Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash
Rating: R
Note: Dunque, la sola rilettura di queste quindici pagine mi ha fatto perdere un'ora e temo il momento in cui dovrò postarla, a parte questo mi chiedo come ci sia arrivata, io, a quindici pagine ma suppongo che sia tutto merito di Chakuza che quando attacca a parlare bisogna sparargli per spegnerlo. A tal proposito, questa storia è stata scritta appositamente per il compleanno di Chakuza, al secolo Peter Pangerl, anche se non so come potrebbe mai fargli piacere un regalo di compleanno in cui Patrick “Fler” Losensky lo porta in un centro benessere per copulare felici. La coppia in questione è dedicata a Fedy che la voleva disperatamente: dovevo accontentarla visto che negli ultimi tempi l'ho devastata con il Bikuza in ogni sua forma e colore. Figlia, spero che la storia ti piaccia (lo chiedo a te perché non vorrei mai trovarmi nella condizione di chiedere a Chakuza la stessa cosa o.ò). E basta, credo. Buon compleanno, patato tondo!

Riassunto: Per il tuo compleanno ti porto in un posto speciale.
SPA IS FOR PORN


Il mio non è una lavoro di routine. Non mi alzo sempre alla stessa ora per andare sempre nello stesso posto e passarci sempre lo stesso quantitativo di tempo e questa è una cosa di cui sono felice. Non credo che avrei mai davvero potuto sopportare un vero lavoro di ufficio, perché io me la cavo con le scadenze, ma voglio gestirmele come mi pare. Se per dire mi sveglio una mattina e Stickle mi fa girare i coglioni, voglio potermi alzare dalla poltrona, mandarlo a cagare e farmi un giro in centro finché la voglia di spaccargli la testa contro un angolo del tavolo non mi è passata, senza per questo sentirmi dire che quel giorno lì non ho fatto un cazzo. Voglio poter lavorare tutta la notte ad un progetto e dormire di giorno invece di fare il contrario, per dire. Robe così.
Il lato negativo di un lavoro come il mio è che non hai un flusso costante di impegni, ci sono periodi in cui ti devi occupare di mille cose e periodi in cui non hai veramente un cazzo da fare e se non ti organizzi per bene, finisce che da una parte ti rompi i coglioni a farti quindici giorni di lavoro serrato per venti ore al giorno e dall'altra passi le ore in casa a guardare il soffitto perché tendenzialmente se non lavori non hai niente da fare. A me ci sono voluti quattro anni per capire come far funzionare la cosa, perché che fosse il mio modello ideale di vita l'avevo intuito subito ma entrare nel meccanismo non è stato per niente facile.
Mi ricordo che all'inizio sono arrivato da Bushido, dopo un concerto che aveva fatto in Austria, con un cd che conteneva le cinque migliori canzoni che io e Stickle avevamo composto nei due anni precedenti. Lui l'ha preso, se lo è messo in tasca e per tre mesi non l'ho più sentito. Stavo già meditando di vendere la mia attrezzatura di missaggio e tentare di aprire il ristorante che mia madre mi chiedeva dal giorno che avevo ottenuto il diploma – come se quel pezzo di carta bastasse da solo ad aprirne un'intera catena – quando alla fine lui mi ha telefonato, con tutta la calma del mondo, naturalmente, e mi ha detto che la mia roba spaccava e che voleva vedermi.
Da lì a qualche settimana abbiamo iniziato a lavorarci sopra: beat, testi, promozione, foto, video, insomma tutto. Questo per, diciamo, due mesi, poi all'improvviso niente.
Una mattina, come un coglione, mi sono svegliato all'alba come avevo fatto fino al giorno prima e mi sono ricordato che Suchen & Zerstören era uscito e a noi non restava altro che vedere se eravamo tipi da scalare le classifiche o se facevamo schifo all'universo mondo.
Dopo un attimo di esitazione ho pensato che fosse una cosa grandiosa, voglio dire, dopo mesi di lavoro serrato – perché quando Bushido si prende bene a fare una cosa, non vuole essere interrotto, quindi è già tanto se ti dà il permesso di alzarti per mangiare o andare in bagno – avevo davanti lunghe giornate di libertà assoluta. Centinaia di ore fino a data da destinarsi in cui potevo fare tutto quello che mi girava.
Sembrava un sogno ma, naturalmente, dopo due giorni mi ero già rotto il cazzo.
Il punto è che se hai un lavoro normale, gli orari del lavoro impongono un ritmo alla tua giornata, sai che per un certo quantitativo di ore non potrai fare nient'altro che startene seduto dietro la tua scrivania e organizzi tutto il resto di conseguenza. Anche gli svaghi. Quando invece hai tempo di fare tutto, sostanzialmente non fai nulla perché sapendo di avere tempo rimandi all'infinito.
E così passavo le ore a guardarmi intorno nel salotto minuscolo che avevo allora senza la più pallida idea di come passare la montagna di tempo che mi si parava davanti. Sembrava per altro, che tutte le cose urgenti che dovevo fare per forza – documenti, pagamenti, visite mediche obbligatorie – si fossero presentate in tutta la loro urgenza soltanto nei mesi precedenti, costringendomi a litigare con Bushido per andare in posta, tipo, e adesso il postino non aveva da darmi nemmeno le bollette. In più in quel periodo, era il 2006 se non sbaglio, non conoscevo nessuno a Berlino a parte Bushido e Stickle e, per quanto mi annoiassi, non avevo voglia di vederli anche nei giorni liberi dopo aver passato mesi con loro chiuso giorno e notte in una stanza. E neanche loro volevano. Stickle era addirittura tornato in Austria a trovare i parenti mentre io evitavo meticolosamente le telefonate dei miei, perché non ero ancora disperato al punto da dover tornare da mia madre a sentirla raccontare di come zia Gertrude si fosse rotta il femore per la quarta volta in un anno.
La cosa è andata avanti finché non abbiamo dovuto muoverci per cantare le canzoni e mi ricordo che attendevo l'inizio del tour come l'arrivo del Messia. Mi sembrava una cosa meravigliosa e la preparazione delle valige mi prese una settimana solo perché era la prima cosa che avevo da fare dopo eoni passati a dormire e mangiare. A due giorni dalla fine del tour volevo morire, perché non ce la facevo più e non vedevo l'ora di stare a casa da solo, a non fare un cazzo, senza vedere nessuno perché ne avevo abbastanza. Così il cerchio ricominciava.
Per trovare un equilibrio tra la frenesia lavorativa e il vuoto cosmico che ne consegue ho dovuto faticare parecchio perché io so organizzare le cose se mi ci metto, il problema è che quando ho troppe cose da fare o troppo poche o il problema comprende entrambe le situazioni, prima di vedere che la soluzione è organizzarmi, vedo solo che ho un problema e do di matto.
Quando alla fine ci sono riuscito e mi sono creato i miei spazi e i miei tempi, ogni cosa è andata a posto e non avrei potuto chiedere di meglio. Per dire, ho capito che durante i periodi di vuoto potevo fare in casa tutti quei miglioramenti che ti vengono in mente di fare quando non hai tempo. Avete presente, no, quando state per uscire, alzate lo sguardo e vi rendete conto che vivete in quella casa da quasi sei mesi e non avete ancora i lampadari? Magari mancano le tende in bagno, oppure il pulsante del gabinetto fa i capricci da mesi e bisogna tirarlo dopo averlo spinto perché sennò rimane incastrato. Cose del genere. Io dal 2006 ho lavorato tantissimo, ho fatto uscire due album da solista, più una serie di collaborazioni, concerti, interviste e apparizioni e nei tempi morti fra gli uni e le altre ho ridipinto casa, ho tirato su due muri per farci una stanza degli ospiti, ho cambiato la cucina e tutto il resto dell'arredamento tre volte e adesso in garage c'è spazio per due auto con tutta la roba che ho buttato.
In questo preciso momento, sto passando un periodo di relativa calma che dovrebbe concludersi sabato quando io e Stickle ci metteremo a lavoro e, probabilmente, ci chiuderemo in studio per le successive due settimane, che poi diventeranno tre e poi quattro fino a che, dopo un mese, o ne usciremo con qualcosa di nuovo da produrre, oppure uno dei due avrà ammazzato l'altro e, come ogni volta, spero di essere io quello che uscirà da quella porta con le mani insanguinate che reggono la testa recisa di Stickle per i capelli che nel frattempo gli sarebbero cresciuti. Anche perché, oggettivamente, lui non potrebbe fare il contrario.
Fino ad allora, però, ho cinque giorni liberi e non ho ancora deciso come passarli, anche se ho qualche idea. Intanto comincio dormendo, per dire, che è sempre un buon inizio. Io non sono il tipo che deve necessariamente dormire dieci ore per notte sennò non si regge in piedi, ma se invece di alzarmi la mattina all'alba posso dormire fino ad un'ora più umana non mi lamento; che poi non sto proprio dormendo, mi sono quasi svegliato mezz'ora fa e ora sono immobile con gli occhi chiusi a godermi il fatto che anche se la mia vicina ha già quasi finito di pulire casa e probabilmente tra poco inizierà a preparare il pranzo, io posso rimanere a letto. E' una bella sensazione. Dopo, se mi gira, posso anche alzarmi e prepararmi dei waffle, visto che mia madre mi ha mandato da Linz cinque barattoli di marmellata di fragole fatta dalla nonna, che nel corso degli anni ha preso a prepararne in quantità industriali perché, per qualche strano motivo, è convinta me ne servano di più di quando stavo lì. Come se potesse colmare la distanza con i barattoli di vetro. Mia madre mi manda scatoloni di cibo fatto in casa una volta al mese per via della sovrabbondanza alimentare generata dall'ansia di sua madre. Quando li apro ci trovo sempre una di quelle enormi ceste in vimini che si usano durante le feste: in casa mia è sempre Natale.
Felice di questa mia decisione, mi sistemo ancora meglio tra le coperte e penso che a preparare la colazione mi ci vorranno dieci minuti, quindici se ho voglia di fare le cose con calma, quindi posso aspettare un altro po'.
A questo punto sento la porta di casa che si apre. Non che faccia un rumore particolare, tipo cigolii o che, è più che altro una specie di sbuffo, come se la mia casa fosse sottovuoto e quando qualcuno apre la porta, l'aria da fuori riuscisse finalmente ad entrare. E' una specie di puff! Appena percettibile, una di quelle cose che registri solo se la senti più o meno tutti i giorni. Fa parte dell'ambiente in cui vivi, come il ronzio del frigorifero quando tutto il resto è spento o il rumore dell'acqua nei tubi dei caloriferi.
Un'altra cosa che da più di un anno ormai fa parte dell'ambiente in cui vivo, sono i suoni che Fler fa quando rientra a casa: il tintinnio delle chiavi quando le lascia sul piattino della consolle, il fruscio di quando si leva il cappotto e quindi il bussare del ferro contro il muro quando lo appende all'appendiabiti che non è fissato bene. Lungo il corridoio le sue scarpe da ginnastica cigolano un po' perché hanno la suola di gomma ma il suono sparisce non appena entra in salotto, dove c'è il tappeto. In genere, se non si è dimenticato qualcosa nel cappotto – e quindi lo sento tornare indietro – dopo il tappeto mette i piedi sul parquet del corridoio, che è nuovo quindi non fa attrito e non cigola e i suoi passi sono molto ovattati. Eccolo infatti: piastrelle, tappeto, legno. E a me viene da ridere perché potrei tranquillamente localizzarlo in qualsiasi punto della casa si trovasse solo dal rumore che fanno le sue scarpe.
Fler non vive davvero qui, ha ancora una casa sua nella quale di tanto in tanto passa, credo, a dare l'acqua alle piante, ma ormai passa così tanto tempo qui che gli manca soltanto il nome sul campanello. Ho in bagno il suo spazzolino e nell'ultimo carico di lavatrici c'erano più calzini suoi che miei. In generale, ha qui da me anche tutti quegli oggetti che finisci per lasciarti dietro quando vivi in un posto a lungo anche se non è casa tua. Per dire, se esce di casa a fare la spesa e tornando compra l'ultimo numero di una rivista che colleziona e magari torna e si mette a leggerlo in poltrona, poi quello rimane sul mio tavolo, visto che il giorno che torna a casa sua – magari dopo una settimana che sta lì con me – non è che si ricorda di portarlo via. Ormai fa parte del mio arredamento. E le riviste sono la parte minore. Ho qui i suoi cd, le magliette e un mucchio di peluche avvolti nei reggiseni che le ragazze delle prime file gli hanno fatto piovere addosso durante l'ultimo concerto.
Se vi state chiedendo per quale motivo Patrick Losensky abbia le chiavi di casa mia e in pratica ci viva, forse devo tornare un po' in dietro. A quando, circa un anno fa, Bushido è apparso nel mio ufficio alla Beatlefield presentandomelo come se fino al giorno prima non gli avesse offeso perfino la cugina di terzo grado. Non starò qui a raccontarvi come l'odio del ghetto si sia trasformato di nuovo in fraterno amore perché non sono la fatina dei denti e, sinceramente, sono stanco di raccontarvelo sempre. Wikipedia saprà darvi tutte le informazioni che cercate. Vi dirò però che io e quest'uomo qui una sera eravamo troppo ubriachi per ricordarci di essere etero e adesso, a distanza di un anno, probabilmente sventoleremo bandiere arcobaleno al prossimo gay pride. D'accordo, forse non lo faremo, perché la nostra visione dell'omosessualità fa a pugni pure con quella degli omosessuali e probabilmente l'intero corteo finirebbe per malmenarci, ma quello che voglio dire è che siamo passati con molta scioltezza dallo scrivere testi vagamente omofobici ad invitarci vicendevolmente a cena. La fase di rifiuto c'è stata, ma non è durata neanche una settimana e c'è stata, io credo, solo perché coincideva con un periodo in cui Fler aveva del lavoro da fare. E' molto facile sostenere che una persona non t'interessa, quando quella non c'è. Ti guardi allo specchio è sei convinto di avere in mano la situazione, che quello che è successo quella sera non ha niente a che vedere con quello che sei – tu non sei gay, d'altronde –, è stato solo qualche bicchiere di troppo. Non lo chiamerai, lui non ti chiamerà. Nessuno saprà mai niente. Poi capita che per caso v'incrociate in un posto dove non ti aspettavi proprio di vederlo e la prima cosa che gli chiedi è se gli va un caffè. Quando il caffè diventa un pranzo, poi una cena e infine il tuo letto, non ti resta che arrenderti. Anche perché ormai è già tardi.
Fingo di dormire anche quando Fler entra in camera e lo sento aggirarsi intorno al mio letto per qualche minuto. “Lo so che sei sveglio,” commenta lui ridendo. “Il tuo respiro è diverso mentre dormi.”
“Il mio respiro è...” esco da sotto le coperte e gli tiro un cuscino. “Ma quanto era gay questa!”
Lui me lo ritira, prendendomi in faccia. “Zitto e non fare lo stronzo.” Subito dopo si siede sul letto e mi sventola sotto il naso una bustina. “O la prossima volta te li avveleno.”
Dentro la bustina ci sono dei waffle e io mi domando se non mi legga anche nel cervello oltre a sapere come respiro e quando. “Grazie,” mormoro.
Fler scrolla le spalle, come fa sempre quando si sente in imbarazzo. “Mettici su la marmellata di tua nonna,” mi dice, passandomi anche quella.
Io mi siedo per bene e stendo il lenzuolo, quindi apro la busta di carta per avere un piano su cui lavorare e preparo i due waffle che mi ha portato. “A cosa devo questo trattamento di favore, a parte che sono un uomo meraviglioso?” Scherzo.
Lui mi tira uno scappellotto e infila il dito nel barattolo della marmellata, una cosa che odio e che lui fa solo per il gusto di vedermi dare di matto. Difatti, quando mi volto a guardarlo male lo trovo che mi fa quel mezzo sorrisino a presa di culo che gli farei cose, se poi non sollevasse il dito e non si lasciasse cadere la marmellata direttamente sulla lingua.
Torno di corsa ai waffle e lui ride. “Dio, quanto sei facile,” commenta, schioccando le labbra.
“Vaffanculo.”
“Vedremo,” commenta lui, infilando di nuovo il dito nel barattolo come nulla fosse. Fler non si fa mai dire cosa può e cosa non può fare. “Hai progetti per la giornata?”
Scrollo le spalle . “Nessuno in particolare. “ Gli passo il suo dolce e lui sembra pensieroso e col primo morso si ricopre il naso di zucchero a velo. Vorrei davvero riuscire a concentrarmi su qualcosa che non siano i dettagli, stamattina.
“Bene, perché io ne ho,” esclama. Appoggia il waffle sull'improvvisato piatto di carta e si pulisce le mani sui pantaloni.
Lo seguo con lo sguardo mentre fruga in giro e apre tutte le ante dell'armadio una dopo l'altra, lasciandole aperte. “Pat, che stai facendo?”
“Cerco uno zaino.”
“Uno zaino per cosa?”
Lui si volta con un certo auto-compiacimento sul viso. “Per il tuo compleanno ti porto in un posto speciale.”

*


Siamo in macchina da due ore e io ancora non so dove stiamo andando.
“Come puoi esserti dimenticato che domani è il tuo compleanno?” Ride Fler. “Nessuno si dimentica il proprio compleanno.”
“Ho avuto da fare,” mi giustifico. “Tu, piuttosto, come hai fatto a ricordartelo?”
“E' perché ti amo,” risponde subito e Io divento di marmo, cristallizzandomi nella posizione in cui mi trovo. Se mi fingo morto forse mi lascerà in pace. E lui scoppia a ridere. “Smettila di fare il morto, cretino,” commenta. “Stavo scherzando, l'ho visto su Facebook.”
Tiro un sospiro di sollievo evidente e lui ride di nuovo. Non sono pronto perché mi dica cose simili: il suo spazzolino nel mio bagno non le giustifica ancora. La sua igiene orale non dovrebbe avere niente a che fare con l'amore. Almeno non nel senso più alto. Insomma, no.
“Comunque guarda che sei una merda,” mi dice mentre usciamo dall'autostrada. “Io sono qui che ti apro il mio tenero cuoricino e tu usi la tecnica dell'orso.”
“La smetti con questi vezzeggiativi? Mi fai venire i brividi.”
Lui ride. “E' questo il bello,” commenta. “Comunque ti salvi solo perché è il tuo compleanno, altrimenti stanotte staresti sotto per lo stronzo che sei. Non si risponde così.”
Tossisco e cambio argomento. “Dov'è che mi stai portando?”
“Sorpresa, nano. Sorpresa,” esclama e io non ho neanche il tempo di offendermi perché mi poggia la mano dietro il collo e preme tre punti che sa mi rilassano all'istante, tipo bambola di pezza. Il bastardo è talmente bravo in queste cose, che è capace di neutralizzarmi solo con due dita. “Ora stai tranquillo e rilassati,” mi dice, massaggiando. “Ti divertirai.”
Queste sono le ultime parole che mi ricordo, poi credo di essere caduto in un sonno profondo. Questa cosa mi ricorda un film dell'orrore, uno di quelli splatter dove la gente viene torturata e fatta a pezzi mentre è ancora viva. Tra qualche ora mi sveglierò in una stanza buia e lurida, magari legato ad una sedia, e un tizio con in faccia una maschera mi dirà che per andarmene devo aprire la pancia di Patrick e recuperare una chiave. E sarà allora che mi accorgerò della forma inerte di Patrick disteso a terra. O forse Patrick non ci sarà e per liberarmi dovrò tagliarmi i un piede, o scavarmi in un occhio con un bisturi perché la chiave è dentro di me, che poi mi sono sempre chiesto come può il pazzo di turno operare la gente in maniera così perfetta che quella si sveglia con una chiave dietro un occhio. Non lo so, comunque che schifo.
Quando mi sveglio, però, non c'è nessuno psicopatico mascherato che mi parla da un vecchio televisore catodico appeso al muro e non c'è nemmeno la stanza buia.
Sono ancora seduto sul sedile dell'Escalade di Fler e, per quanto la cosa non mi faccia apparire appetibile, mi sto pure un po' sbavando sulla spalla.
“Ehi, bell'addormentato,” mi chiama Patrick, mentre apre il baule dell'auto per tirare fuori le nostre due valigie. “Sorgi e brilla, siamo arrivati.”
Sono lì che sbatto gli occhi e cerco di recuperare le coordinate della mia esistenza quando vedo una giapponese in kimono che si avvicina alla macchina. Mi guardo intorno e vedo che siamo circondati da laghetti, piccole fontane in legno – di quelle per la meditazione, avete presente? Con il bambù che si riempie d'acqua, batte sulla roccia e torna su – e poi ovunque ponti in legno, ciliegi e alberi che sembrano bonsai ma non lo sono.
“Ma quanto ho dormito? Ma dove siamo?” Esclamo sconvolto. E già ci vedo attraversare la Russia in auto per arrivare fino a qui. Qui è, tipo, un paese vicino Tokyo, per me.
“Kremmen,” risponde lui, chiudendo il baule. “Ridente paesino a circa due ore da Berlino.”
“Mai sentito,” borbotto, recuperando la mia valigia.
“Figurati, tu solo l'asse Berlino-Linz,” mi dice ridendo. “Altro non conosci.”
La giapponese ci raggiunge facendo passi minuscoli su quei suoi sandali di legno che sembrano scomodissimi e ci sorride senza mai mostrare i denti. “Prego, signor Losensky, da questa parte.”
Il signor Losensky annuisce con un sorriso dei suoi e mi fa un cenno con la testa per dirmi di seguirlo. “Che posto è?” Chiedo sussurrando, mentre camminiamo tre passi dietro la signorina che fa un suono buffo e preciso quando, con i sandali, calpesta il curatissimo vialetto d'entrata fatto di piastrelle minuscole.
Patrick ride. “Quante domande,” dice. “E' un bel posto.”
Oltre ad essere oggettivamente un bell'ambiente, è però anche un ambiente in cui io sono molto fuori posto e me ne accorgo immediatamente quando arriviamo in fondo al sentiero e c'è un enorme costruzione bianca con le porte a vetri e il nome di un qualche centro benessere scritto sopra in caratteri azzurri. La nostra giapponese si ferma sotto l'enorme kanji che sovrasta l'entrata e tende il braccio, invitandoci ad entrare. “Prego,” dice.
Fler sembra perfettamente a suo agio e la cosa un po' mi fa girare le palle perché lui è esattamente il tipo di persona in compagnia della quale non vuoi farti vedere a disagio. Esattamente come Bushido, Fler intuisce al volo i tuoi punti deboli e se può li usa per prenderti per il culo. E dal momento che io guardo la gigantesca entrata di questo posto e non so bene che cosa ci si aspetti che io faccia o come ci si aspetti che io mi comporti – si fa il check in come in albergo? Ma dormiamo qui? E devo sottopormi a tutti i trattamenti o posso scegliere? Ma poi cosa fanno esattamente qui? – vorrei evitare che tutta questa mia inadeguatezza mi si ritorcesse contro. Non voglio passare il giorno del mio compleanno a sopportare Patrick che ride qualsiasi cosa faccio.
Potrei rimanere per sempre lì impalato a guardare il lucernario che si trova almeno sei metri sopra di noi, senza per altro potermi togliere dalla testa il fatto che sembra quello di Jurassic Park e che forse prima o poi sentirò tremare la terra e vedrò l'occhione del T-Rex che ci guarda famelico – ma una voce interrompe il mio ennesimo filmino mentale e lo fa in maniera traumatica.
“I signori Losensky?”
Io mi guardo intorno, giuro che lo faccio, e mi aspetto di vedere una coppia di anziani signori – lui con la barba bianca, magari, e lei magra con uno di quei cappellini trapezoidali che non sarebbero belli in nessun caso, figurarsi se sono giallo catarro e a fiori. E mi aspetto che questa coppia di cariatidi sia anche omonima del mio Patrick. I signori Losensky. Già ci vedo fra qualche ora a ridere del malinteso. “Anche lei un Losensky?” Direbbe Patrick. “Ma guarda a volte i casi!”
E invece non ci sono anziani signori alle nostre spalle né di fianco, né da nessuna parte. E quando finalmente capisco che i signori Losensky siamo noi – io e lui insieme – Fler ha già raggiunto la signorina con un sorriso che gli prende tutta la faccia. Appena siamo soli io lo sfiguro.
La ragazza in questione ci consegna una chiave magnetica, quindi dormiamo davvero qui, e l'equivalente del mio peso in dépliant di ogni tipo. Più una cartina della struttura – e a questo punto mi chiedo quanto sia grande questo posto se abbiamo bisogno di una cartina per girarlo. Io lo so che adesso infileremo le porte dei giardini e scopriremo che tra le fresche frasche dei cachi giapponesi ci sono gabbie elettrificate con dentro lucertole che avrebbero dovuto essere morte centinaia di migliaia di anni fa. Intanto la signorina sta spiegando a Patrick i benefici della cristalloterapia al secondo piano e lui annuisce come se sapesse tutto di cristalloterapia e potesse pure insegnarla, per dire, a quelli che lavorano al secondo piano. Alla fine veniamo rilasciati e siamo liberi di raggiungere la nostra stanza che, a quanto ho capito da questa cartina, si trova all'ultimo piano dove sono situate le camere per gli ospiti del centro benessere. Come mettiamo piede in questo ascensore super-fantascientifico con un trilione di bottoni azzurri e gli altoparlanti che mandano in loop il canto delle balene della Papuasia in amore, Fler m'impedisce di fare le mie giuste rimostranze. “Se apri bocca e mi fai anche solo un'altra domanda penserò personalmente ad affogarti nella piscina di acqua solforosa che c'è al primo piano. E' chiaro?”
Borbotto qualcosa ma le mie parole vengono coperte dallo squittio bitonale del Pangolino del Borneo durante la stagione dell'accoppiamento.
“Certo che sei una piaga,” commenta Fler, mentre le porte dell'ascensore si aprono e lui comincia uscire trascinandosi dietro me e la valigia.
La nostra stanza è una roba esagerata. Voglio dire, sia a me che a lui capita spesso di dormire in albergo e generalmente sono dei signori alberghi, mica bettole, ma questa è tipo la cabina di una nave spaziale arredata da uno dei creativi dell'IKEA. Potrei stare qui a cercare di mettere insieme una trama che coinvolga gli alieni, i dinosauri e Spock, ma non ne ho il tempo perché la prima cosa da fare quando entri in una stanza d'albergo è mollare le valigie sulla porta e gettarti sul letto. E' una regola non scritta, va fatto. Così io e lui ci guardiamo e cominciamo a correre. Quando atterriamo, il materasso è talmente morbido che il nostro peso congiunto ci sbalza entrambi fuori e cadiamo a terra, sul tappeto in pelo-di-non-so cosa.
Io sto ancora ridendo quando Fler mi chiama dalla stanza attigua, quasi urlando. Quando lo raggiungo lo trovo seduto a gambe incrociate di fronte ad un televisore grande quanto me che sta giocando a qualche gioco di automobili che piacciono a lui, di quelli che se non prendi bene le curve ti vai a schiantare a bordo pista e ti compare la crepa del casco rotto sullo schermo del televisore. “Potrei chiudermi qui dentro e passarci due giorni.”
“Il tuo regalo di compleanno sarebbe portarmi in un albergo dove potrò guardarti mentre batti il tuo record personale con le macchinine?” Gli chiedo. “Wow! Sono eccitato alla sola idea.”
“Non ne dubito,” fa lui senza scomporsi. “Tu sei sempre eccitato.”
“Beh, allora potresti provvedere,” commento, decidendo di sistemare la valigia in un posto più appropriato che non sia praticamente in mezzo al corridoio. Non facciamoci subito riconoscere.
“Vedremo, se farai il bravo,” dice lui. “E poi non ti ho portato qui per passare il tempo a scopare. Ci sono un sacco di cose interessanti da fare.”
“Ad esempio?”
“Le terme, i massaggi,” enumera lui, recuperando al volo un opuscolo e leggendolo con il tono della presentatrice bionda sul secondo canale. “La terapia con le pietre, quella con gli oli essenziali, la cristalloterapia del secondo piano e la cromoterapia. E poi ci sono insegnanti di tutto, yoga, ginnastica, pilates...”
“Non so neanche che cos'è il pilates,” protesto. “E in ogni caso non promette niente di buono con quel nome lì.”
Fler mi tira dietro il volantino che non fa un volo molto lungo essendo di carta e poi plana morbidamente in terra fra di noi. “Chaku non essere il solito rompicazzo,” protesta lui. “Adesso disfiamo la valigia, ci mettiamo il nostro bell'accappatoio e andiamo a farci cosparge d'olio di jojoba da qualche bella massaggiatrice tailandese.”
Sospiro. “Non so nemmeno se dovrei, tipo, incazzarmi perché vuoi farti massaggiare da una tailandese,” ragiono, mentre spiego l'accappatoio che il centro benessere ci ha dato in dotazione. Mi sorprende che sia della mia misura.
“Dipende, che tipo di relazione abbiamo? Una di quelle aperte?” Mi chiede.
“Una di quelle che se tocchi la tailandese più del dovuto, vedi per cosa lo uso l'olio di jojoba,” ribatto.
“Bravo! Così ti voglio, rude!” Fler si morde un labbro, fingendosi molto preso. “ E ora muoviti! Ho una tailandese da palpeggiare.

*


In questa struttura bianca e vagamente paradisiaca – non nel senso di esageratamente bella, proprio nel senso che sembra un po' il paradiso con i muri bianchi, la gente vestita di bianco, le luci lattiginose e tu ti aggiri per i corridoio chiedendoti se ti reincarnerai mai per tornare sulla Terra – i massaggi con l'olio di jojoba te li fanno in una saletta con due lettini, una pianta di ficus e la solita filodiffusione con animali di ogni tipo che fanno sconcezze. Non ho ancora capito se sia un velato suggerimento o cosa, perché a me sinceramente non rilassano nemmeno un po' quindi per forza dev'essere un modo come un altro per spingerti a copulare con un altro essere vivente, anche se non vedo a che pro. Cioè, voglio dire, a loro cosa gliene viene?
Comunque sia, siamo stati accompagnati fino a qui da una donna con il camicie bianco e ci è stato detto di distenderci e rilassarci. Già partiamo male perché fra la serenata dei bonobi e il fatto devo stare a culo all'aria, io non sono rilassato per niente; che un potrebbe anche chiedermi com'è che, vista la mia attuale situazione, io abbia dei problemi a stare a culo all'aria. Li ho perché sebbene io mi sia piegato a certe dinamiche necessarie, non è che ne sia felice. Non è lo stato naturale delle cose – non delle cose in generale, intendo, ma delle mie cose, della mia persona – quindi non mi piace starmene lì disteso sulla pancia ad attendere cose che non so.
Fler, dal canto suo, è tranquillissimo. Ha incrociato le braccia sul materasso e sorride con gli occhi chiusi. “Non ti senti già più rilassato?” Mi fa, come se attraverso le palpebre chiuse mi avesse visto, teso e rigido come un tocco di marmo. Emetto un mugolio che non vuol dire niente e lui ride un po'. “Ne deduco di no.”
“Non l'ho detto.”
“Questo è il suono che fai quando ti si tocca male,” commenta lui. Quindi apre gli occhi e mi guarda mentre allunga una mano e mi preme ancora sul collo e io faccio tipo le fusa istantaneamente.
“Non potremmo tornare in camera e continuare su questa linea?”
“No, ora taci,” mi dà due colpetti sulla nuca. “Guarda che non pensavo che avrei dovuto faticare tanto per farti mettere le mani addosso da una donna. Mi sembrava che tu fossi abituato, un tempo. Oh, come sei cambiato, Peter, non ti riconosco più!”
Vorrei tirargli qualcosa ma non ho niente in mano e comunque non avrei il tempo di farlo perché le massaggiatrici sono appena entrate. Mi colpisce il fatto che spogliata di ogni contesto questa scena sembra l'inizio di un film porno con un ottimo scenografo.
“Cosa fa signor Losensky, fa il lavoro al posto mio?” Chiede una delle due.
Fler ride e allontana la mano dal mio collo. “No, assolutamente,” risponde. “E' solo che a volte non riesco a togliergli le mani di dosso.”
Io vorrei poter aprire il pavimento di questa stanzetta con le unghie e tuffarmici di testa per poi sparire in un mare di cemento e terra, finché di me non resterà più niente. Mi volto a guardarlo e lo trovo che non sa come trattenere le risate. Cioè lo vedo proprio, le guance gonfie e rosse e l'occhio che brilla. Muovo la bocca per avvertirlo che lo ucciderò in maniere dolorose e che non potrà salvarsi nemmeno implorando perdono.
“Ma che bella cosa,” cinguetta la massaggiatrice che, per altro, non è affatto tailandese.
Ora, io sono relativamente pronto a due ore di strazio perché i massaggi non mi hanno mai attirato e l'olio di jojoba mi sa di unto, inoltre la presenza delle due donne che fanno il loro lavoro m'impedisce di alzarmi e prendere il mio a-quanto-pare fidanzato insaziabile a sberle. Però niente va come me l'aspetto: cioè il massaggio è effettivamente odioso e l'olio è unto, ma la cosa assume tutto un altro tono se mi volto e guardo Fler.
Dopo dieci minuti che siamo lì, io non mi rendo più conto di quello che viene fatto a me, ma mi perdo completamente in quello che viene fatto a lui che ha richiuso gli occhi l'attimo dopo che la massaggiatrice ha posato i polpastrelli sulle sue spalle.
Fler sembra completamente rilassato, ha le labbra appena leggermente piegate in un sorriso e anche solo il modo in cui ha appoggiato la testa agli avambracci piegati ti dà l'idea che non esista posto migliore di quello in cui si trova ora. Io mi ritrovo a seguire con gli occhi il profilo del suo corpo che nonostante sia massiccio riesce ad essere morbido, la linea della sua schiena che dalla spalla rilassata scende lungo la sua spina dorsale fino a sparire sotto il telo di spugna che gli copre il sedere. Deglutisco perché posso immaginare ciò che non vedo e so che la linea non si spezza, gira soltanto intorno alle sue natiche per proseguire altrove. Quando finalmente mi sforzo di racimolare quel poco di forza di volontà che possiedo e staccare gli occhi dal suo culo, mi accorgo che siamo all'olio di jojoba e che la sua pelle chiarissima adesso brilla appena. Sembra umida. E m'ipnotizzo da solo, seguendo la vaga pressione delle mani della donna che dalle spalle scendono fin quasi al limitare dell'asciugamano. Non ho idea di cosa stia avvenendo sulla mia schiena, in questo momento, vorrei solo mettere le mani su quella di Fler, adesso. E su tutto il resto di lui.
Proprio mentre mi sto chiedendo per quanto ancora dovrò starmene disteso senza poter far nulla ecco che queste due donne tremende smettono all'improvviso. “Come va?” Mi chiede una voce femminile alle mie spalle.
“Bene,” ammetto incerto e non mi muovo. Va un po' meno bene quando capisco che dovremmo alzarci e io non sono in condizione di farlo senza che sia palese a cosa stavo pensando, o per lo meno senza che sia facile scambiarmi per un ninfomane. Cosa che forse sono, ma sarà meglio che io non analizzi il problema in questo momento. Sento le due donne salutare e uscire dalla stanza, lasciandoci tutto il tempo di alzarci e coprirci le pudenda, anche quelle che fanno di testa loro, come le mie. Nascondo la faccia contro il lettino e desidero ardentemente la morte.
“Ehi, tutto bene?” Domanda Fler, in tono preoccupato.
“Sì,” mugugno, senza sollevare il viso.
Segue qualche secondo di silenzio in cui posso figurarmi le rotelline che girano dietro quei suoi occhi azzurrissimi e lo so che sta per arrivare quel momento in cui vorrò scomparire dalla faccia della terra dopo che lui avrà detto qualcosa.
“Oh, ho capito,” esclama in fatti, con una tonalità di voce solo apparentemente neutra. Quindi mi cammina sulla schiena con due dita della mano. “Posso vederlo?”
“No, che non puoi vederlo!” Sbraito. “Patrick vattene.”
L'attimo dopo mi bacia su una guancia e sento il suo fiato caldo contro l'orecchio. “Sicuro? Potrei avere delle idee.”
Sollevo un sopracciglio e anche il viso. Non si sa mai.
Fler si allontana. “Eccolo che s'interessa subito,” ride e poi mi dà due pacche sul sedere. “E' ancora presto, comunque. Siamo arrivati da due ore. Fatti passare tutto, da bravo, pensa alla nonna. Ci vediamo tra i cristalli.”
Mugolo, perché con questo qui non mi è rimasto altro da fare.

*


Recuperare il controllo di me stesso non mi è facile. Voglio dire, non è che io sia una bestia che una volta accecata dai fumi della libido non capisce più niente e va avanti per la sua strada. Sono pur sempre un essere umano e nemmeno uno di quelli peggiori! Solo che io mi innervosisco parecchio se per qualche motivo mi ritrovo in questo stato e poi finisco con un nulla di fatto. Per quanto mi riguarda, o si inizia e finisce o non si inizia affatto. Quindi, dal momento che avevo già i miei problemi, Fler avrebbe dovuto risparmiarsi di ansimarmi in un orecchio per poi mollarmi qui come un cretino. Quando finalmente il sangue mi torna al cervello e riesco ad alzarmi senza per questo dover dare delle giustificazioni imbarazzanti a chicchessia, Fler è scomparso; cioè, da qualche parte sarà anche andato, ma non so dove. Il secondo piano – dove in effetti si fa cristalloterapia – è enorme, ci sono miliardi di stanze e ognuna di esse è chiusa. Non è che posso provarle tutte.
“Sta cercando il signor Losensky?” Mi volto all'improvviso e figurarsi se non trovo un'altra di quelle ragazze in camice bianco che mi sorride. Mi chiedo se sia sempre la stessa che mi insegue o se siano tutte uguali. Magari tutto questo massaggiarti con l'olio di colza e tirarti le sassate per curarti in maniera alternativa le malattie, non sono altro che biechi trucchi per sottrarre il tuo DNA e creare signorine come questa qui. Magari c'è anche qui un tredicesimo piano inaccessibile in cui uno scienziato pazzo sta giocando a fare Dio. E io sto davvero perdendo il senso della misura con queste ipotesi campate in aria. Passare troppo tempo con Eko non mi fa tanto bene, i processi mentali di quell'uomo finiscono per contagiare i tuoi. Presto non ci sarà più speranza per nessuno di noi. Comunque.... “Sì, cerco il signor Losensky,” dico finalmente a lei che è rimasta immobile da che mi ha fatto la domanda, sempre col suo sorriso un po' di plastica. E' inquietante. Forse non è un clone, è un Terminator: sotto la copertura in gomma c'è una macchina mortale.
“Venga, da questa parte,” mi fa lei, indicando il corridoio ed invitandomi a seguirla. “E' già dentro, mi ha chiesto di avvisarla.”
Posso immaginare come mi abbia descritto per farle capire chi ero. L'ultima volta che l'ho perso al supermercato – no, aspettate, questa va raccontata. Dunque, io e Fler andiamo di rado al supermercato insieme perché lui non è capace di fare la spesa. E' uno di quelli che prende il carrello, tira fuori il braccio nelle corsie dei dolci e butta dentro tutto quello che gli gira in quel momento, poi ci aggiunge del pane in cassetta e qualche cibo in scatola. Dopodiché si considera soddisfatto anche se è uscito dal supermercato con ingredienti insufficienti anche per un piatto di pasta. Ecco, a me uno che fa così mette il nervoso, per cui se entriamo insieme al supermercato è sicuro che finiamo per litigare. Le poche volte che questo non succede e io mi sento in vena di fidarmi di un buon senso che in certe altre occasioni di fatto ha, gli affido metà della lista e lo mando da solo tra le corsie, fiducioso che mi riporti almeno la metà di ciò che gli ho chiesto. Il problema in questi casi è rappresentato dal fatto che dopo mezz'ora che cerca i fagioli borlotti ovunque e non li trova, pensa bene di telefonarmi per chiedermi dove sono perché ci siamo persi di vista. Ed è lì che si accorge che una volta di più si è dimenticato il telefono nello zaino che sta sul carrello che io mi sto portando in giro da solo mentre lui è col cestino. Cosa fa allora lui? Va alle casse, come un bambino di quattro anni e si fa cercare la mamma, che poi sarei io. Così si torna a quello che vi stavo dicendo prima. L'ultima volta che questo carnevale è successo, ha detto alla responsabile che doveva cercare un ometto pelato con le lentiggini. Una specie di Brontolo, ha specificato, ma senza la barba e i capelli. E quella mi ha trovato, ovviamente. Non è che le bastava chiamare Peter Pangerl al microfono, no. Quasi mi aspettavo che lo prendesse per mano, gli desse una caramella e gli dicesse di non preoccuparsi che la mamma arrivava subito.
Comunque sia, la signorina mi porta in fondo al corridoio, apre per me la porta di una stanza e dentro c'è Fler, ricoperto dalla testa ai piedi di cristalli di quarzo grandi come il mio pugno. Lui è, tipo, completamente nudo a parte questo straccetto di stoffa che lo copre davanti. Mi chiedo se sarebbe considerato scortese anche in questo universo alternativo in cui dinosauri, alieni e Terminatori convivono insieme, probabilmente con l'obbiettivo di sterminare come si deve la razza umana, prendere di peso la signorina che mi ha portato qui e quella che sta sotterrando Fler con dei sassi rosa e spedirle a zappare gli orti mentre io faccio a Fler cose mai viste.
“Vuole accomodarsi?” Mi dice la signorina.
“Volentieri,” rispondo. Anche se parliamo palesemente di due cose del tutto diverse. Durante tutto il processo per il quale questa donna sconosciuta mi fa distendere, mi da il mio minuscolo asciugamano da bidet per coprirmi e lentamente inizia a tumularmi sotto le pietre iridescenti, io guardo Fler che sembra una bella statua sotto queste luci morbide. Non si muove, è rilassatissimo e se c'è una cosa che mi fa venir voglia di mettergli le mani addosso è proprio quando è abbandonato in quel modo. Per dire, ci sono volte in cui è disteso sul divano e sta guardando un film, che io sono costretto a mettermi a cucinare per un reggimento per evitare di ribaltarlo lì dove sta. E' una cosa più forte di me, perché nel momento esatto in cui Fler smette di imporsi un certo atteggiamento e si rilassa, diventa, tipo, bellissimo. Non che di solito non lo sia, ovviamente, ma è tutta un'altra roba. E' come capita a volte con le ragazze che senza quintali di trucco, sono più dolci e ti sembrano più sensate che non con quattro chili di fondotinta che, se ti va bene, ti rimane tutto addosso per secoli. Ecco, lui uguale. Quando si atteggia a gran duro è okay, voglio dire, è ovvio che mi piaccia sennò non sarei qui, ma quando sta per addormentarsi la sera e l'unica cosa a cui pensa è che la giornata è finita e non ha più niente da fare fino al mattino dopo, ha quella faccia lì. E a me piace da morire.
La cristalloterapia inizia e finisce molto velocemente. Non parliamo nemmeno perché le signorine ci hanno detto che la risonanza dei cristalli, che dovrebbe aprici i chakra, non dev'essere disturbata. Non ci sono nemmeno i cd con i suoni della natura e io sto bene.
Quando finalmente ci alziamo, io mi sento esattamente uguale a prima, con l'unica differenza che ho un bollo rosso in fronte per via dei sassi.
“Possiamo andare in camera, adesso?” Chiedo.
La risposta è no. Anzi, la risposta somiglia più che altro ad un: no, Chaku, adesso entri qui in questa vasca e muori di desiderio guardandomi mentre mi bagno dalla testa ai piedi.
Penso distintamente che voglio affogarmi nelle acque solforose di questa vasca all'aperto modello giapponese. Voglio dire, seguitemi, okay? Lo so che a volte entro nei labirinti tortuosi della mia testa e quando alla fine mi accorgo che vi ho persi, io sono già al centro mentre voi chissà dove siete e mi tocca tornare indietro a riprendervi – a tal proposito posso dirvi che, a quanto sembra, per uscire dai labirinti bisogna sempre tenere la mano sinistra incollata alla parete. In questo senso, il mio lato sinistro è che, anche se non sembra, io un punto di arrivo ce l'ho. Se tenete bene in mente questo dettaglio e avete fiducia, allora prima o poi la conclusione arriva – dicevo, lo so che sono una persona complessa, ma in questo caso mi pare non ci siano dubbi su quale sia il mio problema e sul fatto che mi si stia ampiamente istigando a fare cose delle quali poi mi pentirei, a seconda che Patrick sia consenziente oppure no. E deve esserlo se per scendere quattro fottuti gradini ci sta mettendo quella vita e mezzo che mi serve per osservare l'acqua che gli lambisce la vita man manco che entra. Io non ce la posso fare. Io sono un uomo provato.
Le terme sono una tortura per due motivi: il primo è che io odio stare in ammollo come le verdure per il bollito. Non è che odio l'acqua in generale, solo non mi piace starci dentro fermo senza far niente. Io non sono un tipo che si rilassa in generale, figurarsi se mi rilasso guardando le stelle. Mi annoio se non faccio niente e stare lì a guardare i vapori che salgono verso il cielo non è fare qualcosa, per cui mi irrito già a priori. Il secondo motivo è che in questa vasca enorme siamo soli. Io e lui. Con solo un costume e Fler finge di non vedere quanta predisposizione al sesso ci sia nella vasca – ma soprattutto in me – in questo momento. Decido che posso avvicinarmi e lui non si muove, buon segno, resta appoggiato al bordo di sassi rotondi e sorride. “Non vuoi farlo davvero,” mi dice.
“Sto per farlo,” rispondo. “Quindi se vuoi fermarmi ti conviene farlo ora.”
Lui non mi ferma, continua a sorridere mentre lo bacio piano. All'inizio è un bacio leggero, quasi potrebbe benissimo scostarsi subito ma poi schiude le labbra e sento la sua lingua cercare languida la mia. Mentre è distratto dal bacio, ne approfitto per trovarmi un posto tra le sue gambe e penso che stare a mollo così potrebbe anche andarmi a genio.
Scivola più un basso verso il fondo della vasca naturale e appoggi il collo sui ciottoli dietro di lui, stendendosi tutto per quanto è lungo. Appoggio le braccia ai lati della sua testa e mi spingo in basso, con l'acqua di mezzo l'effetto non è lo stesso, ma rende comunque l'idea e lui mugola sulle mie labbra. Baciare Fler, a volte, equivale ad ipnotizzarlo. Per dire, con me questo trucco non funziona. Se mi baci sono felice, ma non stacco il cervello. Lui sì. Chiude gli occhi, ti abbraccia al collo e tanti saluti. Libero accesso alla sua bocca, significa più o meno avere libero accesso a qualsiasi cosa. E' per questo che quando gli infilo una mano sotto ai boxer, tutto il movimento lo coglie di sorpresa. Mi spalanca gli occhi blu addosso e mi guarda come se fossi comparso in mezzo alle sue gambe dal nulla. “Chakuza, siamo all'aperto...” geme, mentre le sue ginocchia mi stringono ai fianchi di scatto.
“Non è la prima volta,” commento e gli mordo il collo mentre reclina la testa. Lo sento distintamente tirare giù dei santi.
“Non...” inspira ed espira. Un sospiro gigantesco, di quelli che prendi per calmarti o per darti coraggio, insomma, uno che mi dice che sta facendo di tutto per non dirmi di continuare. E non ne vedo il motivo. “Non sarebbe meglio uscire prima?”
“Fa freddo, fuori.”
Lui si divincola, o meglio sfrutta l'acqua intorno a lui per spingermi indietro e uscire dall'acqua. Quando io ho finito di sputare acqua termale, lui ha già su l'accappatoio e ha le guance rosse per i vapori e un qualche tipo di pudore che non ha mai avuto. E quando dico che non lo ha mai avuto, intendo proprio mai. Fler a volte fa vergognare anche me perché è capace di toccarti e dire cose in pubblico che tu vorresti sotterrarti. I miei vicini di casa pensano di lui, di me – di noi! - cose tremende che occasionalmente sono anche vere. Tipo che lo si fa ovunque, per dire. E che lo si è fatto nel locale delle lavatrici del mio palazzo; quando lo ha saputo, la signora del secondo piano ha pagato di tasca sua la disinfestazione. Le è andata bene che non è venuta da me a chiedermi i danni, perché sennò le avrei detto che cosa ci fa sua figlia su quelle lavatrici. Ero lì, quindi lo so.
“Si può sapere che ti prende?” Gli chiedo quando finalmente riesco a raggiungerlo a bordo vasca e ad avvolgermi nel mio accappatoio, che è calato il sole tre ore fa e comunque siamo a febbraio quindi fa un freddo porco. Soprattutto quando esci da una vasca termale.
“Niente,” fa lui, stringendosi nelle spalle. “Dico solo che-”
“Niente? Cazzo mi spingi in acqua in quel modo?”
Lui chiude la bocca, tipo, subito perché non litiga mai. Cioè, litiga, ma per arrivare ad urlarti addosso devi proprio averlo tirato fuori dalla grazia di Dio. La sua prima reazione quando urli è irrigidirsi. “Magari non è il momento di farlo nella vasca,” mi dice.
“Magari se non mi tiravi scemo tutto il pomeriggio era anche meglio.”
“Non era mia intenzione.”
“Non era tua intenzione il cazzo!” Sbraito, infilandomi queste stupide ciabattine di plastica che ci hanno consegnato al nostro arrivo.
Patrick alza gli occhi al cielo e sbuffa. “Dove stai andando?”
“In camera!” Replico. “Tu continua pure con le tue assurde terapie alternative! Fatti fare i fanghi, le sabbiature, fatti seppellire vivo fra le alghe Nori dell'Himalaya! Io me ne vado!”
“Le alghe Nori del... Chaku ma che stai dicendo? Vieni qua?”
“No!” E imbocco il corridoio, con lui dietro che di quattro passi miei ne fa uno e mezzo.
“Chaku, dai, fermati un secondo!” Mi grida dietro lui. Io ho una voce molto potente, per questo tento di bisbigliare. Lui che ha una voce molto più alta, generalmente urla, così lo sentono bene. Ora per dire, nel corridoio si sono girati tutti e quando passo loro davanti, mi guardano come se sperassero di ricevere una spiegazione. Io tiro dritto, con Fler che intanto mi segue senza aumentare il passo, perché io non lo aumento. E così, in pratica, stiamo qui a fare la maratona di New York in un corridoio.
“Peter, dico davvero. Aspetta!”
“A che piano è la camera?” Mi volto per chiederglielo di fronte all'ascensore. Non ho un cazzo di senso dell'orientamento e ho poca memoria. A momenti non mi ricordo nemmeno il numero. Tra l'altro la chiave ce l'ha lui. “E dammi la chiave!” Tendo la mano.
Lui si infila la destra in tasca, con fare protettivo. “No. Ora ti fermi e mi ascolti.”
“Dammi la chiave,” ripeto.
“Peter...”
“La chiave!” Sbotto proprio mentre si aprono le porte dell'ascensore. Lui alla fine sbuffa e rotea gli occhi, per poi darmi la carta magnetica ed entrare con me nell'ascensore.
Fler lascia passare due-secondi-due di silenzio e poi ci riprova. “Ascolta...”
“Stai zitto.”
“Almeno fammi spiegare, no?”
“No.”
“Eh, no.”
Le porte si riaprono con un suono fastidioso e io ne esco prima ancora che siano del tutto aperte. Tanto io ci passo e lui no, infatti lo sento che sbatte, tira giù i santi e poi mi segue. “Quando fai così,” mi apostrofa raggiungendomi mentre faccio scattare la serratura, “giuro che non so cosa mi trattiene dal mandarti a fanculo.”
“Quello dovrei essere io.”
Aspetta di aver chiuso – anzi sbattuto, per questo mi giro con un sopracciglio sollevato – la porta, per esclamare: “Ti stavo tirando scemo di proposito.”
“Ah beh, grazie, ora si che è tutto a posto.”
Lui sbuffa frustrato e le sue dita si piegano come volesse strangolarmi. “Intendo dire che era tutto calcolato, okay?” Replica. “Fa parte del regalo.”
“Ecco parliamo del regalo,” lo interrompo. “Questo posto è-”
“Non ti azzardare nemmeno a dirlo!” Sbraita, facendo due passi avanti. Io istintivamente ne faccio due indietro perché noi ci siamo menati soltanto una volta e non è facile sopravvivere ai suoi novanta e passa chili di peso se decide di essere incazzato. Ho una cicatrice sulla testa che lo dimostra.
“Fler...”
“Tu non l'hai ancora avuto il tuo regalo, cazzo!”
Rimango sorpreso da questo scatto d'ira che, come ho già detto, è piuttosto insolito da parte sua. “Cosa stai dicendo? Non mi hai portato qui?”
“Sì, ti ho portato qui ma non è questo il punto!” Ricomincia lui, piegato verso di me ed è così minaccioso che, per sicurezza, faccio altri due passi indietro. “Il punto è che tu se non ti lamenti costantemente non ti senti realizzato. Devi sbuffare per ogni minima cosa con quelle guance tonde che ti ritrovi e se, per disgrazia, è tutto perfetto, t'inventi qualcosa per poter sbuffare!”
“Io non ho le guance tonde,” mi ritrovo a dire.
“Tu sei tutto tondo, Chaku! Dalla testa ai piedi, che è molto poco, ma quel poco che c'è è tondo!” Fler sta letteralmente agitando le braccia in aria. “E comunque, per la cronaca, se ti ho tirato scemo è perché volevo giocare un po'! Ma tu no, non stai al gioco, tu ti imbizzarrisci come un puledro senza la cavalla il giorno della monta e allora ciao, non vedi più una sega!” Mi spinge, finché non cado sul letto che rimbalza un po' sotto di me mentre lui si avvicina con la stessa espressione amichevole di un muflone con le palle girate. “Non vedi una sega e per altro non la capisci neppure! Ti avrei portato qui e avrei giocato un po'. Tu, in un mondo normale in cui sei una persona ragionevole, saresti stato al gioco e poi, stasera saremmo venuti qui e avremmo fatto sesso senza mai muoverci dal letto finché non sarebbe stato più umanamente possibile continuare a farlo, il che, trattandosi di te, significa parecchio tempo suppongo. Ma questo non è un mondo normale e tu non sei una persona ragionevole, quindi dovevi per forza dare di matto solo perché mi sei saltato addosso prima del tempo e dandotelo subito avrei un po' rovinato l'idea del farlo all'infinito, a meno che tu non pensi che lo staff del centro ci avrebbe lasciato scopare liberamente per quarantotto ore filate dentro le vasche termali. Tu che dici?”
“Oh.”
“Eh,” commenta. “Quindi, visto che abbiamo appurato che sei un coglione, ora ti levi quell'accappatoio e mi scopi finché non imploro pietà. E' chiaro?”
Sono sconvolto e anche un tantino spaventato, per cui annuisco velocemente e mi sto già slacciando la cintura.

*


Mi sono spogliato perché temevo che lo facesse lui con i denti e perché così deciso, sinceramente, non lo aveva ancora mai visto e la cosa mi piace parecchio. Fler è uno che ha un sacco di iniziativa, intendiamoci, non è che se ne sta lì a farsi girare e rigirare come una bambola gonfiabile. Anzi, il più delle volte si sveglia un giorno e decide che vuole provare cose e non è che mi avverte prima, le prova e amen, tanto più o meno sa che mi piaceranno per cui va sul sicuro. Il punto è che generalmente è convinto nei suoi desideri e nella sua volontà di sperimentazione, ma non è che ti ribalta o ti costringe, semplicemente ti dà buone ragioni per fargli fare quello che vuole. Decisioni autoritarie abbaiate come un generale dell'esercito, ecco, non le aveva mai prese. Ma per tutto c'è una prima volta e io sono ben contento di ricevere un ordine se quell'ordine è di scoparlo. Mi ha dato carta bianca, per così dire, e io sono un grafomane in questo senso.
Lo tiro giù sul letto, spogliandolo del poco che ha addosso e lui ha ancora la faccia incazzata, così riprendo da dove mi sono interrotto alle terme, cercando di baciarlo. Lui fa resistenza soltanto un po', giusto per ribadire il punto, immagino e poi schiude le labbra e posso sentire il suo sapore sulla lingua. Ad abituarmi a questo sapore ci ho messo un po' perché era forte e diverso da qualsiasi cosa avessi mai assaggiato prima. Ora quasi mi sembra che non ci sia stato nient'altro prima della sua bocca e del suo profumo. Sbandate così, io credo, sono destinate a cambiarti la vita se sono così forti da cancellare tutto quello che è stato prima del loro arrivo.
Mi faccio spazio tra le sue gambe e lui si sistema contro di me, solleva il bacino per strusciarsi e stringe le ginocchia in modo che non posso scappare e non posso neanche decidere il ritmo da tenere. Mi sorride sulle labbra perché lo sa che è stronzo, per questo gli inchiodo le mani al materasso e mi spingo in basso con più forza, la mia lingua ignora la sua per esplorargli la bocca con forza e per lasciarlo lì un secondo dopo, con le labbra aperte ad attendere un secondo bacio che non arriva affatto.
Il collo di Fler è un posto meraviglioso e io non lo sapevo quando ci siamo conosciuti. Ero abituato al collo delle donne, ero abituato al loro corpo, così pensavo che tra noi due niente più dell'atto stesso potesse essere interessante. Poi ho preso l'abitudine di restare disteso su di lui dopo che avevamo finito e, in quei momenti in cui prendevo fiato, ho iniziato a notare come il tendine del collo scendesse giù dritto quando piegava la testa e formava un triangolo vuoto, in cui non potevo che infilare la lingua. E lì ho scoperto che la sua pelle era salata, ma buona. Aveva il suo sapore. E quando risalivi lungo il collo e verso il lobo dell'orecchio, la sua pelle si riempiva di brividi quando anche solo lo sfioravi. I primi tempi il corpo di Fler è stato un gioco di cui scoprire le istruzioni e siccome non avevo il libretto, accarezzavo a caso per vedere la reazione.
Patrick, non si arrende sotto le mie mani, ma si stringe al mio corpo, serra le ginocchia intorno ai miei fianchi quasi cercando di spingermi dentro perché io ancora mi soffermo a toccarlo senza di fatto fare nient'altro. “Peter, per favore,” mi chiama, spingendo la testa così tanto all'indietro che il suo collo si piega ad arco sotto le mie labbra ed è una cosa che proprio non ti aspetti da uno grosso come lui. Voglio dire, tutta quest'armonia che gli piega il corpo non ce l'ha lontano da me – e con questo non voglio dire che sia la mia persona a conferirgliela ma che la tira fuori solo con me e questa è una cosa bella che mi far venire voglia di averlo sempre vicino. “Peter, da-”
Lo zittisco tornando a baciarlo e sto combattendo una lotta molto dura con me stesso per non entrare in lui e godermi il suo corpo in ogni modo possibile solo per il gusto di stare a guardarlo mentre perde l'ultima briciola di controllo che gli è rimasta. I suoi occhi si chiudono mostrando appena il bianco e le sue espressioni cambiano mentre le mie mani lo accarezzano tra le gambe e le mie dita esplorano, piegandosi al piegarsi delle sue labbra in quella specie di smorfia che precede i suoi gemiti migliori.
Potrei parlare di punti precisi, ma dei suoi non ho mai avuto la mappa, per cui è anche vero che vado un po' a caso. Non troppo, ma un po' sì. Così quando lo prendo, il punto, dico, lui mi si stringe addosso ancora di più e fra un grugnito e l'altro m'infila i polpastrelli praticamente tra i nervi del collo, tirandomi giù per mordermi meglio le labbra.
“Ora,” ordina. “O giuro che ti faccio del male.”
Rido e mentre affondo in lui, Patrick segue tutto il mio scivolare respirandomi addosso. E i suoi respiri seguono le mie spinte e si fanno incerti ed interrotti finché anch'io mi dimentico com'è che si respira e un po' prendo la sua aria, un po' deglutisco così forte che quasi mi fa male la gola.
Quando veniamo ci stiamo baciando e io so per certo di aver cercato quel bacio perché ne avevo bisogno mentre venivo dentro di lui e sentivo lui seguirmi a ruota tra i nostri corpi. Così quando gli collasso addosso scosso dai brividi – ed è meraviglioso non dover pensare a rotolare di fianco, perché lui è abbastanza forte da reggermi subito dopo, che io voglio solo morire finché non riprendo conoscenza – le nostre bocche sono ancora incollate e sorridiamo nello stesso momento prima che mi appoggi alla sua spalla. “Dovresti arrabbiarti più spesso,” commento quando le particelle di ossigeno e quelle del sangue tornano a migrare verso nord e verso il mio cervello che ne ha incredibilmente bisogno. “E' interessante.”
Lui fa una specie di risatina sconclusionata, come se fosse partito per ridere bene ma non avesse ancora abbastanza forza o fiato per farlo, così si mette comodo mentre io mi sistemo meglio. “Guarda che se vuoi che ti urli addosso, posso anche farlo per finta.”
“Non voglio che mi urli,” protesto. Ci manca solo che gli venga in mente di tornare a casa con tanga di pelle e frustino a nove code. “Solo che è stato... Boh, cioè, non lo so spiegare. Oh, insomma, vaffanculo!”
E lui stavolta l'aria per ridere ce l'ha, prima di darmi un bacio sulla testa, una roba che per una serie di traumi esistenziali io considero l'umiliazione più grossa che possa esistere sulla faccia della terra. Tranne che se lo fa lui. “Buon compleanno, stronzo.”

*


Il mio regalo di compleanno è durato ben più del mio compleanno, in effetti. Almeno quarantotto ore, non ininterrotte ma quasi. Fler detiene al momento il ragguardevole primato di avermi fatto il regalo più lungo, nonché più bello, della mia esistenza; una cosa che se la raccontiamo in giro così come ve l'ho detta, senza i dettagli che voi sapete, la gente pensa un'altra cosa. Non che pensandolo si discosterebbe di molto dal vero, comunque sia... siamo partiti di venerdì e oggi è domenica, non abbiamo praticamente mai disfatto le valige e il gentilissimo personale clonato del centro benessere non ci ha più visti nemmeno per sbaglio. Quando arriviamo alla reception la signorina molto gentile – o una che le assomiglia – si dice molto dispiaciuta di non averci visti alla lezione di tai chi la sera prima. Impedisco fisicamente a Fler di dirle che mentre loro facevano la posizione dell'arco e della freccia, io stavo posizionando lui come un origami e lo trascino verso il parcheggio mentre ride come il coglione che è.
“Avresti dovuto lasciarmi parlare, immagina la faccia!” Dice e quasi penso che si metterà a saltellare come un bambino di dodici anni, cosa che in effetti fa spesso quando è particolarmente ubriaco o particolarmente euforico.
“Tu dovresti smetterla di mettere in imbarazzo la gente!”
“Non è colpa mia se la gente s'imbarazza per delle cose normali,” protesta mentre apriamo il bagagliaio e ci infiliamo dentro le borse così come vanno. “Ma forse sei tu che ti vergogni di me!” Esclama, con il suo falso tono da diva tragica degli anni venti.
Salgo in macchina e lo guardo storto dal finestrino. “Certo, mi vergogno così tanto che vivi a casa mia,” commento. “Ora muovi quel culo e riportaci a casa.”
In quel momento sta passando la giapponese che ci ha accolti all'arrivo – che suppongo sia morta e sia in realtà il fantasma di se stessa che si aggira fra i ciliegi dopo essere uscita da un pozzo come in quel film dell'orrore – e allora lui non trova niente di meglio da fare che piegarsi a novanta sul mio finestrino, agitare il culo fasciato nei pantaloni e sorridermi. “Va bene così, austriaco?”
“Fler!”
“Cinquanta mi sembra un po' poco, non credi?” Continua lui, alzando la voce, in modo da farsi sentire dalla ragazza dietro di lui. “Non per il servizio completo!”
Voglio morire. “Fler!” Sibilo.
E lui si gira verso la giapponese. “Signorina, diglielo un po' anche tu che per scoparmi, minimo minimo sono duecento. Sono roba di classe io,” infila di nuovo la testa nella sua auto, “mica come quelle sciacquette a cui sei abituato.”
Io appoggi la testa al cruscotto e mi arrendo. “Fleeeeeeer....”
Mi appoggia un bacio sulla tempia, ridendo. “Okay, basta. Tranquillo, ho finito,” commenta, recuperando finalmente le chiavi e facendo il giro dell'auto. “E' che sei troppo uno spettacolo quando t'imbarazzi.”
“Io non mi imbarazzo!”
Lui mette in moto con un sopracciglio alzato. “Devo uscire di nuovo a roteare la mia ipotetica borsetta sul viale?”
“No!”
“Appunto, come dicevo io.” Sorride, quindi fa manovra e si lascia alle spalle un centro benessere le cui mura avrebbero molto da dire su di noi e una signorina giapponese che ci osserva con un'espressione che non riesco a decifrare e, francamente, forse non voglio perché è spaventosamente concupiscente.

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).