Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido, Bill
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash, Metafore animali
Rating: PG 13
Note: Io voglio bene a questa storia, anzi si può dire quasi che la amo. Ci ho messo un po' a finirla (l'ho iniziata, tipo, ad aprile) e c'è stato un momento in cui ho seriamente creduto non si sarebbe mai conclusa, e un po' mi dispiaceva perché c'erano delle battute carine e perché ci avevo messo tanto di quell'impegno che buttare via tutto mi sembrava una cosa triste. Come sia nata, io non lo so. Ricordo che è tutto partito dalla twit-list ma cosa, di grazia, non parte da lì al giorno d'oggi? E poi il resto lo ha fatto l'insana fissazione che mi è venuta per questi Mondiali, che hanno permesso anche lo studio della formazione tedesca senza che mi venisse l'orticaria. Il titolo, naturalmente viene da Fackeln im Wind, canzone che Bushido e Kay One hanno scritto per incitare la nazionale teutonica, ed è un suggerimento di Liz. Spero che vi piaccia :)

Riassunto: Io mi sono rassegnato ad imparare ricette nuove mentre il mio uomo urla e strepita dichiarando le madri di tutti quanti delle donne di malaffare. Quello che non avevo calcolato era che questa routine ormai consolidata di lui che si trasforma in un cavernicolo per qualche ora e poi forse torna quello che era, sarebbe andata a farsi benedire in favore di un processo perfino più primitivo all'arrivo dei mondiali.


In tutta la mia vita sono stato accusato di avere una quantità di difetti non indifferente, molti dei quali veri. Non posso certo dare torto a Klaudia quando mi diceva che avevo un solo pensiero in testa e che non pensavo ad altro che a soddisfarlo – verissimo, per carità, anche se lei non ha mai capito che non era un pensiero generico slegato dalla sua persona – e mi trovo nella posizione di non poter negare che Julia avesse altrettanta ragione quando sosteneva che non mi so esprimere e qualunque cosa dico mi esce di bocca come una slavina, incurante di ciò che travolgerà. Sono fatto così e non mi nascondo dietro un dito, anzi – come Fler mi dice sempre quando non sa cos'altro dirmi ed è ancora così arrabbiato da voler comunque dire qualcosa – me ne vado in giro tronfio portandomi dietro questo carico di insensatezza senza fare niente per occultarlo in qualche maniera. Perché farlo, mi chiedo io? Durerei sì e no un paio d'ore, poi tornerei quello di sempre e allora addio bell'impressione. Sarei una frode, invece così sono più onesto.
Fra tutte le accuse che mi si possono fare, però, non c'è quella che sono il tipico uomo ossessionato dal calcio; che di per sé può sembrare una cosa da niente per uno che invece viene accusato di ninfomania e di insensibilità, ma in realtà è un'accusa che può avere un certo peso alla fine della giornata e vi spiego anche perché, mica sono qui a sputare sentenze a caso.
Il più grande desiderio di una donna – esclusi i gioielli che costano come macchine – è essere il centro costante delle tue attenzioni – cosa che poi effettivamente comprende anche i gioielli molto costosi. Qualunque cosa tu faccia – brutta, pessima, o inqualificabile che sia – verrà sempre, e dico sempre, superata in tragicità dal tuo non prestarle attenzione. E io questo non lo faccio mai perché il mio pensiero primario, nonché il mio difetto più grosso, è voler scopare con la mia ragazza, per cui il mio livello di attenzione nei suoi confronti non cala mai, ma proprio mai; anche perché io sono uno che se vuole venire a letto con te è perché mi piaci, indipendentemente dal fatto che poi ho bisogno di scopare molto più di quanto faccia un essere umano normale. Quindi quando vengo a letto con te, voglio proprio te, e tu non puoi non notarlo. Ergo, anche se ho un trilione di difetti tremendi, tutti vengono cancellati dal mio essere totalmente, completamente, indiscutibilmente rivolto a chi mi sta a fianco.
Questo sarebbe incredibilmente utile se poi alla fine io stessi con una donna, ma non ci sto. Sto con un uomo – ebbene sì – e quindi il mio totale disinteresse per le questioni calcistiche non è più un pregio ma un difetto gigantesco, che non riesco a cancellare nemmeno con la totale dedizione. Anzi, la totale dedizione non fa che peggiorare le cose, soprattutto durante le partite dove niente più esiste tranne che i ventidue uomini in calzoncini che corrono lungo il campo. Mentre em>questo uomo in calzoncini, magari lì di fianco, magari propenso a dispensare coccole, viene ignorato, per dire.
Per Fler, il calcio è una malattia. Una sorta di infezione che deve aver preso da piccolo e che nessuno ha mai curato, per cui adesso se la porta dietro come una febbriciattola perenne che si alza di botto anche due o tre volte la settimana a seconda di quante partite decidono di giocare. E quando ha la febbre, delira.
Naturalmente lui non è il primo che vedo affetto da questo morbo tremendo, ma sicuramente è quello che sta messo peggio di tutti e che forse, se esiste, è allo stadio terminale. Quello che succedeva alla Villa Gialla durante il campionato, e che già era una valida ragione per richiedere il ricovero coatto di una decina di uomini, non era niente in confronto a quello che succede nel mio salotto per opera di Fler.
Anche se è da solo. Anzi, soprattutto se è da solo perché, se privato del sostegno di altri esseri umani di fronte ai quali, forse, vorrebbe mantenere una parvenza di compostezza, comincia a retrocedere sulla scala evolutiva fino a diventare un primate – un gorilla, vista la stazza.
In linea generale Fler è un ragazzo molto vanesio e ci sono momenti della giornata in cui bisogna fisicamente staccarlo dallo specchio del corridoio se si vuole andare da qualche parte, perché lui non esce di casa se prima non si è assicurato di essere uguale ad uno dei manichini del suo negozio. Quando c'è la partita, ciò a cui assomiglia è quello stesso manichino fatto a brandelli da un branco di procioni affamati.
Io non tengo a mente mai niente, figurarsi il calendario della Bundesliga, ma mi accorgo subito quando è giornata di partita se Fler si presenta in cucina senza essersi fatto nemmeno la barba e ha addosso questa sorta di residuato bellico che dovrebbe essere una tuta ma che a conti fatti è solo ciò che ne è rimasto dopo non so quali tragici eventi. La tuta non c'è sempre, per questo la sua presenza mi da anche la misura dell'importanza della partita. Se poi ha la barba, la tuta e i calzettoni a righe che furono testimoni di una storica doppia vittoria ai quarti sul Manchester allora so che si tratta di una questione di vita o di morte, che Fler non emetterà che grugniti fino alla fine della partita e che la sua umanità tornerà in tempi brevi soltanto in caso di vittoria. Quei calzini, per altro, non sono mai stati lavati dalla finale di Champions' League del 2000-2001 e per questo sto cercando di farli dichiarare arma batteriologica.
Le prime volte mi arrabbiavo perché non era possibile che una domenica sì e una no quello che soltanto la sera prima era stato un uomo appetibile emergesse la mattina dopo trasformato in un orso sbavante e che io, per altro, dovessi stargli a debita distanza perché a mettersi tra lui e la squadra c'era da perderci un arto. Poi ho capito che non c'era soluzione, che era una di quelle situazioni estreme per cui devi decidere se per tutte le cose buone che una persona può darti vale la pena sopportare quell'unica problematica davvero insostenibile e io ho pensato che c'è tanto calcio durante l'anno ma che sono sempre di più i momenti in cui non c'è, quindi ho alzato le braccia in segno di resa e mi sono rassegnato ad imparare ricette nuove mentre il mio uomo urla e strepita dichiarando le madri di tutti quanti delle donne di malaffare.
Quello che non avevo calcolato era che questa routine ormai consolidata di lui che si trasforma in un cavernicolo per qualche ora e poi forse torna quello che era, sarebbe andata a farsi benedire in favore di un processo perfino più primitivo all'arrivo dei mondiali. E non potevo saperlo per il semplice fatto che io e Fler stiamo insieme da poco più di un anno e in questi quattordici-barra-quindici mesi appena trascorsi, dei mondiali non c'è stata traccia; o meglio, forse lui sapeva che sarebbero arrivati – cioè, lui lo sapeva di sicuro perché è lui – ma io non ci pensavo minimamente: gli ultimi mondiali di cui ho memoria non ricordo nemmeno quali siano, figurarsi!
Per me i mondiali, come le olimpiadi del resto, sono una di quelle cose che ritornano per caso, tipo che mi sveglio la mattina e tutti non parlano d'altro e allora io so che sono trascorsi altri quattro anni dall'ultima volta, quale che sia, che tutti sono impazziti per lo stesso motivo. E basta, il mio coinvolgimento nella faccenda, in genere, si ferma qui. Con Fler questo non è stato possibile, naturalmente.
Patrick ha iniziato a dare in escandescenze a dicembre dell'anno scorso quando hanno fatto i sorteggi. Quando si è svegliato quella mattina era già isterico e in casa si respirava aria di tragedia potenziale, come durante il fine settimana delle elezioni quando sai che ci sono buone probabilità che il partito che meno vorresti al governo possa vincere. Fler si aggirava per casa con aria preoccupata e mesta insieme, e si dava cose da fare per tenersi impegnato senza poi farle davvero – tipo che si offriva di pelarmi le patate per l'insalata ma poi ne pelava solo mezza e la lasciava lì per tornare ad aggirarsi per casa senza rendersi conto di averlo fatto – e poi si scambiava telefonate con altri uomini ugualmente preoccupati per le sorti della Germania, come se stessimo per andare in guerra; il tutto con il sottofondo costante di una decina di programmi sportivi tutti in onda contemporaneamente sullo schermo del televisore.
Poi verso l'ora di pranzo, quando ormai io mi ero rassegnato a nutrirmi e lui invece si struggeva su pronostici che sarebbero stati smentiti nel giro di dieci minuti, finalmente qualcuno mi ha fatto la cortesia di rendere noti i gironi. Fler si è teso, allungandosi sul tavolo fin quasi a finire con i gomiti nel vitello tonnato, il tutto per poter essere più vicino al televisore, quasi dentro, nell'illusione credo di essere il primo a sentire la rivelazione su scala nazionale semplicemente avvicinando l'orecchio il più possibile. Io ho continuato a mangiare, incurante dell'orca spiaggiata fra la mia insalata di polipo e l'arrosto di carne in crosta. Non ho nemmeno alzato la testa mentre l'aria si faceva elettrica per via della sua tensione che dopo aver saturato il suo corpo per tutto il metro e novanta disponibile si è riversata fuori in grosse ondate che ci avrebbero spettinati se avessimo avuto dei capelli. E poi Fler è esploso, o questa è stata la mia percezione iniziale, perché un attimo prima io stavo mangiando la mia pasta e l'attimo dopo avevo del polipo in testa, c'era vitello tonnato sulle antine dei pensili e Fler era sparito. Soltanto dopo, quando ormai avevo contato fino a dieci evitando di ribaltare il tavolo con le stoviglie di porcellana comprate in un guizzo di finezza che mai più mi ricapiterà nella vita – come le tende di lino per il salotto che devo, per altro, ancora montare – ho capito che quell'eco lontana che sentivo provenire a tratti dalla camera e a tratti dal salotto per l'effetto doppler, era Fler che urlava la propria contentezza perché “E' un girone del cazzo, questi li battiamo ad occhi chiusi” e poi, voltandosi verso di me “Voglio dire, l'Australia, Chaku!”
“Eh già, l'Australia,” ho detto io, che mica sapevo che era solo l'inizio.
Da quella tremenda rivelazione, neanche gliele avesse fatta il Cielo tramite l'immagine di Padre Pio nella chiazza dell'umido in bagno, sono seguiti mesi di grande agitazione che non hanno coinvolto soltanto lui ma anche tutti gli altri pazzi come lui, così che la pazzia intorno alla mia persona è andata aumentando esponenzialmente fino a raggiungere livelli che mi avrebbero giustificato in caso di omicidio plurimo.
All'improvviso, ovunque mi girassi, c'era qualcuno che parlava dei mondiali di calcio 2010: dove si sarebbero svolti, quali sarebbero stati gli stadi, i giorni delle partite, i convocati e via discorrendo fino – io credo – anche al colore delle mutande dei giocatori sotto i calzoncini della tenuta in nazionale. Un incubo, ma un incubo di cui in qualche modo vedevo la fine. Fler aveva infatti deciso di prendere un aereo e portare la sua pazzia direttamente in Sud Africa, in un ambiente più adatto a lui, dove avrebbe incontrato i suoi simili e avrebbe imparato di nuovo a vivere allo stato brado nutrendosi dell'erba intorno al dischetto e battendosi il petto con i gorilla delle altre squadre. In un certo senso ero felice di lasciarlo andare perché mi ero reso conto che tenerlo in cattività non era più possibile e sarebbe stato egoista da parte mia sostenere il contrario. Così, mentre lui preparava le valige, io mi preparavo a passare questo tempo per conto mio, che non è che fossi felice – perché io da solo divento emotivamente instabile, mi abbatto e, siccome mi abbatto cucino più di quanto mi serva e finisco per dover distribuire linguine al pesto a tutto il quartiere – però la vedevo un po' come una sorta di liberazione temporanea dal peso di quest'uomo che aveva dimenticato il mio nome per ricordarsi quello di molti perfetti sconosciuti pagati per rincorrere un pallone.
E poi, naturalmente è successo.
Parlo dell'imprevisto, naturalmente. Di quel piccolo particolare che se anche ti fossi messo a tavolino per individuarlo e aggirarlo, non lo avresti visto perché lui è subdolo e quando lo cerchi non si fa vedere, non c'è. Ti guardi intorno e pensi che tra te e il tuo obbiettivo non ci siano ostacoli, che hai la strada spianata e puoi ragionevolmente sederti e attendere il momento in cui hai programmato di alzarti e fare quello che devi fare. Ed è lì che lui si stende ai tuoi piedi così che, una volta preso lo slancio, non puoi fare nient'altro che cadere.
Il dettaglio che a Fler è sfuggito, naturalmente, era Bill. Quando lui ha deciso di partire, non è che s'immaginasse di farlo da solo, ci mancherebbe, perché tutti i grandi animali si muovono in branco, e non si era nemmeno sforzato a trovare chi salisse sull'arca con lui perché naturalmente c'era il suo compare, Bushido, che il giorno dopo la notizia dei gironi, era già pronto con la sciarpa rossa, gialla e nera e tutta una serie di trombette con le quali devastare i timpani altrui. Non si erano nemmeno telefonati, già lo sapevano che sarebbero corsi insieme in ciabatte di plastica e pantaloncini corti a veder giocare la Germania direttamente in mezzo alle zebre.
Il punto è che se io di certo non mi sarei opposto alla partenza di Fler, perché sono pazzo ma ancora abbastanza lucido da rendermi conto che è meglio fare a meno di lui per un mese piuttosto che averlo qui anche solo una settimana a guardare tutte le partite e rischiare di ucciderlo, di certo Bill non avrebbe seguito questo ragionamento perché nella sua testa l'opzione che a Bushido possa interessare qualcosa oltre a lui non esiste nemmeno. Quindi per lui è diventata una questione di principio, del tipo: o me o il calcio. Immagino che Bushido, con la valigia già pronta e già invaso dal sacro furore calcistico, avrebbe tanto voluto rispondergli la seconda, ma poi deve essersi reso conto che i mondiali durano soltanto un mese e che se in quel momento gli sembravano la cosa più importante di tutta la sua intera esistenza, di certo avrebbe rimpianto le forme della sua principessa il giorno che fosse tornato dal Sud Africa scurito dal sole e segnato da mille battaglie e avesse trovato la casa vuota, con magari l'ultimo messaggio di Bill inciso col tacco degli stivali sui mobili da migliaia di euro. Così, che fosse per salvare il comodino in noce della camera da letto o per assicurarsi che la principessa non facesse le valigie e tornasse da sua madre sbattendo la porta, ha rinunciato a correre libero nella savana.
Questo è stato ovviamente l'inizio della tragedia. Fler, che solo il giorno prima girava per casa avvolto nella bandiera della Germania, cantando l'inno nazionale e snocciolando la formazione come fossero i grani del rosario, quando Bushido gli ha telefonato per comunicargli la notizia, si è accasciato sul tappeto come un cinghiale abbattuto durante la stagione della caccia ed è lì che l'ho trovato io, due ore dopo, quando sono tornato dal supermercato con venti borse e nessuno che rispondesse al citofono per farmi aiutare a portarle in casa. Quando finalmente l'ho raggiunto, era tutto avvolto nella bandiera come in un bozzolo e, benché sarebbe stato alquanto interessante vedere in che razza di farfalla si sarebbe trasformato, mi sono imposto di liberarlo e di chiedergli chi o cosa fosse morto. Lui ha risposto “I miei sogni” e poi “Lasciami solo”, quindi si è riavvolto nella bandiera ignorando l'universo mondo per le successive tre ore.
All'ora di cena la cosa si è fatta preoccupante perché, ovunque si trovi, Fler arriva sempre se scuoti un po' il barattolo dei wurstel e invece quella volta niente. Io scuoto e in casa il silenzio. Provo a far tintinnare le bottiglie di birra, e niente. La mia ultima speranza è la scatola della pasta, perché lui mangia volentieri italiano, ma non ottengo niente neanche così e a quel punto comincio a credere che si tratti davvero di qualcosa di grave. Vado a cercarlo, ma la sua carcassa non è più in salotto, così seguo le tracce del suo strisciare nella polvere sul pavimento, le quali mi portano fino in camera dove si è trascinato per poi arenarsi sul letto, con la bandiera in mano come una coperta.
Dopo un interrogatorio che dura un'ora e mezzo, durante il quale lui risponde a monosillabi, mugugnando con la faccia dentro il cuscino come se avesse tre anni e la signora Losensky si fosse semplicemente rifiutata di comprargli il gelato, riesco a scoprire cos'è successo e, vista la considerazione che ho per il calcio in ogni sua forma, non trovo nessuna parola sensata per consolarlo. Mi limito a dirgli che sono cose che capitano, credo che vada bene più o meno in tutte le situazioni. D'altronde tutte le cose succedono.
Lui, naturalmente, non è d'accordo ed emette un grugnito da animale ferito e quando, in preda al panico, io tento di rimediare suggerendogli di risolvere la questione chiedendo anche a Bill di andare con loro, da disteso che è Fler salta seduto sul letto e mi guarda con gli occhi sgranati, come se gli avessi detto che me la faccio con la figlia della vicina, per dire, che è una cosa assolutamente non vera ma che di certo avrebbe giustificato quegli occhi lì. “Non vuole venire!” Esclama indignato, spalancando le braccia e sfoggiando la sua notevole apertura alare. “Io e Anis abbiamo provato a convincerlo ma non ne vuole sapere.”
Non fatico a crederlo, in effetti. In Sud Africa c'è molto sole e tanta sabbia, due cose che non si sposano affatto bene con la necessità di Bill di non sudare e di vestirsi in un certo modo. Senza contare la sua generale indisposizione verso il calcio. Mentre sono qui a fare considerazioni non richieste sulla principessa, non mi accorgo della consapevolezza che è appena sorta negli occhi di Fler, sono così concentrato nel trovare una soluzione a questa tragedia che si è abbattuta sulla nostra famiglia che non mi rendo conto che Fler ha smesso di fare quell'espressione imbronciata e ora mi guarda e mi sorride, come se non mangiasse da giorni e la mia tesa fosse diventata improvvisamente un enorme pomodoro. “Pat?” Chiedo preoccupato, perché forse una parte di me ha già capito, ma la mia preoccupazione principale in questo momento è che non si avventi su di me con le zanne snudate. “Potresti venire tu,” mi dice.
Ma neanche per idea.

*


Ho detto chiaramente no, me lo ricordo. L'ho detto anche forte.
L'ho detto allontanandomi dalla camera da letto mentre lui mi inseguiva. L'ho detto mentre mi faceva la valigia, per altro riempiendola di cose assolutamente inutili. L'ho detto anche mentre Bushido veniva a consegnarci piangendo i suoi biglietti aerei con Bill che gli accarezzava piano una spalla e lo tirava via dolcemente, sussurrandogli che ci sarebbero state altre occasioni, altri mondiali, come se fosse davvero possibile che da qui ad un qualsiasi futuro probabile che lo comprende, quel ragazzino gli permetterà mai di stare via un mese lontano da lui.
Ho detto no in tutte queste situazioni, e l'ho detto convinto, quindi adesso vorrei capire com'è possibile che io sia comunque qui seduto in attesa di imbarcarmi su un volo di tredici ore filate per il Sud Africa, ma non posso perché Fler sta camminando in cerchio da circa venti minuti, ha fatto un solco di due metri e gli altri passeggeri lo guardano male, così sono costretto ad alzarmi, prenderlo per un polso e farlo sedere accanto a me. “Non posso farcela,” mi dice voltandosi verso di me con aria sconvolta. A sentirci, uno potrebbe pensare che stia salendo con addosso una cintura di dinamite per farsi saltare in aria e che all'ultimo momento stia avendo un ripensamento. In realtà ha solo paura di volare, e io dovrei davvero chiedergli allora perché diavolo ha deciso di andare in Sud Africa, dove prenderemo almeno venti aerei per andare da uno stadio all'altro, ma non lo faccio perché ho paura che dia seriamente di matto e nessuno in questa stanza – io meno di tutti – vuole vedere un gorilla di quasi due metri in preda ad una crisi di panico.
“Andrà tutto bene,” dico. “Non te ne accorgerai nemmeno.”
Lui mi guarda e il suo sguardo dice chiaramente: tredici ore.
“Potresti dormire,” butto lì, con un sorrisetto nervoso.
Credo che a questo punto voglia aprire bocca e sbranarmi ma iniziano ad imbarcarci, così io prendo la palla al balzo e lo trascino per un polso prima che possa protestare, o impuntarsi come un mulo. Consegno alla hostess la mia carta d'imbarco e la sua mentre lui stringe il pugno tentando di liberare il braccio e non ci riesce pertanto, dopo tre o quattro tentativi, desiste e riprende a mugolare affranto fino a quando non riesco ad infilarlo nell'aereo. “Vuoi stare vicino al finestrino?”
“No!” Sbraita lui, come se gli avessi proposto di buttarcelo di sotto.
Sospiro ed entro prima io, così lui può sistemarsi tra me e uno sconosciuto e poi fissare il sedile davanti al suo con una patetica imitazione di tranquillità. Con le dita della mano sinistra tamburella fastidiosamente sul bracciolo mentre con l'altra mi stringe la mano col chiaro intento di spezzarmi le ossa, credo.
Quasi comincio a rimpiangere il viaggio in macchina fino all'aeroporto dove non ha fatto altro che lamentarsi delle prima giornata di Mondiale che ci siamo persi perché coincideva con la presentazione del suo disco e della seconda che ci perderemo oggi perché passeremo gran parte del tempo in aereo.
La partenza è il momento più critico, quello in cui Fler esclama distintamente e a favore di tutti i presenti “Esploderemo”, ma superato questo primo impatto traumatico che scatena un po' di panico fra un gruppo di bambini poco distanti, si quieta permettendomi di distrarlo con i film in programma sull'aereo.
Intanto cerco di ricordarmi come esattamente Fler mi abbia convinto a fare la valigia, a salire su questo aereo e ad accettare l'idea di sessantaquattro partite quasi una dietro l'altra senza soluzione di continuità.
Ovviamente lui non poteva convincermi sfruttando la carta del nazionalismo, perché io – in termini sportivi – non provo per la mia nazione un trasporto tale da prendere un aereo e andare a sgolarmi oltre l'equatore e, anche quando ce l'avessi, io non sono tedesco, sono austriaco. E l'Austria non si è qualificata, quindi non avevo proprio alcun motivo per muovermi da casa mia.
Lui però mi conosce fin troppo bene e sapeva che dove non arriva lo sport, arriva la cucina. Quindi se n'è uscito fuori con un libro che Dio solo sa dove ha trovato, contenente le ricette tradizionali del Sud Africa. “Non puoi mica farti scappare l'occasione,” mi ha detto, con gli occhi che gli brillavano, ondeggiando un po' la testa nel tentativo di ipnotizzarmi come un cobra. “Ci saranno decine di centinaia di migliaia di cuoche sudafricane pronte a insegnarti tutti i segreti della loro cucina esotica!”
E mentre io mi immaginavo quest'esercito di donne col sedere enorme, vestite di colori sgargianti che mi offrivano teglie su teglie di carne fatta in modi mai visti prima, lui ha continuato. “Ma lo sai,” ha detto, passandomi un braccio dietro le spalle ed illustrandomi meraviglie che per la forza della follia che ci accomuna vedevamo entrambi lì in mezzo al salotto, “che la cucina sudafricana è un mix multietnico? Lo sai che le ricette autoctone si fondono con quelle olandesi, portoghesi, inglesi, francesi e asiatiche, soprattutto quella indiana e malese?”
E io non lo sapevo, ma era tempo che lo scoprissi, naturalmente.
Era tempo che imparassi a cucinare sudafricano. Non potevo certo continuare a vivere cucinando solo come mi avevano insegnato mia madre, mia nonna e sei anni di alberghiero più qualche corso di cucina asiatica fatto in età adulta, in un momento in cui ero molto, molto annoiato. Ne andava della mia abilità di cuoco!
E per farlo, naturalmente, non c'era altra via che prendere questo maledetto aereo, con Fler che si agitava come un salmone fuori dall'acqua per tutte le 13 ore di volo e un hostess che ogni tanto veniva a controllare che non gli prendesse un crampo, o un infarto, o una crisi epilettica da quanto forte stringeva la mia mano e quella dello sconosciuto che sfortunatamente gli sedeva accanto. Mi ha fregato mostrandomi un libro di cucina, che per altro era mio, e io nemmeno me ne sono accorto. Maledizione.

*


Quando atterriamo a Durban, la prima cosa di cui ci rendiamo conto è che né io né lui sappiamo la geografia. Difatti, io avevo quattro, lui cinque e in Sud Africa adesso è inverno, per cui ci sono nove gradi e possiamo anche scordarci di usare le ciabatte infradito in un frangente qualsiasi che non sia la doccia in albergo. Ovviamente l'unica cosa sana di mente da fare non appena recuperati i bagagli sarebbe trovare un negozio e comprare degli abiti per sopravvivere al freddo inverno in cui ci siamo infilati. Siamo gli unici animali al mondo ad essere migrati verso un posto più freddo; ma siamo atterrati giusto in tempo per vedere la partita serale e per quanto io tiri e strattoni, non riuscirò mai a convincere Fler che una felpa gli serve più di un televisore, così finisce che i negozi chiudono, noi ci dirigiamo in albergo e lui quasi non dà tempo al portiere di capire chi siamo che gli ha già sfilato le chiavi di mano e sta correndo in camera.
Dal momento che l'albergo lo aveva prenotato Bushido, la stanza non è una stanza, ma una sorta di mini-prefabbricato in cui potrebbero vivere altre quindici famiglie oltre a noi due; il televisore è un 55 pollici, in bagno c'è una sorta di piccola piscina idromassaggio, abbiamo un frigo vero più pieno di quello di casa mia e credo che i divani siano in pelle umana. Se non sapessi che Bushido, quando si parla di calcio, è tipo un invasato che non vede, sente, parla, respira nient'altro e che Patrick è esattamente il suo clone sbiancato in candeggina, forse mi preoccuperei del fatto che questi due meditavano di passare un mese all'equatore dentro una casa accessoriata con ogni comfort dalla quale potevano anche non uscire mai. Ma Bushido non c'è e fa un freddo becco, quindi qualsiasi terzo grado volessi fare a Fler sull'argomento, devo rimandarlo a più tardi, anche perché lui ha già acceso il televisore e le sue pupille sono così incollate allo schermo che temo non attirerei la sua attenzione nemmeno ballando nudo qui dove sono, uno spettacolo a cui non voglio costringere né lui né me stesso, per altro. Così lo lascio al suo destino e mi organizzo per trovare qualcosa con cui evitare l'ipotermia almeno per stanotte.
“L'Argentina ha vinto uno a zero contro la Nigeria,” m'informa intanto lui, seduto a gambe incrociate sul letto e totalmente impermeabile alla temperatura esterna. Ha su una maglietta a maniche corte e non ha nemmeno la pelle d'oca. “E la Corea del Sud, due a zero con la Grecia.”
“Mi fa piacere,” commento, aprendo cassetti e antine. “Ci sarà una coperta in più? Com'è sistemato il letto?”
“C'è,” fa lui.
Grazie, Patrick, non l'avrei mai detto. “Sì ma ci sono abbastanza coperte?”
“Sì,” fa subito lui, senza nemmeno voltarsi. Poi, evidentemente, sente il peso del mio disappunto anche senza che io lo espliciti a parole, perché si arrischia a staccare gli occhi per mezzo secondo dalla partita per guardare il letto. “Cioè boh. Ce n'è una, non lo so.” Torna a guardare lo schermo, convinto di essere stato esauriente e se la prende con un qualche giocatore. “No! Dovevi passarla, idiota!”
Supero la sua valigia, visto che lui l'ha lasciata all'ingresso, un centimetro dopo la porta, e alla fine mi rassegno all'evidenza che non solo non ci sono altre coperte ma che in questa stanza super-lusso non c'è un termostato, per cui devo tenermi la temperatura che c'è, a meno di non telefonare al portiere e spiegargli in africano oppure in inglese – che magari è pure peggio – che potrei morire assiderato sul loro materasso in vera piuma di airone imperiale.
“Chi sta giocando?” Chiedo alla fine, quando mi rendo conto che Fler non risponderà a nessuno stimolo esterno che non abbia a che fare con ventidue giocatori e una palla.
Lui si volta a guardarmi e mi trova avvolto nella bandiera della Germania che si è portato da casa. E grande quanto due lenzuola matrimoniali, forse di più, quindi io posso ben avvolgermela addosso tipo sei volte, creando uno strato abbastanza alto da isolarmi dal freddo. “Stati Uniti e Inghilterra,” risponde, ma rimane perplesso solo qualche istante perché poi il cronista esplode in una descrizione concitata e in una lista di nomi sconosciuti e lui torna a guardare subito in campo ma finisce per imprecare avvilito mentre gli uomini inquadrati intorno alla porta sono tutti molto tristi.
“Niente gol?” Chiedo.
“C'è andato vicino.”
“Ah.” Guardo lo schermo e cerco di capire perché stiamo seguendo questa partita. Cosa ce ne frega a noi dell'Inghilterra e degli Stati Uniti? Fler mi ha fatto una testa così con il nostro girone, quindi so per certo che né l'una né l'altra squadra ne fanno parte. Vorrei chiederlo, apro anche bocca per farlo ma Fler apre di scatto le braccia e urla come un muflone imbizzarrito.
“Ma lo hai visto?” Chiede. “Lo hai visto?”
“Cosa?”
“L'auto-gol dell'Inghilterra!”
Questo è tutto ciò che mi dice prima di iniziare a ridere e rotolare sul materasso, ed è tutto ciò che mi dice in generale finché la partita non finisce, anche perché io un po' mi stanco di chiedergli cose e un po' mi annoio a seguire il gioco, proprio. Così finisco a trastullarmi con i volantini che trovo sparsi in giro per la stanza e che mi descrivono con grande dovizia di particolari tutti i dettagli del posto in cui mi trovo. Mi chiedo se tra quelle mille-duemila partite che mi toccherà vedere, non ci sarà spazio per fare anche il turista. Magari sì.

*


Magari no, ovviamente.
Di solito, quando è in vacanza, Fler non si sveglia mai prima delle due del pomeriggio, e solo se lo tiro giù dal letto suonando la Marsigliese con la mia batterie di pentole direttamente sulla sua testa. Stamattina, invece, nonostante le sfiancanti tredici ore di aereo e altre due tra partita e dopo-partita, il giro su internet e la telefonata a sua madre che già lo pensava disperso fra leoni, zebre e giraffe, si sveglia alle otto e mezzo del mattino. Dopo solo sei ore di sonno. E lo fa felice, pieno di ottimismo e, soprattutto, intenzionato a condividere con me tutto l'amore che inspiegabilmente oggi prova per l'Universo, come se il solo fatto che la Germania gioca possa essere motivo di giubilo internazionale.
In realtà lui non mi sveglia volontariamente, nel senso che non viene lì a scuotermi dal mio torpore, ma fa tanto di quel casino aggirandosi per la camera che non posso fare a meno di notarlo. All'inizio provo ad ignorarlo ma non mi è possibile, così alla fine apro gli occhi e quello che vedo non lo capisco subito. Anzi, non lo capisco neanche adesso che sto bevendo il caffè, ma in quel momento, quando mi sveglio, è anche peggio. Fler non c'è, e al suo posto è comparsa un'enorme bandiera della Germania con le gambe. “Sei sveglio!” Mi dice la bandiera umana, aggirandosi intorno al letto in un turbinio di giallo, rosso e nero.
“Che cos'hai addosso?” Chiedo, giustamente.
“Sto facendo le prove per stasera!” Risponde lui estatico, mentre mi tira fuori dal letto e mi trascina in giro a fare cose di cui non sono ancora consapevole, tipo lavarmi e vestirmi. Ha addosso la maglia della nazionale, la sciarpa a strisce e il viso ricoperto col cerone dei colori della squadra.
“Ma mancano più di quindici ore!”
Lui non discute e qualche minuto dopo sono in corridoio e non so perché. Sono nell'ascensore dell'albergo e non so perché. Ma soprattutto, mi ritrovo ad una tavolata di trentacinque persone e non so perché.
A quanto pare Fler si è svegliato molto prima di quanto pensassi, anche se non riesco a capire bene quando, perché è svagato e confuso e qualsiasi domanda gli faccio mi risponde vago, ridendo felice come un bambino e tornando ad ignorarmi l'attimo successivo. Dopo essersi conciato in questo modo tremendo, ha avuto il coraggio di scendere al ristorante dell'albergo e, invece di essere accolto da gente pronta a chiamare un istituto di igiene mentale per farlo portare via e rinchiudere come ci si aspetterebbe in una situazione ragionevole, ha incontrato altri esemplari della sua specie che lo hanno invitato ad unirsi al branco e ad abbeverarsi al loro stagno. Io non avrei niente in contrario a questo avvenimento, se tutti i presenti, nessuno escluso, non fossero in realtà i miei nemici naturali. Difatti questi che ho di fronte non sono solo uomini a cui piace il calcio, ma sono uomini tedeschi. Uomini tedeschi a cui piace il calcio, mentre io sono Austriaco, l'Austria a questi Mondiali non c'è e, nonostante questo, mi rifiuto di tifare Germania. Mi seguite?
E Fler, in tutto questo, non è che migliori proprio le cose, anche se non credo che lo faccia per cattiveria; è solo troppo agitato per la partita che si terrà fra sole quindici ore. Diciamo che per non ammazzarlo, penso che è come se fosse ubriaco. Fler quando è ubriaco non ha alcun controllo sulle proprie facoltà, quindi non lo si può mai davvero accusare di nulla.
Insomma, quando alla fine raggiungiamo questo tavolo di tedeschi già ampiamente alticci come si conviene al loro popolo – e anche al mio, a dire la verità - , Fler mi presenta dicendo che sono un suo amico, e già per questo dovrei fare le valige e andarmene visto che è lui quello del “diciamolo a tutti, perché il mondo deve sapere”, ma ho già capito che il calcio lo riporta ad una dimensione primitiva in cui valgono solo i concetti uomo-donna, cibo-carne, palla-in-porta, per cui non mi arrabbio come dovrei e sorrido, stringendo mani e accettando pacche sulle spalle. Questo finché Fler non annuncia che “però io sono Austriaco”. Con il però, proprio. E allora tutti allontanano le mani e se le mettono in tasca. Qualcuno scuote anche la testa, come se essere austriaci fosse una malattia incurabile o chissà cosa.
“L'Austria non si è nemmeno qualificata!” Mi fa uno, sgranando gli occhi. Immagino che dovrei sentirmi molto in colpa per questo, come se fossi stato io in persona ad impedire che la squadra della mia nazione si presentasse in Sud Africa. E quando non lo faccio – voglio dire, che me ne frega? – il loro sguardo si fa ancora più disapprovante.
Fler, che a questo punto dovrebbe non dico difendermi, visto che non è una vera accusa, ma per lo meno evitare di mettere ancora più in luce la totale estraneità ai Mondiali della mia nazione, così come la mia, giusto per evitare che trentacinque persone mi prendano per il culo, ecco, mica per altro, coglie la palla al balzo e ride. “Ecco perché non capisci niente di calcio,” mi dice. “ Voi fate schifo, a giocare. Qual è il vostro sport nazionale? Le bocce?”
“Ma ce l'avete una squadra, almeno?” Insiste un altro.
Io ignoro quest'uomo ignorante, conciato in maniera opinabile e mi volto verso il mio uomo parzialmente ignorante e conciato in maniera altrettanto opinabile. “Vuoi che ti lasci con i tuoi nuovi amici della giungla e vada a farmi un giro?” Che non è una minaccia, è una richiesta. Del tipo, Fler liberami dal male. Fai un favore ad entrambi. Lui però è preso dall'entusiasmo, quindi non coglie. Niente. Né io che lo imploro, né questi trentacinque sconosciuti che si prendono libertà che nessuno gli ha mai dato con il sottoscritto, e mi sorride. “No, anzi, per oggi pomeriggio ho organizzato già tutto quanto!”
E proprio quando mi chiedo quante possibilità ci sono che adesso mi dica “Scherzo, Peter! Torniamo a casa!”, mi informa con una gioia mai vista – nemmeno avesse vinto dei soldi – che guarderemo tutti insieme le due partite del pomeriggio e poi, forse, migreremo in massa verso lo stadio per vedere la partita d'esordio della Germania. “Non è stupendo?” Esclama. “Così saremo in tanti!”
Sono così felice che preferirei farmi strappare le unghie.

*


Il problema di guardare partite di calcio con qualcuno che se ne intende mentre tu non lo fai, è che se sei fortunato, forse ti viene spiegato qualcosa di vago e di elementare che in sostanza non ti serve a molto, se sei sfortunato, non ti viene spiegato niente e, mentre gli altri urlano, imprecano e si agitano, tu magari sei ancora lì a cercare di capire in che porta dovrebbero tirare i giocatori. Il mio, naturalmente, è il secondo caso. Dopo pranzo, ci siamo spostati in questa sala comune con il maxischermo che l'albergo ha adibito alla visione delle partite e ci siamo sistemati da una parte come un sacco di altri tifosi.
Prima di entrare, Patrick mi ha fornito di una specie di volantino con su la lista delle partite che si terranno da qui fino a metà giugno, mi ha dato due pacche sulle spalle e quindi si è messo a guardare la partita con tutti gli altri, a posto con la coscienza e convinto di aver fatto abbastanza per il sottoscritto.
Le due partite che si sono susseguite quasi ininterrottamente dall'una e mezzo del pomeriggio fino a quasi le sei sono state Algeria – Slovenia e Serbia – Ghana, e io sono fiero di me per essere arrivato alla fine senza aver mai tentato il suicidio né essermi alzato all'improvviso avventandomi sui presenti con un coltello preso al volo dal tavolo del buffet ammazzando dieci persone a caso, in preda alla follia omicida. Sono stato bravissimo e per questo, credo, dovrebbe esserci un premio istituito da qualche parte. Un riconoscimento per la sopportazione di tifo non condiviso, o qualcosa del genere. Ma forse, dopotutto, me lo daranno alla fine di questa giornata, dopo che avrò dimostrato di poter sopportare anche la partita della Germania dopo averne già viste due. Io comunque non ho capito quasi assolutamente nulla, a cominciare dalle maglie. Parliamone.
Dopo aver visto l'Algeria in bianco e la Slovenia in verde, quando la bandiera dell'Algeria è verde e quella della Slovenia bianca, e dopo aver visto il Ghana in bianco quando la sua bandiera è gialla, rossa, verde e nera, sono arrivato alla conclusione che i tifosi di calcio sono daltonici. Il che, fra le altre cose, spiegherebbe anche certi azzardati accostamenti di colore con cui ogni tanto Fler si presenta la mattina e il fatto che Bushido abbia trovato legale fare le mie magliette nere con le scritte arancioni fosforescenti o il mio sito nero con le scritte fucsia e azzurre. Non distinguono i colori, mi sembra chiaro. Prima di arrivare a questa conclusione, però, ho fatto in tempo a confondere i risultati, tant'è che non capivo per quale motivo gli Algerini fossero tanto abbattuti alla fine del primo tempo, questo finché Fler non mi ha rivelato la malattia cromatica che affligge il calcio internazionale.
Ma questo è stato oggi pomeriggio e, per quanto io l'abbia trovata una tortura, ora rimpiango la piccola stanza comune comoda e calda – soprattutto calda – perché siamo allo stadio, fa freddo, credo di aver bisogno di una visita oculistica perché distinguo a malapena i giocatori e, soprattutto, c'è un frastuono infernale. D'accordo, io e Fler non veniamo esattamente da un posto tranquillo e non siamo due monaci benedettini dediti alla regola del silenzio, gli studi dell'EGJ sono tutto tranne che luoghi adatti alla concentrazione e alla composizione di musica e vicino a casa mia c'è lo stadio per cui, quando gioca il Bayern, mi tremano le finestre ma questa è un'altra cosa. Qui ci sono le vuvuzela.
Immaginate di varcare le soglie di questo stadio e di essere letteralmente spettinati dall'onda d'urto di centinaia di migliaia di trombette di plastica suonate contemporaneamente da altrettanti esseri umani che poi, credo, cadranno a terra morti per la mancanza di ossigeno e saranno sostituiti da altrettante centinaia di migliaia di trombettisti della domenica in un ciclo infinito generato dal demonio per distruggere la razza umana. Ecco, una cosa del genere. Io riesco ad immaginarlo anche se il suono non può spettinarmi, quindi di certo riuscirete a farlo voi.
Dal momento in cui abbiamo messo piede sugli spalti e abbiamo preso posto, io non sono più riuscito a sentire quello che Fler mi diceva, se mai mi ha detto qualcosa che non fosse legato al possesso di palla di Schweinsteiger. Mi ha piazzato in mano una trombetta e mi ha informato “Quando facciamo gol, suona. Siamo bianchi e neri, eh, mi raccomando.” E quando ho chiesto “Non ti sembra che ci siano già abbastanza trombette?” Lui mi ha risposto: “Non si strombazza mai abbastanza per la Germania”, con aria seria, come se stesse parlando di cose veramente importanti. Tipo la fame nel mondo. Ma anche il rincaro del pane, per dire. Sarebbe comunque un argomento più serio. Ecco, io ci strombazzerei volentieri per il rincaro dei generi di prima necessità, altro che Podolski che va in porta all'ottavo. Tra l'altro, quando ciò avviene, Fler, i suoi trentacinque nuovi amichetti e più o meno altre cinquemila persone si alzano tutte in piedi contemporaneamente e iniziano a sventolare bandiere, inneggiando alla Germania e strombazzando come non ci fosse un domani. Così facendo mi coprono la visuale, per cui quando io suono la mia trombetta, con poca convinzione devo dire, lo faccio perché lo fanno loro e non perché io sappia, effettivamente, che qualcuno ha segnato. Meno che mai che lo ha fatto Podolski, che non ho il piacere di conoscere nemmeno in fotografia, figuriamoci se lo riconosco tra altri dieci giocatori da questa distanza. Quando mi volto per chiedere delucidazioni a Patrick, giusto perché per lo meno ho un argomento di conversazione, voglio dire, so che qualcuno ha fatto gol almeno, quindi magari possiamo discuterne, lo trovo in piedi che sventola una bandiera gigantesca che peserà si e no quanto lui, con una convinzione tale che se tu non sapessi che si trova allo stadio, penseresti che stia guidando una rivoluzione o qualcosa del genere. Sarà che gli altri tifosi del branco lo guardano con occhi ammirati e pieni di solidale cameratismo, non so. E' una cosa epica.
Al primo gol ne segue un secondo di Klose e, per la meraviglia non solo mia ma anche di Fler e degli altri, un terzo di Mueller che fa letteralmente esplodere la tifoseria tedesca. Prima che io me ne accorga, come al solito, sono tutti in piedi e l'unico suono che si sente è il fischio assordante delle trombe. Nell'impeto generale, uno degli amici di Fler si dimentica che sono austriaco e mi avvolge in un abbraccio da orso in cui mi convinco di soffocare nell'indifferenza generale di un'intera nazione. D'altronde, Fler stesso sembra essersi dimenticato che sono lì, almeno fino a quando non mi recupera dalle braccia di qualcun altro, per stritolarmi anche lui ed urlarmi frasi sconnesse delle quali non capisco assolutamente niente; ma è così felice che mi lascio sballottare a destra e a sinistra come un giocattolo. D'altronde, penso, visto che proprio non mi riesce di impazzire di gioia per questa cosa, posso dimostrare il mio supporto almeno così.
A questo punto io penso che sia finita; voglio dire, sono ben consapevole che manchino più o meno trenta minuti, ma l'Australia non può evidentemente competere, questo lo capisco anch'io. E poi è una questione di logica: a meno che i nostri giocatori non cadano tutti a terra morti per cause sconosciute o che l'Australia diventi improvvisamente una squadra fortissima per cause altrettanto ignote, direi che abbiamo vinto. Certo potrebbero rimontare, ma non lo vedo statisticamente possibile, anche se so che è successo in certi casi.
Credo che nemmeno Fler si aspettasse molto altro, perché quando poi invece Cacau fa il quarto, l'urlo che gli esce di bocca è così assurdamente sorpreso che mi viene quasi da ridere. Lo guardo e mi sembra un po' di vederlo quando aveva quattordici anni, anche se io non l'ho mai conosciuto a quell'età, ovviamente; ma immagino che fosse esattamente così. Si mette a saltare, urla, strepita e non se ne accorge quando mi trascina addosso a lui tirandomi per la maglietta e mi bacia sulla bocca come se fosse normale per tutti quanti, non solo per noi. Mi viene da ridere e sto quasi per perdonarlo per avermi trascinato in questo delirio. Quasi, però, perché dopo avermi lasciato andare, la prima cosa che fa è prendere il telefono e chiamare Bushido e, visto che trova occupato, è palese che il tunisino stesse chiamando lui nello stesso momento. Infatti, quando poi Fler ci riprova, Bushido risponde istantaneamente, non passa nemmeno uno squillo, segno che stava aspettando la chiamata. E io vorrei ammazzarli tutti e due.
Quando è al telefono con Bushido, Patrick non solo si dimentica della mia esistenza, ma anche di avere ventotto anni e, probabilmente, di essere un duro rapper del ghetto e non una ragazzina adolescente in piena tempesta ormonale. La prima cosa che fanno è urlarsi a vicenda il risultato della partita e poi, a seguire, i nomi dei quattro giocatori che hanno fatto gol. Lo so perché non sento soltanto Patrick, ma anche Bushido che dall'altra parte si sta agitando come un pazzo, urlando almeno quanto lui. Già di per sé la cosa sarebbe piuttosto irritante – io e Patrick abbiamo già ampiamente discusso di quanto sia invadente, pesante e inappropriata la presenza di Bushido perfino quando siamo al cesso, quasi – ma lo diventa immensamente di più quando Fler esplode in un emozionato “Ma hai visto che forza sono stati? Avrei voluto tu fossi qui a vederli allo stadio con me!” Ha quasi gli occhi lucidi, che probabilmente è colpa della birra, ma mi fa comunque incazzare perché, a differenza di Bill, io non l'ho fatto lo stronzo e con lui ci sono venuto quindi potrebbe anche mostrare un po' di gratitudine. Avrei potuto battere i piedi e, non solo rimanere a casa, ma anche impedire a lui di andare; sebbene questo tipo di scenate sono molto più sensate se le fa Bill. Io, in generale, sono un po' ridicolo. Prima che si possano giurare eterno amore, lo stacco da quel telefono quasi di forza, e ci riesco solo perché gli faccio notare che una vittoria così va festeggiata e giacché posso immaginare in che modo la festeggerà Bushido – d'altronde Bill dovrà pur espiare il fatto che non lo ha lasciato venire in Sud Africa – posso ben pensare di imitarlo.
Dunque, la partita è finita quattro a zero per noi e alla fine della serata, quando finalmente riesco a farlo uscire dallo stadio e abbiamo fatto il giro di tutti i bar di Durban, Fler è così ubriaco che se lo strizzassi, con la birra che ha in corpo ci riempirei una damigiana.
“Hai visto, Peter?” Mi dice, mentre lo infilo nell'ascensore dell'albergo, a fatica visto quant'è alto e quanto pesa. Lo faccio appoggiare contro lo specchio interno perché non si regge in piedi e lui ride quando tento di tenerlo su e premere il bottone del nostro piano contemporaneamente. “Sei birre e non le sento nemmeno.”
“Lo vedo, sì,” gli rispondo, mentre decido di pressarmi contro di lui, così non cade, e poi successivamente di allungare un braccio verso la pulsantiera. Mentre le porte si chiudono, lui pensa bene di infilarmi una mano sotto la maglietta e di canticchiare mentre lo fa.
“Sei tutto accaldato,” nota ridendo e cercando il mio ombelico.
Io, per la prima volta nella mia vita credo, cerco di non prestargli attenzione mentre allunga le mani perché in questo momento ho bisogno di riportarlo in camera e non posso farlo se mi perdo nelle sue dita che giocano dentro il mio ombelico. Quando siamo entrambi alticci, va bene pure farlo dove capita, ma in questo momento lui non è in grado di occuparsi di se stesso, quindi devo farlo io per lui. E non sono tanto bravo a ragionare quando fiuto la possibilità di scopare. Quindi al momento la sto ignorando, anche se c'è. E c'è perché Fler tocca, e lui sa che non deve farlo per scherzo, con me. Io prendo i preliminari molto sul serio.
Riesco ad aprire la porta della camera e a spingercelo dentro. Lui fa giusto i passi che gli servono per arrivare al letto e poi si lascia cadere di faccia, ridendo, per poi girarsi e osservami mentre richiudo la porta e poi sospiro quasi di sollievo perché è stato il rientro più faticoso della mia vita.
Lui si sta togliendo la maglietta, ma siccome la coordinazione l'ha lasciata sullo sgabello dell'ultimo locale in cui siamo entrati, più che svestirsi, si sta agitando come una tartaruga cappottata. Io rimango un po' a guardarlo perché è divertente, poi ho pietà di lui e lo salvo da se stesso. Gli tolgo le scarpe e lui si immobilizza istantaneamente, come se non corresse più il pericolo di rimanere vestito ora che ci sono qui io. Il che un po' è vero. “Alza il sedere,” lo istruisco e lui esegue, così posso togliergli i pantaloni che gli rimangono incastrati nelle caviglie, finché non scalcia un po'.
“Non è la prima volta che lo fai, vero?” La sua è una constatazione e la fa aggrottando le sopracciglia e guardando un angolo indefinito del soffitto, come se fosse improvvisamente sobrio e stessimo avendo una discussione profonda. Fler ce l'ha di questi momenti quando è ubriaco.
Rido. “No, affatto.”
“Sei bravo a spogliarmi, tu,” ragiona ancora, serissimo, mentre alza le braccia così posso togliergli anche la maglia. “Forse dovrei preoccuparmi.”
Sospiro e mi siedo lì accanto. “Mi sembra un po' tardi, tu che dici?”
Lui sembra valutare la situazione e poi torna a ridere in maniera stupida come ha fatto per tutto il tempo dallo stadio fino a qui. “Vero!” Esclama. Mi tira giù e mi da un bacio sfigatissimo perché non riesce neanche bene a centrare la mia bocca, tanto che mi viene il dubbio non volesse baciarmi affatto ma mi abbia tirato giù troppo in fretta. Mi viene da ridere, però, perché fa tenerezza. “Alla seconda ci riesco,” mi tranquillizza, riprovandoci.
Il secondo bacio funziona e ingrana, anche se è costretto a stringermi forte per la maglia per tenermi fermo sul posto. Non è che io mi stia muovendo o cose simili, ma probabilmente a lui gira un po' la testa. Patrick sa di birra, ma so che anch'io devo più o meno avere lo stesso sapore, e credo che questo sia l'ultimo pensiero davvero coerente che ho prima di spostarmi su di lui e decidere che, ora che è disteso e in mutande, posso pure dare retta a quella possibilità che si era già palesata in ascensore.
Lui mi mugola sulla lingua quando scendo a stringerlo per i fianchi. “Sai come sta festeggiando quello là?” Mi dice, mentre mi sistemo meglio e lui mi fa spazio e lascia che mi appoggi.
Quello là, ovviamente, è Bushido. “Posso immaginare,” mugugno, mordendogli il collo. Lo faccio con più convinzione del necessario, così magari capisce che non è proprio l'argomento da affrontare.
Solo che lui è ubriaco e comunque non era una domanda a cui aspettasse una risposta perché qualunque sia il mio grado di interesse, lui vuole raccontarmela lo stesso questa cosa. “Ha deciso di farsi il ragazzino tante volte quanti sono i gol della Germania.”
“Tanto piacere,” commento, premendo il bacino verso il basso nel tentativo di distrarlo in maniera più convincente. Onestamente, al momento, delle abitudini sessuali del tunisino non m'interessa e dubito, per altro, mi sia mai interessato da che lo conosco.
Lui inarca la schiena, seguendo i miei movimenti, ma non ha ancora finito. “Anche noi, sì?” Chiede. Mi fermo, mi sollevo sulle braccia e lo guardo dritto negli occhi e lui lo sa che gli sto chiedendo se si rende conto di quello che ha detto, perché ha detto una cosa ben precisa e io non vorrei che in due avessimo frainteso quello che è appena uscito dalla sua bocca. Una volta per ogni gol è un concetto molto semplice, ma trattandosi di un numero piuttosto alto, è meglio chiarire. Lui però s'imbroncia, come se si fosse aspettato un'altra reazione. “La Germania è stata grandiosa, ha fatto quattro gol” esclama serio.
“Lo so,” annuisco.
“E io sono tedesco,” continua, allungando malamente le mani a slacciarmi la cintura dei pantaloni. Non ci riesce, così mi tocca aiutarlo anche lì.
“So anche questo,” sospiro.
“E allora me lo merito,” conclude, con una logica spiazzante.
Io lo guardo mentre litiga con i miei boxer, accusandoli di essere trappole mortali. “Sei anche molto ubriaco, Fler”, gli faccio notare, finendo di spogliarmi da solo.
“Io non sono affatto ubriaco,” commenta lui e manca due volte la presa per farmi tornare giù disteso dov'ero prima. “Ora stai zitto e datti da fare.”
Io il mio dovere l'ho fatto. Messo a letto, l'ho messo a letto. Avvertito che era ubriaco, l'ho avvertito. Quindi direi che non mi si può rinfacciare nulla se alla fine cedo e decido che possiamo anche festeggiarla questa vittoria della patria, anche se non è la mia patria. Diciamo che festeggerò la vittoria della mia nazione di adozione. Devo tenere a mente che da piccolo andavo sempre in vacanza in Svizzera, così magari se vincono festeggio pure loro. Riprendo a baciare Patrick sul collo, intanto che scendo ad accarezzarlo. “Guarda che ora che mi hai dato l'idea,” gli dico scherzando “non puoi più rimangiartela, eh.”
Sono preso benissimo, naturalmente. Sono ottimista e ben disposto verso il mondo, com'era lui stamattina quando s'è svegliato e avrebbe baciato in bocca cani e porci. Quattro gol. Non ci posso credere, non dormiremo mezzo secondo.
Ed è lì che Fler russa.
E non qualcosa di discreto, tipo un fischio ovattato dal naso, no. Una vuvuzela naturale, proprio.
Mi sollevo di nuovo e lui è praticamente disteso a quattro di bastoni sotto di me, privo di sensi, il collo voltato e il braccio molle sopra la testa. Sembra morto. Meno male che fa rumore col naso, almeno. Se non altro non m'impressiono.
Sospiro e lo guardo con rassegnazione; di essere eccitato non se ne parla più perché in questo momento, così messo e con questo rumore di sottofondo, Fler è tante cose ma di certo non appetibile. Mi scappa una risata mentre lo copro con il piumone e lui ci si avvolge dentro come in un bozzolo, borbottando “Quattro gol, mica spiccioli”, poi recupero i pantaloni del pigiama, cercando di non pensare a cosa poteva essere questa serata e invece non è. Mi consolo ricordando che questa era solo la prima partita e che ho tempo almeno tre settimane per riprendere da dove abbiamo interrotto. Sempre che non si arrivi in finale, naturalmente, in quel caso staremo qui fino a metà luglio e avremo così tante cose per cui festeggiare che, alla fine, varrà ben la pena guardarsi qualche partita. Fossero anche tutte e sessantaquattro.

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