Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido
Genere: Humor, Fantasy
Avvisi: Slash, AU, Lemon, Assurdità varia ed eventuale.
Rating: R
Note: Storia chilometrica scritta per il compleanno di Liz. Trama e sviluppo sono stati scelti (e plottati) da lei medesima. E' una fic on-demand, palesemente. Naturalmente il concetto principale è plagiato dai Gremlins (Steven Spielberg, fammi causa), ma la storia dell'imprinting non è copiato da quella pessima autrice della Meyer. E' un imprinting e basta.
Io lo so che questa storia è assurda, ne sono abbastanza consapevole, però è puccia. Ho voluto bene al Chaku che dice 'Chaku' ma anche a Fler che qui è palesemente piccolissimo.

Riassunto: "Ci sono due regole che devi assolutamente seguire, Patrick,” gli disse. “E quando dico assolutamente, intendo che se per qualsiasi motivo non lo fai, le conseguenze saranno gravissime e irreparabili.


Patrick Losensky era un ragazzino difficile. Questo a detta dei suoi insegnanti, del suo allenatore di calcio e di qualunque altro adulto avesse o avesse mai avuto l'onere di dovergli ficcare in testa qualcosa.
Patrick Losensky era anche un ragazzino intelligente che non si applicava. Questo a scuola, naturalmente. O anche al corso di musica a cui sua madre lo aveva iscritto contro il suo volere, nel tentativo di renderlo una persona migliore. La verità su Patrick Losensky, però, la sapeva solo Patrick Losensky e lui pensava che tutte queste belle persone non avessero capito proprio un cazzo di lui.
Innanzi tutto lui non era un ragazzo difficile, era solo uno a cui non piacevano certe regole. Tutte le regole, per la precisione. Beh, quelle che non aveva deciso lui, per lo meno. Se la gente gli avesse semplicemente lasciato fare quello che voleva, avrebbe scoperto che era un tipo affabile e socievole e che non era affatto complicato trattare con lui.
E non era vero nemmeno che non si applicasse; lui si applicava tantissimo, solo che lo faceva soltanto con le cose che lui riteneva degne dei suoi sforzi. Non era colpa sua se la matematica, l'inglese, la storia e in generale tutte le materie scelte dal ministero per l'istruzione non rientravano nella categoria. Era forse colpa sua se il governo tedesco non simpatizzava con la sua linea di pensiero?
Generalmente Patrick era quel tipo di persona che le cose non te le mandava a dire, il che portava lui e la sua cartella a soggiornare molto spesso nella stanza del preside. Se invece era a casa, allora erano lui e il suo culo a farsi un volo fuori dalla porta sul retro e ad atterrare giusto sul cemento che quello stronzo di suo padre aveva steso quando lui aveva ancora tre anni, senza poi farne più niente; così che ora lui se n'era andato e Patrick e sua madre non avevano nemmeno più un giardino che si potesse chiamare tale.
Patrick non ricordava molto di suo padre. Anche prima di andarsene, non era stato un uomo molto presente e quando era in casa, lui e sua madre non facevano nient'altro che urlare e rinfacciarsi a vicenda la vita di merda che stavano facendo. Poi una sera, Fler lo ricordava a malapena e non era nemmeno troppo sicuro di non essersi inventato tutto, giusto per dare almeno un'uscita epica ad un padre visto che di cose memorabili non ne aveva mai fatte, lui e sua madre avevano litigato per l'ultima volta e suo padre era uscito sbattendo la porta e prendendo l'unica auto che avevano. Non era più tornato, nemmeno una volta. Nemmeno per sapere se erano ancora vivi. Sua madre non si era più risposata e Fler era cresciuto nella convinzione che fosse meglio per tutti così. Se la cavavano bene, loro due insieme, e tanto bastava. Questo, naturalmente, giustificava tutto l'amore spassionato che sua madre provava per lui, ma soprattutto quello che lui provava per sua madre e che non lo faceva allontanare da quelle due strade in rovina anche se magari avrebbe potuto. Lasciarla da sola nel ghetto non era un'opzione, e avrebbe dovuto fare ancora un mucchio di soldi per portarla via con sé. Ma ci stava arrivando. Era un duro lui, un duro che faceva rap. Quando avrebbe sfondato, sarebbe tornato con una macchina lunga un chilometro, avrebbe strappato sua madre dai panni che lavava e stirava per quei due spiccioli che guadagnava e l'avrebbe portata a vivere in una reggia così grande che ci sarebbe voluto il navigatore satellitare per non perdersi tra il bagno e la camera da letto.
Patrick non era come quei ragazzetti pieni di soldi che ascoltavano rap americano e si credevano dei grandi solo perché indossavano pantaloni troppo larghi e avevano orologi così pesanti che dovevano stare seduti per non sbilanciarsi in avanti. Gente come quella non ne sapeva niente del ghetto e non capiva niente di rap. Era la stessa gente che con i soldi di papà finiva a fingere di studiare all'università per poi ereditare la fortuna di famiglia e non fare un cazzo per tutto il resto della loro vita.
Patrick era diverso. Lui faceva sul serio; ma, soprattutto, lui aveva un piano. Aveva capito fin da subito, fin da quando suo padre se n'era andato, che nella vita bisogna essere organizzati, che non puoi pretendere di startene lì seduto nella tua veranda e aspettare che l'occasione giusta ti cada dal cielo. La parola chiave in una situazione del genere era organizzazione. La via più facile era spacciare, naturalmente; ma anche se era la via più facile, non era affatto quella più sicura. Di certo erano pochi quelli che invece di finire strafatti in un vicolo, erano finiti su un palco a ricevere dei premi. Questo Patrick l'aveva capito subito. Così si era organizzato. Aveva fatto la fame come tutti quelli che non volevano spacciare, ma intanto aveva scritto. Si era allenato. Era diventato bravo con le parole e aveva scritto dei pezzi, buona roba, gli mancava solo di farla sentire alla gente giusta. E ora quel momento era arrivato.
Patrick sapeva perfettamente che registrare la propria voce su un cd, infilarlo in una bella custodia e presentarsi tirati a lucido negli uffici di una casa discografica non serviva assolutamente a niente. Il massimo che potevi ottenere era un “Le faremo sapere” che non era neanche lontanamente quello che serviva a lui. Per farsi ascoltare, ci voleva qualcuno che ti spingesse dritto nelle orecchie di chi aveva il potere di farti stampare dischi. E lui lo aveva trovato.
Era stato per caso, un giorno che invece di andare a scuola Patrick aveva deciso di lasciare la sua firma dalle parti del canale. Si era trascinato lungo l'argine, stando ben attento a rimanere nascosto tra i cespugli e poi aveva trovato un bel posto relativamente ancora bianco su cui lasciare il suo nome. Disegnare con la bomboletta lo rilassava e poi gli dava modo di pensare a qualche nuovo testo, il che era sempre meglio che stare a sentire la professoressa mentre gli raccontava la seconda guerra mondiale. Era una guerra vecchia, quella, secondo lui. C'erano un milione di guerre in corso che nessuno si preoccupava di monitorare, tipo quella tra le bande di Berlino, per dirne una. I turchi che ce l'avevano con i greci, i tunisini coi turchi e i tedeschi con tutti quanti. Se avessero studiato queste, di guerre, allora sì che sarebbe rimasto in classe.
Il tipo era spuntato fuori dal nulla, tanto che Fler aveva tirato un mezzo strillo da ragazzina che poi si era affrettato a nascondere con un virile colpo di tosse. Si era anche guardato intorno per vedere da dove diavolo venisse quello, ma lì intorno non c'era niente. Solo un ponte, quattro cartoni e poco altro; ma il tipo non sembrava un barbone, anche se era strano forte.
La prima cosa che aveva fatto, prima di presentarsi o anche solo di salutare, era stata dirgli che secondo lui avrebbe dovuto organizzare lo spazio prima di riempirlo. “Vedi? Quella P è troppo grossa, non ti resta abbastanza muro per scrivere niente,” gli aveva detto, poggiando a terra la tazza di carta di Dunkin' Donuts che teneva in mano e avvicinandosi alla parete.
“Non sai nemmeno cosa voglio scrivere.”
Il tipo aveva sollevato un sopracciglio. “A meno che tu non ti chiami 'Patri”, e spero di no per te, allora non ti resta abbastanza muro per scrivere 'Patrick'.”
Patrick lo aveva guardato storto ma ciò non era bastato perché lo sconosciuto si facesse da parte come la sua occhiataccia voleva intendere. Anzi, aveva insistito. “Non guardi abbastanza lontano. Sei un tipo poco previdente.”
Lui si era sentito offeso nell'intimo, in maniera alquanto stupida per altro, perché era chiaro che il tipo non sapesse niente di lui e comunque non stesse tanto a posto con la testa se se ne andava in giro con addosso solo una maglia e una sciarpa a novembre. “Lasciami stare, so quello che faccio.”
“No che non lo sai,” aveva detto lui, prendendogli la bomboletta di mano e scrivendo in modo tale da ridurre la prima lettera del suo nome e dare spazio a tutte le altre.
“E tu chi saresti?” Lo aveva interrogato Patrick, le mani sui fianchi.
Quello aveva sorriso in un modo che da una parte gli aveva dato sui nervi e dall'altra gli aveva fatto venire in mente uno di quegli eroi in televisione che sono capaci di fare l'impossibile anche in situazioni disperate. Patrick si era convinto così, con quel sorriso. “Sono uno che organizza gli spazi.”

Il tipo si chiamava Anis Mohamed Youssef Ferchichi, ma non contento di avere già quattro nomi, ne aveva aggiunto un altro di sua scelta e si faceva chiamare Bushido. Viveva non lontano dal ponte in cui Patrick lo aveva incontrato la prima volta e la sua casa era così assurda che in un primo momento non aveva creduto che una cosa qualsiasi potesse vivere là dentro, meno che mai un essere umano. Era piccola, tanto per cominciare, e aveva soltanto due finestre che davano una su un muro e l'altra su una stradina così desolata che era più allettante guardare il muro. Bushido aveva liquidato le sue constatazioni sulla tristezza delle finestre dicendo che tanto fuori da casa sua non c'era niente da guardare e Patrick non aveva potuto dargli torto, sotto una certa prospettiva. La casa dell'uomo era come un magazzino, con scatoloni ammassati in ogni angolo visibile e cianfrusaglie che pendevano ovunque. Era come uno di quei dipinti curatissimi, che a guardarli potevi perdere le ore nel tentativo di catalogare ogni singolo dettaglio. Ogni volta che Patrick ci entrava era quasi certo di scoprire cose che erano lì da mesi – la polvere lo testimoniava, senza dubbio – ma che non aveva notato durante la visita precedente.
Dopo quella volta davanti al muro, Bushido era comparso altre volte, sempre dal nulla, come se un attimo prima non esistesse nemmeno e quello dopo l'aria stessa lo avesse sputato fuori proprio accanto a Patrick che non se lo aspettava mai e finiva per urlare. Bushido era alto e magro come un chiodo; a giudicare dai tratti somatici e dal colore, Patrick avrebbe detto che era arabo ma non gliel'aveva mai chiesto, come non gli aveva mai chiesto da dove saltasse fuori o perché si vestisse come se intorno a lui fosse a malapena autunno. E pure un autunno mite. Inizialmente aveva anche pensato che si trattasse di uno di quei pazzi maniaci che inseguono i ragazzini per sbudellarli, ma questa sua tesi iniziale era stata poi scartata per una serie di motivazioni più o meno valide. La prima era che, dopo sei mesi, Patrick non era ancora stato sbudellato e, a meno che Bushido non fosse un cannibale e lo stesse ingrassando in previsione di una qualche festa tribale sconosciuta e sanguinolenta, poteva ragionevolmente pensare che non lo avrebbe fatto mai più. Inoltre, Bushido sembrava più il tipo da spararti in fronte, se proprio doveva, ma si muoveva con una tale flemma e una tale aurea di generale menefreghismo, che Patrick proprio non ci riusciva a sentirsi minacciato. E poi era curioso. Voleva sapere da dove Bushido venisse, che cosa facesse nella vita a parte comparire a caso in quella degli altri e perché lo facesse proprio nella sua.
Alle sue domande Bushido non rispondeva mai se non sorridendo in maniera misteriosa e, per quanto Patrick avrebbe voluto spaccargli la faccia sbattendogliela ripetutamente contro un muro per questo, alla fine non lo faceva mai perché Bushido compariva sempre quando aveva più bisogno di lui e lo tirava fuori da guai, per cui Patrick non se la sentiva proprio di rinfacciargli tutto quel mistero quando magari l'uomo aveva impedito che dei teppisti lo ammazzassero di botte. Non gli sembrava educato, e lui conosceva le buone maniere.
Bushido era strano anche quando lo salvava da morte certa. Non è che si lanciasse sui delinquenti dal tetto dei palazzi o sbucasse fuori in tuta aderente dalle cabine telefoniche. Era più una cosa alla Mr. Crocodile Dundee; all'inizio se ne stava a guardare e poi, come se ad un certo punto ne avesse abbastanza di sentire stronzate, si avvicinava con sguardo sicuro e i teppisti, come il bufalo del film, si facevano prendere dal panico e se la davano a gambe. L'attimo in cui quelli sparivano dalla sua visuale, ecco che Bushido si voltava e gli sorrideva, chiedendogli se gli andava un caffè.
In effetti, a raccontarla, la situazione era un po' inquietante e forse, se il suo istinto di sopravvivenza non fosse andato temporaneamente in vacanza, avrebbe dovuto anche preoccuparsi della presenza di quest'uomo ambiguo e misterioso; il fatto era che, appunto, non si sentiva minacciato – anche quando magari pensava che ci fosse una possibilità di esserlo – e, inoltre, Bushido aveva sentito come cantava e aveva detto di potergli fare incontrare uno che lavorava alla Universal. Bushido lo aveva spacciato per un suo amico, senza specificare altro, il che era strano, ma poco importava. Era una possibilità, una possibilità concreta, e quindi Patrick voleva crederci.
Era per quello che si stava dirigendo a casa dell'uomo, per consegnargli la demo e organizzare i dettagli dell'incontro che avrebbe cambiato la sua vita. Quando ci arrivò, la casa di Bushido era stranamente silenziosa. Di solito si sentivano scricchiolii e strani fischi già ad una ventina di metri di distanza, per non parlare del fumo bianco che usciva dal camino continuamente. Ora, invece, non si sentiva assolutamente niente, nemmeno un fruscio. E le due finestre sfortunate erano sbarrate come se la casa fosse disabitata.
Per un attimo, Patrick pensò anche che l'uomo potesse aver fatto i bagagli e fosse svanito nel nulla, un'idea non così improbabile visto che quello dal nulla ci compariva anche; ma poi vide il filo di luce che filtrava da una crepa del muro e capì che, per quanto silenzioso, qualcuno doveva essere in casa. Bussò alla porta, sempre memore dell'educazione di sua madre, ma non ci fu risposta. Così pensò che se apriva ma si fermava sulla soglia, non sarebbe stato troppo maleducato. “Bushido, sei in casa?” Chiamò. “Sono io, Patrick.”
L'uomo non rispose nemmeno stavolta, ma almeno la casa riprese in qualche modo vita e da qualche parte, in stanze di cui Patrick non sospettava nemmeno l'esistenza, fischiò un bollitore.
“Bushido?”
“Sono qui,” esclamò l'uomo, scivolando fuori da dietro una pila di scatoloni. “Ero di là.”
Qui e là erano due concetti vaghi, ai quali nemmeno lui sembrava dare un peso visto che palesemente in quella casa non c'erano altre stanze e, fino a due minuti prima, lui non era stato nell'unica che c'era.
“Di là dove?” Gli chiese Patrick, ma l'altro era già passato oltre.
“Vuoi un tè?” Offrì, dimostrando di sapere perfettamente dove stesse fischiando la teiera.
Patrick annuì e lo osservò riempire due tazze di peltro nero. “Senti...”
“Per quella tua demo, non c'è nessun problema,” lo anticipò Bushido e poi sorrise compiaciuto quando fu chiaro che era esattamente quello che il ragazzino voleva chiedergli.
“Mi leggi nel pensiero, adesso?”
“Non adesso,” fu l'enigmatica risposta. “Il tè è buono. Bevilo.”
Patrick bevve e dovette ammettere che era buono, più buono di qualsiasi altro tè avesse mai bevuto in precedenza. Dopo il primo sorso, la stanza perse un po' di sostanza, nel senso che parte delle cose che c'erano dentro sembrò farsi meno solida, così vide attraverso gli scatoloni come se fossero trasparenti. C'erano delle porte, forse. Ma durò un attimo, come quando per la stanchezza, la sera, gli si appannavano gli occhi e tornavano normali solo quando li stropicciava. Sbatté le palpebre e guardò Bushido con aria interrogativa ma questa volta lui non dette segno di aver capito cosa gli passasse per la testa.
“Non hai visto?” Chiese.
“Visto cosa?” Fece lui, sedendosi comodo fra i cuscini sul pavimento che utilizzava come sedie e appoggiando la sua tazza di tè sul tavolino basso.
Patrick scosse la testa e guardò di nuovo la stanza, che però aveva riacquistato la sua solidità e ora sembrava che le cianfrusaglie sparse ovunque ostruissero di nuovo la visuale. Doveva essere più stanco di quel che pensava.
“La demo?” Chiese l'uomo.
Patrick scosse la testa per levarsi di dosso quella sensazione di rintontimento e si frugò nelle tasche alla ricerca del cd masterizzato con tanta cura, per poi passarlo a Bushido.
L'uomo osservò il cd con attenzione, quasi potesse sentirlo semplicemente guardandolo, quindi lo annusò e in fine lo fece sparire all'interno della felpa leggerissima che come al solito indossava. “Bene,” esclamò, diventando improvvisamente serio come Patrick non l'aveva mai visto. “Ora ho bisogno che tu mi faccia un favore.”
Patrick sentì un brivido lungo la schiena, una sorta di serpe che gli risalì la spina dorsale fino a piantargli i denti alla base del collo. “Sarebbe?” Sibilò, poco convinto.
“Si tratta del mio lavoro.”
In tutti quei mesi che lo aveva frequentato e che era stato a casa sua più o meno ogni giorno, Patrick non era ancora riuscito a scoprire che lavoro facesse. A giudicare dagli scatoloni, poteva essere un mercante o un corriere di qualche tipo, ma non gli aveva mai visto né spedire né ricevere niente. C'erano dei quadri in un angolo e anche un cavalletto, ma non c'erano colori, né pennelli quindi era improbabile che dipingesse. Né che scolpisse, nonostante le statue che erano sparse tra gli scatoloni. La cosa che incuriosiva Patrick più delle altre, in realtà, era una tenda verde pistacchio, una di quelle tende fatte di perline che si trovano sempre a nascondere il retrobottega di un salumiere o di un panettiere, per dire, e si era sempre chiesto cosa ci fosse dietro dal momento che quando Bushido varcava quella soglia, in entrata o in uscita che fosse, succedeva sempre qualcosa di strano. O lui era strano. Più strano del solito, almeno. E di certo non faceva il panettiere.
“Ecco, parliamone,” esclamò, forse un po' più scortese di quanto volesse ma d'altronde era giustificato ad essere sospettoso se questo favore da fare saltava fuori soltanto ora che Bushido aveva in mano il suo cd e si era accollato il compito di farlo avere a chi di dovere. “Che lavoro fai, esattamente?”
Bushido gli sorrise, senza smettere di masticare uno stecchino che era comparso chissà quando nel corso degli ultimi minuti. Iniziava a trovare destabilizzante che le cose cambiassero, o si aggiungessero o scomparissero davanti ai suoi occhi senza che lui in effetti se ne accorgesse. “E' difficile da spiegare, faccio un mucchio di cose.”
“Dimmene una.”
“Diciamo che mi occupo di oggetti particolari.”
Patrick segnò un punto virtuale nella sua tabella mentale delle ipotesi. “Quindi sei un mercante!”
“Non esattamente. Diciamo un estimatore.”
Patrick faticava a trovare un significato a quella parola, quindi preferì non insistere. Anche per non fare la figura dell'analfabeta. Tossicchiò per darsi un tono e appoggiò la gamba destra sulla sinistra, in quella che a suo dire doveva essere una posa seria e appropriata a parlare d'affari. “E che cosa dovrei fare?”
“Niente di troppo complicato, non preoccuparti.” Bushido si alzò, quindi scomparve dietro la misteriosa tendina di perline che a quel punto divenne ancora più misteriosa. Patrick si aspettò di vederlo rispuntare subito dopo – d'altronde, qualunque stanza fosse quella che si nascondeva là dietro, non poteva essere né troppo distante né troppo grande – e invece si ritrovò da solo per venti minuti buoni, durante i quali non riuscì a trovare il coraggio nemmeno di alzarsi e curiosare in giro. Anzi, c'era una sensazione strana oltre alla paura di essere colto in flagrante a mettere il naso dove non doveva; era la consapevolezza che se anche si fosse alzato a frugare, non avrebbe trovato nient'altro che polvere, pertanto avrebbe fatto meglio a rimanere seduto. Alla fine, Bushido si ripresentò con in mano una scatola non troppo grossa e assolutamente anonima, ben chiusa su tutti i lati con doppio nastro da pacchi. “Il contenuto di questa scatola è molto prezioso,” esordì, appoggiando il carico sul tavolo e guardandolo dritto negli occhi. “Io ho un impegno molto importante e ho bisogno che qualcuno lo tenga d'occhio per me, questa notte.”
Patrick annuì, ascoltando con attenzione. “Certo, nessun problema.”
“Dev'essere trattato con molta cura,” continuò Bushido, ammonendolo con un dito per la troppa velocità con la quale aveva risposto. “Vale più di quanto tu possa immaginare.”
Patrick contemplò per un po' la scatola, che appariva normalissima e anche un po' rovinata. La prima cosa che pensò fu che se davvero il carico era così prezioso, allora forse non era una grande idea infilarlo in una scatola di cartone, ma non lo disse. “Non preoccuparti,” annuì. “Di me puoi fidarti.” Avrebbe voluto prendere la scatola ed andarsene, perché per qualche motivo l'aria si stava facendo pesante e anche un pelo sacrale, come quando sua madre lo aveva preso da parte e, con sguardo serio gli aveva spiegato delle api e dei fiori, senza per altro rendere affatto comprensibile la questione della riproduzione, ma sembrava che Bushido non avesse ancora finito.
“Ci sono due regole che devi assolutamente seguire, Patrick,” gli disse. “E quando dico assolutamente, intendo che se per qualsiasi motivo non lo fai, le conseguenze saranno gravissime e irreparabili.”
Patrick deglutì e desiderò ardentemente poter prendere appunti. Non si fidava della sua memoria e aveva l'inquietante sensazione che non sarebbe durata al di fuori della porta di quella casa. Ad ogni modo non poteva tirarsi indietro adesso, aveva dato la sua parola. Quindi, non aveva alternative.
“Regola numero uno: non guardare dentro la scatola. Né per un minuto, né per un secondo. Qualsiasi sia il motivo tieni chiuso il coperchio e non sbirciare.”
Patrick annuì. Poteva farcela, anche se bisognava dire che come regola era un po' ingenua. Lo sapevano tutti che la prima cosa da non fare quando si voleva tener nascosto il contenuto di qualcosa era vietare espressamente di sbirciare. Ora come poteva resistere alla tentazione di darci un'occhiata?
“Regola numero due: qualunque cosa tu veda, senta o anche solo annusi, non fare niente.”
Patrick sollevò un sopracciglio. “Annuso?”
“Non fare niente,” ripeté Bushido, impassibile. “Sono due regole, Patrick. Non devi dimenticarle. Ripetile.”
“Non guardare e non fare niente.” Era piuttosto facile, alla fine. E per altro erano le stesse regole che lui aveva stabilito nei confronti del sacchetto dell'umido. Occhieggiò comunque la scatola con fare molto perplesso. C'erano due ipotesi che si stavano facendo strada nella sua testa: o Bushido era pazzo e magari la scatola era anche vuota e lui avrebbe dovuto fare la guardia al suo amico immaginario, oppure la scatola conteneva qualcosa di molto illegale e si stava infilando in uno di quei casini in cui aveva promesso a sua madre di non infilarsi mai.
“D'accordo, credo che mi fiderò di te e in cambio porterò la tua demo alla Universal.”
Patrick sorrise. “Puoi stare tranquillo.”
Bushido gli consegnò la scatola di cartone. “Verrò a prenderla io stesso a casa tua domani mattina. Ricorda: non guardare e non fare niente.”
Patrick annuì ancora una volta, mentre lasciava la casa. La scatola era leggerissima, il che avvallava l'ipotesi dell'amico immaginario e della pazzia di Bushido. Non sarebbe stato poi tanto difficile occuparsene, dopotutto.

Una volta tornato a casa, la scatola era stata presto dimenticata.
Non che se ne fosse completamente disinteressato, ovvio, ma non dovendo né aprirla né fare niente, aveva pensato che fosse meglio metterla subito in un angolo giusto per non avere la tentazione di saperne di più. L'aveva incastrata tra il comodino e il muro, piazzandoci sopra un po' dei vestiti che si accumulavano ovunque in camera sua, così, se anche sua madre fosse entrata senza bussare, non l'avrebbe nemmeno notata con tutto il casino che c'era. Poi si era messo a fare i compiti, quindi a guardare la televisione e ora stava violando consapevolmente il coprifuoco di sua madre giocando alla playstation con le luci spente e l'audio basso, dopo aver spergiurato di andare a dormire non più tardi delle dieci. Erano le due di notte.
Era nel mezzo del livello più difficile che gli fosse mai capitato di affrontare nella storia di tutti i videogiochi che aveva provato quando sentì il primo tonfo. Fu ovattato e nemmeno troppo preoccupate. Mise in pausa giusto il tempo di tendere l'orecchio, non sentire nient'altro e poi concludere che il gatto, nell'altra stanza, dovesse aver fatto cadere qualcosa.
Il secondo tonfo però fu più violento e fu seguito subito da un terzo tonfo, accompagnato da un borbottio contrariato. Patrick mise di nuovo in pausa il gioco e, deglutì, vagamente preoccupato. Il gatto non borbottava. E comunque il rumore era molto vicino, non certo nell'altra stanza.
Al quarto tonfo fu chiaro che il rumore provenisse dalla sua camera da letto e più precisamente dalla scatola, visto che i vestiti erano rovinati in terra.
Rimase in attesa di ulteriori sviluppi, in fondo era notte fonda, magari era stanco e forse pure addormentato. Era probabile che stesse sognando di essere ancora sveglio e che mentre giocava alla playstation, la scatola misteriosa si fosse messa a borbottare. O a muoversi.
Deglutì di nuovo quando ci fu l'ennesimo tonfo e la scatola prese a ribaltarsi una volta e un'altra ancora, emettendo grugniti e sbuffi infastiditi.
“Ma che diavolo...?”
Quando pronunciò le parole, la scatola smise immediatamente di muoversi, come se l'avesse sentito. Quindi, dopo un attimo di indecisione, qualunque cosa ci fosse dentro – e a questo punto l'ipotesi dell'amico immaginario andava a farsi benedire, ma anche quello della droga che per certi versi poteva essere rassicurante – tirò un colpo da dentro e sul lato alto della scatola comparve una gobbetta, piccola e rotonda.
Patrick si ricordò le due regole: non guardare dentro e non fare niente.
“Facile non fare niente quando la scatola va in giro per la stanza!” Si lamentò a voce alta, mentre la scatola si avviava tonfo dopo tonfo verso la porta, borbottando spazientita.
“Ehi! No! Non puoi andare da quella parte!” Patrick le si piazzò davanti, impedendole di rotolare oltre la soglia. Chiuse la porta con cura e poi sospirò. “Senti, io non posso tirarti fuori di lì, qualunque cosa tu sia.”
Gobbetta.
“E non posso nemmeno vedere che cosa sei. E' la regola numero uno.”
Gobbetta. Gobbetta.
“Non fare così, non è colpa mia.”
La scatola si offese e rotolò dalla parte opposta, cercando un'altra via d'uscita, facendo per altro un rumore d'inferno mentre andava a sbattere contro qualsiasi cosa. Patrick si mise le mani sulla testa, disperato. Sua madre si sarebbe svegliata, avrebbe visto la scatola, avrebbe chiesto da dove proveniva, le avrebbe dovuto raccontare di Bushido, della sua casa assurda, della demo, della Universal e di chissà quante altre cose. Sarebbe finita in tragedia. Doveva fermare la scatola. E al diavolo la regola numero uno, tra sua madre e un probabile trafficante di chissà cosa, sua madre era più pericolosa.
“Okay! Okay! Va bene! Ti apro!”
La scatola si fermò all'istante e, se non fosse stata una cosa assolutamente folle, Patrick avrebbe giurato che avesse incrociato le braccia e lo stesse guardando contrariata. Quindi prese coraggio e si avvicinò, cercando il verso giusto. Nel rotolare era finita sotto sopra, così la ribaltò, scatenando una serie di borbottii infastiditi. “Scusa, ma la tua scatola ha un verso,” si giustificò. Fece un grosso sospiro, pregò che le conseguenze gravissime e irreparabili non fossero anche mortali e strappò il nastro adesivo che teneva chiusa la scatola. Per un secondo non successe niente, poi qualcosa spinse via le alette di cartone e una manina strinse forte i bordi, issandosi fuori. Patrick si era aspettato di tutto: gatti, cani, iguane, pappagalli rari, paguri e cuccioli di dinosauro. Ma non questo.
Questo, per altro, non era nemmeno possibile.


Accanto alla scatola, tutto nudo e chiaramente molto contrariato, c'era un essere umano in miniatura. Non un bambino e non una persona molto bassa, ma un vero e proprio essere umano in scala ridotta.
Se ne stava lì in piedi, le mani cicciottelle sui fianchi e lo guardava malissimo.
Patrick sussultò e fece anche tre o quattro passi indietro, tanto per stare tranquillo. “E tu che cosa saresti, esattamente?” Squittì, troppo preoccupato per vergognarsene.
La creatura non gli rispose e, a dirla tutta, smise proprio di considerarlo, come se lo sguardo rabbioso fosse stato sufficiente. Una volta preso atto della situazione, si avviò ad ispezionare la stanza, nudo com'era e senza nessun apparente problema al riguardo. Patrick lo osservò partire in quarta, un passetto svelto dopo l'altro, verso la sua scrivania, con i gomiti in fuori e il sedere rotondo in bella vista. Rimase in silenzio mentre l'atletico esserino spiccava un salto e si aggrappava alla seduta della sedia, per poi issarsi su con la forza delle braccia. Una volta arrivato in cima si guardò di nuovo intorno, ma la visuale non sembrò soddisfarlo, per tanto si voltò ad occhieggiare la scrivania.
Un secondo e poi si piegò un pochino, ondeggiò i fianchi e quindi saltò in alto, aggrappandosi all'ultimo al bordo del tavolo. Per qualche istante rimase lì appeso, con le gambette che scalciavano e la lingua di fuori, ma alla fine riuscì a sollevarsi e ad atterrare illeso tra gli appunti di scuola di Patrick. Come se fosse il padrone, si mise ad ispezionare la scrivania, usando le gomme da cancellare come scalini e i righelli come piattaforme aeree tra un libro e l'altro. Annusava tutto con aria critica e poi passava oltre, gettandosi alle spalle ogni cosa che sollevava. Qualsiasi cosa sembrava interessarlo meno di niente.
“Che cosa stai cercando?” Chiese Patrick, vedendolo chiaramente molto impegnato.
La creatura gli sollevò addosso un'occhiata un po' presuntuosa e un po' frustrata e Patrick si sentì inadeguato, come se avesse dovuto sapere la risposta a quella domanda per scienza infusa. Quell'esserino aveva un sacco di pretese per essere alto venti centimetri. Alla fine rimase lì ad osservarlo, mentre lanciava in aria oggetti e si arrabbiava. Anzi, più tempo passava, più oggetti scartava e più le guance gli diventavano rosse mentre borbottava e grugniva. Non sembrava parlare, quanto più masticare un certo tipo di suoni. L'unica cosa che Patrick riusciva a capire con chiarezza era che fosse molto infastidito.
Quando lo gnomo ebbe devastato la sua scrivania, il cestino dei rifiuti e tutti i cassetti del suo comodino, si piantò a gambe large in mezzo alla stanza apparentemente indeciso sul da farsi. Per un attimo Patrick aveva anche creduto che il suo obbiettivo fossero i giornaletti porno perché si era fermato a guardarli con un discreto interesse, ma poi aveva ripreso a frugare tra le sue cose con ancora più furore di prima.
“Seriamente, se mi fai capire quello che ti serve,” tentò ancora “magari posso darti una mano.”
La creatura borbottò nella sua direzione, staccando quelle che dovevano essere parole ma ovviamente lui non capì niente.
“Non ti capisco.”
Lo gnomo ci riprovò, ma la confusa accozzaglia di suoni che gli usciva di bocca non somigliava a niente che Patrick avesse mai sentito. “Vestiti?” Tentò, visto che il tipo era nudo.
Lo gnomo agitò le braccia davanti a sé in segno di stizza, quindi riprese a fare per conto suo, dirigendosi verso la porta.
“Perché mai volere dei vestiti quando si è nudi,” replicò Patrick, altrettanto stizzito. “Cercavo solo di essere gentile. Scusa se non capisco quando parli ruttando.”
L'ometto si limitò ad indicargli la porta chiusa con il braccio e l'indice cicciottello ben teso.
“Non posso farti uscire dalla stanza. A dirla tutta non potevi nemmeno uscire dalla scat–Ehi!” Si precipitò verso lo gnomo che aveva tirato un calcio alla sua playstation, per ripicca. “Non ti azzardare!”
Lo gnomo indicò di nuovo la porta.
“Non posso!”
E tirò un altro calcio alla playstation.
“La vuoi piantare?”
Calcio, calcio, calcio. Era talmente tondo che se non fosse stato impegnato a disperarsi per la console in pericolo, Patrick lo avrebbe immaginato emettere assurdi suoni bitonali. Come i personaggi dei videogiochi quando colpivano gli oggetti lungo la strada per guadagnare punti. “Va bene! Okay! D'accordo!” Cedette alla fine, spalancando la porta. “E aperta, contento?”
Lo gnomo tirò un ultimo calcio, col piede di traverso, quindi si avviò tutto tronfio e a passetti veloci fuori dalla stanza e nel corridoio, seguito a ruota da Patrick.
La casa era buia, ma la creatura non sembrava avere alcun problema e correva spedita, a differenza di lui che stava avendo qualche difficoltà a percorrere i due metri del corridoio di casa sua. Di accendere la luce, naturalmente, non se ne parlava neanche. Come poteva spiegare a sua madre che c'era uno gnomo che si aggirava per casa col pirillo di fuori? Tra l'altro, lui stesso avrebbe dovuto porsi delle domande: ad esempio, com'era possibile che esistessero davvero gli gnomi? Perché Bushido ne teneva uno in una scatola? E com'era sopravvissuto per più di sei ore senza ossigeno, visto che lo scatolone non aveva buchi?
Alla fine del corridoio, lo gnomo imboccò la porta della cucina a testa bassa, aumentando la velocità e annusando l'aria come un animale. Quando Patrick lo raggiunse, lo trovò seduto in mezzo alle arance nel cesto della frutta, con in mano una mela quasi più grossa di lui.
“Cibo! Volevi mangiare!”
Lo gnomo annuì con grande soddisfazione, senza preoccuparsi di smettere di mangiare mentre lo faceva. La mela sparì nel giro di due minuti e lui ne attaccò subito un'altra, abbracciandola per tenerla meglio. Patrick si sedette, osservandolo meglio ora che era tranquillo e, a quanto pare, molto felice.
Dopo le mele, tutte le arance, un'intera confezione di cracker e dopo aver costretto Patrick a fargli due uova col prosciutto perché crudi non sembrava mangiare né le une né l'altro, il piccolo gnomo sembrò infine sazio, la casa era di nuovo quieta e sua madre non si era svegliata, nonostante il cigolio continuo delle sue piccole mascelle. Fuori la luna era appena scomparsa, in previsione del sole che doveva sorgere fra qualche ora. Patrick non aveva dormito un secondo ma si sentiva stranamente tranquillo, come se il pericolo più grosso fosse stato non sapere che cosa volesse questo esserino e si sentisse al sicuro ora che lo aveva capito.
Si sbagliava.

Era intento a far sparire le stoviglie nel lavandino il più silenziosamente possibile quando lo gnomo aveva emesso quello strano verso. Patrick si era girato perché somigliava tanto al conato del gatto quando aveva inghiottito una palla di pelo e si metteva sul divano buono a cercare di vomitarla.
Si era voltato di scatto e l'ometto non era più sul tavolo, ma se ne stava disteso in terra, piegato in posizione fetale, con gli occhietti chiusi e i pugni stretti vicino al petto. “Oddio, l'ho ucciso!” Fu la prima cosa che gli venne in mente, vedendolo lì così. Lo scenario apocalittico che ne sarebbe conseguito gli fu immediatamente chiaro: Bushido sarebbe arrivato a recuperare la sua scatola, l'avrebbe trovata aperta, lo avrebbe rimproverato per averla aperta.... e quindi ucciso quando avrebbe scoperto che il suo nano era morto. Forse gli avrebbe sparato o peggio! Per quel che ne sapeva, Bushido era abbastanza assurdo da decidere di farlo fuori con una pala da neve. Quello gli avrebbe spaccato la faccia a badilate perché uno gnomo aveva mangiato troppe mele. O troppe arance. O forse erano state le uova. Forse lo gnomo era allergico alle uova, ma ne era goloso, così lo aveva convinto a cucinargliele senza sapere che questo lo avrebbe ucciso! E adesso? Poteva nascondere il cadavere, ma non per questo evitare le badilate. E se avesse chiesto aiuto a sua madre, avrebbe dovuto spiegargli che quello era uno gnomo e che lo aveva ucciso. Chissà se uccidere gnomi rientrava nei comportamenti disdicevoli contro cui lei lo metteva sempre in guardia? Probabilmente sì.
Era così preso a piangere la sua imminente morte che non si rese conto della luce azzurrognola che adesso avvolgeva lo gnomo. Non se ne accorse finché questa non divenne impossibile da ignorare e immerse l'intera cucina in un bagliore lattiginoso da astronave aliena. Ci mancava solo che un raggio traente entrasse dalla finestra per recuperare il corpicino esanime. Forse non era uno gnomo, dopotutto.
Naturalmente non successe niente del genere, perché non si trattava di alieni. E non si trattava nemmeno di morti, se il borbottio che si sentiva era un qualche segno di vitalità da parte della creatura.
Forse non era tutto perduto! Patrick tese l'orecchio e tentò di aguzzare la vista, in mezzo a tutta quella luce non riusciva a scorgere nemmeno il presunto cadavere. Avanzò a tentoni, toccando il pavimento con le dita, ma lo gnomo sembrava scomparso. Lo chiamò un paio di volte – Gnomo? Ehi, coso? – ma quello non rispondeva. E lui ancora non sapeva se non rispondeva perché era morto o solo perché era stronzo. Quando ormai aveva perso le speranze di risolvere la situazione in un modo che non coinvolgesse sua madre, la pala da neve di Bushido e lo gnomo, vivo o morto che fosse, ecco che la luce si spense, lasciando la cucina ancora più buia di prima.
La prima cosa che Patrick vide dopo che i suoi occhi si furono abituati, fu che lo gnomo non c'era, ma la cosa non gli procurò il panico che avrebbe dovuto, perché si rese immediatamente conto di avere un problema molto più grosso, che di certo non avrebbe potuto risolvere semplicemente infilandolo in una scatola. Sul pavimento della cucina, infatti, c'era ora un uomo adulto e dal momento che si trovava nello stesso punto dove s'era trovato il nano, ed era per altro altrettanto nudo, era presumibile pensare che si trattasse del nano stesso. “Okay, adesso la cosa si sta facendo un tantino inquietante,” mormorò, senza riuscire a togliersi dalla faccia l'espressione di uno che ha appena visto un nano diventare un essere umano di fronte ai suoi occhi. E a ben pensarci era anche giustificato a non riuscirci. Arretrò di qualche passo terrorizzato, andando a sbattere contro qualcosa senza trovare il coraggio di voltarsi e guardare che cosa fosse.
L'uomo, che gli dava le spalle, si voltò nel sentire il suono della sua voce e poi lo guardò dritto negli occhi non appena lo ebbe individuato, incastrato com'era tra il frigorifero e il forno. Patrick si schiarì la voce e cercò di stare ben dritto, giusto per darsi un tono, perché accartocciarsi in maniera pietosa sui fornelli non gli sembrava un buon modo per comunicare sicurezza di sé a chi gli stava di fronte.
“Che cosa diavolo sei, tu?” Chiese. L'uomo annusò l'aria e poi sorrise, una cosa che non aveva mai fatto prima di quel momento. Patrick la trovò una cosa piacevole ma stranamente inquietante che lo portò a deglutire e ad incassarsi ancora di più tra gli elettrodomestici quando quello gli venne incontro. “Okay, non importa se non vuoi rispondere. Rimani lì, però.”
“Chaku,” esclamò l'uomo, con molta convinzione per altro.
“Chaku?”
“Chaku!” Quindi l'uomo fece gli ultimi due passi che lo separavano da lui, appoggiando le mani accanto al suo corpo e incastrandolo lì dov'era. Il suo naso era solo a qualche centimetro da quello di Patrick quando ripeté quella parola, molto più dolcemente. “Chaku.”
Disagio. Patrick era molto a disagio. A disagio come quella volta che Nicole gli si era seduta in grembo durante la lezione di ginnastica e lui avrebbe voluto sotterrarsi quando lei si era accorta che non aveva nessun mazzo di chiavi in tasca. “Chaku anche a te,” esclamò, deglutendo.
“Chaku,” lo annusò quello che prima era un nano e ora era un uomo, anche se non proprio altissimo, visto che poteva ben guardarlo negli occhi. “Chaku. Chaku.”
Dal momento che il naso della creatura si era trovato un posto comodo contro il suo collo e questo, in modo e tempistiche che Patrick non voleva analizzare, riportava alla luce la questione del mazzo di chiavi invisibile, si costrinse a pensare a qualcosa di razionale. A qualcosa di utile. A qualcosa che lo tirasse fuori dalla cucina e trovasse una soluzione sensata all'uomo nudo che ora gli annusava il collo. “Senti gnomo... No, ci serve un nome,” esclamò, faticando a trovare il coraggio di appoggiargli le mani addosso e spingerlo delicatamente indietro. “Non posso chiamarti più gnomo.”
“Chaku,” fece l'uomo.
“Non sai dire altro?” Sbottò Patrick. Lo stava infastidendo.
L'uomo piegò la testa di lato e gonfiò le guance perplesso. “Chaku?”
Patrick sapeva che ad avere uno specchio davanti avrebbe visto se stesso abbassare le spalle e guardare dritto davanti a sé con aria stanca e frustrata. “E Chaku sia, se proprio non hai altri suggerimenti.”
Chaku sorrise.

“Ora, il nostro nuovo problema è che tu non hai dei vestiti.” Patrick pensò che se si occupava delle questioni pratiche, forse sarebbe stato più facile ignorare il formicolio che sentiva alla base della schiena, come se avesse la coda, ogni volta che Chaku gli si avvicinava, il che era spesso e volentieri giacché sembrava avere una particolare fissazione per il suo collo, le sue orecchie e in generale qualunque cosa gli appartenesse e non fosse coperto da un pezzo di stoffa. “Vestiti? Capisci?”
Chaku lo osservò mentre si strattonava la maglia e pensò bene di strattonargliela un po' anche lui, contento quando, nel farlo, scoprì un ombelico bianchissimo e perfettamente rotondo. “No!” Patrick gli scostò una mano. “Giù le mani. Troverò qualcosa anche per te.”
Chaku non capì molto bene, ma lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e lo seguì docile lungo il corridoio e nello sgabuzzino dall'altra parte della casa, dove sua madre teneva tutto ciò che non aveva spazio altrove. “Dev'esserci ancora qualche vecchio vestito di mio padre, da queste parti,” ragionò Patrick, frugando alla cieca fra quel quintale e mezzo di scatoloni che c'erano stipati. “Mia madre non butta mai via niente, e quand'ero piccolo, ricordo che lei si addormentava stringendo una delle sue maglie.”
Chaku ascoltava attento, o abbastanza attento per alzare la testa nei momenti esatti in cui lui faceva una pausa mentre gli raccontava del padre; per tutto il resto del tempo, però, gli stava molto vicino, seguendo ogni suo movimento.
“Ah! Ecco qua.” C'erano una vecchia felpa grigia e un paio di pantaloni. Forse gli sarebbero stati troppo grandi, ma avrebbero dovuto farglieli andare ben lo stesso. Coprirlo era una priorità, e il fatto che lo fosse – cioè il fatto che gli desse fastidio, più che alto – irritava Patrick in maniera indicibile. Non era la prima volta che vedeva un altro maschio nudo, ma nessun batacchio altrui gli aveva mai dato tanto fastidio. “Forza, vieni.”
Tornarono in camera sempre molto silenziosamente. Ancora si stupiva di come sua madre non si fosse svegliata al minimo sospiro un po' più forte degli altri. Era un miracolo, con l'udito di pipistrello che si ritrovava. “Ora tu ti metti questi, e poi decidiamo cosa fare di te.”
Gli occhi di Chaku divennero molto rotondi e sconvolti.
“Cosa c'è che non va? Non ti piace il colore?” Disse ironico.
Chaku era permaloso. Avrebbe dovuto capirlo subito, tipo quando gli aveva preso a calci la playstation, ma fu immediatamente chiaro quando gli strappò maglia e pantaloni di mano per lanciarli con stizza in terra. “Chaku,” puntualizzò.
“Sì, Chaku, mettiti i pantaloni. Non è il momento di mostrarlo in giro.”
Chaku non sembrava molto convinto di quello che gli veniva detto e neanche di come si mettessero dei pantaloni, così Patrick tentò di spiegargli cosa dovesse fare e questo sembrò confondere la creatura ancora di più. Ogni volta che gli passava i pantaloni, Chaku glieli restituiva con un sorriso felice, come a dire “Hai visto, bravo? Sono tuoi, te li ridò” e se provava a metterglieli lui personalmente, Chaku si agitava contrariato e finiva per tentare di levarli a lui. Sembrava pensare che se quello che Patrick voleva era che si trovassero nella stessa situazione, allora quel risultato potevano ottenerlo anche spogliando lui. Il ragionamento, alla fine, non faceva una piega.
“Basta, ci rinuncio,” esclamò alla fine il ragazzino, sedendosi sul pavimento e lasciando i pantaloni al loro triste destino di indumenti inutili. “Stai nudo, allora! Tanto non farà alcuna differenza. Se mia madre non mi uccide, lo farà Bushido.”
In realtà lui avrebbe dovuto chiamare Bushido, sperare di trovarlo al cellulare – cosa che capitava di frequente quanto le eclissi solari – e poi arrabbiarsi pure, perché passi fargli un favore perché Bushido ne faceva uno a lui, passi tenergli uno scatolone sospetto, passi pure di non aprirlo, ma delle spiegazioni sui nani gli erano dovute, per la miseria! Soprattutto se questi nani poi crescevano, si rifiutavano di vestirsi e, come adesso, invadevano gli spazi personali altrui.
“Ascolta,” sospirò Patrick, dopo essersi scostato le sue mani di dosso per l'ennesima volta. “Io non ho idea del perché tu faccia così, forse perché eri molto piccolo e molto frustrato e ora sei grande e... e attrezzato, ma non puoi farlo, d'accordo?”
L'errore, lo capì in seguito, quando qualcuno si degnò di dargli delle informazioni e quando lui stesso ebbe acquisito una certa esperienza, fu alzare la testa e guardarlo negli occhi. E dire che avrebbe dovuto saperlo anche in quel preciso momento perché, se pur pochi, i precedenti c'erano. Gli era bastato che lo guardasse, perché Patrick si sentisse a disagio e ora che gli era così vicino, vicino come in cucina, così vicino da sentire il suo fiato sulle labbra, non era più sicuro di riuscire a dirgli di allontanarsi e questo era molto, molto male. Anche quel poco di cervello che non navigava ancora nella melassa lo capiva.
“Chaku, cosa mi stai facendo?” Chiese, mentre si rilassava senza aver mai pensato di farlo. Era un po' come essere brilli. Sentiva e vedeva ogni cosa, e da qualche parte nella sua testa sapeva ancora che c'erano questioni urgenti da risolvere, solo che non gli importava. L'aria si era fatta calda e c'era un buon odore, quindi non vedeva alcun motivo valido per riprendere piena coscienza di sé. Qualunque problema ci fosse, poteva aspettare.
“Chaku,” rispose l'uomo, che era lentamente scivolato su di lui senza che se ne accorgesse.
E quella sembrò in qualche modo una risposta appropriata.

C'era stato un momento di buio.
Fler ne era quasi convinto. Anzi no, ne era convinto al cento per cento perché non aveva la minima idea del perché adesso fosse nudo anche lui ma, soprattutto, del perché la cosa non gli creasse il minimo problema. Aveva già provato questa sensazione la prima volta che aveva bevuto un po' troppo. Tra la prima birra e l'ultima c'erano state ore di vuoto che non aveva mai saputo ricostruire. Anche la generale sensazione di benessere era la stessa, con l'unica differenza che allora si era trattato soltanto di allegria, adesso era qualcosa di più. Lo stesso qualcosa che si era tutto concentrato alla base del bacino e sembrava scaldarsi man mano che passava il tempo; anche se quello non passava normalmente, ma si allunga lento e appiccicoso come gomma da masticare.
Chaku aveva un buon profumo; dolciastro, sicuramente pungente, ma buono. Patrick era sicuro di averlo già sentito da qualche parte, né aveva il chiaro ricordo ma non riusciva ad afferrarlo e per riuscire a scoprirlo gli affondava di più il naso nel collo, inspirando di più e perdendosi un altro po' in quella specie di bolla ovattata in cui era finito, incurante del mondo che c'era al di fuori dei loro corpi.
Non ricordava neanche quando le dita di Chaku si fossero fatte più audaci. Quando si fosse insinuato fra le sue gambe o la sua bocca fosse diventata una presenza così naturale sulla sua da non ricordarsi un tempo in cui non c'era stata. Una parte di lui immaginava che tutto questo non avesse alcun senso: Chaku non era umano, lui non era gay e, anche se lo fosse stato, forse non avrebbe esattamente scelto un nano pelato per rotolarsi sul pavimento di camera sua. Quindi perché stava accadendo?
Si vide scrollare mentalmente le spalle. Questo doveva essere un qualche tipo di risarcimento da parte del destino per la sua infanzia tormentata, per lo stato di indigenza continuo in cui lui e sua madre avevano vissuto nel corso degli ultimi sedici anni e perché aveva passato una nottataccia. Certo magari lui avrebbe preferito Jessica Alba, ma forse il destino non faceva distinzione fra maschi e femmine, e visto che generalmente era un bastardo e ti scaricava tanta di quella merda addosso da soffocarti, se per una volta ti graziava con qualcuno capace di fare quello che Chaku stava facendo con le mani, non gli si poteva certo sputare in faccia.
Patrick inarcò la schiena e spinse con più forza contro il corpo di Chaku, riconoscendo il bisogno che gli premeva addosso per quello che era. La creatura gli lasciò un bacio tenero appena sotto l'orecchio mentre insinuava le dita tra le sue gambe, lo sguardo sempre dolce ma molto, molto concentrato. Oltre il velo di piacere che gli appannava la vista, Patrick vide che lo guardava con un'intensità tale da rendere improvvisamente quella situazione più importante di quanto non l'avesse percepita fino a quel momento. Voleva dire qualcosa, anche solo per dimostrare di non essere così dannatamente abbandonato, ma lo era e ci volle un attimo perché perdesse completamente la voglia – se mai l'avesse avuta – di fare qualsiasi cosa che non fosse starsene lì, chiudere gli occhi e lasciarsi toccare.
Una voce debole dentro di lui gli fece presente che avrebbe provato dolore, forse; ma era difficile darle retta quando l'unica cosa che percepiva erano le carezze e i baci e i piccoli morsi appena più in basso della pancia. Non si preoccupò minimamente di cosa potesse succedere perché tutto quello che importava stava accadendo lì in quel preciso momento e non sembrava possibile che ci sarebbero stati altri momenti in assoluto, né migliori né peggiori di quello. Così, quando Chaku si abbassò su di lui con delicatezza, in modo che schiudesse leggermente di più le gambe ed entrò, la scarica elettrica del dolore fu immediatamente sommersa e inghiottita da quella più forte e corposa del piacere che aveva provato fino a quel momento. Non sentì che un fastidio lontanissimo, come il riflesso di qualcosa che stava avvenendo ad una distanza troppo lontana per potersene preoccupare, il dimenticabile incresparsi di un'onda quando è già arrivata a riva. Da quel momento in poi, ogni sensazione si accavallò all'altra e vi si intrecciò in maniera così stretta che Patrick non avrebbe saputo dire in che ordine le avesse percepite. Se Chaku era stato una presenza costante fino a quel momento, adesso sembrava essere, toccarlo, baciarlo ovunque e lui vi si aggrappava disperatamente, che fossero le braccia sulle sue spalle o le gambe intorno ai suoi fianchi, perché ogni volta che Chaku spingeva, lui si sentiva cadere. Aveva bisogno di affondare le unghie e mordergli la spalla perché il piacere, la voglia o il dolore, qualunque cosa fosse ciò che lo aveva travolto tutto insieme quando Chaku aveva iniziato a spingersi forte, erano troppo violenti eppure non voleva che smettessero. Patrick ebbe la chiara sensazione di venir tirato in due direzioni diverse e di volere seguire entrambe con la stessa intensità, tanto che pensò si sarebbe spezzato. E non gli importò comunque. Poteva morirci così, era un bel modo di morire. Ora capiva le disperate richieste del proprio corpo negli ultimi tempi. Era questo che voleva, e lui adesso non poteva che dargli ragione.
Il momento in cui avrebbe perso il controllo del proprio corpo lo sentì montare dal fondo dei piedi. Le dita gli si arricciarono, scatenando una serie di contrazioni lungo le gambe. Affondò le dita, stringendo Chaku alla nuca, mentre Chaku stringeva lui quasi a proteggerlo. Patrick si lasciò andare in quell'abbraccio, convinto che niente di male potesse succedergli, sapendo che ci sarebbe stato qualcuno a prenderlo quando non avrebbe avuto più la forza di reggersi. Forse cacciò uno strillo, forse la voce non uscì nemmeno, o non la sentì perché perse l'udito per quei pochi secondi in cui si riversava contro il corpo dell'uomo.
Strinse forte, fortissimo. Era troppo intenso.
Chaku lo accompagnò fino alla fine, per poi riadagiarlo delicatamente, accarezzandogli la schiena, il collo e le spalle, finché non si addormentò.

Patrick si risvegliò molto prima del suo cervello.
Aprì gli occhi, vide il soffitto della propria stanza e il sole che ci disegnava sopra filtrando dalle finestre, ma non capì né dove si trovasse né cosa fosse successo. L'unica cosa di cui era estremamente sicuro era che si sentiva rilassato, che non aveva mai dormito così bene in vita sua e che il mondo poteva anche iniziare a scuotersi e sbriciolarsi, essere avvolto dalle fiamme o venir ricoperto dai ghiacci eterni, lui non aveva alcuna voglia di muoversi. Poi, lentamente, le rotelline nella sua testa ripresero a girare, con un cigolio disperato e agonizzante; il ragazzino fece così tanta fatica a metterle in moto che riuscì quasi ad immaginarsele ricoperte di ruggine, che rischiavano di spezzarsi una dopo l'altra nel movimento.
A restituirgli un quadro chiaro e immediato della situazione fu il russare pacifico di Chaku al suo fianco e, quasi immediatamente dopo, la voce di sua madre che lo chiamava per la colazione. Il suo primo istinto fu quello di raggomitolarsi e fingersi morto, ma sua madre avrebbe capito che qualcosa non quadrava visto che era nudo – era nudo! – e non era solo, quindi doveva trovare un'altra soluzione e in fretta, perché sentiva i passi avvicinarsi e non era troppo sicuro di voler affrontare e la questione dello gnomo che non era più uno gnomo e la questione del sesso nello stesso momento.
La creatura era distesa su un fianco, un braccio sotto la testa e il viso rilassato, era anche discretamente carino da guardare, ma non c'era proprio tempo. Davvero. Lo scosse di forza e quando quello aprì gli occhi gli sibilò di filare sotto al letto e rimanere nascosto fino a nuovo ordine. Abbastanza straordinariamente, Chaku obbedì senza fare una piega e, anzi, tirò un po' giù le coperte dal letto per crearsi una specie di nascondiglio. Patrick s'infilò al volo un paio di pantaloni un attimo prima che sua madre entrasse spalancando la porta; per altro violando la regola non scritta che non si entra in camera di un adolescente senza aver prima bussato. “Come mai già in piedi?”
“A volte capita,” Patrick sorrise nervosamente, cercando una maglietta, lo zaino, i vestiti. Il cervello.
Sua madre sembrava perplessa. “Uhm. Meglio così,” commentò, squadrandolo dalla testa ai piedi.
Per un secondo gli venne il pensiero assurdo che lei potesse vedere cos'era successo, come se ce lo avesse scritto in fronte ma sua madre sembrò più preoccupata dalla scelta dei vestiti che non da altro. “Hai davvero intenzione di uscire conciato così?”
“Così come?” Chiese, mentre infilava in cartella libri a caso.
Sua madre scosse la testa, decidendo di lasciar perdere. Aveva da tempo rinunciato a far vestire il figlio a modo. Era stata una guerra lunghissima quella fra lei e le magliette XL, ma l'aveva persa e aveva accettato quella sconfitta. “Ti ho lasciato la colazione in cucina. Io scappo a lavoro.”
Patrick mugolò un saluto a caso e poi continuò a riempire la cartella con qualunque cosa si trovasse sotto mano finché non sentì partire l'auto di sua madre. Solo allora si permise di respirare e si lasciò andare seduto in terra. Il brontolio interrogativo del Chaku arrivò qualche secondo dopo. “Puoi venire fuori, adesso.”
La creatura si accoccolò di fianco a lui e lo baciò piano su una tempia.
Patrick fu attraversato da un brivido e sospirò. Si scostò, badando di farlo piano, però, per non offenderlo. “Chaku, senti...”
Ma fu interrotto dal suono del campanello. Lo sguardo gli corse alla sveglia che segnava le otto: Bushido era in anticipo. Non che gli avesse mai dato un orario, naturalmente, ma una persona è sempre in anticipo sul “ti prego non venire mai.” Si alzò in piedi e tentò di riordinarsi e darsi di nuovo l'aria di uno che sa il fatto suo e oltre a questo ha anche passato una normalissima nottata a farsi i fatti suoi, del tutto ignaro del contenuto di una scatola che gli era stata affidata con l'ordine esplicito di non guardarci dentro. Quindi, mentre il campanello veniva suonato di nuovo, si voltò verso Chaku per chiedergli di vestirsi sperando che lo facesse, ma la creatura aveva già addosso i pantaloni e si stava accuratamente sistemando la maglietta, come se avesse capito che farlo era una cosa di estrema importanza. Patrick non aveva il tempo di chiedersi perché adesso obbedisse e prima no, tanto bastava che lo facesse al momento. “Ora tu te ne stai qui buono, mentre io parlo con lui” gli disse, indicando la stanza con le dita. “E incrocia le dita.”
Chaku lo prese alla lettera.

Bushido era in infradito.
Nella situazione contingente notare un particolare del genere era sicuro indice di pazzia, ma Patrick davvero non riusciva a farne a meno. Non quando lui, solo per aprire la porta, s'era dovuto infilare un altro maglione. C'era la neve fuori, per la miseria!, e quello si presentava con una maglietta a maniche corte, i bermuda e le infradito come fosse venuto lì diretto da una piscina. “Ma non ti fa freddo?” Esclamò sconvolto.
Bushido si indicò il collo. “Ho la sciarpa,” rispose. La sciarpa come rimedio alle gelide temperature invernali, perché nessuno ci aveva mai pensato prima? Avrebbero potuto dotare tutti i senzatetto di quintali di sciarpe per risolvere il problema. “Posso entrare?”
Patrick si fece da parte e lasciò che Bushido facesse qualche passo in casa, guardandosi intorno. “Non ti aspettavo così presto,” deglutì, cercando di attirare la sua attenzione. Aveva il terrore che il momento di ubbidienza di Chaku terminasse all'improvviso così com'era iniziato e lui spuntasse fuori dal nulla rendendo vano il suo piano di introdurre la situazione a Bushido in un certo modo. Modo che doveva ancora inventarsi, per altro.
“Devo incontrare il mio cliente tra un'ora,” rispose l'uomo. “Dov'è la scatola?”
Dov'è la scatola. Non pensava che una domanda del genere gli avrebbe mai creato tanti problemi. Batteva perfino la tremenda interrogazione di geografia di quarta elementare, quella che si era conclusa con una crisi isterica della maestra, che aveva dato di matto a sentirgli rispondere “Non lo so” anche quando gli aveva chiesto la capitale della Germania. Una volta a casa sua madre gliene aveva date così tante che ancora gli faceva male il sedere, se ci pensava. “La scatola...” iniziò, per poi schiarirsi la gola. “Ecco, la scatola.”
Bushido non disse niente, lo guardò e basta. Invitandolo a proseguire e dargli una ragione per ammazzarlo prima di farlo, immaginò.
“Sta bene,” proseguì il ragazzino. “Voglio dire, la scatola. E' intatta.”
“Bene, allora portala qui, così posso andare.”
Patrick serrò gli occhi, incassò le spalle e si pentì di non essere andato in chiesa tutte le domeniche. “E' aperta, però.”
“L'hai aperta?” Tuonò Bushido.
“No!” Patrick spalancò gli occhi e sollevò le mani. “Non l'ho aperta.”
“Che cosa vorresti dire, che si è aperta da sola?” All'uomo bastò fare due passi avanti e inchiodarlo al muro per non sembrare più improvvisamente così ridicolo con quelle infradito.
“No,” mormorò Patrick nel panico.
“E allora cosa?” Gli chiese l'uomo, guardandolo dritto negli occhi.
“Ehm...”
“Spiegati,” ringhiò.
“Sarebbe molto più facile spiegartelo se tu non minacciassi di strangolarmi,” deglutì il ragazzino, indicando la mano scura dell'uomo che gli stringeva il collo.
Bushido rimase immobile a fissarlo per qualche istante e poi lo lasciò andare, senza però tornare ad essere il simpatico, apparentemente innocuo uomo di sempre. Ora, finalmente, Patrick si sentiva minacciato. “Spiegati,” ringhiò di nuovo.
Patrick controllò prima di poter ancora respirare, quindi si grattò nervosamente la nuca. “Stavo giocando con la playstation e mi ero anche dimenticato dell'esistenza della scatola. Poi però lui si è messo a fare casino.”
“Lui chi?”
“Lo gnomo!” Specificò Patrick. “Ha cominciato a tirare pugni, a borbottare e a far rotolare la scatola in giro per la stanza. Tu non mi hai detto che c'era uno gnomo là dentro! E, tanto per la cronaca, forse si è agitato perché non c'erano i buchi per l'ossigeno! Come pretendevi che rimanesse tutta la notte chiuso nella scatola senza respirare? Non è colpa mia! E' colpa tua che non sai tenere i tuoi gnomi!”
“Quello non è uno gnomo,” sospirò Bushido, pinzandosi la radice del naso. “E' un Chakuza.”
Dal momento che l'uomo sembrava aver perso la voglia di ucciderlo, Patrick si arrischiò a fare due passi verso di lui. “Un cosa?”
“Adesso dov'è?” Chiese Bushido. “Dimmi che lo hai solo tirato fuori dalla scatola. Non è un danno gravissimo, possiamo rimediare.”
“L'ho tirato fuori dalla scatola,” esclamò il ragazzino.
“E basta?”
Patrick si preparò alle badilate che a quel punto sarebbero arrivate per forza. “E poi lui ha cominciato a prendere a calci la mia playstation così l'ho fatto uscire dalla stanza! Ho dovuto farlo! L'avrebbe rotta e poi ha mangiato … un sacco di roba. E non so, deve avergli fatto male perché adesso è grande, beh non troppo grande, comunque più alto.”
“Merda!” Bushido imprecò, agitando il pugno nell'aria in un gesto di stizza.
“E grave?”
“No, non è grave,” si girò di scatto Bushido. “E' molto più che grave. E'...”
“Gravissimo?”
Bushido gli puntò addosso due occhi scuri e infuocati di rabbia. “Tu non ti rendi conto di quello che hai fatto.”
Patrick iniziava a stufarsi. D'accordo che aveva disobbedito agli ordini, ma era altrettanto vero che non era stato appropriatamente avvertito delle conseguenze. E non si parlava di conseguenze qualsiasi, intendiamoci! Perché lui non sapeva esattamente quale fosse il problema di Bushido – che comprasse una scatola più grande dove infilare Chaku, se la sua crescita lo disturbava tanto! – Che cosa doveva dire, invece, lui? Chakuza aveva fatto... robe, quella notte. Era lui quello che doveva arrabbiarsi di più. Credeva.
“Non puoi consegnarlo così com'è? Potresti dire che ora lo fanno in una taglia più grossa.”
Bushido si passò una mano sulla testa. “Non esistono altre taglie, Patrick. Si consegnano piccoli e si trasformano. Dopo la trasformazione è impossibile fargli cambiare padrone.”
“Padrone? Aspetta, vuoi dire che sono schiavi?”
“Seh.”
“Ma è una cosa orrenda!” Esclamò il ragazzino oltraggiato.
Bushido si limitò a guardarlo impassibile, ma dritto negli occhi. Aveva lo sguardo di uno che si aspetta qualcosa da te, che tu raggiunga la consapevolezza di qualcosa, magari. Patrick si sentì inspiegabilmente a disagio di fronte a quello sguardo. Provò a guardare altrove, ma le pupille dell'uomo sembravano magnetiche e finivano sempre per attirarlo.
“Che.... che tipo di schiavo, esattamente?” Deglutì alla fine.
“Se mi poni la domanda, conosci già la risposta,” fu la secca risposta dell'uomo. “E' venuto a letto con te?”
“No.”
Bushido lo guardò e i suoi occhi dicevano chiaramente: evidentemente non hai ben capito quello che ti ho chiesto, ora ti rifarò la domanda e tu naturalmente mi dirai la verità.
“Sì,” sospirò Patrick, con due guance rosse da far invidia ad un pomodoro. “E giuro che non so come sia potuto succedere! Io non sono nemmeno gay! A me piacciono le ragazze e lui non è una ragazza!”
“No è un Chakuza,” commentò Bushido, frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualcosa che sembrava un telefono ma di certo non lo era visto che brillava di luce propria come se fosse uscito da uno di quei cartoni animati giapponesi. Patrick non si sarebbe stupito se avesse scoperto che poteva fluttuare. “E i Chakuza non fanno differenza fra maschi e femmine.”
“Loro no, ma io sì!” Protestò Patrick, punto sul vivo.
Bushido si rigirò distrattamente fra le mani la pietra brillante come se stesse pensando. “I Chakuza sono una specie particolare,” spiegava intanto. “Sono inesorabilmente destinati a dare piacere al loro padrone. Non che questo non gli piaccia, ben inteso. Prima che ti scandalizzi...”
“Ma io non sono il suo padrone!” Esclamò trionfante il ragazzino, che per altro aveva deciso di rimandare la questione della moralità della schiavitù ad un secondo momento, visto il problema più impellente che avevano entrambi al momento. “Basterà rimpacchettarlo, mettergli un bel fiocco sulla testa e poi consegnarlo a chi dovevi consegnarlo. Gli dirai: Chaku, questo è il tuo nuovo padrone” aggiunse, imitando la voce bassa e impostata di Bushido. “E il gioco è fatto.”
Bushido si lasciò andare seduto su una poltrona nell'ingresso, che sua madre teneva lì per far sedere le vicine quando venivano a trovarla. “Non è così che funziona,” rispose. “Una volta che il Chakuza si trasforma, riconosce come padrone la prima persona che vede. Per questo è importantissimo che la scatola venga aperta solo dal destinatario della creatura.”
“Oh.”
Bushido sospirò. “Adesso lui non prenderà ordini da nessuno a parte te.”
Patrick sapeva che la situazione era sempre grave quanto prima, ma non poté fare a meno di sentirsi un po' importante e quest'importanza si tradusse con un'espressione tronfia e le sopracciglia sollevate.
“Non credere che sia una cosa semplice,” lo ammonì subito Bushido. “Quella creatura ora dipende da te. E' un rapporto simbiotico quello tra padrone e Chakuza. Non puoi pensare di andarci a letto e poi riporlo sulla mensola come un peluche.”
“Ma lui non fa affatto quello che gli dico,” si ricordò il ragazzino. “Se lo avesse fatto, non saremmo in questa situazione. Io gli avevo detto di stare in camera.”
“Questo prima della trasformazione,” spiegò Bushido. “Poi c'è stato l'imprinting, è come se posando gli occhi su di te la prima volta, adesso non riuscisse a vedere nient'altro.”
Patrick ci pensò su qualche istante. “In effetti prima gli ho detto di aspettarmi, e lo ha fatto.”
“Prova a farlo venire qui” lo invitò Bushido. “Ti basterà semplicemente volerlo vedere. Prova!”
Se c'era una cosa a cui Patrick non credeva, quella era la forza del desiderio. La magia era una cosa plausibile – poteva essere un tipo di energia sconosciuta – e perfino i nani che crescevano per diventare piccoli dei del sesso personale erano più plausibili. Ma desiderare qualcosa ed averla? Questo no. Erano quattordici anni che sognava di veder tornare suo padre e non era mai successo.
Quando però immaginò di avere il Chaku lì a fianco, un attimo dopo lui era lì. Non che fosse apparso dal nulla, ovviamente, ma si era precipitato lì. Lui e Bushido avevano sentito la porta di camera aprirsi e poi i suoi passi nudi e veloci nel corridoio. Ora Chaku lo guardava sbattendo le palpebre, aspettandosi chissà cosa da lui. “Wow,” fu l'unica cosa che Patrick riuscì a dire.
“Wow non rende abbastanza l'idea,” commentò Bushido, mentre Chakuza li osservava con fare interrogativo. Allungò una mano a stringere quella di Fler, tanto per sicurezza, e il ragazzino si ritrovò a stringere a propria volta, senza rendersene conto. Bushido sospirò. “Immagino che dovrò chiamare il mio cliente e dirgli che la consegna non è più possibile.”
“E di lui cosa ne farai?” Chiese Fler, improvvisamente preoccupato.
Bushido lo guardò come se gli avesse appena detto che l'acqua bagna e il fuoco brucia. “Lo lascerò a te, mi sembra ovvio.”
“Aspetta, ma io non ho assolutamente intenzione di tenerlo!” Esclamò Patrick. Chaku strinse la presa sulle sue dita, così forte che Patrick fu costretto a girarsi ma quando lo fece, la creatura aveva già mollato la presa e lo stava guardando esattamente come prima, con gli occhi rotondi, in attesa di sapere cosa dovesse fare.
Bushido rise. “Non è che tu abbia molta scelta. Lui non vorrà andare da nessun altra parte.”
“Io non posso tenerlo!” Patrick provò a cambiare tattica. “Dove lo metto? Che cosa dico a mia madre?”
Bushido si alzò scuotendo la testa. Si fece saltare la pietra brillante in mano un paio di volte e poi la tirò a Patrick che la prese al volo. “Questo è un tuo problema,” si strinse nelle spalle. “Comunque fossi in te, io non mi preoccuperei di questo al momento. Hai problemi ben più grossi.”
“Del tipo?”
“Del tipo che quel Chakuza costa e io ho perso un cliente.”
Patrick sgranò gli occhi. “Non vorrai dei soldi, spero!”
Bushido mise su un'aria affranta ed inspirò. “La vita al giorno d'oggi costa cara. Dovrò pur campare anch'io, no? Non vivo mica d'aria.”
“Non lo so!” La voce di Patrick schizzò di un'ottava. “A questo punto mi pare ovvio che tu non sia più umano di Chaku.”
Bushido sorrise. “Sono talmente tante le cose che non sai, Pat...” Sì zittì all'improvviso e poi la meraviglia gli riempì gli occhi e lo guardò in maniera tanto inquietante che lui, e di conseguenza il Chaku, fecero un passo indietro.
“Che c'è?” Chiese.
“Ci sono!”
“Ci sono cosa? Non mi piace quello sguardo. Quando hai quello sguardo dici cose assurde.”
Bushido lo indicò con un indice ben teso. “Mi farai da assistente, così mi ripagherai la vendita persa e...” spiegò, girandogli intorno valutandolo come se dovesse prendergli le misure per un vestito. O per una bara, anche. “...Dal momento che Chaku non può stare da te, lo terrò io in custodia. Nel tempo che ci metterai a ripagarmelo, avrai una casa tua in cui ospitarlo senza che tua madre faccia domande.”
Patrick era sicuro di essere sbiancato nel giro di mezzo secondo. “Ma quanto diavolo costa?”
“Tanto. Molto. Troppo,” rispose Bushido, riprendendogli la pietra luminosa di mano, osservandola un istante e poi rimettendosela in testa. “Una spesa decisamente eccessiva per le tue tasche, sei fortunato che io sono buono e caritatevole. E poi mi serve un assistente. Sarai un ottimo assistente, sei sveglio.”
Fler valutò l'offerta e si rese conto di non avere molta scelta. “Immagino di dover accettare per forza,” sospirò.
Bushido gli batté una mano sulla spalla. “Ti assicuro che c'erano opzioni peggiori. E poi ti piacerà, io faccio un lavoro bellissimo.”
“Ho i miei dubbi,” esclamò con poco entusiasmo.
“Questo perché non credi, ma dovrai imparare a farlo o per te sarà molto dura.“ Bushido si voltò a guardarlo, con un ghigno che era tutto un programma. “Fidati, sarà divertente! Imparerai così tante cose nuove che ti esploderà il cervello!”
Fler sospirò rassegnato. Quale fosse la parte divertente nel farsi esplodere il cervello non lo sapeva, sperò solo che si trattasse di una metafora e non di un qualche strano rituale di iniziazione pseudo-jedi per diventare l'assistente di un trafficante di nani. Con Bushido era una probabilità anche questa, dopotutto.
Si voltò a guardare Chaku che subito gli sorrise contento; avrebbe scodinzolato, forse, se avesse avuto la coda.
Patrick ricambiò il sorriso e intrecciò le dita con le sue. Se la testa gli era esplosa, a quanto pareva, l'aveva già fatto.

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