Personaggi: Bill, David, Tom, Georg, Jorg, Bushido
Genere: Fantasy, Commedia
Avvisi: Slash, Language, AU, Spin-off
Rating: PG 15
Note: Questa storia è uno spin-off di Reign Over Me e si colloca poco prima dell'inizio della stessa, per finire là dove la storia inizia. Mi sono particolarmente divertita a scriverla perché avevo bisogno di qualcosa di buffo in cui poter riversare le mie solite scempiaggini, e poi adoro muovere David in situazioni di isteria. Partecipa al COW-T di maridichallenge e fiumidiparole, portando a casa un po' di punti per la squadra dei vampirli (prompt: Prigionia).

Riassunto: A causa di una piccola insubordinazione, re Jorg II decide di punire i ragazzi e le ragazze dell'harem confinandoli nelle loro stanze a tempo indeterminato. Bill, reso insopportabile dalla noia, cerca in tutti i modi di uscire. Finché un giorno, a palazzo arrivano ospiti speciali.

LOCKOUT


Le pareti erano ricoperte di teli colorati, un guizzo creativo da parte delle ragazze che cominciavano ad annoiarsi chiuse nell'harem da più di una settimana, senza la possibilità di poter prendere nemmeno una boccata di aria fresca. Dalle piccole finestre quadrate, ricavate nel tufo delle mura dalle abili mani degli artigiani, non si vedeva che un pallido assaggio del cielo azzurro.
Dopo i primi giorni, l'inevitabile tensione di essere rinchiusi tutti quanti in così poco spazio aveva iniziato a farsi sentire, e ora la sola vista gli uni degli altri nel raggio di quattro metri iniziava a nausearli; ma nonostante le ripetute richieste di perdono e gli appelli dello stesso responsabile, che ormai faticava a tenere a bada gli scoppi d'ira e il generale senso di smania, il re non ne voleva sapere di annullare quella punizione collettiva e, da ciò che riferivano le guardie della sala del trono, era ancora così furioso che una tale eventualità non sembrava plausibile nemmeno fra un milione di anni.
Capitava molto spesso che per una violazione delle regole o un'impertinenza, uno degili schiavi venisse punito. Era capitato anche che venissero confinati nelle loro stanze dei piccoli gruppi, ma era la prima volta in assoluto che re Jorg II decideva che tutti i suoi quaranta cortigiani, la quasi totalità dei quali era composta da figli suoi, venisse rinchiusa nei suoi quartieri con il divieto tassativo di uscirne fino a nuovo ordine. Aveva interdetto loro anche il piccolo chiostro interno al castello, riempito di palme e fiori, che era stato costruito perché potessero svagarsi senza essere visti all'esterno. Schiavi dalla cucina portavano il cibo tre volte al giorno e una guardia aveva il compito di scortarli dai loro alloggi a quelli di chi richiedeva i loro servizi, stando ben attenta che non potessero distrarsi in alcun modo lungo il tragitto.
Una misura tanto drastica era stata la naturale conseguenza di un mezzo disastro che aveva sfiorato l'incidente diplomatico, rischiando di trascinare il regno in guai ben più gravi di quelli in cui versava al momento, che già non era roseo per via della siccità, della carestia e di una povertà ereditaria che da figlio, a padre a nonno risaliva indietro nel tempo fino, probabilmente, agli albori della loro civiltà.
Il grave fatto che aveva trasformato le loro meravigliose stanze in una prigione dalla quale, a quanto pareva, non sarebbero mai più usciti, era avvenuto una sera di dieci giorni prima, durante una rarissima visita del sultano dello Zuwarah. Re Jorg II era ai ferri corti con il sultano per una storia di accordi non rispettati e sperava di blandirlo con i piaceri del proprio harem. Il risultato di ricerche decennali effettuate sulla sua persona aveva stabilito che non c'era niente in tutto il mondo che placasse gli animi come la compagnia particolare di una donna o di un uomo, a seconda dei casi. E se c'era una sola cosa che il suo regno potesse vantare era la miglior selezione di prostitute della nazione intera. Al solo pensiero il cuore gli si riempiva d'orgoglio. Stava appunto facendo visita all'harem, mostrandone l'organizzazione e la bellezza al suo ospite, quando, imboccando uno dei corridoi, lo aveva trovato gremito di gente che incitava due ragazzi intenti a picchiarsi selvaggiamente. La folla di uomini e donne gridava e imprecava, agitandosi in maniera scomposta. Quelli che fino a qualche ora prima erano stati perfetti esempi di accompagnatori e accompagnatrici di classe, addestrati per anni a compiacere e presentarsi nella maniera più adeguata al loro ruolo e soprattutto al loro rango – erano pur sempre figli del re, per quanto illegittimi – erano diventate scimmie scalmanate che piazzavano scommesse e fischiavano chi cadeva a terra. La situazione già di per sé imbarazzante, si era fatta irrecuperabile quando un vaso di coccio lanciato senza nessuna cautela aveva quasi colpito il sultano dello Zuwarah in faccia. L'uomo, non propriamente in forma, si era scostato in tempo ma non abbastanza velocemente e la brocca gli aveva colpito un orecchio. Non era uscito nemmeno il sangue, ma l'affronto era stato tale che se n'era andato fuorioso, minacciando la guerra e invocando maledizioni di ogni genere su Jorg, sul suo regno e anche su quelle due mucche scheletriche che gli restavano da far pascolare.
Re Jorg II aveva avuto l'attacco d'ira più feroce che si fosse mai visto nel castello. Aveva spedito le guardie a sedare la rissa – scatenatasi, si era scoperto dopo, per una donna – dando ordine che fosse usata violenza, se necessario, quindi li aveva minacciati di percosse, di vendita, di ripudio e in fine di morte, prima di decidersi per una ancor più crudele reclusione a tempo indeterminato con la sola compagnia gli uni degli altri. In molti si erano dichiarati innocenti, alcuni perfino assenti e a lavoro al momento dell'incidente, ma lui non aveva voluto sentire ragioni. Il paese era praticamente sull'orlo del collasso e loro non trovavano niente di meglio da fare che dare spettacolo di fronte ai suoi ospiti.
Così le immense porte che conducevano all'harem erano state sbarrate e tanti saluti all'incredibile numero di privilegi che i cortigiani avevano alla faccia di qualunque altro servo.
Bill, in tutto questo, era stato estremamente sfortunato. Lui era uno di quelli che, al momento della rissa, si era trovato altrove, nel letto di un qualche diplomatico di cui aveva faticato a capire il nome. Quando era tornato in camera, con la voglia di farsi un bagno lungo due ore, infilarsi a letto e dormire almeno fino alle tre del giorno dopo, aveva trovato i quartieri sorvegliati e un clima da alto tradimento.
Una guardia lo aveva fatto entrare sbrigativamente e David, il responsabile dell'harem, si era affrettato ad andargli incontro tutto agitato per spiegargli la situazione.
David era stato anche lui un cortigiano, uno dei pochi che venivano da fuori, acquistato dal re di un regno vicino che se n'era dovuto separare per ripagare un debito. Jorg con lui aveva fatto un affare, ai tempi, perché non solo David era ben addestrato ma aveva anche una straordinaria capacità organizzativa che lo aveva portato a rendere l'harem l'efficente struttura di servizi che era adesso, quasi un apparato autonomo con sede al castello, che dipendeva dal re solo in quanto sua proprietà. Di quello che agli inizi era stato solo un gruppetto di stanze più o meno pulite in cui i soldati e gli ospiti potessero godersi le grazie di giovani compiacenti, David aveva fatto appartamenti attrezzati, con bagni privati e una guardia personale che si occupasse della protezione dei ragazzi e delle ragazze, almeno fintanto che si trovavano nell'harem; di quello che succedeva nelle stanze private degli ospiti, purtroppo, non poteva occuparsi. La regola non scritta dell'ospitalità imponeva che non fossero né dovessero essere affari suoi.
Con le belle parole e la scusa dell'igiene e del decoro, era anche riuscito ad allontanare tutti gli atti pratici dall'harem, così che quelli rimanessero quartieri privati in cui i ragazzi potevano rilassarsi. Dopo tanto impegno era naturale che, una volta smesso di lavorare per raggiunti limiti di età, egli finisse ad occupare una posizione di rilievo come quella del responsabile, che non solo gli spettava di diritto perché l'aveva inventata lui, ma che in sostanza aveva da sempre ricoperto anche se solo ufficiosamente. Era molto bravo anche nel nuovo lavoro, ad esclusione di una leggera forma di isteria che lo portava ad annunciare la fine del mondo al minimo segno di problema all'orizzonte.
Aveva fatto esattamente così anche quando Bill, viziatissimo gioiello dell'harem, era rientrato scoprendo le nuove direttive del padre. Gli era andato incontro urlando alla disgrazia e all'irrimediabile rovina, agitando le braccia sopra la testa e lamentandosi come l'eroina tragica di una delle opere di teatro che amava tanto.
“Che succede? Perché i ragazzoni là fuori sono in assetto da guerra?” Aveva chiesto Bill, senza preoccuparsi dell'evidente agitazione dell'altro. Aveva richiesto un bagno e della frutta mentre si toglieva i bracciali.
“La catastrofe! Il dramma! L'inevitabile fine!” Aveva esclamato David, infervorandosi. “Non vedremo mai più la luce del giorno!”
“Addirittura,” aveva commentato Bill mentre si dirigevano insieme verso i bagni e, nel frattempo, sganciava le fibbie della sua tunica lasciandosela scivolare via di dosso mentre camminava.
“C'è stata una rissa, un incidente increscioso, e tuo padre ha ordinato che rimanessimo tutti quanti qui dentro per punizione.”
“Per quanto?” Si era informato il ragazzo, immergendosi nell'acqua calda della vasca interrata e rilasciando un sospiro soddisfatto. Era incredibile quanto ci si potesse stancare a stare distesi sulla schiena per soddisfare le voglie noiose di un vecchio privo di fantasia, convinto di essere un genio dell'innovazione solo perché voleva guardarti in faccia mentre lo faceva.
“E chi può saperlo?” David si accasciò su un divanetto, allungando le gambe per sistemarsi in una posizione da anziana matrona angosciata. “Tuo padre è furioso! Non sente ragioni!”
“Domani ci parlerò io.”
Il giorno dopo Bill si era armato di buone intenzioni e forte dell'ascendente che sapeva di avere sul re per il buon rapporto che intercorreva fra lui e sua madre, una delle sue schiave preferite, aveva chiesto udienza e si era fatto scortare fino alla sala del trono, salvo essere rispedito subito indietro con un urlo dall'uomo che era andato in escandescenze non appena aveva intravisto l'orlo della sua tunica da cortigiano.
Bill ci aveva riprovato altre due volte senza successo, finchè non si era rassegnato all'evidenza che, nonostante la sua chiara estraneità ai fatti, non gli sarebbe stato fatto nessuno dei favoritismi che di solito riceveva.
A dieci giorni di distanza da quell'inconcepibile ingiustizia nei suoi confronti, se ne stava mollemente adagiato sui cuscini della sala e guardava il soffitto mirando ad ingannare il tempo ipnotizzandosi con i punti di luce che si formavano quando i raggi del sole entravano di traverso dalla finestra. Finora non gli era riuscito.
Li fissava intensamente finché non gli si incrociavano gli occhi e la macchiolina bianca non si stampava sul retro delle sue palpebre, ma nessuno stato di letargia veniva a salvarlo. Agli inizi di quella prigionia, avevano tutti pensato di continuare con le attività quotidiane, fingendo che nulla fosse successo. Erano convinti che, mostrandosi industriosi, re Jorg avrebbe allentato la corda; ma l'uomo non si era mai fatto vedere e non mandava nessuno a controllare – nemmeno David era mai stato chiamato a fare rapporto –, così dopo un po' la normale attività era diventata pesantissima senza la consolazione di poter uscire da quelle quattro mura. Si svegliavano, si preparavano, eseguivano i loro compiti nel tempo necessario o andavano dov'erano richiesti, ma poi il nulla. Ore interminabili a guardarsi negli occhi nella speranza che a qualcuno venisse un'idea brillante. Nessuno ce l'aveva mai, naturalmente. Per lo più mangiavano, cosa che portava David a lamentarsi che se mai, per grazia divina, Jorg avesse deciso di perdonarli, li avrebbe trovati così grassi che avrebbe dovuto venderli ad un circo come elefanti.
“E' questo, lo so!” Esclamò Bill all'improvviso, reclinando la testa all'indietro e allungandosi lascivamente tra i suoi cuscini. “Me lo sento!”
“E' questo cosa?” Gli chiese qualcuno che stentava ad identificare, disteso sottosopra com'era.
“Il giorno in cui morirò di noia,” rispose con un lamento, tirandosi su di scatto e godendosi la piacevole sensazione di vertigine. Meglio questo dell'immobilità assoluta. “Lo so, non posso continuare in questo stato ancora per molto. Tra poco i miei occhi si chiuderanno, il mio respiro si farà debole e il mio corpo, stanco dell'immobilità a cui è costretto, collasserà sotto il peso della disperazione.”
“Ma quale immobilità? Se non fai che lavorare? La gente vuole soltanto te,” esclamò una voce maschile dall'altra parte della stanza. Dal gruppo si staccò un ragazzo dai capelli lunghi e lisci, con il corpo così muscoloso e oliato da dare l'impressione che una delle statue di marmo della stanza avesse appena preso vita. “Tu sei tutto tranne che immobile. Quante volte sei riuscito a tenere le cosce chiuse, oggi?”
In tutta risposta, Bill lo guardò dritto negli occhi e spalancò le gambe con impertinenza. “Vaffanculo Georg, sei solo geloso.”
Georg rise. “Ti piacerebbe.”
“La verità è che nessuno degli uomini ti vuole, ma da queste parti girano poche donne,” continuò Bill, tornando a sedersi composto con un movimento elegante e un piccolo sbuffo infastidito. “La tua inutilità è abbastanza evidente, anche senza che ti ungi come un arrosto per risplendere al sole.”
“Senti un po'...”
David entrò nella stanza battendo velocemente le mani un paio di volte. “Basta così, voi due. Non vi ho insegnato ad urlarvi come verduraie al mercato,” commentò severo. “Georg, tu torna ad allenarti. Quelle maniglie che hai andrebbero bene se tu fossi una valigia. Bill, tu vieni con me.”
Bill si alzò in piedi con una risatina di scherno e lisciò bene la tunica.
“Perché io devo allenarmi e lui invece va a farsi un giro? Non eravamo confinati qui dentro?” Protestò Georg, infilando le mani nel sacchetto del gesso per tirare su i pesi.
“Preferisci occuparti tu del tesoriere decrepito che sta aspettando al piano di sopra?”
Georg sbiancò, e fu una grande impresa vederlo sotto dieci anni di abbronzatura. David era un grande sostenitore della pelle dorata. Spediva una consistente quantità dei suoi protetti a farsi bagni di sole ogni giorno; purtroppo non poteva farlo con tutti perché il re voleva che ci fosse della varietà, e d'altronde come dargli torto, perle rare come Bill era meglio che restassero bianche come la luna.
Quando furono nel corridoio, Bill stava già mettendo su l'espressione seria e finto-pudica con la quale in genere si presentava in camera d'altri. “Ma ancora quel tesoriere?” Chiese con un mezzo lamento. “L'ho visto ieri e ancora non sono riuscito a togliermi di dosso la sensazione. Quell'uomo avrà centododici anni! Non lo sa che alla sua età non può andarsene in giro a scopare un giorno sì e l'altro pure?”
David gli camminava a fianco con passi veloci e sbrigativi, come al solito. Sembrava che non avesse mai abbastanza tempo e dovesse muoversi a velocità doppia per compensare. “Non preoccuparti, si tratta solo di tuo fratello,” lo rassicurò sfogliando avanti e indietro lo stesso mazzetto di pergamene come se stesse cercando un raffronto di qualche tipo. “Si è presentato qui con un cestino di dolci e una collana di bronzo. Che cos'ha combinato stavolta?”
“Niente; ma non lo vedo da almeno una settimana, quindi immagino che vorrà farsi perdonare l'assenza,” ragionò Bill.
David gli lanciò un'occhiata e scarabocchiò due firme illegibili in calce ai documenti. “Si scusa per cose che non ha fatto e porta regali preventivi. Lo hai addestrato bene,” disse, svoltando a sinistra mentre Bill proseguiva dritto lungo il corridoio. Il ragazzo si limitò a sorridere.
Tom se ne stava appoggiato contro il portone. Di solito era abituato ad entrare e uscire come voleva, un po' perché le sue erano visite di famiglia e un po' perché, prima degli ultimi avvenimenti, il sistema di sicurezza scattava solo in presenza di invidui minacciosi, e lui di certo non rientrava nella categoria con le sue quattro ossa e l'aspetto vagamente femminile che condivideva con il fratello gemello. Stavolta, invece, la guardia all'esterno aveva fatto un mucchio di storie e se alla fine lo aveva preso di peso e lanciato all'interno per poi richiudere subito la porta era stato soltanto perché David, passando di lì per caso, aveva avuto pietà di lui che cercava di scorgere l'interno dell'harem ogni volta che la porta si apriva.
“Bill!” Abbracciò stretto il fratello e poi se lo scostò di dosso quel tanto che bastava ad osservarlo da capo a piedi, per essere sicuro che durante la sua assenza non avesse subito nessun danno. “Come stai?”
“Bene,” sospirò, prendendolo sottobraccio per fare due passi con lui. “A parte il fatto che il re ci ha presi per canarini e ci tiene chiusi in gabbia. Mi aspetto di trovare miglio in tavola da un momento all'altro. A proposito, nessuna novità al riguardo? Ci sono segni di cedimento?”
Tom fece una smorfia imbarazzata. “Sì e no.”
“Vale a dire?”
“Stamattina abbiamo catturato per puro caso un paio di rivoltosi, e lui pensava che liberarvi potesse essere un buon modo di festeggiare,” rispose Tom. “Ma poi il sultano dello Zuwarah ha fatto sapere che pretende il doppio del denaro in metà tempo e allora il re ha minacciato di farvi sacrificare tutti al dio coccodrillo.”
Bill si massaggiò le tempie. “Fantastico. Adesso non usciremo mai più. Morirò giovane e bello, ma nessuno si accorgerà della mia scomparsa perché sarò chiuso qui dentro!”
Diciassette anni di convivenza più o meno forzata avevano reso Tom impermeabile alle tragedie di suo fratello. Così accolse la notizia della sua morte per consunzione con estrema tranquillità. “Ma si può sapere che cos'avete fatto, esattamente? Il re farfuglia ogni genere di accusa, ma dubito fortemente che vi siate messi d'accordo tramando un colpo di stato.”
Bill si strinse nelle spalle. “Io non ne ho idea, non ero qui. Qualunque cosa sia successa, mi trovavo due piani sopra a rendere qualcuno molto, molto felice.”
“Ti prego risparmiami i particolari,” Tom mise subito le mani avanti. Rispettava il lavoro di suo fratello ma lui aveva gridato a gran voce di voler fare il soldato quando, a dodici anni, David l'aveva visto sedersi così scomposto da sembrare rotto e aveva velatamente suggerito che forse l'harem non era il posto adatto a lui, come invece sembrava esserlo per Bill che c'era entrato dentro come gli appartenesse da sempre. Tom non andava d'accordo con l'idea di cospargersi d'olio profumato e sgusciare come un'anguilla di fiume da un letto all'altro a portare gioia agli ospiti e rallegrare le lunghe notti del deserto.
“Ma tu mi racconti quando vai in guerra!” Protestò Bill. “Ti assicuro che non è molto edificante sapere che qualcuno, da qualche parte ha perso un piede o una mano.”
“Va bene! D'accordo! Hai ragione,” ammise Tom. “Però ho delle notizie eccitanti e vengono dal mondo oltre le sbarre, non puoi dire che non ti interessano.”
Bill gli lanciò un'occhiataccia e Tom sorrise trionfante. Non ricordava nemmeno una volta, nel corso della loro esistenza, in cui non fosse riuscito a fregarlo in un modo o nell'altro.
“Coraggio, racconta,” lo invitò Bill, mentre si sedevano su una panca del corridoio.
“Ricordi quando ti dissi che giravano voci su un battaglione di soldati che era stato avvistato a sud e che aveva battuto due delle tribù più forti della regione?”
Bill annuì. La strategia militare era fra quegli argomenti in grado di farlo addormentare nel giro di cinque minuti ma, visto che la maggior parte degli ospiti da quelle parti era composta da soldati, David aveva pensato bene di addestrarlo a sorridere, sbarrare discretamente gli occhi e a contare pecore infinite che, saltando recinti, lo tenessero sveglio abbastanza a lungo da attendere che il vino, le spezie e il sesso stendessero l'ospite definitivamente. Per qualche strana ragione non era esattamente ospitale che lo schiavo mandato in camera cadesse addormentato russando prima, dopo o durante lo svolgimento delle proprie mansioni. Per questo Bill era perfettamente in grado di ascoltare suo fratello che blaterava per ore di campi di battaglia senza perdere un colpo e arrivando perfino a ricordarsi qualche nome, alle volte. Questa storia delle tribù sconfitte se la ricordava bene, anche perché era stata la grande notizia degli ultimi mesi. Al castello non si era parlato d'altro per giorni, perfino al lavatoio dalle ragazze. “Però nessuno lo aveva visto questo battaglione,” commentò. Ricordava che anche Tom aveva pensato si trattasse di una storia inventata. Le due tribù si erano probabilmente distrutte fra di loro e qualcuno aveva pensato bene di ricamarci, d'altronde da quelle parti ci si annoiava parecchio.
“Esattamente,” annuì emozionato il fratello. “Fino ad oggi. Due dei nostri hanno avvistato un piccolo esercito a tre giorni di cammino da qui. Hanno tutto: armi, cavalli, carovane. Sembrano organizzatissimi e nessuno ne sa niente. Sai questo cosa significa? Che vengono da fuori.”
“E si dirigono verso di noi?”
“Sì!” Esclamò Tom entusiasta. “Puntano dritti verso di noi.”
Bill gli tirò uno spintone. “Si può sapere perché sei tanto felice? Sono stranieri, sono organizzati e tra qualche giorno saranno a casa nostra. Dovremmo preoccuparci.”
“Se ce la giochiamo bene, potrebbero essere la soluzione per gl El-Fahs.”
“Oppure potrebbero essere la soluzione ai debiti di questo castello,” commentò asciutto Bill. “Perché verranno e lo raderanno al suolo.”
Il resto della visita lo avevano passato a chiacchierare del più e del meno. Bill si era fatto prendere dal ruolo tragico del carcerato e, drappeggiato sopra la spalla del fratello, gli aveva chiesto di raccontargli le meraviglie che si trovavano aldilà delle porte chiuse che non poteva varcare, dimenticando di menzionare il fatto che in realtà le varcava in media due volte al giorno. Tom fu abbastanza soddisfacente nelle sue spiegazioni, anche se non sapeva esattamente che cosa raccontargli dal momento che in una settimana il regno non era cambiato granché e non lo avrebbe fatto nemmeno nei giorni successivi. Si lasciarono con un abbraccio strappalacarime – da parte di Bill – e imbarazzato – da parte di Tom – e la promessa di rivedersi il prima possibile. “Anche se continuano a tenermi chiuso qua dentro, tu continua a venirmi a trovare!” Piagnucolò Bill.
“Salvo imprevisti, vengo a trovarti ogni due giorni, Bill,” sospirò il fratello, alzando gli occhi al cielo.
Bill ignorò del tutto quel piccolo dettaglio e lo accompagnò fin quasi sulla soglia, dove una guardia si fece subito avanti per sbarrargli la strada. Lui salutò il gemello con una mano e poi si appoggiò alla porta con finta noncuranza. “Ciao Gustav,” esclamò a voce bassa, sbattendo gli occhioni.
Gustav era alto la metà di Bill e largo il doppio, e per questo somigliava ad un comodino. Aveva una sola espressione corrucciata e con quella si faceva strada nel mondo senza bisogno di dire una parola. Al saluto di Bill si limitò a grugnire. Bill non si lasciò scoraggiare. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e fece qualche passo avanti, stando ben attento a non superare l'insidiosa linea immaginaria che lo separava dalla libertà. “Mi stavo chiedendo, se non potrei uscire un po'. Soltanto dieci minuti per prendere un po' d'aria, fa così caldo qui dentro!” Esclamò, agitandosi la mano davanti al viso e scostando un po' la tunica. “Sono convinto che possiamo trovare un accordo.”
Bill abbassò lo sguardo ammiccante, promettendogli meraviglie da sotto le lunghe ciglia nere. Gustav lo fissava assolutamente immobile e non reagì nemmeno quando allungò una mano per accarezzargli il braccio. Bill sorrise e gli si fece più vicino. Poteva cavarsela con poco su quella porta e poi sparire da qualche parte fuori dall'harem. Avrebbe fatto letteralmente di tutto per due ore lontano da lì o da una stanza qualunque. In fondo non era una gran libertà uscire dalla gabbia per infilarsi nel letto di qualcuno. “Non dovresti neanche chiedere il permesso al sovrano” lo incalzò, strusciandoglisi addosso senza sortire alcun effetto. “Io starò zitto, lo considero un favore personale. Che ne dici?”
A quel punto qualcuno lo strattonò violentemente indietro, tirandolo per la cintura della tunica. “Dico che se l'offesa non andasse del tutto sprecata, ti darei della grandissima zoccola,” commentò David.
Bill lo guardò con un sorriso colpevole. “Oh, sei tu! Facevo soltanto due chiacchiere.”
Il responsabile lo guardò così male che Bill sentì la necessità di unire compostamente i piedi e guardarli con singolare attenzione. “Dal momento che sono in ritardo con un milione di faccende, arrivano voci che il sovrano stia perdendo la brocca e abbiamo perso quindici – e ripeto qundici – tuniche pregiate Dio solo sa dove e soprattutto come visto che nessuno può uscire di qui, fingerò di non averti visto propporre favori sessuali alle guardie per uscire di qui.”
“Non stavo–“
“E per l'amor del cielo non provare a giustificarti se non vuoi che ti usi estrema violenza,” lo interruppe David con un ghigno isterico e rivelatore di sostanze eccitanti. Gli tirò tre colpetti sulla testa, benevolo ma leggermanete violento. “Ora vai a prepararti, hanno chiesto di te.”
Il clima di terrore e la condanna alla reclusione eterna si protrassero per altri tre giorni e il sovrano sembrava così determinato nella propria decisione di murarli vivi, che ormai perfino Bill se n'era fatto una ragione. Combatteva come tutti gli altri per stare un po' di tempo alla finestra a prendere aria, faceva interminabili partite a scacchi con le sorelle minori e lui e Georg litigavano furiosamente ogni volta che potevano nella speranza che la furia delle loro rispettive incazzature li portasse a sfogarsi su un materasso, ma ancora non c'erano riusciti. Un pomeriggio c'erano andati molto vicini, ma aprendo gli occhi fra un bacio e l'altro si erano guardati trovandosi molto imbarazzanti. Erano scappati uno da una parte e uno dall'altra e non avevano più fatto parola dell'accaduto.
Quando ormai l'intera colonia di cortigiani si era rassegnata a vivere e morire in cattività, si sparse la notizia che al castello erano arrivati ospiti stranieri. Bill cercò immediatamente di parlare con suo fratello: mandò messaggi per mezzo di guardie compiacenti – non Gustav quindi –, cercò di parlarci quando usciva al pomeriggio per lavorare e tentò di farsi calare da una finestra quando lo vide passare per il cortile, ma David se ne accorse e gli disse che poteva scegliere di parlare con suo fratello schiantandosi di testa sul selciato, oppure rientrare in camera. E lui aveva dovuto scegliere la seconda per cause di forza maggiore.
Alla fine non c'era stato bisogno di interrogare Tom perché, verso sera, il re aveva fatto sapere che quello che si torvava a palazzo era un generale straniero venuto da sud, un ospite di riguardo che meritava le migliore attenzioni. Jorg voleva che una parte di loro fosse a disposizione nella sala dei banchetti durante la cena. Se – e il sovrano aveva messo molta enfasi su quel condizionale – si fossero dimostrati soddisfacenti tanto da compensare il danno catastrofico fatto in precedenza, lui avrebbe considerato l'ipotesi di restituire loro tutti i privilegi, ma dovevano fare un lavoro dannatamente buono.
Quando David aveva finito di riferire, tutti gli occhi si erano spostati simultaneamente su Bill, il quale, lungi dal sentirsi in soggezione, aveva preso la faccenda sulle sue spalle magre e ne aveva fatta una questione d'onore. Nessun generale straniero poteva mettersi tra lui e la libertà di fare quello che gli pareva, avrebbe fatto vedere a quell'uomo di cos'era fatta l'ospitalità del regno di Jorg e avrebbe condotto i suoi fratelli fuori da quell'harem una volta per tutte. In senso figurato, naturalmente.
Appurato che Bill avrebbe salvato l'intera popolazione di quelle quattro stanze, David aveva dato di matto per sceglierli, prepararli e assicurarsi che fossero tutti quanti perfetti fino all'ultimo dettaglio. Poco prima di cena ne aveva quindici schierati nel corridoio e pronti all'ispezione. Fu pignolo, petulante ed esclamò più volte di essere circondato soltanto da incapaci, ma poi alla fine li approvò tutti e li spedì nella sala dei banchetti, dove gli schiavi stavano apparecchiando le due lunghe tavolate.
In fondo alla sala c'erano dei tendaggi e dei cuscini sui quali si disposero in maniera artistica, in modo da attirare lo sguardo ma di non essere troppo invadenti. Bill si sistemò la mezza tunica rossa e la lunga collana che gli scendeva fino all'ombelico, quindi si adagiò sui cuscini mentre le porte della sala si aprivano.
Suo padre entrò seguito dall'interprete e da quattro stranieri in armatura. Tre di loro sembravano molto stanchi, ma abbastanza tranquilli. Sorridevano e s'indicavano l'un l'altro quello che attirava la loro attenzione nella stanza. Il primo, quello accanto a suo padre, era invece molto serio. Aveva un'espressione corrucciata e attenta, la pelle olivastra e due occhi neri e profondissimi che sembravano registrare tutto ciò su cui si posavano. Bill fece uno strappo alla regola e invece di tenere la testa china, seguì i movimenti dell'uomo e lo osservò con attenzione mentre prendeva posto a tavola. Jorg si rivolgeva soltanto a lui, quindi era senz'altro il generale. Gli altri dovevano essere i suoi uomini scelti, o magari la guardia personale.
Il generale si rivolgeva sempre all'interprete prima di parlare e poi si voltava verso Jorg, per osservarne educatamente le reazioni man mano che le parole gli venivano riferite. A volte sorrideva. Bill pensava che avesse un bel sorriso.
Alla fine della cena, re Jorg offrì ai suoi ospiti la compagnia di uno o più dei suoi cortigiani e, quando il generale posò gli occhi su di loro, Bill fece in modo che incrociasse il suo sguardo e non gli venisse voglia di guardare altrove. L'uomo lo fissò abbastanza a lungo perché Jorg la considerasse una sua scelta e glielo proponesse insieme ad una delle ragazze. Bill sapeva di essere meglio, lo sapeva dal modo in cui il generale deglutiva guardandolo, così non si stupì quando lo scelse.
Aggirò la tavola a passi misurati e si fermò composto accanto alla sua sedia, in attesa di ordini. Nonostante l'armatura, aveva un buon profumo ed era giovane. Sarebbe stato più piacevole di molte altre volte.
L'uomo si alzò e gli fece segno di seguirlo nelle stanze che il re gli aveva messo a disposizione.
Tra i cuscini si levò un lungo sospiro di sollievo collettivo: quella situazione in mano a Bill era praticamente risolta. D'altronde, come avrebbe detto Georg, se c'era una cosa che Bill sapeva fare, era proprio usare le mani.

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