Personaggi: Bushido, Chakuza, Fler, Bill, Jorg, Gordon
Scritta a quattro mani con: Fedykaulitz
Genere: Fantasy, Romantico, Avventura
Avvisi: Slash, AU, Lemon, OOC, Violenza
Rating: NC-17
Prompt: Scritta per la seconda edizione del Big Bang Italia
Gift: Until you wake up, bellissimo fanmix fatto dalle manine sante di Def su cui riverserò amore per sempre.
Note: Questa storia è nata perchè Tabata stava guardando il film "L'uomo che volle farsi re" per motivi di lavoro, e ha descritto a Fedy una scena in cui un sultano arabo offriva le sue figlie (e i suoi figli maschi) ad alcuni esploratori ospiti del suo regno per allietare le loro notti. Era palese che in quel momento sarebbe scattata nella mente di entrambe la scintilla per tirarne fuori un'AU in cui infilarci tutti i loro pg preferiti. A furia di plottare, la trama si era ingigantita al punto che avrebbe potuto concorrere per il BBI, e quindi eccola, partecipante alla seconda edizione di bigbangitalia. Un po' divertente, un po' triste, forse un po' scontata? Ma non sottovalutate un probabile colpo di scena... Un esperimento di scrittura a quattro mani per un contest che sembra sia riuscito. Oh, e prevede un sequel. Dovevamo dirlo?

Riassunto: Bushido è a capo dell’esercito del regno di suo padre. Durante una spedizione di conquista, si trova a sostare con i suoi soldati nel territorio di re Jorg II, che lo accoglie e lo ospita per mesi nel suo palazzo come ringraziamento per aver sedato la rivolta di una tribù locale. Durate la sua permanenza, Bushido incontra Bill, uno dei cortigiani messi a sua disposizione, con il quale intesse un rapporto che sconfina al di là delle lenzuola.

REIGN OVER ME


Bushido osservò la distesa di cadaveri che si estendeva ai suoi piedi fino alle sponde del fiume, ormai rosso di sangue. Conosceva la guerra abbastanza bene da non illudersi che non ci fosse la mano del cielo dietro quella loro vittoria inaspettata. Dopo un viaggio di quasi due mesi, l'esercito era stato dimezzato dalla fame, dalle febbri e dalla disidratazione durante l'ultimo tratto nel deserto. Quando erano arrivati nella valle e l'esercito nemico si era abbattuto su di loro senza preavviso, non era stato certo che potessero farcela.
Il piano originale aveva previsto che si accampassero e che solo il mattino seguente gli esploratori fossero inviati ad osservare i dintorni per capire dove si trovassero i nemici e come affrontarli, ma era chiaro che la loro lunga colonna di marcia, mal disposta e sfiduciata dagli imprevisti, fosse stata avvistata molto prima di quello che credevano.
Bushido aveva avuto la fortuna che tutti i suoi luogotenenti fossero vivi e fossero ancora in grado di eseguire gli ordini, e che i pochi uomini rimasti a combattere avessero avuto ancora voglia di farlo.
Aveva avuto la prontezza di spirito di chiudere subito ogni via di fuga ad un esercito nemico più numeroso, sì, ma peggio organizzato del loro, e di spingere verso il fiume uomini che non si aspettavano di essere respinti. Ci aveva provato e ci era riuscito. Non facevano altro che dirgli che era dannatamente fortunato, anche contro ogni logica e, a quanto pareva, doveva essere vero.
“Sapevo che ti avrei trovato qui a ridere della tua fortuna sfacciata,” esclamò sorridendo il tenente Losensky, avvicinandosi a cavallo.
“Non ne stavo ridendo, la stavo solo contemplando,” rispose Bushido, senza perdere il buonumore.
La bestia sotto il capitano si agitò sbuffando dalle narici e l'uomo dovette stringere le redini, dandole pacche dolci sul collo per rabbonirla. “Temo che dovrai rimandare a più tardi l'auto-compiacimento, abbiamo un piccolissimo problema.” Losensky fece una mezza smorfia, indicandosi alle spalle. “In campo la gente sta dando di matto. Non vogliamo che tirino fuori il vino adesso, o sì?”
Bushido si lasciò andare ad una risata corposa e divertita. “Lasciali fare per un po',” disse, poi ci pensò. “Ma tieni il vino sotto chiave, dobbiamo prima montare l'accampamento.”
“Comandante!”
I due si girarono per veder arrivare il tenente Pangerl, che si fermò a qualche metro da loro. “Abbiamo visite,” annunciò, accennando al di là della collina. “Gli esploratori dicono che c'è un drappello in arrivo. Le insegne sono diverse.”
“Quanti sono?”
“Una ventina, signore,” rispose Pangerl. “A circa mezz'ora da qui.”
Bushido annuì un paio di volte. “Radunate gli uomini,” ordinò. “Li accoglieremo e vedremo di cosa si tratta. Tenetevi pronti.”
L'attesa fu snervante, sebbene venti uomini non costituissero una minaccia anche per quel poco che rimaneva dei loro battaglioni; ma chi poteva sapere che non fosse solo l'avanguardia di un esercito molto più esteso nascosto dietro le dune che non avevano ancora avuto modo di esplorare? E comunque, qualsiasi cosa appariva un problema a fronte del lungo viaggio, della battaglia inaspettata e di un intero campo ancora da montare.
Il drappello comparve all'orizzonte mentre il sole iniziava a calare e le ombre dei cavalli si allungavano sul campo e sui cadaveri dei nemici abbattuti. Bushido raddrizzò le spalle e fissò dritto davanti a sé, mentre i due tenenti al suo fianco facevano la stessa cosa, dando ordine ai propri battaglioni di tenersi pronti.
Bushido individuò subito il capo. Un diplomatico di qualche tipo o, forse, addirittura un sovrano, ma di certo non un soldato. L'uomo era abbigliato molto più vistosamente di quanto la situazione avrebbe richiesto per praticità, e lo spadone a due mani che gli pendeva da un fianco era senza dubbio un simbolo di comando e non una vera e propria arma, vista l'impugnatura più cesellata che comoda e le insegne sull'elsa che ad occhio ne compromettevano il bilanciamento.
L'uomo sollevò la mano destra e si fermò a pochi metri da Bushido e dai suoi uomini, salutandolo con un cenno del capo. Si guardarono a lungo, finché quello non ordinò ad uno dei soldati al suo fianco di farsi avanti. “Questo è re Jorg II, sovrano delle terre che state attraversando,” pronunciò quello nella lingua di Bushido, e il generale ne rimase sorpreso, pur senza darlo a vedere.
Accennò ad un mezzo inchino con il capo. “Generale Anis Ferchichi, figlio di re Ayech delle Terre del Sud, oltre la linea del Medjerda.”
Re Jorg, che a quanto pareva era in effetti un re, alla fine, disse qualcosa in una lingua che Bushido non comprese e poi guardò il proprio interprete che tradusse per lui. “Sua Altezza ci tiene ad informarla che quelli che avete appena ucciso erano uomini della tribù di El-Fahs.”
“Con tutto il dovuto rispetto,” replicò Bushido, stringendo le redini del proprio cavallo e sapendo, anche senza doversi voltare , che Pangerl e Losensky, alle sue spalle, erano già pronti a difenderlo, nel caso, “gli uomini della tribù di El-Fahs ci hanno attaccati senza motivo non appena siamo arrivati.”
Jorg parlò di nuovo e l'interprete sorrise. “E noi siamo incredibilmente felici che l'abbiano fatto, generale, perché così avete potuto sterminarli.”
Bushido scambiò un'occhiata con i suoi tenenti. La sua fortuna era evidentemente molto generosa.

*


Re Jorg II era diventato re dopo aver ucciso a randellate il suo precedessore, Jorg I naturalmente, il che la diceva lunga sull'arretratezza sociale di un regno in cui il sovrano non aveva neanche il buon gusto di avvelenare il cibo del proprio rivale per prenderne il posto, come avveniva in ormai quasi tutto il resto del mondo. A giudicare dal notevole numero di prostitute e cortigiane che si aggiravano seminude per il castello, Jorg doveva avere una gran passione per il sesso ma ben poca per la guerra, e questo spiegava perché combattesse da vent'anni con un numero inaccettabile di tribù che non avevano gradito la sua salita al trono e che ancora faticavano a riconoscerne l'autorità; questo, naturalmente, stando a ciò che il traduttore stava spiegando con solerzia a Bushido, seduto con alcuni dei suoi uomini al tavolo del banchetto allestito per loro.
“Ha detto che il suo regno si trova aldilà del fiume Medjerda?” Chiese Gordon, il traduttore, a nome del proprio sovrano.
“Sì, altezza,” confermò Bushido, “Appena qualche miglio più a sud.”
“E' molto distante da qui,” disse Jorg. “Che cosa porta lei e il suo esercito così lontano da casa?”
Bushido smise per un istante di mangiare e appoggiò la coscia di montone sul piatto, pulendosi le mani e prendendo tempo prima di rispondere. “Eravamo diretti a nord, verso Bizerte. Il regno di re Amir è stato vittima di attacchi da parte di truppe berbere ed essendo sotto la protezione di mio padre, abbiamo il compito di difenderlo.”
Non aveva neanche mentito poi troppo. Bizerte era stata davvero quasi rasa al suolo dalle truppe nomadi dei deserti che la circondavano, e la città era effettivamente sotto la protezione del regno di suo padre. O lo era stata, per lo meno, ma l'accordo fra i due regni si era sciolto con la morte di Amir e quindi, in sostanza, Bushido o suo padre non avevano alcun dovere nei confronti della città costiera.
Non c'era bisogno di informare Jorg di questo dettaglio, però, né del fatto che fosse stato Ayech stesso ad ordinare l'omicidio di Amir e che se l'esercito di Bushido era ora diretto verso la costa, era solo per prendere il comando di Bizerte una volta per tutte.
Re Jorg annuì compitamente, tornando al suo cibo e invitando Bushido a fare lo stesso con un gesto brusco ma amichevole.
La sala del trono era ampia ma molto spartana. Il trono stesso era un sedile in pietra, ben lontano da quello comodo e rivestito di velluto che suo padre occupava le rare volte che si decideva a passare a palazzo più di due giorni consecutivi. Bushido fu colpito dalla povertà generale degli arredamenti, dall'assenza di tappeti o cuscini sul pavimento, dalle pochissime tende appese alle finestre e dai gioielli dozzinali indossati dal re e dalla sua corte, composta peraltro dai soli funzionari del sovrano. Anche gli schiavi e le schiave che si aggiravano intorno al tavolo non indossavano nient'altro che cianfrusaglie mal tagliate, inappropriate perfino per il loro rango. Era più che evidente che il regno di re Jorg II si trovasse in seria difficoltà, al momento.
Bushido lasciò scorrere lo sguardo lungo la tavolata, alla quale erano seduti lui, i suoi tre tenenti, una serie di ospiti dei quali non si era preso la briga di ricordare i nomi e il re, che ogni tanto gli lanciava delle occhiate al di sopra di un piatto di cibo nel quale metteva direttamente le mani, prima di allungarle sulla schiava che gli passava di fianco.
“Bushido!” Lo chiamò il tenente Sido, seduto qualche posto più in là dall'altro lato del tavolo. “Prova questi.”
Il generale prese il vassoio che gli veniva passato e analizzò con attenzione i tortini che vi erano impilati sopra con grande attenzione. “Che cosa sono?” Chiese, mentre Chakuza e Fler allungavano subito la mano sul piatto per assaggiare anche loro.
“Non ne ho idea,” ghignò Sido, ridendo e mettendone in bocca uno praticamente intero, seguito a ruota dagli altri due. “Ma meritano il rischio, sono buonissimi.”
Bushido rise di cuore alla spensieratezza dei propri uomini, che avevano passato troppi giorni a vedere morire gente, convinti che sarebbero morti anche loro, per non gettarsi sul cibo e sulle donne non appena entrambi gli erano stati forniti. E non poteva certo biasimarli, lui stesso aveva bisogno delle due cose; o della prima, quanto meno, visto che non aveva mangiato altro che pane raffermo nelle ultime due settimane.
“Potrebbe essere merda di capra,” commentò Fler. “E sarebbe comunque buona dopo le gallette rafferme.”
“Tu non distingueresti la merda di capra dalle gallette nemmeno se avesse un cartello sopra, Fler,” lo prese in giro Chakuza, che aveva finito il tortino in due morsi e aveva deciso che nello stomaco aveva posto per un altro.
“Coglione!” Fler gli tirò del pane con poca convinzione.
Quando Bushido si voltò verso i suoi ospiti, trovò Gordon che lo osservava con un sorriso incerto, come se non avesse capito il dialogo a cui aveva assistito e fosse leggermente imbarazzato al riguardo. “Bushido?” Chiese, scuotendo la testa. “Pensavo che il suo nome fosse... Anis, dico bene?”
Bushido annuì, pulendosi discretamente le labbra con la tovaglia. “Sì, signor Gordon.” E poi sorrise. “Si sta forse chiedendo perché i miei uomini mi chiamano in un altro modo?”
Gordon si prese un momento per riferire il loro breve scambio al re che li guardava con aria interrogativa, prima di rispondergli. “Devo ammettere che la cosa mi incuriosisce.”
“Ognuno di noi ha un soprannome in battaglia,” spiegò Bushido. “Questi sono Fler, Chakuza e Sido, ma nessuna delle loro madri si sarebbe mai sognata di chiamarli così.”
“Non ne sarei troppo sicuro,” commentò Sido con noncuranza, rivolgendosi ad una delle discinte signorine che gli versava da bere e quella rise, pur non capendo le sue parole. “La vecchia era pazza.”
“Ora comprendo,” annunciò Gordon a nome del re. “E come dovremmo chiamarla, generale?”
“Con il nome che preferisce, io mi girerò comunque.”
La cena si protrasse un altro po' e gli invitati, insieme al padrone di casa, ebbero il tempo di ubriacarsi quel tanto che bastava a sciogliere il ghiaccio e a tirare fuori le questioni importanti che li avevano tutti riuniti in quella stanza. Bushido si sporse sul tavolo, allungandosi verso il sovrano in un gesto intimo e confidenziale. “Posso parlare francamente con lei, Altezza?” Chiese, dedicando a Gordon solo l'occhiata che gli serviva per intimargli di tradurre.
Re Jorg gli fece cenno di proseguire.
“Al momento dubito che se ci mettessimo in marcia riusciremmo ad arrivare a Bizerte con più di metà dei battaglioni,” annunciò con fare greve, e la pesantezza delle palpebre generata dall'eccesso di vino lo aiutò ad avere un'espressione molto solenne. “Avrei bisogno di riorganizzare l'esercito e di un posto per farlo.”
Gordon sembrò metterci un po' a districare le sue parole e a ripeterle al re in maniera comprensibile, e l'uomo rimase perplesso a lungo – tanto che quasi Bushido tornò lucido e si preoccupò – prima di scoppiare in una grassa risata, prevalentemente ubriaca. “Mi state chiedendo ospitalità, generale?”
“Una settimana, al massimo due,” confermò Bushido. “Il tempo necessario a rimettere insieme i miei uomini e ripartire alla volta di Bizerte. Non le daremo alcun fastidio.”
“Io ho un'idea migliore,” propose Jorg, raddrizzandosi sulla sedia e sbattendo sul tavolo il boccale di birra appena vuotato. Quando Bushido si rivolse a Gordon, non comprendendo, quello spiegò: “Sua Altezza vuole proporle un accordo.”
Bushido non amava gli accordi, soprattutto quelli presi con un uomo che non parlava la propria lingua e che dipendeva da un altro uomo che poteva benissimo riferirgli cose diverse ma, data la situazione, non aveva molta scelta. L'esercito era davvero provato, un castello e l'assistenza di una cittadina, seppur piccola e scalcagnata come quella, potevano fargli comodo. Se non ricordava male, l'ultimo rapporto sulle razioni di cibo era stato sconfortante, e Fler gli aveva chiaramente suggerito che gli uomini ne avevano abbastanza di marciare per miglia e miglia e farsi ammazzare dalla febbre. “Sentiamo,” lo invitò.
“Come lei sa, abbiamo non pochi problemi interni con le tribù,” spiegò Jorg, riuscendo ad essere incredibilmente fermo nonostante tutto quello che aveva bevuto. “Lei però ha un esercito ben addestrato e ha già sconfitto gli El-Fahs con grande facilità. Potremmo unire le due cose. Io ospiterò il suo esercito per tutto il tempo che sarà necessario, e lei farà in modo che io possa, diciamo, occuparmi di altre questioni senza più preoccuparmi dei miei confini. Che ne dice?”
Bushido capì prima ancora che Gordon finisse di tradurre, perché era piuttosto chiaro dove il re stesse andando a parare, ed era esattamente quello che aveva sperato di ottenere: ospitalità potenzialmente illimitata per poter fare le cose con calma. “Non sarà un problema,” rispose tendendo la mano al re. “Affare fatto.”
Il re gli strinse la mano solennemente e poi rimase a fissarlo a lungo senza dire assolutamente niente. Bushido sostenne il suo sguardo senza battere ciglio finché le labbra dell'uomo non si piegarono in un breve sorriso soddisfatto. Abbaiò un ordine e subito le schiave corsero a riempire loro i bicchieri.
“Ci vuole un brindisi per festeggiare quest'alleanza,” spiegò subito Gordon, sollevando il boccale. “E visto che siete suoi ospiti, re Jorg vuole che lei e i suoi tenenti rimaniate qui al castello. Ci sono abbastanza stanze per tutti.”
“Sarà un piacere.” Bushido bevve e il bicchiere gli fu riempito nuovamente. Mentre sorrideva e lasciava vagare lo sguardo lungo la sala che ora si era fatta più animata e, con l'aiuto del vino, sembrava meno spoglia e più accogliente di quanto non gli fosse sembrata all'inizio, notò qualcosa che prima gli era sfuggito. Dall'altra parte della sala, in un angolo, seduto su una pila di cuscini, c'era un gruppo di ragazze e ragazzi, vestiti di mezze tuniche rosse. Per quanto li fissasse, il loro sguardo non si dirigeva mai verso la tavolata, e se non erano impegnati ad occuparsi l'uno dell'altro, abbandonandosi a lunghi baci languidi, i loro occhi erano posati a terra, compostamente.
Bushido rimase quasi incantato dal modo in cui si comportavano, come se non si trovassero in quella stessa stanza, ma fossero altrove, soli, e lui li stesse guardando attraverso l'incantesimo di una sfera di cristallo.
Re Jorg dovette notare dove si posava il suo sguardo e batté le mani due volte. Sulla sala del trono calò all'improvviso un silenzio quasi innaturale e la più totale immobilità. I tre tenenti cercarono Bushido e lui si strinse nelle spalle, guardandosi intorno e chiedendosi perché mai ogni schiavo si fosse fermato, qualunque cosa stesse facendo, e avesse chinato il capo.
Dal loro nido di cuscini, i ragazzi e le ragazze si alzarono senza fare un rumore e vennero verso di loro in una fila ordinata, per poi disporsi a ventaglio alle spalle del sovrano. Il rosso delle tuniche era corposo e forte, un contrasto fortissimo con il grigiore della stanza. Le ragazze indossavano tiare fra i capelli e anelli alla mano sinistra, i ragazzi centinaia di bracciali e collane a più file, che scendevano in certi casi fino all'ombelico scoperto.
“Ecco dov'erano i gioielli”, commentò Fler, inclinandosi appena verso di lui e nascondendo le labbra dietro il boccale di birra. I suoi occhi erano incollati al corpo morbido della ragazza che aveva davanti. “A quanto pare il nostro sovrano ha tirato fuori l'artiglieria pesante.”
“Questi sono alcuni dei figli e delle figlie di re Jorg II,” si apprestò a spiegare Gordon. “Il sovrano ha visto che li guardavate, generale.”
Bushido si schiarì la gola. “Sono una splendida visione, senza dubbio.”
Jorg sorrise e fece cenno al suo interprete. “Il sovrano vuole ringraziarvi per i servigi resi al regno quest'oggi, e vuole fare a voi e ai vostri uomini un dono prezioso. Vi invita a scegliere la compagnia che più vi aggrada per la notte.”
Stavolta il generale fu colto così di sorpresa che non poté fare a meno di sgranare gli occhi, ma fu ben felice di scoprire che anche Fler e Chakuza al suo fianco avevano avuto più o meno la stessa reazione.
“Altezza?” Chiese incerto.
“Sono qui per voi,” confermò l'interprete. “Scelga pure la donna che preferisce. O l'uomo, qualunque siano le vostre preferenze. Siete ospiti di sua maestà, qualunque vostro desiderio è un ordine.”
“Coraggio generale,” lo chiamò Sido. “Non vorrai rifiutare un regalo.”
Il tenente non stava facendo assolutamente niente per nascondere la propria scelta, e se non si era ancora alzato per trascinare la biondina con i capelli lunghissimi che aveva già adocchiato, era solo perché spettava a Bushido rispondere per primo a quell'invito, e il generale era ancora piuttosto confuso al momento.
“Io...” balbettò, prima di schiarirsi la gola per tentare di ritrovare un po' di contegno. “Sono lusingato dal regalo di sua maestà, ma sono tutti così affascinanti che davvero non saprei quale scegliere.”
“Ne scelga due, oppure tre. Anche di più, se le aggrada,” disse Gordon. “Siete ospiti, non faccia complimenti.”
Non era la prima volta che Bushido si trovava nella condizione di ricevere dei doni da parte di altri capi di stato, anche della stessa natura, ma generalmente si trattava di inviti più o meno velati a guardarsi intorno e a prendere la prima schiava che avesse trovato di suo gradimento. Questa era la prima volta che il sovrano di un regno gli offriva i propri figli e le proprie figlie senza battere ciglio.
“Generale?” Lo richiamò Gordon.
Bushido si riscosse e aprì bocca per tirare fuori un'altra scusa che suonasse abbastanza gentile da far passare in secondo piano la scortesia del proprio rifiuto, ma re Jorg sollevò una mano per dirgli di aspettare e quindi chiamò a sé due dei suoi figli, una ragazza e un ragazzo, che fecero un solo passo avanti.
Disse qualcosa a Gordon ed egli annuì. “Il re vuole suggerirle questi due, generale,” spiegò l'interprete tornando a rivolgersi a lui.
Bushido osservò ciò che gli veniva presentato in dono. La ragazza era giovane, la pelle scura come la sua e un viso ovale, piccolo e grazioso. La sua espressione era illeggibile, Bushido non riusciva a decifrare niente del suo carattere dalla linea netta delle labbra o dagli occhi scuri che fissavano un punto oltre a lui. Era senza dubbio bella, ma niente che non avesse già visto altrove. Per questo il suo sguardo non si soffermò che qualche istante su di lei, prima di venir catturato dalla forma esile al suo fianco.
Il ragazzo aveva lineamenti molto delicati, tanto che Bushido non ne avrebbe probabilmente distinto il sesso se la tunica non fosse stata aperta sul petto e se non avesse indossato gli stessi gioielli che anche tutti gli altri ragazzi portavano. I capelli neri gli scendevano lisci fino alle spalle, e a differenza di lei che era bella ma non particolarmente attraente, c'era qualcosa nella figura del ragazzo che impediva a Bushido di allontanare lo sguardo prima di aver capito di che si trattasse. La sua espressione era neutra, ma non vuota. Gli occhi castani erano intensi e molto dolci, ben lontani da quelli severi di suo padre, e anche la forma del viso, la pienezza delle labbra e la linea decisa della mascella dovevano essere tutte caratteristiche che il ragazzo aveva ereditato dalla madre. Non lo guardava, naturalmente, ma non sembrava nemmeno aspettare la sua scelta, e il modo in cui posava, fermo ed elegante, dava l'idea che fosse estremamente sicuro del proprio valore. Una cosa che Bushido trovava molto interessante.
“A quanto pare ha già scelto, generale,” sorrise Gordon, con l'aria di uno che sembrava aspettarselo.
Ad un ordine del sovrano, la ragazza rientrò nei ranghi con un tintinnio dei braccialetti e il ragazzo si accostò alla sua sedia, in attesa.
“Se volete seguirlo, generale,” disse Gordon con un cenno del capo. “Bill vi mostrerà le vostre stanze.”

*


Bushido sedeva a gambe incrociate al centro dell’ampio letto nella camera allestita per lui.
L’armatura giaceva a terra accanto all’ingresso, sporca e ammaccata per via della battaglia di quella mattina. Il ragazzo l’aveva aiutato a spogliarsene, slacciandone ogni gancio con dita esperte, come se fosse stato addestrato apposta - probabilmente era vero, - e l’aveva lasciata dove un servo avrebbe potuto occuparsene in seguito prima di indicare al generale il materasso rialzato e invitarlo a prendervi posto. Si era poi inginocchiato alle sue spalle, sistemandosi anche lui sul letto dopo aver recuperato una fiala dal tavolino, messa lì apposta perché ne usufruisse lui, forse. Quando l’aveva stappata, l’aria si era riempita di un profumo dolciastro, un po’ pungente all’inizio, ma piacevole. Tra quello e le candele accese in ogni angolo della stanza, l’atmosfera si era fatta subito rilassante e Bushido aveva chiuso gli occhi appena aveva sentito le mani del ragazzino posarsi morbide sulle sue spalle.
Come indicato dal re qualche ora prima, Bill lo aveva guidato lungo i corridoi del castello fino all’ala adibita alla permanenza degli ospiti, ed era entrato con lui nella stanza, pronto a mettersi al suo servizio per rendergli più piacevole il ricovero dalle fatiche della guerra. Un massaggio con oli profumati era solo il primo passo del rituale che gli era stato insegnato per soddisfare gli ospiti del regno, ma ne aveva imparato la tecnica con abilità, la stessa che Bushido stava riconoscendo nelle le sue dita calde. Si era unto le mani, sfregandole per portare l’olio alla temperatura giusta, e ora le stava facendo scorrere contro la pelle scura dell’uomo, sfiorando le cicatrici che segnavano la schiena e le spalle ed evitando con grazia i tagli più freschi, quelli che ancora faticavano a rimarginarsi. Li accarezzò con lo sguardo, affascinato, riconoscente, perché quelle ferite avevano salvato il regno di suo padre. Sentiva l’impulso di toccarle anche con le labbra, baciarle in segno di rispetto, ma si limitò a passarci sopra le dita senza davvero fare contatto.
Scese a spalmare l’olio lungo tutta la schiena dell’uomo, raggiungendo l’orlo della stoffa che gli avvolgeva i fianchi, poi risalì verso l’alto mentre i bracciali dorati che gli adornavano i polsi tintinnavano nel silenzio, scandendo il ritmo dei suoi movimenti. Quando tutti i muscoli presero a luccicare alla luce delle candele, lasciò scivolare le mani in avanti, superando le spalle e scendendo a massaggiare anche il petto del generale.
Bushido continuava a tenere gli occhi chiusi, stanco per le fatiche dei giorni precedenti e perso nel movimento lento e rilassante delle mani di Bill. Sentiva l’olio ungergli la pelle e scaldarla, ammorbidirla, lenirgli anche i sensi mentre la tensione che gli contraeva i muscoli da giorni si scioglieva. Era affaticato, un po’ appesantito dal vino che avevano bevuto a cena, e il profumo che ormai riempiva la tenda lo stordiva piacevolmente, ma le mani esili e leggere che gli scorrevano addosso avevano tutta la sua attenzione. Si concentrò sulle carezze che gli massaggiavano le spalle e scendevano tra le scapole, spostandosi sempre più in basso. Sembravano seguire un percorso preciso nella mente del ragazzo, non esitavano mai e indugiavano su ogni muscolo solo il tempo necessario a rilassarlo. Ascoltò il suono dei bracciali di Bill echeggiare leggero nell’aria e, per un attimo, si chiese come sarebbe stato sentire il metallo fresco contro la pelle, ma lui non lasciava mai che lo sfiorassero, probabilmente per non contrastare bruscamente col calore che si era creato.
Quando sentì il tintinnio risuonargli più forte nelle orecchie e le braccia di Bill passargli attorno al collo, raddrizzò la schiena e gli permise di scendere a toccargli anche il petto, percependo le sue dita aprirsi sulla pelle e i suoi massaggi trasformarsi sempre più in semplici carezze. I movimenti si mantennero lenti, ma le mani di Bill pressarono di più contro il suo corpo, facendosi sentire mentre vi scorrevano sopra in circolo. Alla fine Bushido aprì gli occhi e sollevò un braccio, stringendo le dita attorno ad uno dei polsi del ragazzo. Lui si era già fatto più vicino, scivolando più avanti con le ginocchia sulle lenzuola, allargando maggiormente le gambe per fare posto al generale tra di esse, e aveva lentamente aderito alla sua schiena per avere più facile accesso ai pettorali e all’addome dell’uomo. Bushido interruppe il massaggio, gustando per un attimo la sensazione della mano morbida di Bill nella propria prima di tirarlo leggermente, scostandosi per lasciargli spazio in cui muoversi. Il ragazzino seguì docile i movimenti del suo corpo e obbedì alla sua richiesta implicita, sollevandosi e spostandosi da dietro di lui per aggirarlo. Lo scavalcò con una gamba anche quando si trovò di fronte a lui e gli si sistemò in grembo, dove Bushido l’aveva indirizzato. Lasciò che l’uomo gli facesse scorrere le dita dal polso lungo l’avambraccio, scuotendo i bracciali che tornarono a tintinnare e scivolando poi fino alla spalla. Bushido gli affondò la mano tra i capelli, modellando il palmo attorno alla nuca mentre fissava Bill negli occhi. Era rapito da quello sguardo, lo era da quando lo aveva notato nella sala del re, ammirando il modo in cui il nero con cui li aveva dipinti ne risaltava l’intensità. Non aveva mai visto un trucco fatto in quel modo; nel suo regno ne aveva visto poco in generale, a dire il vero, perché truccarsi non era una pratica molto usata.
Interruppe il contatto visivo solo per piegare la testa e abbassarsi a sfiorare la pelle candida del collo del ragazzo con la punta del naso, inspirandone l’odore. Intuì che anche lui doveva essersi spalmato un olio simile a quello che avevano appena usato, perché ne sentiva il profumo permeare a fondo la sua pelle. Era vagamente più muschiato di quello che era rimasto sul tavolino accanto al letto, più fresco, ma ugualmente piacevole, e trovava si accostasse alla perfezione all’odore che aveva adesso il proprio corpo.
Decise di assaggiarlo, posando brevemente le labbra sulla pelle morbida, e subito il ragazzino piegò la testa di lato e leggermente all’indietro, agevolandogli qualunque movimento avrebbe voluto eseguire su di lui. Bushido ne approfittò per muovere la bocca fino alla sua mandibola e poi tornare in basso, raggiungendo la spalla, ma senza mai baciarlo davvero. Lo sfiorò solamente con le labbra e avrebbe giurato di averlo sentito tremare e sospirare, ma quando si scostò per sollevare lo sguardo sul suo volto non notò alcuna differenza rispetto a prima. Gli fece scorrere le mani lungo il corpo sinuoso, seguendo la linea della schiena con un palmo mentre lasciava scivolare l'altro lungo un fianco. Poi raggiunse la fibbia che teneva chiusa la sua veste su un lato e la slacciò, scostandone i lembi per lasciarli ricadere oltre le spalle. Bill si inarcò contro di lui per sfilarsela dalle braccia e permettere che si ammucchiasse sul materasso dietro di sé, poi si scostò di nuovo per dare modo a Bushido di osservarlo, se era questo che avesse voluto fare.
Lui lo guardò, facendo correre gli occhi e poi una mano lungo il suo petto esile. Era piccolo, morbido e pallido, l’opposto del suo corpo in un modo che creava un contrasto meraviglioso. Per tutto il tempo non fece altro che sfiorarlo, accarezzandolo più con lo sguardo che con le dita, scendendo a scoprire che con la veste lo aveva spogliato di tutto, e allora la voglia di essere nudo a propria volta crebbe. Bill parve coglierlo nei suoi occhi scuri, o forse nel modo in cui le sue mani gli si posarono sulle cosce, calde e colte da un lieve tremito d’impazienza. Mantenne lo sguardo nel suo mentre allungava le braccia e andava a cercare il nodo che chiudeva la stoffa attorno ai fianchi del generale. Era pronto a fermarsi se avesse ricevuto un ordine diverso, ma Bushido gli permise di scostare il tessuto e lui lo fece cadere sul materasso come la propria veste, scoprendo del tutto il suo corpo. Si avvicinò a lui quando l’uomo gli accarezzò con decisione la schiena, facendo scorrere il palmo lungo la sua spina dorsale così che lui si inarcò e si mosse addosso al comandante, sfiorando il suo petto col proprio e soprattutto sfregando il bacino contro il suo. Si strusciò su di lui e Bushido strinse le dita attorno ai suoi fianchi, seguendo i suoi movimenti e trovandosi presto a guidarli, perché Bill si mise del tutto al servizio delle sue mani. Trovarono il ritmo giusto e il ragazzino continuò a seguirlo quando l’uomo ne staccò una dalla sua anca per fargliela scorrere sulla pelle morbida di una natica. La massaggiò, affondandovi le dita e spostandosi poi a cercare la fessura e l’apertura che nascondeva. La sfiorò con la punta di un dito e gli sembrò di trovarla leggermente umida, ma a quel punto Bill gli fermò con dolcezza il braccio riportandoselo in vita, e lui sollevò lo sguardo interrogativo. Il ragazzo gli sorrise morbidamente e scosse piano la testa, poi si sollevò sulle ginocchia, allargò un po’ di più le cosce e si sistemò in modo che la punta dell’erezione di Bushido, già pronta a prenderlo, lo sfiorasse dove era andato a toccarlo un attimo prima.
L’uomo emise un verso dal basso della gola come se stesse ringhiando. Lo strinse a sé con il braccio che già lo avvolgeva e gli posò la mano libera sul retro di una coscia, in modo da premere i loro bacini insieme e incastrarli nel modo migliore, creando il contatto perfetto. Si sentì scivolare contro l’apertura del ragazzino e premette, affondando tra i muscoli che cedettero all’istante per fargli spazio. Bill sospirò, un suono un po’ spezzato che gli si incastrò in gola in modo delizioso, e si lasciò andare in grembo all’uomo, aprendo gradualmente le cosce e scendendo fino ad aderire alle sue, così che il generale poté scivolare fino in fondo dentro di lui.
Da lì iniziò il rituale con cui più aveva famigliarità, il vero motivo per cui aveva accompagnato Bushido nelle sue stanze. Prese a muovere i fianchi con precisione ed esperienza, sollevandosi sul bacino dell’uomo per permettergli di muoversi dentro di lui, di scivolare quasi fuori mentre si stringeva in modo da non negargli alcuna sensazione. Ogni volta che tornava ad abbassarsi, il comandante gli stringeva i fianchi tra le dita, trattenendolo per il tempo necessario a spingersi ancora dentro di lui e permettendogli poi di muoversi piano su di sé.
Fu una cosa lenta, profumata d’oli e scivolosa. Le mani di Bushido scorrevano sulla pelle di Bill e si perdevano nella morbidezza, nel contrasto che si creava tra il suo colore più scuro e quello tanto pallido del ragazzino. L’altro sembrava essere tornato a massaggiarlo, con le dita che si posavano sulle sue spalle e poi si muovevano in basso lungo le braccia o il petto, perché la pelle era ancora unta e trovare un appiglio era impossibile. Gettò indietro la testa quando l’uomo fece scattare il bacino verso l’alto con forza, e gemette piano. Era diverso dalle schiave che Bushido era abituato a possedere nel palazzo di suo padre. Bill sapeva muoversi, stava conducendo il sesso tanto quanto lui, e sospirava e gemeva solo quando Bushido lo prendeva nel modo giusto, o lui stesso si calava sulla sua erezione in un modo che fosse in grado di soddisfare entrambi. Non sbagliava un movimento, e continuò a muovere i fianchi in circolo e ad alzarsi e abbassarsi al ritmo giusto finché Bushido non venne; lasciò che l’uomo stringesse la presa su di lui mentre lui la stringeva attorno al suo membro, seguendo il suo orgasmo fino alla fine. Si sollevò lentamente quando il comandante rilassò i muscoli, e lo lasciò libero di scivolare fuori dalla sua presa mentre gli premeva dolcemente le mani sul petto e lo invitava a sdraiarsi.
Bushido seguì il consiglio senza opporre resistenza, lasciandosi andare sul materasso morbido e distendendosi in modo da sciogliere i muscoli. Chiuse gli occhi, trasse un respiro e inalò il profumo d’olio che ormai si era affievolito e si era mischiato all’odore di sesso. L’aria era ancora dolciastra, un po’ pesante, ma non troppo spiacevole. Lui si sentiva intorpidito e si rilassò per recuperare le energie, senza preoccuparsi di ciò che il ragazzino stava facendo.
Quando tornò ad aprire gli occhi, lo vide in piedi accanto al tavolino che richiudeva la fiala dell’olio e la riponeva nel suo supporto, mettendo in ordine e compiendo ogni gesto con cautela per non disturbare il generale. Non si era ancora rivestito, né aveva accennato a lasciare la stanza, perché sapeva che non era suo compito farlo finché non ne avesse ricevuto ordine, ma era bravo a non imporre la propria presenza.
Bushido lo osservò per qualche istante, apprezzando il modo in cui era stato addestrato e pensando che avrebbe dovuto complimentarsene con il re; il dono che gli era stato fatto quella notte era stato di certo gradito. Lasciò correre lo sguardo lungo la schiena del ragazzino, partendo dalle scapole dove i capelli scuri erano leggermente attaccati alla pelle per scendere fino alla linea che separava le natiche, sentendo risvegliarsi il desiderio di affondare di nuovo lì dentro. Si schiarì la gola, e subito Bill alzò la testa e si voltò per tornare al suo servizio. Chinò leggermente il capo per non fissarlo negli occhi, ma mantenne lo sguardo su di lui, pronto ad obbedire ai suoi gesti dal momento che un ordine verbale non sarebbe probabilmente stato compreso, vista la differenza linguistica tra i loro popoli.
Bushido allungò un braccio, facendogli cenno di tornare verso il letto. Bill si mosse rapidamente ma con grazia, raggiungendolo all’istante e rimanendo in attesa della richiesta successiva. L’altro si era seduto sul bordo del materasso e lo stava osservando. Prese tra le dita una delle catene dorate che il ragazzo aveva al collo e la sfruttò per attirarlo ancora più vicino, mentre osservava quanto gli donassero quegli ornamenti quando non aveva altro addosso. Sembravano essere stati scelti apposta per far risaltare la bellezza del suo corpo nudo, per renderlo più desiderabile anche senza la sua veste. Il membro di Bushido si indurì del tutto quando Bill arrivò a toccare il bordo del materasso con le gambe, insinuandosi tra le sue. L’uomo lasciò andare la sua collana per fargli scorrere la mano sul petto e posarla poi sulla pancia, accarezzando il ventre piatto e giocando con l’ombelico con il pollice. Quando ebbe finito di esplorare quel corpo minuto con le dita, si alzò dal letto. Prese il ragazzo per mano e lo fece salire sul materasso. Bill parve intuire subito le sue intenzioni e obbedì all’ordine non ancora espresso di Bushido, inginocchiandosi sulle lenzuola prima di lasciare andare la mano dell’uomo e appoggiarsi con le braccia sul letto, a quattro zampe.
Il generale emise un verso di apprezzamento e prese posto dietro di lui. Ci volle poco perché entrasse di nuovo nel corpo del ragazzo, pronto ad accoglierlo come lo era stato già prima, abile nel riceverlo senza cadere in avanti e inarcandosi nel modo giusto per fargli più spazio. Bushido lo prese con forza, questa volta, e Bill capì che aveva lui il controllo dei loro movimenti. Lasciò che il generale gli tenesse fermi i fianchi e si spingesse dentro di lui al ritmo che preferiva, concentrandosi solo sul contrarre i muscoli attorno all’erezione che lo stava possedendo nel modo che riteneva migliore.
Andarono avanti a lungo, accelerando e rallentando più volte, cambiando angolazione e riempiendo ancora una volta la stanza di sospiri, ansiti e gemiti. Bushido spostò una mano dall’anca del ragazzino al fondo della sua schiena, premendo il palmo contro la pelle e muovendosi lungo la sua spina dorsale continuando ad applicare pressione, in una carezza forte che raggiunse la sua nuca e lo fece abbassare. Bill piegò le braccia e si appoggiò docilmente sui gomiti, aprendosi ulteriormente ad accogliere l’uomo sempre più a fondo. Portò una mano a toccarsi solo quando intuì che il comandante era prossimo al secondo orgasmo di quella notte, e prese ad accarezzarsi, ma non deviò mai la propria attenzione dalle necessità dell’uomo. Quando infine Bushido si riversò di nuovo dentro di lui, Bill si assicurò di accompagnarlo fino alla fine e solo allora si concesse di venire a propria volta, tra le dita, in modo da non sporcare il letto.
Bushido uscì da lui dopo un breve momento, accarezzandogli leggermente un fianco e lasciando poi il ragazzino libero di alzarsi. Recuperò la sua veste rossa e gliela porse, e Bill la indossò obbediente. Il suo compito era finito. Si inchinò di fronte al comandante e piegò la testa al suo cenno di ringraziamento. Non rimase a guardare l’uomo che si metteva a letto prima di avviarsi fuori dalla stanza, conscio che il desiderio dell‘uomo, adesso, era di riposare e non essere disturbato.
Bushido invece lo osservò mentre se ne andava, domandandosi se avrebbe potuto richiedere i suoi servizi almeno un’altra volta nella settimana seguente, prima di rimettere insieme l‘esercito. O magari anche dopo…
Si mise sotto le lenzuola e si sentì pronto a chiudere finalmente gli occhi e lasciarsi alle spalle tutta la fatica delle settimane precedenti. La prima notte di pace era sempre un momento che assaporava con piacere, e il risveglio sarebbe stato molto più appagante di quelli passati. Stava per sdraiarsi quando notò che il ragazzino si era fermato sulla porta, con una mano sulla maniglia e il pesante battente già aperto quel tanto che bastava per farlo uscire. Lo guardò, e si stupì quando lo vide aprire bocca.
"Grazie," lo sentì dire, e lo fissò esterrefatto. Non immaginava che avrebbe sentito la sua voce, quella notte. Non per rivolgersi a lui nella sua lingua, perlomeno. "Per il mio popolo." Era una frase un po’ stentata, ma Bushido la capì perfettamente, stupendosi della sua conoscenza.
Poi la porta si richiuse e Bill era scomparso, lasciandolo da solo perché potesse godersi il riposo che si era meritato.

*


Per organizzarsi davvero, in realtà, c'era voluta quasi una settimana perché Gordon faticava a capire le richieste di Bushido e, anche quando le capiva, queste non venivano poi eseguite nella maniera corretta.
Dopo una serie più o meno grave di equivoci, Bushido aveva fatto sapere al re che sarebbe stata sua premura non solo combattere le tribù ribelli, ma anche insegnare al suo esercito a farlo, cosa che peraltro si rivelò più facile a dirsi che a farsi.
Re Jorg disponeva di un esercito irrisorio in confronto alla grandezza del regno, e considerato che quest'ultimo non era grande, era ragionevole dire che il sovrano non possedesse uomini sufficienti ad assaltare una fattoria.
Quando Gordon gli aveva messo davanti una quarantina di uomini mal assortiti, mal vestiti, la metà dei quali senza armi adeguate, presentandoli orgogliosamente come “il grande esercito di re Jorg II”, Bushido aveva letteralmente girato sui tacchi ed erano tornato nella sua stanza, lasciando Gordon a sorridere come un deficente. Era stato Fler, con un discorso di quasi due ore, inframezzato dalle imprecazioni sempre più colorite di Bushido, a far notare al generale che se re Jorg avesse davvero avuto un esercito degno di questo nome, non sarebbe stato necessario che loro lo addestrassero. Bushido aveva dovuto ammettere che il tenente non aveva tutti i torti e che comunque, quaranta uomini in più o in meno non avrebbero fatto una grande differenza al momento di attaccare, quindi in realtà dare a quel gruppo di contadini rivestiti un addestramento militare serviva più a guadagnarsi la fiducia del sovrano che non a vincere le scaramucce con le altre tribù di contadini rivestiti. E lui aveva bisogno della fiducia di Jorg se voleva utilizzare le sue risorse per rimettere in piedi i suoi uomini.
Il giorno dopo, i quaranta uomini si presentarono ancora una volta nella piazza centrale e Bushido, guardandoli mentre, seduti, si pulivano le unghie dei piedi con dei legnetti, cercò di convincersi di poterne fare qualcosa.
“Non fare quella faccia, alcuni dei nostri non erano poi tanto meglio,” commentò Fler con un mezzo sorriso, guardando nella sua stessa direzione. Bushido si voltò verso di lui con un'occhiata talmente rassegnata che il tenente fece una risatina. “D'accordo, forse erano un pochino meglio, ma potresti prenderla come una sfida, no?”
Bushido sospirò. “Hai già fatto il censimento delle armi?”
“Lo stava facendo Chakuza,” rispose l'uomo, e indicò con un cenno del capo l'altro tenente che veniva verso di loro.
“Dammi delle buone notizie,” lo accolse Bushido, con la faccia di uno che non se le aspettava proprio per niente.
Chakuza ci pensò su un momento. “Dipende. Le fionde sono buone notizie?”
Fler scoppio a ridere, battendosi una mano sulla coscia.
Il Generale si passò una mano sugli occhi. “Sono armati di... fionde?”
“Non tutti,” rispose il tenente. “Alcuni hanno dei bastoni, uno ha una balestra semi-funzionante e due di loro hanno una zappa.”
Fler si mise a ridere ancora più forte.
“Una zappa,” ripeté Bushido. “Nessuna spada?”
“Tre,” annuì Chakuza. “Ma sono spadoni a due mani e nessuno di loro è davvero in grado di sollevarli. E in ogni caso credo che finirebbero per ammazzarsi tra di loro nel farlo. Dobbiamo partire da zero.”
“E dovremo equipaggiarli,” aggiunse il generale. “Abbiamo modo di farlo?”
“Metà del nostro equipaggiamento è andato perso durante la piena di quel fiume poco prima del deserto,” rispose Fler, quando finalmente riuscì a smettere di ridere. “Ma quello che possiamo racimolare sarà sempre meglio di quello che hanno.”
“E c'è un fabbro in città,” suggerì Chakuza. “Potremmo fargli costruire quello che manca. A spese del sovrano, naturalmente.”
Bushido annuì. “Sì, certo, mi sembra una soluzione. Fler, occupatene tu,” ordinò. “Chakuza, tu resta con me. Divideremo il gruppo in due e partiremo con le armi di legno. Se non imparano a gestire quelle, si decimeranno da soli nel giro di due giorni.”
Fler annuì e si allontanò per eseguire l'ordine mentre Chakuza abbaiava agli uomini del re di dividersi in due gruppi. Quelli sussultarono al suono improvviso della sua voce e si raddrizzarono di scatto, guardandosi intorno spaesati finché Gordon non tradusse per loro.
I primi giorni furono sfiancanti per tutti, non solo per gli uomini che si stavano addestrando, ma anche per Bushido e i suoi che sembravano avere a che fare con un branco di scimmie idiote. Qualunque cosa gli venisse chiesto di fare, quelli non sapevano farla. Dopo il terzo giorno consecutivo in cui uomini adulti gli dimostravano di non essere in grado di stare in piedi dritti per più di cinque minuti senza desiderare di accasciarsi sulla prima roccia disponibile, Bushido iniziò a pensare che la natura dovesse fare il suo corso ed estinguerli, in favore di creature più valide e utili.
Dopo una settimana, però, le cose iniziarono visibilmente a migliorare, come se qualcuno dall'alto dei cieli avesse deciso che avevano sofferto tutti quanti abbastanza. Da un giorno all'altro, o quasi, i nuovi soldati rispondevano agli ordini in modo preciso e, sebbene rischiassero ancora di inciampare e trafiggere loro stessi o qualcuno dei compagni, riuscivano almeno a marciare, fermarsi e capire in quale direzione si voleva che andassero.
“Per gli Dei, ce l'hanno fatta,” mormorò Bushido, meravigliato quando il piccolo esercito in miniatura eseguì una manovra accettabile proprio di fronte ai suoi occhi.
“Non credo si tratti degli Dei, quanto di Chakuza,” commentò Fler, addentando una mela. “Il piccoletto fa paura. E poi ne ha picchiati tre qualche giorno fa perché non eseguivano gli ordini.”
“Prego?”
Fler tirò un altro morso alla mela con noncuranza. “Ma sì, due bastonate sulle ginocchia. Sai com'è fatto, che si altera se le cose non vanno come dice lui. Quelli non collaboravano e lui non ha aspettato che Gordon traducesse. Adesso scattano tutti appena apre bocca. Penso abbiano iniziato a capire cosa dice per disperazione.”
Bushido sorrise e poi guardò con soddisfazione i quaranta uomini disporsi in formazione quasi perfetta. L'idea era quella di tenere un bel discorso di incoraggiamento come si conveniva in questi casi, rassicurare le truppe, logiarne i meriti e spronarli a migliorare ancora, ma l'occhio gli cadde sul porticato che circondava la piazza e sulla figurina esile che vi sostava, ben coperta dal sole di mezzogiorno.
“Qui pensaci tu,” disse a Fler senza guardarlo, mentre gli passava le redini del proprio cavallo e si avviava in quella direzione.
“Agli ordini...” borbottò l'altro, con mezza mela in bocca.
Nel vederlo arrivare, Bill chinò il capo in segno di rispetto e si passò da un fianco all'altro il bimbo di tre o quattro anni che teneva in braccio. “Generale,” mormorò con la sua pronuncia stentata. Bushido trovava straordinario che un semplice schiavo e non il re conoscesse la sua lingua.
Certo, conoscere qualche parola doveva tornargli utile nelle camere da letto, dove Gordon di certo non poteva entrare a dargli una mano, ma Bill era molto più avanti di così.
Bushido aveva richiesto la sua presenza altre due volte nel corso delle ultime settimane, e aveva avuto modo di notare che il suo vocabolario era piuttosto ampio e la sua capacità di usarlo abbastanza sviluppata da permettergli di conversare, seppur limitatamente.
“Che cosa ci fai qui?” Chiese. La domanda era stupida e lo sembrò ancora di più nel suonare sinceramente interessata. Quale che fosse il motivo che aveva portato Bill in quella parte della città, non erano di certo affari suoi. Per quanto ne sapeva, non c'erano luoghi vietati agli schiavi, anche se non ne aveva visti molti al campo di addestramento, se non quelli che il re aveva messo al loro servizio, i quali lavavano i loro vestiti, preparavano il bagno e si occupavano di servire i pasti alle sue truppe. Di quelli come Bill, comunque, non ce n'erano mai in giro. Da quanto aveva capito, anche se non li aveva visti, avevano appartamenti a loro dedicati all'interno del castello e da lì non uscivano mai. Ecco perché la presenza di Bill sembrava ancora più strana.
“Facevamo un passeggiata,” si sforzò Bill, indicando il bambino con un cenno della testa.
Il piccolo si girò al suono della sua voce, ma dopo aver dedicato un'occhiata a lui e anche a Bushido, tornò a giocare con i capelli di Bill, come se nessuno dei due uomini lo interessasse minimamente.
Bushido non andava molto d'accordo con i bambini. Non che non gli piacessero o li trovasse fastidiosi, era solo che non sapeva come gestirli o come comportarsi con loro; così si limitò ad accettare con un mezzo sorriso tirato che il bambino se ne fregasse di lui e di chi era girandosi dall'altra parte. “E lui chi è?” Chiese, premendogli una mano sulla schiena per invitarlo a camminare con lui.
Bill obbedì diligentemente. “L'erede al trono,” rispose.
“Figlio del re?”
Bill annuì. Faceva in modo di camminare sempre un passo indietro rispetto al generale, così che la sua ombra magra fosse un po' più in basso rispetto a quella dell'uomo, nonostante fossero alti uguali.
“Anche tu sei figlio del re,” constatò Bushido.
“Lui è un figlio legittimo,” specificò Bill. “La madre è una regina.”
Questo poneva l'intera situazione sotto una luce completamente diversa.
Dunque i figli illegittimi del re erano considerati beni di consumo. Non era strano che un sovrano avesse figli illegittimi, questo no; succedeva anche nel suo regno e Bushido aveva di certo qualche fratellastro o qualche sorellastra in giro per il mondo, che probabilmente aveva anche lo stesso compito di Bill, ma rimaneva comunque insolito che il sovrano ne riconoscesse pubblicamente la partenità, tanto da presentarli come figli propri anche quando li offriva in dono ai suoi ospiti.
“Non ho visto nessuna regina,” constatò ancora il generale, rimuginando su ciò che aveva appena appreso.
“E' morta, signore. Di febbre, due anni fa.”
“Oh, mi dispiace.”
“Grazie, signore.”
Per un po' camminarono in silenzio. Bushido con le mani dietro la schiena e Bill con passo leggero, il bambino sempre ben bilanciato su un fianco. Il generale aveva notato che sulle sue braccia e al collo c'erano ancora i gioielli che aveva indossato la prima volta e anche tutte quelle a seguire. Non ricordava di averlo mai visto senza, se non le volte in cui lui stesso glieli aveva tolti.
“L'esercito fa progressi?” Chiese Bill all'improvviso, e lo fece sussultare.
Una delle cose a cui Bushido non si era ancora abituato era il modo di comportarsi del ragazzo. Aveva l'atteggiamento ossequioso dello schiavo, ma non ne aveva esattamente l'umiltà. Sapeva quando e in che misura doveva aspettare ordini, ma in certi casi – come quel preciso istante e soprattutto molti altri durante le notti passate – era perfettamente a conoscenza di quanto gli fosse concesso prendere l'iniziativa.
Questo, immaginava Bushido, faceva di lui qualcosa di diverso da un normale schiavo, qualcosa che non sapeva nemmeno ben definire.
“Non li definirei progressi,” sbuffò perplesso, “ma è meglio di niente. Alcuni promettono bene, però. Forse riusciremo a passare alle spade vere entro la fine del mese.”
“Questa è una bella notizia,” annuì il moro. “Il regno ha bisogno di difendersi.”
“Non pensavo ti interessasse la politica militare”
“No, m'interessano solo i soldati,” rispose il ragazzo con un mezzo sorriso. “E poi, signore, sta addestrando anche mio fratello, e lui mi racconta cose affascinanti su ciò che succede qui.”
Bushido si fermò lì sul posto, costringendo il ragazzo a fare altrettanto. Per un istante si perse nel rumore vago dell'addestramento che si stava svolgendo qualche decina di metri alle loro spalle, anche se non si stava concentrando abbastanza per distinguere più che le urla di Chakuza e un frastuono insensato quando gli uomini cercavano di eseguire i suoi ordini. “Vuoi dire che uno dei tuoi fratelli e in mezzo a quel gruppo?” Indicò, senza voltarsi.
Bill annuì. “Si chiama Tom.”
Bushido cercò di ricordare se avesse mai sentito quel nome, ma non ricordava niente di simile. Era anche vero che quando Fler aveva cercato di fargli vedere qualcosa che poteva, in effetti, rassomigliare vagamente ad un censimento delle sue nuove truppe, lui era stato molto impegnato ad osservare come quelle si stavano azzoppando a vicenda con i bastoni di legno. Quindi forse qualcosa gli era sfuggito.
“Chiedo scusa, generale,” la voce del ragazzino lo riscosse dai suoi pensieri e dalla pietruzza rossa del mosaico sul lastricato di pietra sul quale aveva fissato gli occhi involontariamente. “Ma devo riportare l'erede nelle sue stanze.”
“Certo, sì,” annuì Bushido, prima ancora di essere tornato completamente al presente. “Va' pure.”
Bill chinò appena il capo e fece in tempo a fare un passo prima che l'uomo lo fermasse di nuovo. Sorrise.
“Ah, Bill?”
“Generale?”
“Potresti...” Ma si fermò, in qualche modo imbarazzato di fronte al bambino che adesso sembrava guardarlo come se capisse.
“Naturalmente, se lo desidera.”
Bushido lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava tra il tintinnare dei suoi braccialetti e pensò che desiderio era una parola fin troppo adatta alla sensazione improvvisa che gli aveva fatto stringere i pugni. L'esercito, doveva pensare all'esercito.

*


Alla fine ci aveva pensato anche troppo a quel gruppo di soldati che ancora faticavano a fare qualunque cosa. Potevano aver imparato a marciare e ad obbedire a Chakuza per puro terrore, ma Bushido iniziava a credere di essersi sbagliato quando aveva pensato che potesse essere giunto il momento buono per mettere loro in mano delle armi serie. Aveva deciso che fosse meglio interrompere l’addestramento quando uno degli uomini di Jorg era stato portato di corsa dal medico con una coscia sanguinante e il colorito cadaverico di chi è sul punto di morire – di paura, però, perché la ferita non era nemmeno lontanamente grave come quelle che si riportavano sul campo di battaglia, ma evidentemente era più di quanto quegli smidollati potessero sopportare.
Così aveva congedato tutti quanti e aveva quasi tirato un sospiro di sollievo nel vedere i soldati che si ritiravano, trascinandosi stanchi per la piazza in direzione dei loro alloggi, o più probabilmente di una locanda dove ubriacarsi. Aveva dato ordine a Chakuza e Fler di rimettere a posto le armi e organizzare gli allenamenti per i giorni seguenti, e poi si era concesso finalmente di rilassarsi. Aveva voglia di togliersi l’armatura e indossare qualcosa di più comodo, ora che non doveva più muoversi su un campo di battaglia, per cui tornò a palazzo pensando che avrebbe potuto farsi portare la cena in camera e farsi preparare un bagno nel frattempo. Sapeva dov’erano le cucine perché Gordon gli aveva fatto fare un giro del castello il primo giorno che aveva trascorso lì. Non era poi tanto grande da perdercisi, e Bushido aveva una buona memoria, per cui trovò immediatamente la stanza giusta e richiese un pasto al primo servo che gli capitò davanti, subito pronto a servirlo. Aveva notato che veniva tenuto in grande considerazione da quando aveva salvato il regno dall’attacco degli El-Fahs, per cui non dovette nemmeno cercare qualcuno che fosse disposto ad andare nelle sue stanze a preparargli il bagno, perché una ragazza si fece timidamente avanti da sola per chiedergli se gli servisse altro.
Quando ebbe dato tutte le disposizioni che riteneva necessarie, tornò nell’ala del palazzo adibita agli ospiti, con l’intento di recarsi nelle proprie stanze per sistemare alcune carte. Non molti giorni prima aveva ricevuto un messaggio nel quale suo padre gli chiedeva come procedessero i piani di conquista, e doveva mandare al più presto una risposta che riportasse la loro situazione perché il re non continuasse ad inviare messi. Era un uomo impaziente, e Bushido detestava sentirsi sotto pressione, specialmente ora che le cose si stavano facendo un po’ più complicate, con l’esercito di Jorg che si rivelava tanto difficile da gestire e lo impegnava più di quanto avrebbe sperato.
Svoltò nel corridoio che portava alla sua stanza e rallentò il passo quando vide una figura minuta uscire da una delle porte. La riconobbe all’istante e si avvicinò con la schiena dritta e un’espressione lievemente meno corrucciata di prima.
“Bill,” lo salutò, fermandosi a pochi passi da lui. Il ragazzo sollevò lo sguardo sorpreso, prima di affrettarsi ad abbassare di nuovo il capo ed inchinarsi profondamente.
“Generale,” mormorò. Quando si alzò di nuovo, si rimise a posto la piccola tunica rossa, sistemandosela addosso con gesti rapidi, come se non fosse certo di essere autorizzato a farlo di fronte all’uomo, ma sapesse comunque di non potersi mostrare impresentabile. Quando ebbe richiuso bene la fibbia che la teneva ferma su un fianco, unì le mani di fronte a sé e attese in silenzio che Bushido dicesse qualcosa o si allontanasse.
“Che cosa ci fai qui?” chiese il generale. Si rese conto che era la seconda volta che gli poneva la stessa domanda, ma era sicuro di non aver richiesto la presenza del ragazzo se non per un paio d’ore più tardi, quando avesse finito di sistemare quelle faccende urgenti e fosse stato pronto a riceverlo e dedicarsi solamente a lui.
Bill continuò a fissare il proprio sguardo a terra e parlò in modo piuttosto chiaro. La sua fluidità nell’usare la lingua di Bushido migliorava considerevolmente quando si trattava di lavoro, segno che il generale ci aveva visto giusto e che il ragazzino l’aveva imparata solo ed esclusivamente per facilitare il proprio compito. “Sono stati richiesti i miei servizi qui, Signore.”
“…Oh.” Bushido si rese conto che il ragazzo era appena uscito da una delle stanze delle sue truppe, davanti alla quale stavano sostando adesso. Per un attimo non seppe bene cosa dire, mentre il ragazzino di fronte a lui sistemava di nuovo qualche piega nella tunica. Raddrizzò un lembo di stoffa che non era al suo posto, scoprendo meglio il petto per mettere in mostra la solita collana di catene, e nel farlo attirò lo sguardo di Bushido sul suo ombelico. L'uomo si permise di far scivolare gli occhi sul ventre piatto e sulla parte dei fianchi che il tessuto rosso non arrivava a coprire, finché non si accigliò e allungò una mano d’istinto. Bill non si ritrasse, come il suo ruolo richiedeva, e lui scostò la tunica per sfiorare la sua pelle con le dita. Sentì i muscoli del ragazzo contrarsi sotto il suo tocco e cercare istintivamente di sfuggirgli quando sfregò piano contro la pelle più arrossata.
“Cosa hai fatto?” domandò Bushido, senza staccare gli occhi dal brutto segno sul fianco di Bill.
“Niente, Signore, devo aver…” Si interruppe, forse perché non trovava la parola adatta, non conoscendola, o per qualche altro motivo. Bushido, intanto, stava scoprendo maggiormente il suo corpo seguendo una scia di segni rossi che gli marchiavano il fianco, l’anca e parte della schiena.
“Con chi sei stato?” chiese all’improvviso, ritirando la mano e guardandolo negli occhi. Bill aveva piegato ulteriormente la testa e adesso stava cercando discretamente di coprirsi di nuovo.
“Signore?” mormorò incerto.
“Chi è che ha richiesto i tuoi servizi questa sera, a parte me?” ripeté il generale. Se era uno dei suoi uomini, voleva sapere quale. Giusto per tenerli d’occhio e non lasciare che si abbandonassero troppo ai piaceri, ecco.
“Il tenente Sido, generale,” rispose Bill, tornando a stringersi le mani in grembo. Bushido sospirò. Avrebbe dovuto parlargli presto; sapeva come tendeva a comportarsi il tenente quando si lasciava andare – cioè sempre, quando gustava la compagnia delle schiave, - e di solito lui lo lasciava fare, non avendo una vera ragione di rimproverarlo. Ma era suo dovere ricordargli che lì erano ospiti del re, e il ragazzo su cui aveva posato le mani era di sangue nobile, per quanto la sua condizione sociale sembrasse poter non richiedere, da sé, particolare rispetto. Sì, la mattina seguente ci avrebbe discusso seriamente.
“Hai altri… impegni, prima di raggiungermi nelle mie stanze?” disse intanto, pensandoci all’improvviso. Bill sollevò la testa con fare sorpreso, come se avesse voluto guardarlo negli occhi, ma ovviamente distolse subito lo sguardo mentre mormorava un “No,” sommesso. Bushido, però, notò che aveva un segno anche sul collo, e prese la sua decisione.
“Vieni con me, allora,” ordinò, e Bill si inchinò in silenzio e si preparò a seguirlo. Il generale si voltò e riprese il proprio cammino verso le sue stanze, senza guardarsi alle spalle perché era sicuro che il ragazzo sarebbe stato un passo dietro di lui ad eseguire il suo comando. Quando raggiunse la porta che dava ai suoi alloggi, la aprì e fece cenno a Bill di entrare per primo. Lui chinò la testa e gli passò accanto, superandolo ed infilandosi nella stanza. Il generale lo seguì e fu accolto da due ragazze che lo attendevano in piedi e composte davanti ad un separé che divideva un angolo della camera dal resto dell’ambiente.
“Il suo bagno è pronto, Signore,” disse una, inchinandosi mentre l’altra la imitava. Lui fece un cenno del capo e loro lasciarono la stanza, chiudendo la porta.
“Vuoi andare a lavarti?” domandò Bushido mentre si avvicinava al supporto per l’armatura che si trovava in un angolo e iniziava a slacciarne i ganci. Bill parve confuso, perché non rispose subito.
“No, Signore,” gli giunse poi la sua voce. “Quello è il suo bagno, io non…”
“Posso farne preparare un altro,” lo rassicurò l’uomo, togliendosi la parte superiore dell’armatura con un sospiro di sollievo, riponendola sul suo supporto e passando poi a slacciarsi i gambali.
“Non si deve preoccupare, generale,” balbettò Bill. L’uomo gli chiese se ne fosse sicuro, per cui proseguì: “A meno che non voglia… che le faccia compagnia.”
Bushido finì di spogliarsi dell’attrezzatura militare e si voltò indossando soltanto un paio di pantaloni di lino. Guardò il ragazzo, che subito abbassò gli occhi a terra e arrossì leggermente, chiedendosi forse se fosse stato troppo diretto o avesse detto qualcosa di sbagliato in qualche modo.
“Non ce n’è bisogno,” lo rassicurò Bushido, poi gli indicò nuovamente il separé dietro al quale lo aspettava il suo bagno caldo. “Vai. Prendi tutto il tempo che ti serve, tanto io ho delle cose da sistemare. Per me farò riempire di nuovo la vasca più tardi.” Usò un tono leggermente più fermo, questa volta, per cui Bill lo prese come un ordine e non esitò oltre. Si inchinò profondamente, ringraziando il generale, e scomparve dietro la tenda in fondo alla stanza.
Bushido sospirò e si passò una mano sul viso; si stava rivelando una giornata infernale, quella. Prendendo un respiro profondo e facendo mente locale, iniziò a mettersi al lavoro sui piani di conquista da mandare a re Ayech il giorno dopo. Doveva aggiornarlo sulla piega che aveva preso la situazione nel regno di Jorg e comunicargli le mosse che avrebbe messo in atto prossimamente. Aveva sempre meno voglia di seguire i piani di suo padre, e immaginò che fosse la stanchezza degli ultimi giorni a non fargli più trovare lo spirito di battaglia che lo guidava una volta. In ogni caso, doveva tornare a pensare seriamente ad una strategia, per cui si aggirò per la stanza in cerca delle carte di cui aveva bisogno per poi mettersi alla scrivania e comporre il messaggio da affidare al messo la mattina seguente.
Mentre passava davanti al separé, gli cadde involontariamente l’occhio sullo spiraglio che lasciava intravedere la vasca. Scorse la figura di Bill dargli le spalle, immersa nel catino di legno, e il suo sguardo seguì la curva della schiena che riusciva a vedere sopra il bordo della vasca. Notò i lividi che iniziavano a formarsi sulla pelle chiara e si accigliò, preparando mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Sido il giorno dopo. Quando vide Bill sussultare leggermente nel sfregarsi un brutto segno sul braccio, distolse lo sguardo e tornò ad occuparsi delle proprie faccende, lasciando che il ragazzo finisse di lavarsi via di dosso il disagio di quella sera.
Quando Bill riemerse da dietro il separé, aveva le punte dei capelli leggermente umide e arricciate, probabilmente per via del vapore, e le guance un po’ arrossate per lo stesso motivo. Si era asciugato e aveva indossato di nuovo la sua tunica e tutti i soliti gioielli, che tintinnarono mentre si avvicinava timidamente a Bushido.
“Generale,” annunciò con voce bassa la propria presenza, e si mise in attesa.
Bushido alzò lo sguardo dal proprio lavoro e si permise di osservarlo per qualche istante. Aveva un aspetto meno… sfatto, ora che si era ristorato con un bagno caldo. Gli fece un cenno in direzione del letto e poi tornò ad occuparsi delle sue carte.
“Accomodati pure. Io ho ancora delle cose da fare,” gli disse. Bill annuì, fece un piccolo inchino del capo e si mosse rapidamente verso il materasso, prendendo posto sul bordo e restando composto e con la schiena dritta ad attendere che il generale richiedesse i suoi servizi. Passò diverso tempo, durante il quale Bushido si concentrò solamente sul proprio lavoro e Bill rimase al suo posto per non disturbarlo. Un servo portò la cena all’uomo e lui la consumò in silenzio, sempre senza interrompere le proprie faccende. Solo quando ebbe mandato giù l’ultimo boccone posò anche la penna nel calamaio, e si alzò distendendo i muscoli leggermente doloranti.
“Vuole un massaggio, generale?” chiese Bill, permettendosi di parlare ora che Bushido non era più concentrato sui suoi compiti. L’uomo emise un verso di apprezzamento e parve pensarci per un attimo.
“Ammetto che sarebbe bello, ma è meglio di no. Preferisco solamente riposare, e tu dovresti fare lo stesso.” Si diresse verso il letto e tirò giù un lembo delle coperte. Bill, intanto, lo guardò confuso.
“Signore?” domandò incerto. Si alzò rapidamente dal materasso e si mise di fronte a Bushido, che si stava invece sedendo. “Che cosa devo fare, per lei?”
L’uomo lo guardò dal basso, soffermandosi sul livido che stava iniziando a coprirgli una piccola parte del collo vicino alla spalla. “Niente,” disse. “Credo che una notte di riposo ti farebbe bene, non pensi? Puoi rimanere qui, e se preferisci domani mattina faremo finta che tu abbia svolto il tuo lavoro.”
Con questo, fece per sdraiarsi e accennare al ragazzo di fare lo stesso, ma Bill lo fissò quasi sconvolto. “No!” esclamò. Arrossì e abbassò il capo in segno di scuse quando Bushido sollevò le sopracciglia. “Voglio dire… Sono pronto a soddisfarla, signore. Davvero. Sono qui per questo.”
Rimase in piedi davanti a Bushido in chiara attesa di un ordine su come muoversi, e lui sospirò di fronte alla sua determinazione.
“Va bene,” si arrese. “Vieni qui.” Allungò un braccio verso il ragazzo e Bill avanzò immediatamente tra le sue gambe, fino ad incontrare il bordo del letto. Lasciò che il generale gli accarezzasse i fianchi da sopra la tunica per poi insinuare le dita sotto la stoffa, stringendogli le anche tra le mani. Bill chiuse gli occhi quando Bushido si chinò a sfiorargli il petto con le labbra, scostando col mento le catene della collana e facendolo rabbrividire quando sfregò la barba contro la sua pelle sottile. Obbedì alla richiesta implicita di Bushido di salire con le ginocchia sul materasso, dettata dal fatto che il generale lo stesse attirando a sé, e si sistemò a cavalcioni su di lui.
Bushido lo strinse con più forza e fece in modo che i loro bacini si scontrassero. Sentì Bill sibilare accanto al proprio orecchio e gli lasciò andare un fianco, scivolando con la mano lungo la sua coscia e risalendo per insinuarsi sotto la veste. Non gliela slacciò, ma si limitò a cercare la curva delle natiche del ragazzo e passare un dito tra di esse, toccando immediatamente la sua apertura. Fece per forzarla, e sentì Bill tendersi sopra di sé, le sue gambe irrigidirsi ai suoi fianchi e il respiro spezzarsi leggermente.
Fu allora che si ritrasse e allentò la presa che aveva sul suo corpo, voltandosi per farlo scivolare sul letto e scostandosi da lui. Bill attese la sua prossima mossa, ma Bushido non ne fece una.
“Riposati,” gli ordinò, tuttavia il suo tono fu gentile. Fece per tirarsi su, ma il ragazzo lo fermò.
“Generale?” Lo guardò con la fronte aggrottata, sentendosi rifiutato.
“Non c’è bisogno che ti sforzi,” gli spiegò Bushido. “Per questa sera non richiedo nulla da te.”
Bill si accigliò, sollevandosi sui gomiti e rifiutandosi di accettare la decisione del generale. Conosceva i propri limiti, e soprattutto sapeva fare bene il proprio lavoro. Lo dimostrò accostandosi al corpo dell’uomo e facendo in modo di sfregare una gamba contro il suo inguine teso.
“Non mi pare che sia quello che desidera, signore,” disse in un soffio. Bushido trattenne per un attimo il respiro e lo lasciò andare quando Bill premette il palmo di una mano contro la sua erezione. Questa volta non oppose resistenza, riconoscendo la determinatezza del ragazzo, e lasciò che insinuasse le dita oltre l’orlo dei pantaloni per raggiungere il suo membro. Sospirò quando lo sentì avvolgervi le dita attorno e seguì l’altra mano che Bill gli stava posando sul petto, sdraiandosi sul materasso. Non poté più negare il proprio desiderio quando il ragazzo iniziò a massaggiarlo, stringendo il pugno attorno alla sua carne e muovendolo con esperienza. Quando le sue labbra si chiusero attorno alla punta, Bushido chiuse gli occhi e si abbandonò al suo tocco, alla lingua che lo avvolgeva e alla mano che completava i movimenti. Si perse nella carezza delle dita di Bill che si spostavano sulla sua coscia per poi scivolare verso l’interno, raggiungendo i testicoli e continuando a massaggiarlo. Si lasciò andare del tutto e godette di ogni attenzione, fino a quando i muscoli del ventre non gli si strinsero, le gambe si tesero e lui venne, permettendo a Bill di continuare a prendersi cura del suo membro fino a quando non tornò a rilassarsi di nuovo del tutto sulle lenzuola.
A quel punto il ragazzo si inginocchiò al suo fianco e chinò la testa composto. Bushido lo ringraziò, ricevendo un breve cenno del capo in risposta, e poi sollevò le coperte.
“Dormi. Domani mattina potrai tornare nelle tue stanze,” disse. Il ragazzo sembrò sul punto di aprire bocca, ma poi ci ripensò. Abbassò lo sguardo e annuì, rannicchiandosi sul letto per occupare meno spazio possibile. Era la prima volta che un soldato decideva di non servirsi di lui come meglio credeva perché lo vedeva provato dai servizi che aveva reso durante il resto della giornata. E soprattutto, era la prima volta che qualcuno se lo teneva nel letto senza essere crollato addosso a lui dopo una scopata piuttosto soddisfacente. Non sapeva come reagire a questa novità, e si sentì un po’ deluso di non essere stato in grado di svolgere il proprio lavoro al meglio come faceva sempre. Evidentemente non si era mostrato abbastanza attraente o convincente se il generale aveva deciso di fare a meno di ciò che poteva offrirgli. Eppure non era mai stato un problema per lui, in precedenza; era sempre stato bravo a sopportare un po’ di fastidio quando un ospite del regno ci andava un po’ pesante. Di sicuro avrebbe svolto il suo lavoro alla perfezione come sempre anche in quella occasione, ben più di quanto aveva fatto in realtà.
Non ebbe tempo di pensarci troppo a lungo, però, perché gli occhi gli si chiusero dopo pochi istanti quando ebbe posato la testa sul cuscino morbido del letto del generale.

*


Il bello di essere un generale, oltre al fatto che era oggettivamente la cosa migliore che potesse capitare ad un uomo della sua età e del suo rango sociale, visto che le alternative erano fare il letterato e fare il prete, era potersi permettere una pausa quando voleva e, generalmente, nella stanza più comoda del posto in cui si trovava. Qualsiasi posto fosse. Nel caso specifico, la stanza da letto che Jorg gli aveva messo a disposizione e che era grande il doppio di qualunque altra stanza fosse toccata agli altri ospiti.
Oltre a permettergli di correrci dentro, giocarci a freccette e probabilmente anche tirare con l'arco, comunque, la camera gli dava modo di tenere, come già detto, anche una scrivania sulla quale sbrigare la posta e, come in quel momento, redarguire i suoi tenenti per il loro comportamento.
I problemi con Sido erano la sua presunzione e la sua prepotenza, ma dal momento che erano due aspetti ben radicati del suo carattere e che aveva ormai trent'anni suonati, Bushido dubitava che lui o qualcun altro potessero in qualche modo cambiare la situazione. Certo le cose sarebbero andate meglio se suo padre non avesse deciso di punto in bianco, a due giorni dall'inizio del viaggio, di farlo tenente, alimentando il suo già smisurato ego, ma c'era ben poco che Bushido potesse fare al riguardo, ergo poteva solo tenerselo così com'era e tentare di limitarne i danni.
“Tu sai perché sei qui?” Chiese, chiudendo il piccolo quaderno sul quale appuntava giornalmente qualsiasi dato potesse avere un qualche interesse per suo padre, così che non avesse da ridire sulla quantità di informazioni che gli mandava nelle copiose lettere che scriveva mensilmente.
Sido stava in piedi non propriamente composto di fronte alla scrivania, ma di questo Bushido non poteva biasimarlo. Era talmente allergico alle formalità militari che tentava di tenerle al minimo quando nessuno poteva vederle. “Presumo di aver fatto qualcosa di disdicevole, altrimenti ne staremmo parlando di fronte ad una pinta di birra, signore,” rispose Sido, calcando su una formalità che i suoi tenenti non usavano mai se non era proprio necessario o, come in questo caso, se non venivano ripresi per qualcosa di grave.
Se si fosse trattata di una sciocchezza, sarebbero stati in una taverna, del resto. Bushido conosceva Sido da vent'anni e se doveva dirgli qualcosa, generalmente lo faceva senza perdere troppo tempo con convocazioni e gradi. Il punto era che se non avesse usato il suo grado adesso, lui non avrebbe capito l'importanza della questione, visto l'argomento.
“La nostra permanenza qui è necessaria,” esclamò il generale, cercando volutamente di ignorare la sua strafottenza per rendere quel colloquio il più breve possibile. “Al momento non possiamo fare molto altro, e lo sai bene. La tua noia, però, non giustifica il tuo comportamento.”
“Non capisco a cosa si riferisce, signore.” Ma Sido non sembrava affatto sorpreso. Anzi, a giudicare dall'espressione sul suo viso, Bushido poteva immaginare che sapesse perfettamente di cosa stavano parlando.
“Mi riferisco al ragazzo che era con te ieri sera,” precisò, trattenendosi a stento dal pronunciarne il nome. Sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi di Sido.
“Pensavo che ci fosse concesso usare gli schiavi.”
Bushido annuì, giocando con il pennino che teneva tra le dita. “Sì, naturalmente,” concesse, “ma questo non ti dà il diritto di maltrattarli.”
Sido spostò il peso da un piede all'altro, appoggiando l'avambraccio sull'elsa della spada che portava al fianco destro. “In tutta onestà, signore, non ritengo di aver fatto niente di male. Ho forse calcato un po' la mano, ma niente che il ragazzino non potesse gestire. E' ben addestrato.”
“Gradirei,” insistette il generale, “che ti comportassi in maniera più civile con la servitù.”
L'uomo sgranò gli occhi. “Sono soltanto schiavi,” gli fece notare, come se la cosa in sé fosse già una motivazione sufficente a giustificare il suo comportamento, il che in effetti lo era. Bushido era consapevole di non avere basi per dargli addosso come avrebbe voluto.
“Sono figli del re,” precisò.
Sido serrò le labbra ed espirò violentamente dal naso. “Con tutto il dovuto rispetto, signore,” replicò. “La sovranità di Re Jorg non sarà rilevante anc-”
“Tu ti comporterai civilmente con tutti gli abitanti di questo castello,” Bushido lo interruppe con violenza, alzandosi di scatto e riuscendo a sovrastarlo nonostante i pochi centimetri di differenza, “compresi gli schiavi che ti porti a letto, e questo perché noi non siamo dei barbari. ”
Sido lo fissò dritto negli occhi.
“Mi hai sentito, soldato?”
Sido rimase in silenzio, la mascella serrata.
“Ho detto: mi hai sentito, soldato?”
Il tenente annuì. “Sì, signore. Ho sentito.”
Bushido rimase a fissarlo ancora per un po' e poi riprese a sistemare la sua scrivania, senza più degnarlo di uno sguardo. “E ora fuori di qui. Non hai del lavoro da fare?”
“Sì, signore. Agli ordini.”
Il generale aspettò di sentire la porta sbattere e poi sbuffò un sospiro infastidito. Si lasciò andare seduto e si passò una mano sul viso. Era già stanco e non erano nemmeno le undici del mattino.

*


L’addestramento delle truppe reali era diventato presto l’attrazione popolare più intrigante del regno. Naturalmente, non tutti potevano assistervi, dal momento che gli allenamenti si tenevano all’interno delle mura del castello, ma chi viveva a palazzo finiva sempre a trovarsi ai bordi del campo per dare un’occhiata all’esercito straniero che insegnava agli uomini di Jorg come combattere. C’era chi si radunava proprio ai margini dell’area di addestramento, e chi invece preferiva lanciare qualche occhiata furtiva da lontano, come faceva spesso Bill.
Quel pomeriggio era stata Natalie ad insistere perché lui la accompagnasse in giardino. Anche lei era affascinata dagli ospiti del regno e da quello che si sentiva raccontare di loro a palazzo, e la possibilità di vederli finalmente durante il loro addestramento quotidiano la intrigava molto. Aveva supplicato Bill di portarla fuori appena avesse avuto del tempo da dedicarle, e lui aveva deciso di approfittare di un momento in cui la ragazza sarebbe stata affidata a lui per accontentarla. Se doveva essere sincero, lui stesso si era ritrovato più volte a passeggiare in quel giardino solo perché dava una buona vista del campo di addestramento militare. Da dove si erano seduti lui e Natalie, riusciva a scorgere perfettamente i soldati che marciavano con ordine e i gruppi individuali che si allenavano al combattimento. Il tenente Chakuza era al centro del campo di terra battuta, ad abbaiare ordini e mostrare il modo corretto in cui svolgere gli esercizi, mentre il generale percorreva lentamente il perimetro sorvegliando l’allenamento. Da quello che suo fratello gli aveva raccontato, sembrava che Bushido fosse un uomo paziente che assisteva ad ogni lezione e si esibiva lui stesso in dimostrazioni pratiche quando i soldati non riuscivano ad eseguire gli ordini. Bill era rimasto affascinato dalla sua costanza, e vederlo lì sul campo a vigilare sull’operato dei suoi uomini gli faceva rispettare la sua figura. Rispetto che andava ad aggiungersi a quello che aveva provato nei suoi confronti qualche sera prima.
“I soldati di Ayech sono molto bravi, vero?” sentì la ragazzina che si voltava verso di lui al suo fianco. Bill abbassò lo sguardo su di lei e annuì.
“Sì, sono ben addestrati e molto forti. È grazie a loro se non siamo più in guerra con le tribù, in questo momento,” le ricordò. Natalie sorrise e poi tornò a guardare il campo con ammirazione.
“E adesso anche i nostri soldati saranno forti come loro?” chiese ancora. Lui rise piano.
“Presto dovrebbero esserlo, sì,” concordò. “E tra un paio d’anni, anche tu ti metterai al loro servizio.”
“Perché non subito?”
Bill si voltò sorpreso, cercando di capire da dove fosse arrivata quella voce. Sussultò leggermente quando vide la figura che li osservava a qualche metro di distanza, sotto il portico che conduceva al giardino.
“S-signore?” domandò, piegando la testa in segno di deferenza e stringendo involontariamente la mano della ragazzina seduta al suo fianco. Sido avanzò sul prato per raggiungerli, procedendo con passi lenti e con una mano posata mollemente sull’elsa della spada che teneva al fianco.
“Questa bella ragazza non è già al servizio degli ospiti del regno?” chiese il tenente, rivolgendo un sorriso storto a Natalie che lo osservava curiosa cercando di non farsi notare. “Sarebbe uno spreco, se così non fosse.”
Bill deglutì, e intanto si alzò per potersi inchinare a Sido e conversare con lui nella postura più consona. “Mia sorella è ancora troppo piccola, signore,” mormorò. “Non ha ricevuto l’educazione necessaria, sarà pronta solo tra qualche anno.”
“Oh, ma a me non interessa che sia stata educata o meno. Ti assicuro che non è un problema,” ghignò l’uomo. Allungò una mano e accarezzò i capelli della ragazza, che tenne il capo chino come le si conveniva.
“No!” esclamò Bill. Sido ritrasse leggermente le dita, sorpreso, e si voltò a guardarlo. Sollevò un sopracciglio e per un attimo sembrò divertito e curioso, ma presto i suoi lineamenti si indurirono, oltraggiati. “Non-“ Bill esitò, abbassando immediatamente lo sguardo in segno di scuse. “Sono le regole del regno, signore.”
Il tenente parve incline a lasciar correre la leggera irriverenza di prima. Tuttavia, non lasciò cadere l’argomento.
“Con quale autorità mi parli di regole? Sono un tuo superiore, per quanto ospite di tuo padre, e per quello che mi riguarda, potrei prendermi questa ragazzina anche subito, se volessi.” Riprese a far scorrre le dita lungo i capelli di Natalie, fino a sfiorarle il mento e sollevarle il viso. Poi, però, volse la propria attenzione a Bill. “Oppure potrei prendere te, che effettivamente sei più bello e hai più esperienza. Almeno non dovrei poi occuparmi di piccole… seccature, se le regole a cui accennavi dovessero essere vere.”
Il ragazzo fissò lo sguardo sulla punta degli stivali di Sido, così vicini ai suoi piedi scalzi per via della prossimità dell’uomo, che avrebbe potuto sfiorarlo con un movimento minimo.
“Come desidera, signore,” rispose con un breve inchino. Quando sentì la mano del tenente posarsi sul suo fianco, scostò docilmente il braccio per permettergli di toccarlo come meglio credeva. Lui ne approfittò per tirarlo a sé e iniziò a trascinarlo verso il porticato, cercando una nicchia che fosse leggermente più appartata, ma soprattutto che avesse una parete contro la quale appoggiare Bill.
“C’è qualche regola sul dove dovrei averti?” domandò Sido con un ghigno mentre lo spingeva contro il muro di pietra, chiaro indice che delle regole gli importava ben poco. “Altrimenti pensavo di farlo qui. Sai, ho una certa fretta, e potrebbe far bene all’educazione della ragazzina, non credi?” Accennò a Natalie, che era rimasta accanto alla panca e li osservava dal giardino, senza perdere d’occhio Bill.
Il ragazzo non rispose, e neanche Sido gliene avrebbe lasciato il tempo, perché subito gli ordinò di slacciarsi la tunica mentre faceva scorrere le mani sulla pelle già scoperta delle braccia e delle gambe, in attesa di poterle insinuare anche sotto la stoffa. Quando Bill ebbe sganciato la fibbia sul fianco, l’uomo infilò immediatamente le dita tra i lembi dell’indumento e li aprì, andando ad accarezzargli con forza i fianchi nudi.
“Girati,” gli disse brusco, e ritrasse il palmo che gli aveva posato su una natica solo per permettergli di obbedire. Quando Bill si fu appoggiato al muro, riprese a toccarlo, sentendosi già pronto a prenderlo senza neanche averlo spogliato del tutto. Scostare la tunica sarebbe bastato.
“Tenente!”
Sido strinse per un attimo la presa sulla pelle chiara di Bill, così forte che lo sentì tendersi per un istante sotto le dita. Poi lo lasciò andare e si raddrizzò.
“Comandante,” disse tra i denti, facendo un cenno del capo in direzione dell’uomo che lo stava raggiungendo a grandi passi.
“Ti aspettavo al campo almeno venti minuti fa,” ruggì Bushido, e si fermò di fronte a lui. Il suo sguardo cadde sulla figura di Bill che si stava coprendo mentre si esibiva in un inchino di saluto, e abbassò la voce ad un sibilo. “Cosa stavi facendo?”
“Non è abbastanza chiaro?” sbuffò Sido, e non riuscì ad impedirsi un ghigno e un’occhiata al ragazzo, che si teneva la tunica chiusa con una mano senza però accennare a riallacciarne la fibbia, forse in attesa che qualcuno gli indicasse di poterlo fare. Lui, di certo, non glielo avrebbe ordinato.
Riportò lo sguardo su Bushido quando il generale gli si avvicinò di un passo, quasi minaccioso.
“Non ne abbiamo discusso solo l’altro giorno?” ringhiò. “Stai sfidando la mia pazienza e la mia autorità, Sido.”
Lui si trattenne a malapena dal roteare gli occhi. Raddrizzò la schiena in una posa più composta, ma soprattutto che raggiungesse l’altezza di Bushido.
“Non ho fatto niente di riprovevole, comandante.” Sostenne lo sguardo del generale finché lui non si voltò ad osservare di nuovo Bill. Rimase in silenzio per qualche istante, poi parve prendere una decisione.
“Ti aspettavo al campo venti minuti fa,” ripeté, questa volta in tono più basso. “Se vuoi concederti la compagnia di uno schiavo, lo fai quando non sei in servizio.” Sido non disse nulla. Serrò la mascella e attese che il suo comandante proseguisse. “Vai a dare il cambio al tenente Pangerl.”
Il tono non ammetteva repliche, per cui l’uomo non poté ribattere. Capì che la questione era chiusa e si limitò a superare Bushido per avviarsi verso il campo.
“Tu!” sentì ancora il generale che si rivolgeva al ragazzo. “Vieni nelle mie stanze appena terminano gli addestramenti. Richiedo i tuoi servizi fino a domattina.”
Stringendo il pugno sull’elsa, Sido accelerò il passo e svoltò un angolo.

*


Bushido si lasciò cadere sul materasso con un sospiro soddisfatto e un po’ stanco. Bill lo seguì per la seconda volta quella sera, concedendosi appena un istante per riprendere fiato prima di tornare padrone dei propri sensi e prepararsi ad obbedire alle prossime disposizioni del generale. Quel pomeriggio aveva riaccompagnato sua sorella a palazzo e poi aveva dedicato l’ora sguente a prepararsi per prestare servizio tutta la notte come gli era stato richiesto. Era tornato in giardino per osservare il campo di addestramento e valutare quanto ci sarebbe voluto prima che gli allenamenti si concludessero, poi si era presentato davanti alle stanze di Bushido pochi minuti dopo che lui vi era tornato, come ordinato. L’uomo l’aveva accolto approfittando all’istante della sua presenza. Se l’era tirato contro e poi l’aveva di nuovo spinto indietro appena era riuscito a chiudere la porta, premendosi contro di lui per inchiodarlo al legno massiccio. Non aveva fatto troppa pressione perché aveva ancora indosso l’armatura, ma gli aveva subito ordinato di aiutarlo a toglierla. Bill aveva obbedito come la prima volta che l’aveva servito, slacciando i ganci e rimuovendo ogni protezione che il generale gli aveva fatto lasciare a terra, senza prendersi la briga di andare a riporla ordinatamente sul suo sostegno. Una volta libero dal peso del ferro, si era spinto di nuovo contro il ragazzo e aveva aderito completamente al suo corpo, cercando una delle sue gambe con una mano per fargliela sollevare. Bill l’aveva avvolta subito attorno alla sua vita e gli aveva dato modo di spingersi contro di lui come avrebbe voluto, e Bushido ne aveva approfittato per sfregare l’inguine contro il suo e permettere alla propria eccitazione di raggiungere l’apice.
Alla fine l’aveva preso lì contro la porta, sollevandolo e sostenendolo con le braccia mentre si spingeva dentro di lui senza avergli nemmeno tolto o slacciato la tunica rossa. Gli aveva raccolto la stoffa intorno ai fianchi scoprendo le cosce, e poi aveva cercato la sua apertura quasi alla cieca. Si era preso il minimo tempo indispensabile per assicurarsi che fosse preparato come sembrava esserlo sempre, poi era affondato dentro di lui facendolo inarcare contro il legno della porta. Aveva stretto i denti quando l’aveva sentito contrarsi attorno a sé e non aveva fatto altro che aumentare la forza delle proprie spinte ogni volta che Bill stringeva i muscoli, in quello che avrebbe potuto essere un riflesso involontario o forse solo una mossa ben studiata che faceva parte della sua educazione ed esperienza. Era difficile dirlo.
Non si era fermato finché i muscoli delle braccia non avevano iniziato a bruciare per lo sforzo, già provati dal resto della giornata, e solo allora si era spostato fino al letto. Aveva lasciato cadere Bill sul materasso, dove aveva rimbalzato leggermente, e questa volta si era fermato ad aprire la tunica e sfilargliela, gettandola di lato per averlo nudo sotto di sé. L’aveva accarezzato in un unico gesto rapido e deciso, e poi con quella stessa mano l’aveva afferrato per un fianco e gli aveva fatto passare l’altro braccio sotto la schiena, sollevandolo nuovamente e tirandoselo in grembo, invertendo le posizioni. L’aveva guidato finché Bill non l’aveva di nuovo accolto dentro di sé e l’aveva lasciato muovere solo per i primi minuti, osservando il modo in cui ondeggiava i fianchi sopra di lui. Poi aveva ripreso il controllo e l’aveva mantenuto fino a quando non erano venuti entrambi, fino a quando non era riuscito a spingere il ragazzino fino al limite e gli aveva ordinato di lasciarsi andare per poterlo seguire, per rendere ancora più piacevole quegli ultimi attimi.
Dopo, Bushido si era fatto portare la cena in camera come era diventata spesso sua abitudine, e aveva ordinato che fosse preparato qualcosa anche per Bill. In realtà, si era poi perso sul corpo del ragazzo mentre attendeva che le serve salissero dalle cucine a portargli il cibo, e nella sua bocca poco prima che bussassero alla porta. Dopo aver cenato, l’aveva preso ancora una volta, facendolo voltare e osservando per tutto il tempo la curva della sua schiena e il solco che ne disegnava la linea della colonna vertebrale.
Ora che aveva momentaneamente placato il proprio desiderio, e la frenesia inspiegabile che l’aveva assalito nel momento in cui aveva preso la decisione di richiedere la presenza di Bill per quella sera, si permise di sciogliersi contro le lenzuola fresche del letto e di riposare un po’. Sentì Bill muoversi dopo pochi istanti, forse pronto ad alzarsi e sistemare la camera come aveva fatto la prima volta, per concedergli di rilassarsi indisturbato senza la sua presenza al fianco, ma lo fermò prima che potesse mettersi a sedere.
“Resta qui,” disse con voce ferma, e lui parve prenderlo come un ordine, perché seguì docile la mano che Bushido gli aveva avvolto attorno ad un braccio e tornò a stendersi vicino a lui. Rimase in attesa, aspettandosi ulteriori istruzioni o anche solo una mossa dell’uomo, ma lui non fece nulla. Non gli chiese di muoversi né si stese su di lui, e nemmeno accennò a voler iniziare qualcos’altro. Semplicemente se lo tirò un po’ contro e se lo tenne al petto con una mano posata mollemente sul suo fianco, le dita che gli accarezzavano ogni tanto la pelle morbida. Bill si irrigidì per un istante, ma poi seguì il movimento lento di quelle carezze e si concesse di lasciarsi andare sul materasso come lui.
“Che cosa fai durante la giornata?” chiese improvvisamente Bushido, dopo qualche istante di silenzio teso – almeno da parte di Bill, che non sapeva cosa fare non avendo ricevuto ordini. Il ragazzo parve confuso, per cui il generale proseguì. “Intendo, quando non stai… lavorando. Prestando i tuoi servizi come questa sera.”
Bill cercò il modo migliore di spiegarsi. “Faccio quello che mi viene richiesto, signore. Spesso aiuto nell’educazione dei mei fratelli e sorelle.”
“Quindi sei un insegnante?” indagò il generale, e il suo tono sembrava sinceramente curioso.
“No, signore,” rispose lui, e abbassò leggermente la voce e il capo come se si vergognasse. “Generale, io sono solo-“
“Anis,” lo interruppe Bushido. Bill ebbe per un attimo l’impulso di alzare lo sguardo e fissarlo nel suo, sorpreso, ma si trattenne. Non nascose tuttavia la sua confusione, e intravide l’uomo che sorrideva. “Mi chiamo Anis. Non c’è bisogno che continui a chiamarmi signore o generale, possiamo fare a meno delle formalità. Finché siamo solo noi due, almeno,” aggiunse alla fine. Il ragazzo non sapeva come rispondere, per cui si limitò a piegare la testa in cenno di assenso, un po’ incerto.
“Allora, dicevi che non sei un insegnante?” riprese il discorso Bushido.
“Esatto, sign-“ Si interruppe quando la presa dell’uomo sul suo fianco si fece leggermente più salda, e arrossì mentre si correggeva. “Anis… Mi occupo solo dell’educazione dei ragazzi. Sa, per prepararli a mettersi al servizio dei soldati e degli ospiti del regno.”
“Oh…” Bushido non seppe commentare in altro modo, e parve prendersi qualche istante per assimilare la risposta che aveva appena ricevuto. Poi tornò a parlare con un’altra domanda. “E’ da molto tempo che fai questo lavoro? Voglio dire, quando hai iniziato?”
“S-Sei anni fa, se ho contato bene…” mormorò Bill, sembrando un po’ insicuro della propria risposta. A quel punto Bushido si chiese quanti ne avesse lui, e quando glielo chiese scoprì che ne aveva compiuti a malapena una ventina. Emise un mormorio comprensivo, poi lasciò finalmente cadere la conversazione. Non sapeva nemmeno lui perché si stesse interessando tanto alla vita del ragazzo. Forse voleva solamente capire meglio quale fosse il modo di pensare in quel regno, le sue usanze e credenze. Era molto diverso da casa sua, e per questo stava cercando di conoscerlo meglio. Ultimamente aveva perfino provato ad imparare la lingua del posto, aiutato da Gordon e da alcuni libri che lui e il re gli avevano procurato. Era stato difficile capirne la struttura, ma forse ora iniziava a padroneggiare un po’ la grammatica di base. Aveva comunque ancora dei problemi con il vocabolario e soprattutto con alcune pronunce, che erano molto diverse da quelle della propria lingua.
“Ehi, ti andrebbe di aiutarmi con una cosa?” chiese all’improvviso, ricordandosi di una parola che non era riuscito a leggere durante i suoi studi la sera prima e sulla quale si era intestardito per ore.
“Certo, signore,” rispose immediatamente Bill, sorpreso ancora una volta dalla facilità con cui il generale cambiava argomento e gli poneva domande quella sera. Bushido sospirò e gli rivolse un sorriso mentre si alzava sui gomiti, sporgendosi verso il tavolino accanto al letto per recuperare un libro.
“Davvero, non c’è bisogno che ti rivolgi sempre a me con tanta deferenza. Anzi, ormai puoi anche darmi del tu, se vuoi.”
Bill piegò leggermente la testa da un lato. “Darle del…?”
Lui annuì. “Sì. Usare un tono un po’ più informale.”
“Oh,” capì il ragazzo. “In realtà…” Esitò un po’, alzandosi anche lui a sedere sul materasso quando Bushido si appoggiò alla testiera del letto. “Non so parlare così bene la sua lingua, Anis. Non saprei come usarla diversamente.” Abbassò lo sguardo quando pronunciò per la seconda volta il nome del generale. Era strano, per lui, avere il permesso di chiamare qualcuno per nome mentre era in servizio.
“Capisco,” disse Bushido, e sembrava pensieroso. “Magari potrei insegnartelo, un giorno…” Poi lasciò di nuovo perdere la cosa, tornando con la propria attenzione al libro che aveva tra le mani. “Ecco, guarda. L’altra sera stavo cercando di leggere questa frase, e ho provato un sacco di volte a decifrare questa parola, ma proprio non ci riesco. Sai dirmi come si pronuncia?” Porse il libro al ragazzo, tenendoglielo aperto alla pagina giusta e indicandogli con la punta dell’indice la parola in questione. Bill non lo prese, ma rimase immobile al suo posto a fissare le lettere vergate in nero sulla carta spessa, accigliandosi leggermente. Dopo un po’, tornò a fissare lo sguardo sulle lenzuola, chinando il capo e lasciando che alcune ciocche dei capelli scompigliati gli ricadessero davanti al viso.
“Cosa c’è?” domandò Bushido, aggrottando la fronte e continuando a tenere il libro nella stessa posizione. Poi abbassò leggermente il braccio. “Non è una parola della tua lingua?” Magari era per quello che non era riuscito a decifrarla; poteva essere un termine straniero, forse adottato dal linguaggio di una delle tribù vicine. Magari non era lui che non riusciva a capire.
Bill, però, si rigirò nervosamente un lembo del lenzuolo tra le dita.
“Non lo so, Anis,” mormorò. “Io… non so leggere.”
Bushido aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Non ci aveva pensato, eppure aveva un senso; non sempre i servi erano istruiti, e probabilmente non si riteneva necessario che sapessero leggere visti i compiti che dovevano svolgere. Il fatto che Bill avesse imparato la sua lingua non voleva dire niente, soprattutto perché aveva ammesso lui stesso che l’aveva fatto soltanto perché a volte gli tornava utile quando si trovava a servire ospiti del regno. Si riprese il libro e fissò la parola che gli aveva dato tanta pena fino a quel momento.
“Be’, magari puoi aiutarmi lo stesso,” esclamò alla fine, rompendo il silenzio un po’ imbarazzato nel quale si era chiuso il ragazzo dopo la propria risposta. Lo vide sollevare lo sguardo confuso e gli sorrise per l’ennesima volta in modo rassicurante. “Potresti riconoscere la parola se provo a leggere quel poco che ne capisco. Vai a orecchio,” gli spiegò. “In due magari ci riusciamo.”
Quando fu sicuro che il ragazzo aveva capito, tentò nuovamente di decifrare quel termine oscuro. Ci vollero diversi tentativi, durante i quali Bill si limitò dapprima ad ascoltarlo con la fronte aggrottata e un’espressione incerta sul viso, poi iniziò a suggerire parole che assomigliavano sempre di più ai suoni che pronunciava il generale. Alla fine sembrò trovare quella giusta, e Bushido si rese conto che aveva perfettamente logica inserita in quel contesto.
“Finalmente!” esultò, e vide Bill sorridere insieme a lui. Gli lesse la frase per intero, ed ebbe la conferma del ragazzo che era esatta. Allora distese ulteriormente le labbra e posò il libro sul materasso, voltandosi verso di lui. Sollevò una mano per scostargli i capelli dal viso e gli accarezzò una guancia pallida. “Grazie,” gli disse, e lo fece nella lingua di Bill, sempre con un sorriso morbido sulle labbra. Lui non fece in tempo a rispondere perché la bocca di Bushido trovò la sua.
Si lasciò stendere nuovamente sul letto e aprì le gambe per permettere al generale di sistemarsi tra di esse. Questa volta, quando Bushido entrò dentro di lui le loro lingue si stavano cercando.

*


L'esercito di Bushido avrebbe dovuto rimanere nel regno solo per qualche settimana, che si era poi trasfromata in un mese e poi in due, finendo, per un motivo o per l'altro, per prolungarsi ulteriormente. Mentre segnava un’altra croce sul calendario, Bushido si rese conto che erano lì da quasi tre mesi e mezzo, ormai, e che il tempo era volato anche troppo velocemente.
I suoi soldati si erano lamentati del posto per tutte le prime settimane, perché il regno di lord Jorg era situato proprio in mezzo al deserto ed era piccolo e arretrato, assolutamente privo di qualsiasi interesse per un gruppo di uomini nel fiore degli anni abituati ai fasti di Tunisi, ma poi, lentamente, si erano adattati – anche perché Bushido aveva ignorato qualunque lamentela – e non dubitava che qualcuno di loro avrebbe chiesto di rimanere, una volta che le cose sarebbero state sistemate. Probabilmente avrebbe dovuto pagare qualche congedo, qualche matrimonio o l'arrivo di qualche erede, come capitava sempre quando ci si fermava troppo a lungo in un posto in cui ci fossero delle donne. E, per l'appunto, Jorg gliene aveva fornite una scorta.
Anche l'addestramento dell'esercito locale procedeva bene, anzi, meglio di quanto avesse sperato. Alla quarantina di uomini iniziali, se n'era aggiunto un altro centinaio, provenienti dalle altre tribù che, una dopo l'altra, erano state rimesse al loro posto. Ora Jorg disponeva di un'intera compagnia, perfino in grado di marciare e sedare con una certa organizzazione una ribellione di piccole dimensioni, come quella che si era scatenata la settimana precedente a Zaghouan, un paesino appena qualche chilometro più ad est rispetto a dove vivevano gli El-Fahs. Gli abitanti del villaggio avevano attaccato e ucciso gli esattori delle tasse, quindi avevano occupato la città, rifiutandosi di riconoscere l'autorità del re.
Bushido l'aveva trovata un'occasione perfetta per testare sul campo il nuovo esercito e, già che c'era, far fare un po' di moto a quello vecchio che stava mettendo su qualche chilo – lo specchio, peraltro, cominciava ad essere impietoso perfino con lui. Così aveva preso il battaglione di re Jorg e metà dei propri uomini, affidandoli al comando di Chakuza.
C'era voluta soltanto mezza giornata per fare irruzione attraverso le porte di legno sprangate e rimettere la situazione sotto controllo. Era anche morta poca gente, e solo perché si era intestardita col voler attaccare i soldati. Bushido era sostanzialmente una persona paziente, ma c'era un limite al numero di sassate che poteva sopportare. Quando la folla inferocita si era lanciata verso l'esercito per la terza volta, aveva dato l'ordine di reagire. D'altronde, non poteva rischiare di perdere uomini per colpa di un branco di contadini.
Il piccolo esercito di Jorg si era comportanto più che bene. Evidentemente, l'addestramento impartito a forza di urla era servito a qualcosa. Una volta rientrati in città, i nuovi soldati avevano festeggiato con i vecchi, orgogliosi della propria impresa, anche se non esattamente epica. Il tutto mentre Jorg faceva giustiziare su pubblica piazza il capo dei rivoltosi che era stato portato al suo cospetto come prigioniero da giudicare.
Bushido non era stato molto d'accordo sull'esecuzione sommaria, ma aveva potuto fare ben poco per impedirla, dal momento che era stato avvertito quando ormai dell'uomo non rimanevano che le ceneri. Chakuza era arrivato in camera sua correndo, per avvisarlo che Jorg aveva deciso di saltare il processo e passare direttamente alle vie di fatto; il tutto era avvenuto mentre lui e gli altri tenenti si godevano un momento di meritato riposo. Il risultato era stata una gran puzza di carne bruciata e tanti cari saluti ad un sistema giudiziario civile e doveroso.
Quando Jorg era venuto da lui a rallegrarsi per l'ottimo lavoro compiuto con le truppe e per esprimere il proprio sollievo nel sapere di essersi liberato di un ribelle, Bushido gli aveva fatto notare che forse l'uomo, per quanto colpevole, avrebbe avuto diritto ad essere giudicato e poi, nel caso, magari imprigionato; Jorg, però, lo aveva liquidato con una pacca sulle spalle, esclamando che era davvero un cuore tenero. “I rivoltosi vanno sedati subito e con forza,” aveva esclamato nella sua lingua piena di consonanti, battendosi il pugno sulla mano aperta. “Schiacciati come formiche!” E poi se n'era andato fischiettando, con altre due pacche sulle spalle al generale e l'invito a trovarsi una compagnia piacevole per la notte.
Bushido, però, non aveva seguito il consiglio perché aveva avuto questioni urgenti di cui occuparsi e, per quanto l'idea di Bill nelle sue stanze fosse molto allettante, non aveva potuto rimandarle.
Doveva ringraziare l'impegno della sera precedente se adesso il messaggero lo trovava sveglio ad occuparsi dei riepiloghi settimanali, invece che assonnato e senza la minima idea di dove fosse e di come si chiamasse, con il corpo dello schiavo avvinghiato al suo, esattamente com'era successo spesso negli ultimi tempi, complice la cena e soprattutto il vino, che ormai spesso accompagnavano la presenza di Bill in camera sua.
Non che la cosa lo disturbasse in generale, ma il messaggero era stato mandato da suo padre Ayech e da suo padre doveva tornare; c'erano buone probabilità che, oltre a consegnare la posta, quell'uomo dovesse anche riferirgli come andavano le cose ed era meglio che non gli desse l'opportunità di aumentare l'impazienza e il nervosismo del re.
“Generale!” Esordì il messaggero, sull’attenti.
Bushido annuì e lo liquidò con un gesto veloce della mano, mentre appuntava ancora qualcosa sul suo quaderno. “A riposo, soldato.”
Il messaggero batté i tacchi ma ubbidì, frugando subito nella propria borsa. “Ho qui una missiva da parte di suo padre, signore” annunciò. “Sua maestà le fa sapere che è urgente e che richiede risposta immediata, signore.”
Il che significava leggere il papiro del vecchio e rispondergli su due piedi, perché il ragazzo non se ne sarebbe andato se non con in mano un nuovo rotolo di papiro da consegnare al re.
La scrittura di suo padre era un guazzabuglio di segni poco riconoscibili perché quell'uomo non si era mai davvero preso la briga di imparare a scrivere decentemente. Sosteneva che per quello c'erano gli scribi e che quello che lui doveva imparare a fare era dirigere le truppe, vincere le guerre e generare figli maschi che guidassero l'impero per lui quando sarebbe morto in battaglia, con tanto onore e gran profusione di lacrime, naturalmente. Per il momento, gli era riuscito soltanto di guidare l'esercito, perché di figli maschi aveva avuto solo lui, il quale si chiedeva da anni perché non li usasse, questi benedetti scribi che dovevano scrivere, invece di mandargli paginate di geroglifici. Strinse meglio il foglio e cercò di inclinarlo di tre quarti con disinvoltura, nel tentativo di trovare un senso a quello che c'era scritto sopra. Fortunatamente, aveva passato l'infanzia a decifrare i messaggi che il padre gli faceva avere durante l'addestramento per ricordargli di non fallire, pena il disconoscimento e la perdita di ogni beneficio, una cosa che sua moglie non gli avrebbe permesso comunque, dal momento che amava Bushido più di quanto amasse il marito.
Il tono della lettera era sbrigativo e nient'affatto amichevole, quindi del tutto nella norma.
Suo padre non sprecava tempo e spazio a chiedergli come stava, né a dargli anche una sola vaga idea della situazione in cui versava il regno, che lui non vedeva da quasi un anno e che, a conti fatti, poteva anche essere distrutto. In sostanza l'intera lettera si riduceva ad una sequela di ordini e l'invito a darsi una mossa con la questione primaria che lo aveva portato in quella zona, o sarebbe venuto lui stesso ad occuparsene. E Bushido questo non lo voleva perché Ayech non aveva altro modo di occuparsi delle cose se non distruggendole, e lui non aveva esattamente programmato la questione in quel modo.
Arrotolò in fretta la lettera, prese un foglio nuovo e buttò giù due righe, chiedendo a suo padre come stava e sottolineando con ironia che tutte quelle informazioni che gli aveva dato sul resto della famiglia e del regno lo avevano quasi soffocato, che la prossima volta, magari, poteva riassumere in modo da rendere il tutto più sostenibile. Quindi lo rassicurò che tutto era pronto e che avrebbe portato a termine la propria missione nei tempi prestabiliti. Firmò, sigillò col proprio apposito simbolo e quindi consegnò il tutto al messaggero nel giro di una ventina di minuti.
Il ragazzo era scattato di nuovo sull’attenti. “C'è qualcosa che devo riferire, signore?” Chiese, vedendo che Bushido si era alzato dalla scrivania e, apparentemente si preparava a lasciare la stanza.
“No, direi che nella lettera c'è scritto più o meno tutto,” rispose, e poi sospirò. “E ora datti una mossa, prima che parta lui stesso per venirsi a prendere di persona la risposta.”
Il messaggero batté i tacchi e si allontanò.
Non gli restava che avvisare Fler e mettere in moto le cose. Così imboccò il corridoio che portava alle loro camere, le mani dietro la schiena e lo sguardo pensieroso. Salutò con un cenno del capo un soldato che gli veniva incontro con la mano alla fronte, ma passò oltre senza considerarlo.
Bussò alla porta della stanza di Fler tre volte senza ottenere risposta, prima di decidere che un'entrata a sorpresa era giustificata in un simile frangente.
Spalancò la porta in modo da fare rumore e scoraggiare qualunque tipo di attività, mentre si annunciava con un potente: “Tenente Losensky!” guardando dritto davanti a sé.
Quello che ne seguì fu il muoversi sgangherato di qualcuno nel letto e poi la figura seminuda del tenente Fler che sbucava sull’attenti da sotto le lenzuola. “Comandi!”
Bushido si trattenne dal passarsi una mano rassegnata sul viso per mantenere un minimo di contegno. Lui spediva a suo padre la certezza che avrebbero agito, e intanto i suoi uomini fidati dormivano all'alba delle undici di mattina. “Esci immediatamente da quel letto,” ordinò, avviandosi verso la scrivania per darsi qualcosa da guardare. “E per l'amor di Dio, fallo vestito.”
Il tenente alle sue spalle riuscì a mettersi, imprecando, almeno i pantaloni, quindi si schiarì la voce per richiamare l'attenzione del suo generale. Bushido si voltò, preparandosi a mantenere la faccia seria, e scoprì che non avrebbe poi dovuto sforzarsi tanto per riuscirci.
Il suo sguardo ignorò Fler che cercava di darsi un tono e le due schiave nude che erano alle sue spalle e stavano faticosamente cercando di districarsi l'una dall'altra e dalle lenzuola nelle quali erano annodate; ignorò l'intera scena per posarsi sulla curva della schiena di Bill, ancora pigramente appoggiato ai cuscini viola del letto. I suoi capelli erano sciolti e scarmigliati, sparsi ovunque proprio come li aveva visti appena il giorno prima.
“Signore?” Lo chiamò Fler, che ne aveva approfittato per afferrare anche una maglia, già che c'era.
“Che cosa stavi facendo?” Sibilò il generale.
Fler si accigliò, sollevò un sopracciglio, poi l'altro, aprì e chiuse la bocca inclinando la testa di lato nel tentativo di trovare una risposta accettabile a quella domanda senza dover necessariamente dire che stava dormendo nel tentativo di farsi passare la sbornia e di riprendersi da quella che era stata probabilmente la migliore notte di sesso della sua vita, ma non trovò niente di sensato da dire, così improvvisò. “Dormivo,” esclamò, e quando Bushido lo guardò come a dargli la possibilità di correggersi prima che fosse troppo tardi, aggiunse, “E' stata una serata... affollata.”
Le due ragazze si inchinarono rispettosamente di fronte al Generale e, rivestitesi in fretta, si misero buone in un angolo, in piedi, in attesa di ordini. Bushido non si mosse mentre Bill le seguiva, muovendosi deciso ma lento a gattoni sul letto. Si scostò i capelli dal viso e deglutì, strizzando gli occhi. Quando sollevò lo sguardo e notò il generale, si svegliò di colpo e si affrettò a rassettarsi, tenendo la testa bassa.
“Siamo... Sono un po' confusi,” commentò Fler, vagamente a disagio non tanto per la situazione in cui era stato trovato – non era certo la prima volta – ma perché Bushido non parlava, che fosse per dirgli cos'era venuto a dirgli o per rimproverarlo. Fissava soltanto i tre schiavi che faticavano a stare perfettamente dritti come al solito. “C'è stato del vino, ieri sera, e ci siamo divertiti parecchio,” colpo di tosse, “non so se mi spiego. Le ragazze non erano abituate e lui... beh, lui neanche, a dire il vero. Il che non dovrebbe sorprendermi perché non è esattamente il tipo di fisico che regge l'alcol.”
“Stai zitto,” ordinò Bushido, senza voltarsi.
“Sto zitto,” annuì Fler, schiarendosi poi la voce.
Bushido continuava a fissare il ragazzo con insistenza, tanto che Fler si sentì quasi ignorato.
Lo stesso generale, in effetti, si rese conto di stare esagerando, ma non riusciva a staccare gli occhi da Bill per mille motivi diversi, uno più irrazionale dell'altro, e il fatto che se ne rendesse conto rendeva la cosa ancora più assurda. Inannzitutto, avrebbe dovuto sapere che Bill serviva gli altri soldati così come serviva lui, quindi trovarlo nella camera del suo tenente non avrebbe dovuto irritarlo in quella maniera. Solo che lo aveva avuto per le mani così tante volte, negli ultimi tempi, che gli sembrava evidente che il ragazzo fosse una sua scelta personale. I suoi uomini avrebbero dovuto capire altrettanto. Nessuno si sarebbe mai sognato di montare il suo cavallo, quindi non vedeva perché dovessero... D'accordo, Bill non era un cavallo, ma il paragone calzava perfettamente.
Non poteva dare la colpa di questa situazione a Bill che, essendo un bravo schiavo, non si sarebbe mai permesso di far notare a qualcuno che era al servizio del generale se quel qualcuno decideva di prenderselo. C’era una sorta di regolamento non scritto per il quale erano gli altri a non doversi azzardare, non lui a doversi negare. Il punto era che Bushido non era troppo sicuro di aver reso chiara la situazione.
Fler si schiarì la voce da qualche parte alla sua destra, e lui fu costretto a distogliere lo sguardo dal ragazzo, che comunque teneva la testa china e non lo guardava. “Generale?”
“Ti ho detto di stare zitto,” commentò Bushido in automatico e poi, finalmente, si voltò. “Ho delle questioni urgenti da discutere con te.”
Aveva fatto in modo di calcare sulle due parole fondamentali – questioni urgenti – e Fler capì al volo di cosa si trattava, tanto che annuì immediatamente. “Certo, naturalmente.”
Bushido indicò i tre in un angolo con un gesto del capo, ma senza guardarli. “Che cosa ci fate ancora lì, voi? Andate!” Esclamò severo. Bill e le due ragazze si affrettarono a recuperare gli ultimi vestiti e ad uscire dalla stanza, senza correre, ma a passo svelto.
Il generale aspettò che la porta si chiudesse prima di rilassarsi leggeremente e Fler, di fronte a lui, rilasciò il fiato che stava trattenendo per mantenersi impettito. “Odio le formalità,” borbotto il tenente.
“Non ti farebbe male essere formale, ogni tanto,” sbottò il generale, burbero. “E magari porti dei limiti, già che ci sei.”
Fler sollevò un sopracciglio. “Era il mio giorno libero, signore.”
“Ieri,” specificò Bushido.
Fler tossicchiò.
“La prossima volta che ti chiamo a rapporto e ti trovo in questo stato, ti metto in consegna un mese...”
“Signore...”
“... per ogni persona che ti trovo nel letto,” concluse Bushido, guardandolo storto.
“Ma...”
“... due mesi a persona.”
Fler sospirò. “Sì, signore.”
Bushido si ostinò a guardarlo male ancora per qualche minuto e poi si ricordò che era lì per qualche motivo. Tutto sommato, la lettera di sollecito di suo padre non era poi così ingiustificata. “Ho ricevuto una lettera di mio padre, questa mattina. Vuole che acceleriamo i tempi o verrà qui di persona, ed è una cosa che vorrei evitare.”
“Non ne dubito,” commentò il tenente. Ricordava ancora con orrore il periodo passato sotto gli ordini di Ayech e non ci teneva a ripeterlo ora che era riuscito a passare sotto il comando del figlio. Inspirò nel tentativo di liberarsi la testa dal dopo-sbronza e dal dopo-nottata in generale. “Quali sono gli ordini?”
Bushido si guardò intorno per la stanza e poi individuò un gruppo di grossi fogli arrotolati in un angolo. Ne tirò su un paio finché non trovò quello che gli serviva e lo distese sulla scrivania del tenente. “In questa stanza c'è troppa confusione, tenente,” commentò mentre osservava la piantina che aveva davanti agli occhi con molta attenzione. “Quanti uomini ci sono al castello?” Chiese.
“Quaranta, più i dieci lungo il perimetro,” fu la risposta.
Bushido annuì. “Raddoppia il numero. E voglio uomini qui,” indicò sulla mappa “qui e anche qui. Fai in modo che sia graduale, nessuno deve accorgersi di nulla.”
Fler annuì. “Farò entrare gli uomini in piccoli gruppi e ne farò uscire una parte. La gente noterà il viavai e non si renderà conto di quanti uomini sono rimasti all'interno.”
Bushido annuì, sempre intento a guardare la cartina. “Voglio uomini ai quattro angoli della città e un'intera squadra che controlli l'esercito locale. Non voglio nemmeno dover ingaggiare battaglia con quei disgraziati, teneteli fermi e basta. Chiaro? L'ultima cosa che mi serve è un gruppo di patrioti improvvisati che mi costringe a far fuori tutti.”
Fler prese mentalmente nota.
“Tu, Chakuza e Sido sarete a cena con il re e la corte, insieme a me. Quando sarà passato abbastanza vino, chiuderemo le porte e a quel punto sarà fatta. Una volta preso Jorg, la città cadrà di conseguenza. E nel caso non lo facesse....” Bushido sospirò. “Saremo preparati all'evenienza.”
“Quando agiremo?”
“Stanotte,” rispose Bushido.
Fler boccheggiò, ma si riprese quasi subito. “Stanotte?” Esclamò. “Ci vorrà più di una giornata per mettere in moto le cose.”
“Allora ti converrà muoverti subito,” commentò Bushido, continuando a scrutare la cartina. “Siamo stati qui senza far niente fin troppo a lungo. Facciamola finita.”
Il tenente annuì. “Certo, signore.”
Il rumore improvviso li costrinse entrambi a girarsi, ma nessuno dei due vide la ciotola rotonda che era caduta a terra e ancora girava, troppo impegnati a fissare Bill che l'aveva lasciata cadere e che li guardava sconvolto e spaventato insieme.
“Bill...” azzardò Bushido, senza muoversi come di fronte ad un animale colto di sorpresa e sul punto di scappare ad ogni minimo gesto. “Cosa ci fai qui?”
Bill deglutì. “Sono venuto per...” Scosse la testa, come a cercare le parole, ma le mani gli tremavano mentre raccoglieva il vassoio e un piccolo bracciale che era stato proprio accanto alla ciotola, prima che li buttasse in terra entrambi. “....avevo lasciato....” Agitò il gioiello, come se fosse una spiegazione migliore. “Il braccialetto. Volevo riprenderlo.”
Bushido piegò la testa di lato, come se lo stesse studiando. “Da quanto sei qui?” Chiese.
“Da poco, signore,” deglutì Bill, “solo qualche istante. Il tempo di far cadere la ciotola, signore.”
Ma Bushido seppe che mentiva l'istante esatto che iniziò a parlare. Da quando lo conosceva, Bill non aveva mai avuto quell'espressione sconvolta negli occhi, né aveva mai tremato tanto alla presenza sua o di uno dei suoi uomini. “Bill,” lo chiamò, ma quando fece un passo avanti Bill lesse nei suoi occhi quanto lui aveva letto nei suoi e fece per imboccare la porta e scappare. Bushido gli fu addosso subito, fermandolo prima che potesse lasciare la stanza. Lo placcò da dietro, stringendoselo addosso e tappandogli la bocca con una mano. “Chiudi la porta,” ordinò a Fler, mentre trascinava dentro la stanza il ragazzino che scalciava e si agitava nel tentativo di liberarsi.
Quando Fler ebbe eseguito, Bushido lasciò la presa e il ragazzino si precipitò subito contro la porta, nella speranza di riuscire ad aprirla, ma il tenente era proprio lì davanti e allora si rintanò nell'angolo, lontano dai due uomini, appoggiando la schiena al muro e guardando alternativamente prima l'uno e poi l'altro. “Lasciatemi andare,” e Bushido non si stupì di sentirlo chiedere, invece che pregare.
Il generale cercò di avvicinarsi, ma Bill si schiacciò ancora di più contro il muro e afferrò la prima cosa che si trovò sotto mano, ossia uno di quei bastoni su cui venivano avvolte le pergamene. Forse non molto lungo, ma abbastanza pericoloso se lo prendevi nel viso, e Bill lo stava brandendo come un randello. Così Bushido restò lì dov'era e sollevò entrambe le braccia. “Bill, calmati,” esclamò “Nessuno ti farà del male.”
“Tu sei un traditore,” lo accusò, l'accento che riaffiorava prepotentemente per la rabbia, dopo mesi in cui era quasi sparito del tutto.
Bushido sospirò; non è che avesse grandi giustificazioni da dare, e non aveva mai creduto a quelle che il padre rifilava di solito in occasioni del genere: vi porteremo la cività, l'organizzazione, il vostro regno fiorirà come non lo avete mai visto prima. Cazzate. Se tutto andava bene, il regno di re Jorg sarebbe diventato un avamposto militare per il rifornimento delle truppe. La città era sulla costa, quindi comoda per preparare le truppe prima di imbarcarle e spedirle a conquistare i territori aldilà del mare e questo era stato l'obbiettivo di suo padre fin dall'inizio. Ne avrebbe fatto una sorta di accampamento stabile, di quello che c'era non sarebbe rimasto più niente.
“Mio padre si fida di te!” Esclamò Bill, continuando a fissarlo con tanto di quell'odio negli occhi, che Bushido avrebbe potuto esserne respinto quasi fisicamente. “Ti ha trattato bene! Eri suo ospite!”
“Bill, ti prometto che né a tuo padre né a voi verrà fatto alcun male,” gli assicurò Bushido, sperando che questo potesse essere sufficiente almeno a calmarlo, se non a farsi perdonare.
Si fece avanti di nuovo, per tentare di disarmarlo, ma Bill si spinse avanti, brandendo il bastone sopra la testa con gesti secchi e scordinati. “Sei un infame!”
Bushido lo intercettò a metà del movimento, fece leva sul bastone stesso e mandò Bill a ribaltarsi sul letto poco distante. Quindi lasciò andare quell'arma improvvisata e fermò il ragazzino che si era rialzato e cercava di colpirlo. “Ti prego, Bill, calmati ora!” Esclamò, fermandogli i polsi. Fler si fece avanti per dargli una mano, ma Bushido scosse la testa. “Stai indietro. Ci penso io.”
“Lasciami!” Sibilò il ragazzino. “Lasciami, ho detto!”
“Bill,” il generale forzò la presa e lo costrinse a star fermo, se non voleva farsi male. “Guardami!Non ho altra scelta, credimi! Ma farò in modo che nessuno si faccia male. Andrà tutto bene!”
Bill si fermò e il generale quasi sospirò di sollievo, ma il ragazzino lo aveva fatto solo per poterlo guardare con più disgusto e con più ferocia. Esclamò qualcosa nella sua lingua, qualcosa che Bushido non comprese, e poi gli sputò dritto in faccia, senza mai abbassare lo sguardo.
Bushido imprecò e lo lasciò andare in malo modo.
“Chiudilo dentro,” ordinò a Fler, pulendosi il viso con la manica della maglia. “E facciamola finita.”
Quando uscirono nel corridoio, sentì Bill battere inutilmente le mani contro la porta sprangata, strinse i pugni e passò oltre. Non c'era ritorno, adesso.

*


Bill aveva urlato, battuto contro la porta, aveva perfino pensato di calarsi dalla finestra, ma la stanza si trovava a quasi dieci metri da terra e le lenzuola, legate insieme, coprivano soltanto metà strada e dubitava che un volo di cinque metri potesse servire a lui o a suo padre.
Affacciandosi, aveva tentato di attirare l'attenzione di qualcuno che potesse aiutarlo, per scoprire che nel cortile non c'era più uno solo dei soldati di suo padre, ma soltanto quelli di Bushido. E nessuno dei servi. Cominciava a capire come sarebbero andate le cose.
Bushido aveva fatto in modo che suo padre fosse ben distratto dalla cena e dai soliti bagordi che ne seguivano e intanto, mentre tutti erano intenti a cenare, i suoi uomini avevano lentamente sostituito quelli di re Jorg, e adesso il castello era praticamente già preso. Anzi, era praticamente sempre stato loro, visto che l'esercito di suo padre era in mano a Bushido da quasi tre mesi.
Maledizione! Si preparavano da tanto di quel tempo, forse erano arrivati lì solo per quello, e Bill si sentiva un idiota all'idea di tutto ciò che aveva pensato di Bushido e dei suoi uomini senza sospettare assolutamente niente. E suo padre...
“Maledizione!” Sbraitò nella sua lingua, tirando l'ennesimo calcio alla porta. Ci andò a sbattere con entrambe le mani e col corpo. “Aiuto! Mi sentite? Sono chiuso dentro! Il castello è in pericolo! Mi sentite? Fatemi uscire di qui!”
Bill smise di battere contro la porta quando si rese conto che non stava ottenendo più risultati che a calarsi dalla finestra e schiantarsi al suolo. Si lasciò scivolare a terra e sospirò, immaginandosi quello che stava succedendo. In quel momento, probabilmente, suo padre si stava sedendo a tavola con il generale e i suoi tenenti, c'era musica e un sacco di cibo che andava avanti e indietro per gli ospiti. I suoi fratelli e le sue sorelle erano seduti in un angolo sui cuscini e si tenevano pronti per la serata nel caso qualcuno avesse richiesto la loro presenza in camera da letto. Forse qualcuno di loro si era accorto che lui mancava – dovevano per forza averlo fatto, visto che si era guadagnato con fatica il suo posto centrale – ma nessuno di loro poteva muoversi per venirlo a cercare visto che non era permesso alzarsi e lasciare la stanza.
O forse si era già ben oltre. Forse Bushido aveva già messo in atto il suo piano schifoso e adesso la sala era già piena di sangue. Vedeva già suo padre sgozzato e gettato in un angolo mentre Bushido ne prendeva il posto e i suoi soldati violentavano le sue sorelle e i suoi fratelli. Il generale gli aveva promesso che non avrebbe fatto del male a nessuno, ma quanto valevano le promesse di un uomo che aveva già tradito la sua parola una volta?
Si alzò di nuovo in piedi e riprese a battere sul legno con entrambe le mani e con il bastone che aveva usato come arma poco prima. Forse non era tutto perduto, forse era ancora in tempo, se solo fosse riuscito ad uscire di lì!
Con l'ultimo colpo, il bastone gli scivolò via di mano e andò a colpire un vaso alle sue spalle mentre una scheggia gli si conficcava in un dito. “Cazzo!” Imprecò, agitando la mano e saltellando in maniera ridicola su un piede solo per il dolore. Si portò la mano alla bocca, cercando di togliere la scheggia con i denti.
“Bill?”
Il ragazzo smise di saltellare e guardò la porta con aria perplessa, succhiandosi il dito ferito.
“Bill, sei tu?”
“Natalie!” Esclamò, e sorrise al pensiero della sorellina dall'altra parte della porta. “Oh, grazie al cielo, sei qui! Sono chiuso dentro, devi tirarmi fuori!”
Natalie ridacchiò. “E cosa ci fai chiuso là dentro? Non è la stanza del generale, questa?”
Bill contò fino a dieci, socchiuse gli occhi e inspirò per calmarsi. “Te lo spiego dopo, d'accordo?” Disse, cercando di mantenere la voce calma e rassicurante. “Ora fammi uscire di qui.”
Sentì trafficare dall'altra parte, ma non successe niente.
“Natalie?”
“Non ci sono le chiavi e la porta non si apre,” esclamò la ragazzina, tirando la maniglia e facendo tremare la porta senza alcun ulteriore risultato.
Bill appoggiò la testa al legno e sospirò di nuovo. “Questo lo so, Nat. Devi trovarle tu le chiavi.”
“E dove?”
“Il fabbro,” le spiegò. “Ha la copia di ogni singola chiave.”
“Non me le darà mai.”
Bill strinse i pugni e digrignò i denti. “Trova il modo, Nat. Recita, d'accordo? Ti ho insegnato a farlo. Digli che uno dei soldati è rimasto chiuso in una stanza. Puoi farcela!”
Ne seguì una lunga pausa in cui pensò che la sorella se la fosse data a gambe in preda al panico, ma poi la ragazzina rispose. “Okay, d'accordo.”
“Corri e non farti vedere dai soldati stranieri.”
“Cosa?”
“Fa' come ti ho detto e muoviti.”
Quando la sentì correre via, si lasciò andare di nuovo a terra e sperò di riuscire a liberarsi prima che Bushido avesse portato a termine il suo piano.

*


Bushido era nervoso.
L'operazione sembrava semplicissima e, come ogni operazione semplice, rischiava di finire male per via di un'incognita non calcolata. Erano più le battaglie perse per la convinzione che fossero un gioco da ragazzi che non le guerre combattute senza un vero e proprio ordine. La fortuna tendeva ad aiutare quelli che tentavano imprese folli, non quelli come lui che avevano un regno già in mano e gli sarebbe bastato chiudere le dita per impossessarsene. A quelli come lui la fortuna generalmente mandava un colpo di scena quasi alla fine.
“Vuole dell'altro vino, generale?” Chiese una voce.
Bushido si riscosse dai suoi pensieri e si guardò intorno, per capire da dove provenisse. Davanti a lui, Gordon sollevò un sopracciglio e gli indicò la schiava con la caraffa di vino alla sua destra. “Un altro po' di vino, generale?”
Bushido guardò la ragazza e quella sorrise, accenando a versargli il vino, così sorrise vago e diplomatico e lasciò che quella gli riempisse il bicchiere.
“La vedo un po' distratto questa sera,” continuò Gordon con un sorriso dietro alla sua coscia di pollo. “C'è qualcosa che la turba, generale?”
Bushido rivolse la propria attenzione all'uomo, cercando di mantenere sotto controllo anche ciò che avveniva nella stanza. Sido, Chakuza e Fler erano seduti al tavolo con lui, ma c'erano dieci uomini fuori dalla sala pronti ad entrare al momento opportuno. All'interno non c'erano guardie del re, soltanto i suoi figli, Gordon e una ventina di ospiti disarmati secondo la regola della casa.
Lui sedeva alla destra del sovrano, a non più di venti centimetri dalla sua gola, e sarebbe toccato a lui dare il via alla sequenza di azioni – sperava velocissima – che avrebbe portato alla conclusione della storia e alla felicità di suo padre.
“Niente di particolare, no,” rispose a Gordon. “Sono solo un po' stanco.”
“L'addestramento delle truppe richiede moltissima energia, immagino.”
Bushido annuì, sforzandosi di mangiare qualcosa. “Molta più di quella che sembra, sì.”
Gordon spezzò un pezzo di pane e annuì con convinzione. “Sa, anche io ho rischiato di fare il soldato,” lo informò. “Ma mia madre ha impedito a mio padre di farmi intraprendere la carriera militare, sostenendo che sarei sicuramente morto presto con la mia costituzione e il cielo sa quanto avesse ragione, visto che sono molto cagionevole. Non vi ammalate spesso voi, vero?”
Bushido lo stava ascoltando con un orecchio solo, del tutto disinteressato alle questioni personali dell'infanzia del traduttore. Tra l'altro, sorridergli e fingere interesse con metà della faccia mentre con l'altra teneva d'occhio la stanza lo avrebbe senza dubbio portato ad una paralisi. “Non molto, no,” rispose, vago.
“Lo sospettavo. D'altronde, se così fosse, sarebbe difficile mandare avanti una guerra con metà dell'esercito in infermeria per l'influenza,” continuò Gordon. “Quando, esattamente, vi è permesso rimanere a letto?”
“Quando siamo morti,” fu la risposta secca di Sido, che aveva scostato indietro la sedia per allungare le gambe e stare più comodo. “Nell'esercito non c'è malattia, soltanto gente che muore.”
Gordon lo guardò colpito, sgranando gli occhi. “Certo, immagino che sia una vita difficile,” commentò, deglutendo a disagio.
Sido allungò un braccio per battergli una mano sulla spalla. “Non s'immagina nemmeno quanto. Meglio starsene chiusi fra quattro mura, dia retta a me,” rise. “E' molto più sicuro.”
Bushido gli lanciò un'occhiata storta, ma poi lasciò perdere. Se non altro Gordon si era zittito, il che permetteva a lui di concentrarsi.
Quattro serve vestite di niente, nessuna figlia del re, fecero nuovamente il giro della tavola per riempire i bicchieri degli ospiti, i quali cominciavano a dare i primi segni di cedimento. Ad un capo del tavolo c'era chi parlava ben più forte del necessario, e qualcuno si era già alzato in piedi per importunare le cameriere.
Il re accanto a lui aveva perso interesse nelle loro discussioni e non chiedeva più da almeno mezz'ora che gli venisse tradotta ogni parola. Beveva più di quanto mangiasse e ogni volta che una ragazza gli passava di fianco, gli finiva in grembo prima di poter proseguire, esattamente il genere di atteggiamento che Bushido si aspettava da lui. Tra non molto sarebbe stato così fuori di sé da consegnarsi personalmente se solo lo avessero fatto arrestare da una schiava nuda con una corda in mano.
Sido gli lanciò un'occhiata e ad un suo cenno, lentamente, si alzò da tavola mordendo una mela. Chakuza, Fler e Bushido fecero la stessa cosa, e a quel punto Gordon alzò la testa per capire cosa stesse accadendo. La musica non si fermò, né lo fecero gli altri ospiti, troppo presi dalle loro conversazioni ubriache per potersi rendere conto di quattro uomini che si alzavano in piedi.
“Qualcosa non va?” Chiese Gordon.
Bushido non gli rispose e si voltò verso Chakuza, che fischiò al gruppo di soldati appena fuori dalla porta, i quali fecero immediatamente irruzione, entrando e disponendosi ordinatamente per tutta la stanza mentre due immobilizzavano il re prima che potesse effettivamente rendersi conto di cosa stesse accadendo.
Nel vedere i soldati entrare armati e prendere il re, alcune delle schiave e parte degli ospiti si misero ad urlare. I figli di Jorg si strinsero gli uni agli altri, i ragazzi più grandi che facevano scudo a quell più piccoli, ma nessuno di loro aprì bocca o accennò a dare segni di panico. C'era in loro la stessa dignità del padre, che era in piedi, le mani legate dietro la schiena, e fissava Bushido rabbioso. “Generale, esigo delle spiegazioni,” disse nella sua lingua, ma non ci fu bisogno di Gordon perché Bushido lo capì benissimo e, per farglielo sapere, gli rispose nella sua lingua.
“In nome di mio padre, re Ayech di Tunisi, io, Anis Youssef Mohamed Ferchichi I, prendo il comando di questo regno.”
Jorg lo fissò, sorpreso di sentirlo parlare nella sua lingua, e anche Gordon lì accanto spalancò la bocca, incapace di dire qualunque cosa.
“Non opponete resistenza e non vi succederà niente,” continuò Bushido, rivolgendosi a tutti i presenti, sebbene piano e con qualche incertezza. “Non abbiamo alcuna intenzione di fare del male a qualcuno.”
Intanto i suoi soldati facevano il giro della stanza, legando gli ospiti e gli schiavi in piccoli gruppi.
“Voi non potete fare questo,” esclamò Jorg, aggrottando le sopracciglia cespugliose con l'aria di chi è ancora convinto, nonostante una sala piena di soldati nemici, di avere ancora in mano la situazione e di poterne uscire, se non vivo, per lo meno vincitore. Bushido apprezzava quel tipo di atteggiamento.
“Con che diritto...?” Aggiunse Gordon, incurante del fatto che nessuno gli aveva dato il diritto di parlare.
“Con il diritto che noi siamo in cinquanta e voi in due,” tagliò corto Sido, tirandolo a sé nello stringergli le corde intorno ai polsi.
Jorg capì perfettamente quando uno dei soldati gli puntò un pugnale alla gola per ribadire il concetto e si lasciò legare, senza mai staccare gli occhi da Bushido. “Hai tradito la mia fiducia,” esclamò, e nella testa di Bushido rieccheggiarono le stesse parole pronunciate da Bill. “E pagherai per questo.”
Il generale era troppo preso dalla somiglianza nella determinazione e nel modo di parlare tra Bill e suo padre per potersi curare della minaccia. Aveva visto la stessa identica rabbia e lo stesso tradimento nei loro occhi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, che se avesse pensato di rinunciare – come aveva in effetti deciso ad un certo punto degli ultimi mesi – suo padre sarebbe arrivato con le catapulte, a distruggere la città pezzo per pezzo, consapevole che gli sarebbe costato ben poco ricostruirla, e se anche avesse voluto mettersi contro di lui, e non ce n'era davvero motivo per quel piccolo buco, lui e i suoi uomini non sarebbero durati due giorni. Con quella piccola manovra, nessuno si era fatto male e forse avrebbe potuto contrattare con Ayech, magari le cose potevano sistemarsi. Magari...
A quel punto avrebbe dovuto farlo chiudere in cella, giusto per sistemare l'insediamento e decidere cosa fare, ma fu allora che l'incognita di cui vagheggiava all'inizio della serata fece irruzione urlando nella stanza con tutto il fiato che aveva e i capelli neri scompigliati.
Bill si abbattè con forza sulla prima guardia che si ritrovò davanti, brandendo una spada più grande di lui e troppo pesante perché potesse davvero fare dei danni. L'uomo, colto di sorpresa come quasi tutti nella stanza, si fece colpire di striscio ad una gamba, ma fu abbastanza perché si accasciasse al suolo come un sacco vuoto, e Jorg ne approfittò per tirare una testata sul naso dell'uomo che lo tratteneva e colpirne altri due quando si fecero sotto. Per un attimo ci fu il caos. Bushido percepì contemporaneamente le urla di sostegno degli schiavi di Jorg e il grugnito delle guardie che venivano colpite, mentre guardava Bill non riuscendo a capire come potesse trovarsi lì.
Il ragazzino continuava ad avanzare, minacciando chiunque con la spada, e nessuno dei soldati era riuscito ancora ad avvicinarsi abbastanza da togliergliela di mano.
L'intera sala si era animata di gente pronta a combattere in ogni modo possibile per sostenere l'entrata di Bill e il salvataggio del re. Non erano in molti quelli che potessero davvero fare qualcosa, ma il frastuono prodotto dalle urla era già abbastanza per creare confusione.
Nel caos generale, Bushido riuscì a percepire la vibrazione finissima che precedeva il disastro. Fu come un tremito, l'istante prima che accadesse. “Che nessuno si muova!” gridò, riuscendo a gettare il re a terra, ma quando gli puntò il coltello alla gola per tenerlo fermo, Bill si gettò verso di lui.
Fu una corsa di qualche passo, il tempo di sentirlo gridare di no e poi uno dei soldati, spaventato che potesse fare qualcosa, lo colpi con la spada alla schiena e Bill cadde a terra, con un tonfo talmente sordo e pesante che a Bushido si mozzò il respiro.
L'attimo dopo era calato il silenzio. Completo e quasi solido, come può esserlo solo dopo un grande frastuono.
Bushido deglutì, un ginocchio sulla schiena del re che guardava la scena esattamente come tutti gli altri, ma il cui sguardo non tradiva le sue emozioni.
Sido fu il primo ad avvicinarsi al corpo del ragazzo e a tastargli il collo. Il generale cercò i suoi occhi non appena Sido sollevò la testa. “E' vivo,” decretò il tenente. “Ma lo sarà ancora per poco.”
“Chiamate un medico!” Abbaiò il generale, lasciando il sovrano nelle mani di Chakuza “E tu!” Indicò il soldato che aveva sferrato il colpo. “Se questo ragazzino muore, farai la stessa fine, mi hai sentito? Ci penserò io stesso a staccarti la testa dal collo!”
Poi gettò la spada in terra con stizza e lasciò che il clangore del metallo sul pavimento riempisse di nuovo la stanza, la sua testa e anche il cuore.

*


Il medico era arrivato subito e si era portato via Bill con l'aiuto di una barella e di due soldati di Bushido che avevano l'ordine di scortarlo e non perderlo mai di vista. Bushido lo aveva visto preoccuparsi di fronte alla profonda ferita che il ragazzo aveva sulla schiena. Aveva scosso la testa piano, mormorando qualcosa, e il generale aveva scelto di non pensare a cosa fosse. Furioso, aveva minacciato di morte anche il medico se non fosse riuscito a salvare il ragazzo.
Re Jorg era stato portato nelle segrete e rinchiuso in una cella finché Bushido non avesse deciso che cosa farne esattamente, se non voleva ucciderlo. La notizia della cattura del re aveva già fatto il giro del piccolo regno, così adesso là fuori c'erano persone che aspettavano di capire che ne sarebbe stato di loro.
“Signore,” Chakuza annunciò il proprio arrivo nella stanza.
Bushido annuì con la testa, per fargli capire che aveva sentito, ma rimase piegato sulla sua scrivania a tentare di scrivere a suo padre la lettera che si aspettava, qualche riga epica e trionfale che trasudasse una felicità di conquista che non sentiva assolutamente.
“Rapporto,” ordinò.
“Le sommosse in città sono state sedate senza problemi, ci sono venti feriti ma nessun morto,” rispose Chakuza, alle sue spalle. “Abbiamo radunato i civili nel castello secondo le sue disposizioni e gli uomini dell'esercito di Jorg sono pronti a passare sotto il suo comando, signore. La città e il regno sono nostri.”
Bushido sospirò. “Bene,” esclamò atono. “Il ragazzo?”
“Ancora niente,” Chakuza scosse la testa. “Il medico dice che dobbiamo vedere se passerà la notte.”
Il generale strinse il pugno. “D'accordo, puoi andare.”
Bushido rimase immobile finché la porta non si chiuse.
La città era presa, il volere di suo padre compiuto e la conquista iniziata.
E lui non si era mai sentito così vuoto.
Si alzò e in silenzio raggiunse l'infermeria. Bill era su una delle brande ed era pallido come se fosse già morto, la pelle delle sue braccia distese lungo il corpo quasi si confondeva tra le lenzuola.
Gli si sedette a fianco e lo fissò senza nulla da pensare. Qualunque cosa sembrava inappropriata. Non si sentiva in diritto di chiedere scusa e, pur sperando che si svegliasse, lo immaginava mentre gli diceva che niente di tutto questo sarebbe successo se non avesse conquistato il regno. Ed era vero.
“Signore, non c'è bisogno che stia qui,” mormorò il medico, rigido eppure gentile.
Bushido scosse la testa e non disse niente.
Se la conquista di quella città poteva diventare positiva in qualche modo, lo avrebbe fatto solo se Bill apriva gli occhi. Gli prese la mano e giurò che non avrebbe costruito un nuovo impero sulla sua morte.
“Rimango qui,” gli disse “finché non ti svegli.”
E quando lo farai, potrò rimettere le cose a posto.

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