peso del suo corpo minacciato dal mattino, si rese conto che Noah non c'era più.
Era strano notarlo solo dopo che era tornato dal regno dei morti.
Lo strinse al petto mentre scendeva la montagna e lo baciò sulla fronte, consapevole che anche nel buio pesante che gli annebbiava la mente lo avrebbe sentito.
Sperò di poter gestire le conseguenze di ciò che era successo e poi, disteso accanto a lui, lasciò che il sonno li avvolgesse entrambi.

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