Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Note: Il 23 febbraio 2010, Fler è stato colto da uno dei suoi attacchi di voglia di comunicare al mondo cose di cui al mondo non frega niente e su Twitter ci ha segnalato il ristorante “La Cantina” come uno dei più buoni ristoranti del mondo (qui le prove). Con Fedy abbiamo subito intuito che c'era una trama dietro tutto ciò, quale che fosse, e così è stato. Non so se mia figlia volesse mandare Fler all'ospedale, ma tant'è ci è finito. Vorrei concludere queste note sottolineando il fato che Patrick non si è sentito male per il cibo ingerito, ma per il freddo. Sia mai che il signor Pascarella passi di qua e, con l'aiuto del fido Raf, pensi che ho usato la fic per infamargli il ristorante! D: Anzi, sono convinta che sia un ottimo locale e abbiamo già deciso di svenarci e andare a mangiarci quando saremo a Berlino ^O^

Riassunto: Per qualche istante rimango a guardare il vicolo buio aldilà del parabrezza: gli ultimi cinque minuti sono stati un delirio e non riesco a capacitarmi di come un attimo fa fossimo su una strada principale e adesso siamo incastrati in questo buco di merda dal quale non so come uscire. O forse mi sembra tutto assurdo perché sono ubriaco.
LA CANTINA


“La Cantina” è un ristorante italiano di Charlottenburg che frequentiamo più o meno assiduamente da quando conosciamo Raf Camora, vale a dire da sempre.
Raf non ha soltanto origini italiane, ma è così italiano di natura che non sembra neanche tedesco e, come tutti gli italiani in terra straniera – e non lo sto dicendo con cattiveria, anzi – è in grado di fraternizzare con chiunque provenga dal suo paese a tal punto da diventare parte di famiglie che magari non conosceva fino al giorno prima e con le quali non ha neanche il più lontano legame di parentela. Quindi, in sostanza, noi “La Cantina” non è che la frequentiamo come si potrebbe dire di qualsiasi altro locale, bensì il padrone del ristorante ci ha adottati tutti e adesso siamo i suoi figli e ci tratta come se effettivamente ci avesse cresciuti lui.
Il proprietario de “La Cantina” si chiama Giuliano Pascarella e ha la tipica faccia da italiano e lo dico come direi che io ho la tipica faccia da austriaco, col naso un po' tondo e i capelli neri tutti ben pettinati con la riga laterale, che sembra uscito da “Il Padrino”, con lo stesso accento però senza la mafia.
Quando entriamo, non importa in che parte del ristorante si trovi, lui ci saluta a gran voce in italiano e intanto chiama la moglie e spiega ai presenti chi siamo e cosa facciamo, tutto contemporaneamente.
La moglie Annunziata è una signora convinta che nessuno di noi mangi abbastanza e che per questo serve tre o quattro volte anche personalità del calibro del sottoscritto, che peso due volte in più di quanto dovrei vista la mia altezza. Io non faccio in tempo a finire la prima porzione di pasta – un totale di circa mezzo chilo di spaghetti con altrettanto condimento – che lei è già lì con la pentola in mano direttamente dalla cucina e mi chiede, sorridendo “Peter, un altro poco di spaghetti con le vongole, li mangi sì?” Il suo tedesco è buono, anche se ha un forte accento, ma spesso non lo usa perché tanto sa che se si avvicina con la pentola capisco cosa sta dicendo anche se parlasse siciliano stretto, cosa che credo faccia per altro.
Io di solito cerco di rifiutare gentilmente, scuoto la testa e agito anche le mani, ma lei continua a sorridere e mi serve un altro mezzo chilo di spaghetti. “Peter, non farai i complimenti, vero?”
E io, “No, signora, si figuri. Sono buonissime.”
“Allora prendine un altro poco,” dice lei e me ne mette nel piatto più di quanto fossero prima per poi aggiungere la temutissima frase: “Che non hai mangiato niente e sei tutto sciupato.”
Dopo tre o quattro anni che frequenti il ristorante, capisci che saresti sciupato anche se fossi appena uscito da una settimana in cui non hai fatto altro che mangiare e questo perché in quella settimana non avrebbe cucinato lei. Il concetto di sciupato, per la signora Annunziata, coincide con pessima cucina che coincide con qualsiasi altra cucina che non sia la sua. E in un certo senso ha anche ragione, perché le sue scaloppine sono una roba paradisiaca che rasenta quasi l'orgasmo (ho detto quasi) ma, in tutta onestà, io non lo so se il mio fegato sopravviverebbe ad una settimana di cucina casalinga della signora Annunziata. E vivo in Germania, voglio dire, mangio crauti e wurstel e arrosti di carne grossi come bambini di sei anni, mica due foglie di lattuga e tre chicchi di riso; eppure ogni volta che usciamo dopo antipasti, due primi, tre secondi, formaggi, dolce, caffè e ammazza-caffè mi sento morire e giuro che non entrerò mai più in questo ristorante, salvo poi farlo a distanza di massimo tre settimane.
Come stiamo facendo adesso, ad esempio, che siamo qui a festeggiare l'uscita del nuovo album di Raf e, già che ci siamo, anche il mio compleanno visto che più o meno cadono nello stesso periodo.
Per questo motivo, mi sono tirato dietro Fler che non poteva certo rimanere a casa il giorno del mio compleanno. Lui generalmente non è uno che si fa problemi anche se lo trascini in un posto nuovo, in mezzo a gente che non conosce bene ma essere qui, stasera, lo mette un po' a disagio forse perché nessuno dei presenti ha la minima idea che andiamo a letto insieme e noi non siamo un cazzo bravi a nasconderlo.
Raf ha telefonato due giorni fa per prenotare e il signor Giuliano ci fa trovare il tavolo già preparato. In realtà i tavoli del ristorante sono tutti da due, così lui ne ha composti sei insieme per fare un tavolo molto più grosso, sul quale già troviamo tre vassoi di antipasti. “Questi li offre la casa!” Esclama il padrone del ristorante e Raf ringrazia per tutti in italiano. Fler si accomoda vicino a me e si stupisce un po' dell'atteggiamento del nostro ospite che in realtà non ci chiede niente, neanche cosa vogliamo da bere e decide lui per tutti, continuando ad inframezzare lunghe frasi nella sua lingua madre alle poche spiegazioni che ci dà.
Raf ci chiarisce brevemente che il signor Giuliano vuole assolutamente farci assaggiare un Chianti che gli è appena arrivato. Questo indipendentemente dal fatto che il vino stia o meno bene con quello che poi mangeremo ma, dal momento che prevedibilmente sceglierà lui pure quello, diciamo che possiamo adattarci.
“Il menù è in italiano,” mi fa notare Fler, indicandomi col dito le pagine aperte.
“Sì, lo so,” annuisco. “Quando riusciamo, facciamo ordinare Raf ma il più delle volte è il proprietario che sceglie.”
“Come sarebbe a dire?”
“Fidati.” Chiaramente non posso sapere quanto quell'imperativo si trasformerà, di lì a breve, in una delle più grosse catastrofi che gli potessero mai capitare. D'altronde già di base non sono proprio intuitivo, figuriamoci quanto posso prevedere di situazioni sulle quali, oggettivamente, non ho il minimo controllo.
Il Signor Giuliano torna dalla cantina con una bottiglia di vino rosso come il sangue che stappa davanti ai nostri occhi e si premura di versare nel bicchiere di Raf, al quale tocca fare da sommelier più perché capisce cosa ci sia scritto sull'etichetta della bottiglia che non per le sue doti effettive. Lui però si dà un sacco di importanza, rimescola il vino nel bicchiere, lo annusa e poi, dopo averlo assaggiato con aria competente, schiocca le labbra ed esclama “Delizioso, versane a tutti!”
Non importa se siamo tedeschi, il vino italiano è pesante. E anche se fosse leggero, alla fine farebbe peso la quantità che ogni volta ne ingurgitiamo perché è tanto buono. Così l'esclamazione di Raf si trasforma molto presto in sei uomini vagamente brilli con davanti del cibo che non hanno esattamente ordinato, quanto scelto in base a quanto somigliassero o meno certe parole italiane a delle parolacce.
Due ore dopo, senza aver mai effettivamente smesso né di mangiare, grazie alla signora Annunziata e alla sua fedele pentola dell'esercito, né di bere, grazie al buon signore Giuliano e al suo fedele apri-bottiglie-di-buon-Chianti, ci ritroviamo fuori dal locale e veniamo travolti dalla folata di vento più gelida degli ultimi trent'anni. E credo che sia lei in collaborazione con uno dei sei piatti di carne con i peperoni, che ci portano al vicolo buio, all'ospedale e poi a tutto il resto, ma andiamo con ordine.
Usciamo dal locale costatando che fa un freddo porco e la prima cosa che ci viene in mente è che potremmo anche andare in qualche locale al caldo invece di tornare a casa. Giusto perché siamo persone serie. Fler però mi tira da parte e mi dice “Non credo di sentirmi bene” e riesce ad essere estremamente convincente mentre lo dice perché un attimo dopo mi vomita quasi sui piedi la Pastiera Napoletana e i cannoli siciliani praticamente interi. Bene, penso, partiamo dal fondo.
“Scusa,” fa lui.
Io mi controllo la scarpa alla luce di un lampione. “Fa niente, meglio qui che in macchina,” commento, “Meglio se andiamo a casa. Ce la fai?”
Lui non segue proprio una linea dritta ma in qualche modo riesce a barcollare fino alla mia auto e a lasciarsi andare sul sedile del passeggero, appoggiando la fronte al finestrino quasi congelato. “Non so nemmeno se sono più ubriaco o più nauseato. E mi fa male lo stomaco.”
“Qualunque cosa sia,” gli dico lanciandogli un'occhiata e finendo di allacciarmi la cintura. “Sarà meglio che togli la testa di lì, il freddo non ti fa bene.”
Lui mugola durante tutto il processo che lo porta a staccare la fronte dal vetro, spostare la testa e poi appoggiarla di nuovo all'indietro sul sedile. E' una sola nota molto bassa.
“Adesso andiamo a casa,” cerco di rassicurarlo, vagamente consapevole di che marcia sto mettendo e di che direzione ho preso. Sono ubriaco, vorrei ricordarlo.
Lui non dice niente e rimane abbandonato sul sedile per un quarto d'ora prima di tirarsi su di scatto e mettersi ad urlare, tipo. “Fermati!” Mi fa, tenendosi lo stomaco e la fronte. “Chaku, ferma la macchina!”
“Che ti prende?”
“Ferma la cazzo di macchina,” urla, voltandosi verso di me.
“Non posso fermare la cazzo di macchina in mezzo alla strada,” replico stizzito perché sono buono e caro finché non mi rompo le palle. “Fammi almeno accostare!”
“Allora fallo in fretta perché sto per vomitarti in macchina.”
Io svolto a destra senza nemmeno guardare, a caso proprio. I sedili di questa macchina costano un occhio della testa, sono una di quelle cazzate che fai con i primi soldi veri che ti ritrovi in mano dopo un cd. C'è chi compra la casa, chi l'impianto stereo. Ecco io ho comprato la macchina e ho preso il modello che aveva i sedili più esagerati, comodi ed eccessivi che ci fossero in commercio. Peccato che per farli lavare dovrei vendere, tipo, mia sorella e anche in quel caso forse riuscirei a smacchiare solo quelli anteriori. Quindi svolto, m'infilo in un vicolo che la macchina ci passa appena e prego tutti i santi che conosco di averlo imboccato per il verso giusto, altrimenti per non dover lavare i sedili, dovrò rifare tutta la macchina. Non appena mi fermo Fler rotola letteralmente fuori dall'auto, vomitando a nastro nemmeno dieci centimetri più in là della portiera che si è aperta per culo senza incastrarsi nel muro.
Per qualche istante rimango a guardare il vicolo buio aldilà del parabrezza: gli ultimi cinque minuti sono stati un delirio e non riesco a capacitarmi di come un attimo fa fossimo su una strada principale e adesso siamo incastrati in questo buco di merda dal quale non so come uscire. O forse mi sembra tutto assurdo perché sono ubriaco.
Alla fine mi ricordo di Fler e lancio un'occhiata fuori dalla portiera. Lui è in terra carponi e continua a vomitare come se non ci fosse un domani. “Tutto bene?” Chiedo.
“Secondo te?” E poi riprende a vomitare.
Faccio una smorfia perché anche il suono mi da fastidio. “Serve una mano?”
Per un po' non risponde e credo che a questo punto sia anche arrivato ai primi, poi lo sento sputare e grugnire qualcosa. “Perché, vuoi venire a vomitare tu al posto mio?”
Sospiro e poi mi sposto sul suo sedile, per raggiungerlo. Fuori dall'auto non si vede una sega perché l'unico lampione del vicolo è stato sfasciato. Riesco ad intuire il suo profilo e lo trovo seduto in terra, con la schiena appoggiata al muro. Volta la testa verso di me, ansimando. “Sto uno schifo.”
“Lo vedo.”
“Dove cazzo mi hai portato a mangiare?”
“Non credo sia stato-”
Ma lui non mi ascolta. Si piega di lato e riprende da dove aveva interrotto. E quando il suo stomaco gli concede altri due minuti di pausa li usa per cercare di guardarmi con aria sconvolta. “Non smetterò mai più,” mormora. “Cazzo...”
Si tiene di nuovo lo stomaco mentre prova ad alzarsi e non ci riesce. Per una volta ringrazio di essere piccolo ed esco comodamente dal lato del passeggero, nonostante la portiera impedisca in parte il passaggio. Lo aiuto a sollevarsi, ma barcolla e ha i sudori freddi.
“Portami a casa,” mi fa, deglutendo quello che presumo potesse essere un nuovo conato. “Ho un mal di testa da paura e non mi reggo in piedi.”
Ha le mani freddissime, però, e gli occhi quasi febbrili.
“Credo sia congestione, Pat.”
“No, che congestione...” fa lui e poi inciampa o non si regge in piedi.
“Forse è meglio se ti porto al pronto soccorso.”
“No, ma che pronto-” Non fa in tempo a dirlo che mi si accascia praticamente addosso. Non ha perso i sensi ma quasi. Annuisce. “Okay, andiamo.”

*


Nella sala d'attesa del pronto soccorso ci sono decine di persone, come se mezza Berlino avesse deciso di sentirsi male proprio stanotte. Al banco dell'accettazione faccio presente all'infermiere di turno che Patrick non sta semplicemente male ma credo che abbia una congestione. Quello mi guarda senza scomporsi di una virgola da dietro il bancone, alza lo sguardo su Fler che se ne sta piegato in due su una seggiolina e mi chiede: “E' sicuro?”
“No, se fossi sicuro sarei medico e invece si dà il caso che sia un rapper,” rispondo. “Però abbiamo mangiato parecchio stasera e quando siamo usciti dal ristorante abbiamo preso un colpo di freddo. Il mio amico ha le vertigini, i sudori freddi e non si regge in piedi!”
“E' sicuro che non faccia uso di droghe?”
“Sono sicuro che abbia mangiato un chilo e mezzo di arrosto d'asino e almeno mezzo chilo di pasta con le vongole. E che fuori ci sono meno dodici gradi,” sibilo. “Ha mal di stomaco, non una crisi d'astinenza.”
“Vomita?”
“Sì, vomita,” replico. E come se fosse telecomandato, Fler si volta sulla sua seggiolina e ridipinge il pavimento con le lasagne. Io quasi sorrido trionfante. “Le va bene così, o ne vuole di più?”
A quel punto l'infermiere decide che può occuparsi di Patrick che si sta dispiacendo per il danno fatto sul pavimento. Lo portano in una stanza e lo fanno stendere su un letto, avvertendolo che il medico arriverà subito.
Il medico è una signora di mezz'età alta poco meno di me, il che la rende a tutti gli effetti uno gnomo da giardino e si aggira intorno al letto di Fler muovendo due piedini minuscoli infilati in due scarpe comode da farmacia. “Il suo nome?”
“Patrick,” risponde lui con una vocina dall'oltretomba, seguita da un suono che credo sia l'avanguardia dell'ennesimo conato.
“Mangiato pesante? Preso freddo? Bevuto ghiacciato?” Spara lei a raffica, piantandogli una mano sulla fronte in maniera spiccia. “Di certo non è stato troppo sotto il sole con questo tempo, eh?”
Fler la guarda vago, forse non capisce nemmeno bene cosa gli sta dicendo. La donna apre l'armadio vicino al letto e tira fuori due cuscini, voltandosi verso di me. “Lei che mi dice? Mi aiuti a tirargli su le gambe.” Io obbedisco e insieme sistemiamo i cuscini sotto le sue ginocchia.
“Ha preso freddo mentre uscivamo dal ristorante,” ripeto. Lei intanto annuisce e poi chiede ad una delle infermiere di portare delle coperte e una borsa dell'acqua calda. “Poi ha iniziato a vomitare e non ha più smesso. Dice di avere mal di testa.”
“E i crampi...” fa lui, debole.
“E' una congestione in piena regola,” decreta lei con il sospiro di chi ha attaccato da due ore e ne ha davanti ancora sei. “Lo teniamo qui in osservazione, ma direi che per domattina potremo restituirglielo.”
L'infermiera torna con la coperta e la borsa dell'acqua calda e gliele sistema tutte e due sulla pancia. Fler si lamenta un po' ma poi sembra calmarsi.
“Gli facciamo una flebo tanto per stare tranquilli.”
Io annuisco e visto che Fler ha allungato una mano verso di me, io gli stringo le dita senza pensarci due volte. Lo sguardo della donna cade sulle nostre mani e lei fa una specie di sorrisetto di traverso, con solo metà della bocca. “Se vuole restare le faccio portare una coperta,” mi dice. “Ma guardi che non è niente di grave.”
Io mi sento improvvisamente in imbarazzo perché alla fine lo tengono qui per la nausea e siamo due uomini adulti e tutto il resto. In più non ho mai fatto la notte nemmeno a mio padre quando lo hanno operato al cuore e mi sembra surreale rimanere qui adesso, visto che Patrick non ha praticamente quasi più niente. Solo che non me ne voglio andare e poi ormai non ho più sonno. “Non saprei,” prendo tempo.
“Resta,” dice subito Patrick. “Gli dia la coperta.”
La donna alza gli occhi al cielo. “Immaginavo,” dice con una risatina e poi mi strizza l'occhio. “Ma dovrà dormire sulla sedia perché non abbiamo letti,” mi dice mentre esce dalla stanza.
Io aspetto che la mia coperta arrivi e intanto sposto la poltroncina vicino al letto di Fler che segue tutti i miei movimenti molto lentamente ma ha una faccia molto più rilassata e già meno verde.
“Ti senti un po' meglio?” Chiedo.
Lui annuisce. Poi ride e la fatica di farlo lo costringe ad un colpo di tosse. “T'immagini se ci vedesse qualcuno?”
“Sarebbe la cosa meno imbarazzante che abbiamo fatto.”
“Vero.” Sospira, poi si guarda intorno, nascondendosi di più sotto la sua copertina. “Non mi piacciono gli ospedali.”
“Non piacciono a nessuno.”
“A me meno che agli altri,” s'impunta lui. “Mi mettono il nervoso, non riuscirò a dormire. Stai sveglio con me tutta la notte?”
Io sollevo un sopracciglio. “Ti addormenterai fra meno di dieci minuti.”
“Non è vero,” sbadiglia. E poi chiude gli occhi con cinque minuti di anticipo sulle previsioni.

*


Sono le undici e mezza del mattino e io mi trovo nel bagno di un ospedale a cercare di darmi una sistemata con un sapone che puzza di disinfettante e degli asciugamani numerati che sono di uno squallido che la metà basta. Mi guardo allo specchio e penso che ho visto giorni migliori, il che detto da me significa che si tratta senza dubbio di una situazione ai limiti della catastrofe psico-fisica, ma d'altronde dopo la notte che ho passato non posso certo sperare di essere fresco come una rosa quando a stento riesco ad esserlo dopo una settimana di riposo.
Torno in camera e Fler ha appena finito di vestirsi. La dottoressa lo ha visitato e lo ha trovato a posto: niente giramenti di testa, niente mancamenti e soprattutto niente nausea. Alla fine è bastato stenderlo e re-idratarlo. Niente di più. Già che c'erano gli hanno fatto gli esami del sangue e quelli delle urine, stamattina, così ora me lo riconsegnano meglio di quando ce l'ho portato: ha fatto il tagliando.
“Andiamo, sei pronto?”
Lui annuisce e si sistema meglio il giubbotto di pelle, per il quale prova dell'amore maniacale. Ogni volta che se lo toglie e se lo mette deve cadergli perfetto e finché il riflesso che vede nello specchio non lo soddisfa, non si muove di casa. Ieri ci ha quasi vomitato sopra più di una volta, è una fortuna che non fosse in sé per rendersene conto.
“Devo andare in ufficio, stamattina,” mi comunica mentre saliamo in macchina. “Ma devo prima passare da casa, ti dispiace darmi uno strappo?”
“Nessun problema.”
Intanto lo vedo che tira fuori il telefono e ci digita sopra come un forsennato, il che può voler dire soltanto una cosa: twitter. Da quando ha scoperto quello strumento del demonio, non passa minuto che non comunichi al mondo quello che sto facendo.
Sto andando allo studio.
Sto giocando ai videogiochi.
E' una bella giornata.
Ho fatto la cacca.
A volte mi chiedo se non dovrei farlo disintossicare o robe simili. Sono certo che da qualche parte nel mondo c'è un Anonima Utenti di Twitter a cui potrei rivolgermi perché lo aiutino. “Stai avvertendo i tuoi innumerevoli fan che stanotte hai sofferto le pene dell'inferno?”
“Non posso,” fa lui. E si rimette il telefono in tasca. “Ho una certa immagine, sai.”
“Ah certo,” commento ridendo. “Beh, non mi dici cos'hai scritto?”
Fler sorride. “Ho fatto pubblicità alla Cantina,” risponde, come se fosse la cosa più normale da fare quando il tuo ricordo più recente legato a quel ristorante è il menù che hai rimesso per almeno dodici volte. “Abbiamo mangiato da Dio. Peccato aver lasciato tutto per strada da Charlottenburg fino a qui. Quando ci torniamo?”
Tra massimo tre settimane, naturalmente. Come sempre.

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