Fandom: !Fanfiction, Glee
Pairing:
Personaggi: Kurt Hummel, Dave Karofsky
Genere: Comico, Erotico
Avvisi: Slash, Lemon, Dub-con, AU, Crack!fic
Rating: NC-17
Prompt: Storia scritta per la maritombola di maridichallenge (nr° 28: "Now we are not afraid although we know there's much to fear." (When you believe, Mariah Carey feat. Whitney Houston)).
Note: Questa storia non ha alcun senso e non pretende di averlo. Non è neanche nata intenzionalmente per essere una vera e propria AU. Un giorno Liz mi ha fatto vedere una fan art in cui Kurt era vestito come Jack Sparrow (e c'era anche Karofsky!) ed è venuto fuori tutto ciò, dove Kurt non è nemmeno vestito da Jack Sparrow. Guarda tu a volte i casi della vita.
Tutto quello che la storia non è – sensata, inquadrata temporalmente e coerente – è quindi voluto, nel senso che non ho mai pensato di creare una trama, ho solo scritto e basta. Ed è stato anche piuttosto divertente (porno a parte, il porno non mi riesce mai). Quindi, insomma, prendetela per quella che è :)

Riassunto: Kurt Hummel sosteneva che la paura fosse solo un concetto di cui la gente si serviva per non fare quello che non gli andava di fare.
I AM THE CAPTAIN OF THIS SHIP (CURIOUS HANDS AND FINGERTIPS)


Kurt Hummel sosteneva che la paura fosse solo un concetto di cui la gente si serviva per non fare quello che non gli andava di fare. Ad esempio, Jacob Ben, il garzone del ristorante, aveva scoperto che se si rifiutava di andare dal macellaio a ritirare la carne per il pranzo della giornata dicendo di non averne voglia, il proprietario ce lo mandava lo stesso a calci nel sedere; ma se diceva di non volerci andare perché quell'uomo gli faceva paura, allora il proprietario annuiva con fare comprensivo e lo tirava di nuovo dentro il ristorante, quasi qualcuno potesse fargli del male lì sulla porta. D'altronde, tutti avevano sentito le urla sinistre che provenivano dalla bottega del macellaio, e l'avevano visto tutti andarsene in giro con un lungo coltello insanguinato, chi poteva biasimare il povero Jacob se non voleva averci niente a che fare?
Sembrava che – per la paura – nessuno si fermasse mai a pensare al fatto che quell'uomo era un macellaio e se c'era qualcuno nel maledetto paesino in cui vivevano ad avere il diritto di girare armato di coltelli grondanti di sangue, quello era lui; ma ogni volta che Kurt provava a far notare la cosa, tutti scuotevano la testa impietositi e dicevano “Povero ragazzo” e “Che disgrazia, povero Burt.”
La paura era una scusa, ed era anche dannosa. Colombo aveva forse avuto paura quando era partito per scoprire l'America? No, era salito sulla sua nave ed era salpato verso nuovi orizzonti.
Kurt se lo immaginava benissimo, dritto e fiero a prua, con un piede su una cassa e il cannocchiale in mano.
Anche lui sarebbe salito sulla sua nave, senza una meta, senza paura, ma con un amore di cappellino e la casacca alla marinara che stava tanto bene con i suoi pantaloni blu.
Era uscito di casa a notte fonda, pieno di buone intenzioni, ma quando era arrivato al porto, le cose non erano andate proprio lisce come pensava. Per qualche strano motivo tutto era sembrato estremamente più facile, quando aveva provato la scena nel salotto di casa sua.
La McKinley era una nave imponente, costruita dall'ormai defunto William McKinley e ora proprietà del governo che l'aveva affidata alle abili mani del capitano Karofsky che doveva condurla oltre l'orizzonte, alla ricerca di nuovi territori inesplorati.
A quanto pareva David Karofsky rappresentava non solo la speranza di un intero paese ormai affollato e privo di risorse, ma anche il più grosso problema attuale di Kurt, dal momento che aveva dichiarato il suo equipaggio al completo e aveva dato ordine ai suoi uomini di non far salire più nessuno, nemmeno dopo lauto compenso, nemmeno dopo un'esibizione pressoché perfetta di Don't Cry For Me Argentina che avrebbe invero fatto piangere di commozione la stessa Evita Péron (per non parlare di Madonna) e tantomeno dopo una scena strappalacrime eseguita con maestria sul ponte di poppa, nonostante le urla cafone di un'intera fila di marinai pronti ad imbarcarsi.
Da che la nave era stata rimessa in acqua dopo le riparazioni e le dovute migliorie, Kurt aveva provato a farsi arruolare nell'equipaggio ogni santo giorno per quasi due mesi rimediando un sacco di no, qualche calcio nel sedere e assolutamente nessun risultato; ma lui doveva partire, per questo si era rassegnato all'inevitabile. Aveva diligentemente preparato una sacca con tutti i generi di prima necessità e anche una seconda sacca con qualcosa da mangiare, aveva lasciato un bigliettino tenero a suo padre, spiegandogli che non era per lui che se ne andava, e l'aveva baciato sulla fronte stando ben attento a non svegliarlo.
Quindi si era recato al porto ed era lì che si trovava ora, nell'ombra di un vicolo ad osservare la nave per farsi venire un'idea. L'unico accesso al ponte era sorvegliato dagli uomini di Karofsky e di certo non poteva mettersi i bagagli in spalla e passare fischiettando. Doveva trovare il modo di introdursi sulla nave di nascosto. Dopo aver escluso per ragioni di estetica, pericolosità e soprattutto rischio di sporcarsi i vestiti, di arrampicarsi lungo le gomene che assicuravano la nave e di catapultarsi dai tetti direttamente sul ponte, Kurt era rimasto a corto di idee; non è che avesse granché dimestichezza con l'intrufolarsi sulle navi altrui.
A dargliene la possibilità fu l'enorme quantità di birra che veniva imbarcata. Il suo piano iniziale era quello di prendere una delle casse e avviarsi con disinvoltura sulla passerella, fingendo di essere uno dei mozzi che doveva portarla ai marinai, ma ci rinunciò quando si rese conto che pesavano un mezzo quintale l'una e che lui aveva anche le valige e una generale situazione di polsi fragili. Così non gli rimase che aspettare che la birra fosse distribuita, oltre che impilata in torri di casse pericolanti lungo tutto il ponte della nave, e che iniziassero balli e canti sregolati, con lanci di bottiglie vuote fuori bordo e urla che, si fosse trovato in una situazione un po' meno di necessità, forse lo avrebbero fatto rinunciare all'idea di una vita da marinaio.
Quando vide le due guardie crollare a terra addormentate, decise che poteva fare un tentativo e, male che fosse andata, scappare di corsa. Sfuggire a gente ubriaca fradicia non sarebbe poi stato così difficile.
Uscì impettito dal suo nascondiglio e guardò la McKinley con aria di sfida. “A noi due!” Pensò stringendo la presa sulle maniglie delle valigie e dirigendosi a passo spedito verso la passerella.
La trovò corrosa dalla salsedine, priva di corrimano e molto instabile, cosa che rese i suoi spostamenti alquanto complicati.
Sul ponte si ballava e si rideva, e quando Kurt ci mise piede sconvolto da quei venti metri che aveva fatto rischiando di finire a bagno, nessuno notò la sua presenza. Ebbe tutto il tempo di valutare la situazione e di notare che in effetti la nave sembrava ancora più grande vista da sopra. Il ponte era una cosa immensa, Kurt non vedeva l'ora di vederlo sgombro e di potersi mettere a prua con le braccia aperte a sentire il vento sul viso. Per il momento, però, doveva trovare una sistemazione, una cabina libera, un posto vuoto dove sistemare tutte le sue cose e magari cambiarsi. C'era tanta di quella gente là sopra, e così fuori di sé per la birra, che sarebbe stato piuttosto facile far credere a tutti di esserci sempre stato. D'altronde il fascino dei marinai stava proprio nel connubio perfetto tra i loro corpi statuari e le menti straordinariamente rozze e facili da plasmare. Kurt era fiducioso che si sarebbe trovato benissimo.
Con rinnovato entusiasmo, si fece platealmente aria di fronte ad un biondino quasi perfetto che gli sorrideva ottenebrato dai fumi dell'alcol, quindi prese nuovamente le sue valigie e infilò l'unica porta che gli sembrava potesse condurlo alle cabine.
Prima che scendesse la scala buia e tortuosa, un brivido gelido gli accarezzò la schiena ma quando si voltò a cercare gli occhi che dovevano averlo generato, non trovò nessuno che lo stesse guardando. Indugiò ancora qualche istante fra la folla e poi decise che doveva trattarsi di paranoia e si chiuse la porta alle spalle.
Per una nave così grande, si aspettava di trovare molto di più ma era evidente che il signor McKinley aveva una grande esperienza in fatto di navi, ma nessuna idea di come organizzare lo spazio.
Quando arrivò in fondo alla rampa di scale, trascinandosi dietro le sue enormi valige, scoprì che c'erano solo due porte chiuse e che tutto ciò che restava della nave era occupato dalle provviste, centinaia di barili, quintali di carne appesa a ganci luridi che sgocciolava ancora sangue sul pavimento e sacchi di patate a non finire. Kurt guardò con aria disgustata le cibarie che aveva davanti, immagazzinate senza alcun metodo di conservazione e probabilmente a disposizione di scarafaggi, topi ed ogni genere di animale.
Sospirò, quindi decise di provare con le stanze. Forse si era risparmiato sulla cambusa a favore dei letti.
Fu costretto a spalancare la vecchia porta tarlata con una spallata che gli fece vibrare tutta la colonna vertebrale e si ritrovò con le ossa indolenzite e la porta pericolante che gli incombeva addosso sui cardini arrugginiti. La stanza non era decisamente meglio del corridoio, anzi forse a stendere due teli per terra e rannicchiarsi lì avrebbe preso meno malattie che sui materassi luridi che aveva ora davanti agli occhi. C'erano letti un po' ovunque, incassati in nicchie nelle pareti o arrangiati per terra, gli uni accanto agli altri. E, dove non c'era spazio, erano appese amache sbrindellate che si incrociavano le une sulle altre, dando l'impressione che ci fosse un'enorme ragnatela bianca tesa da un lato all'altro della stanza. Se anche Kurt fosse stato disposto a dormire in uno qualunque di quei giacigli di fortuna – e non lo era – di certo non c'era posto per tutta la sua roba là dentro. Non aveva idea di dove gli altri marinai avessero messo i loro bagagli o di come, se per questo, riuscissero a chiudere gli occhi anche per dieci minuti così ammassati, ma lui di certo non poteva passare così tutto il viaggio; era d'obbligo trovare un'altra sistemazione. Cercò di richiudere la porta, ma quella si limitò a scricchiolare in maniera inquietante, quindi preferì lasciarla com'era e allontanarsi molto velocemente prima di combinare altri danni.
Si diresse verso l'alta porta che sembrava, anche ad occhio, in condizioni migliori della prima e, quando provò ad aprirla, quella scivolò sui cardini senza un rumore riempiendogli il cuore di speranza. La stanza all'interno era una singola, ben tenuta, con due oblò perfettamente rotondi e anche un candelabro tintinnante di cristalli, sebbene privo di candele giacché queste avrebbero dato fuoco al soffitto.
Il letto era un matrimoniale che occupava più di metà stanza, con un baldacchino e un enorme quadro, forse un po' eccessivo ma d'atmosfera, che troneggiava appena al di sopra della testata, incassato in una cornice spessa almeno quattro centimetri. La stanza era completa di un tavolino per la corrispondenza, un bel baule dove riporre i propri abiti e un bagno piccolo ma di tutto rispetto, con anche una deliziosa vasca da bagno montata su zampette di leone dorate. Kurt immaginò che se la nave avesse cominciato ad imbarcare acqua, quella era la prima cosa che ci si sarebbe aspettati di buttare a mare. Ad ogni modo, quella era una stanza decente che poteva fare al caso suo e, ora che ne aveva scoperta l'esistenza, la sua permanenza prolungata su quella nave gli sembrava molto più probabile. Non si chiese neanche per un istante a chi potesse appartenere quel miraggio di comodità e di decoro, era evidentemente la stanza che un Dio in cui non credeva aveva ritenuto opportuno mettere su quella nave in previsione del suo imminente arrivo.
Stava giustappunto sistemando i suoi averi e i suoi tanti vestiti, che altrimenti rischiavano di rimanere orrendamente spiegazzati per sempre, quando un colpo di tosse lo colse di sorpresa.
Quando si voltò con una mano sul cuore e l'espressione sconvolta e a tratti appena un po' scandalizzata, scoprì che il capitano Karofsky lo stava osservando, appoggiato pigramente allo stipite della porta, con le braccia al petto e le gambe incrociate all'altezza delle caviglie.
Kurt lo riconobbe all'istante perché aveva fatto molte ricerche sul suo conto – d'altronde, con i tempi che correvano, non era più consigliabile imbarcarsi su navi capitanate da perfetti sconosciuti che potevano rivelarsi malvagi filibustieri o feroci pirati dei Caraibi – e anche perché Karofsky era l'ultima moda in fatto di conoscenze; se non ci avevi pranzato almeno una volta non eri nessuno in città. Il suo bel viso rotondo stampato su poster e volantini compariva appeso un po' da tutte le parti. Le signore ce lo avevano dipinto sui ventagli e gli uomini facevano a gara a chi lo conoscesse meglio degli altri. Nei bar si scatenavano vere e proprie guerre con lanci di granite colorate. Kurt, naturalmente, aveva avuto modo di vederlo dal vivo soltanto una volta e da lontano, durante il varo della McKinley. Allora il capitano Karofsky era stato su un palco, molto in alto, con il sole alle spalle a fargli da coreografia epica e gli era sembrato eroico e pieno di belle speranze, ma soprattutto magnanimo e gentile.
Tutto il contrario di come gli appariva adesso. Tanto per cominciare, non aveva nessuna alta uniforme, solo un paio di vecchi pantaloni sdruciti infilati in due stivali al ginocchio che dovevano essere appartenuti almeno ad altre tre persone diverse per essere conciati in quel modo, e poi una camicia di un colore indefinito tra il giallo e il grigio che Kurt supponeva fosse stata bianca un tempo lontano di cui né lui né Karofsky, probabilmente, potevano avere memoria. Come se quello stile da sciacallaggio di cimiteri non fosse sufficiente, il capitano lo guardava dritto negli occhi senza dare ad intendere se lo stesse facendo per cortesia o per valutare in quanti pezzi poteva tagliarlo con la sciabola sbeccata che portava alla cintura e sulla quale lo sguardo di Kurt tornava a scivolare contro la sua volontà.
Ad ogni modo Kurt aveva fatto una missione di essere sempre splendido in qualunque situazione, per cui non si lasciò intimorire dallo sguardo del capitano, piuttosto lasciò andare il cardigan a righe azzurrine che stava accuratamente ripiegando e si mise dritto, con le mani rispettosamente intrecciate in vita e lo sguardo che conteneva interesse e noia in egual misura. “Lei deve essere il capitano Karofsky,” esclamò tendendo la mano.
Per la prima volta da che era comparso, Dave Karofsky staccò gli occhi dal suo viso per fissare le sue dita dubbioso, quasi a chiedersi che cosa dovesse farsene di quelle falangi pallide che non avevano mai lavorato in vita loro. “Chi sono io lo so,” commentò, facendo schioccare la lingua, che poi rimase a gonfiargli una guancia, come se fosse intento a ragionare su quello che sarebbe venuto. “Il problema qui è chi sei tu.”
Kurt si schiarì la gola. “Io,” rispose con un certo immotivato orgoglio personale dovuto alla sola pronuncia del suo nome e cognome “sono Kurt Hummel.”
Karofsky annuì. “Fammi indovinare,” commentò, staccandosi dallo stipite e sciogliendo le braccia per portarsele ai fianchi. “Quello a cui ho più volte detto di non salire su questa nave?”
Kurt sussultò e deglutì pur senza volerlo, ma non perse la propria grinta. “Esattamente. E vorrei proprio capire per quale motivo non ha mai voluto ascoltare quello che avevo da dire.”
“Perché non me ne fregava niente,” rispose pacifico il capitano.
Kurt lo guardò oltraggiato, la bocca spalancata e gli occhi sgranati di fronte ad una tale dimostrazione di scortesia. “Lei è molto maleducato, lo sa?”
“Disse quello che è salito sulla mia nave senza permesso,” commentò il capitano, attraversando a grandi passi la stanza per dirigersi verso il tavolo dei liquori. Quando gli passò accanto, Kurt percepì l'odore forte della salsedine e quello vagamente più pungente di sudore. Arricciò il naso per abitudine, ma si ritrovò a distenderlo quando si rese conto che non era tremendo come se lo aspettava.
Kurt lo osservò con molta attenzione mentre, apparentemente dimentico della sua presenza, si versava da bere, facendo appena tintinnare la bottiglia di liquore contro il bicchiere. Aveva sempre pensato che il capitano avesse un aspetto piuttosto banale, ma mentre i suoi occhi continuavano a seguire la linea delle sue spalle e quella della schiena per incollarsi sul suo sedere nemmeno ci fosse stato un magnete, Kurt non poteva più negare che la sua prima valutazione fosse stata parecchio errata. Il capitano Karofsky era massiccio, molto alto e aveva una certa eleganza anche nei due stracci luridi che indossava e, per quanto gli costasse ammetterlo, Kurt sapeva perfettamente che un uomo che riusciva ad essere attraente anche indossando abiti di pessima qualità, aveva già una predisposizione alla perfezione. Come lui.
Era così intento a fissargli le cuciture delle tasche anteriori che sobbalzò quando la sua voce si fece di nuovo sentire, improvvisa, forte e chiara. “Hai un'idea di dove ti trovi, o il tuo cervello pieno di brillantina ti ci ha portato in automatico?” Chiese.
Kurt rimase così sorpreso dal sentirlo parlare – nemmeno fosse stato un manichino temporaneamente parcheggiato al tavolo dei liquori – che non registrò nemmeno l'offesa. “Sulla McKinley,” rispose la prima cosa che gli venne in mente, giusto per non prolungare il silenzio che aveva già lasciato seguire alla domanda.
“Intendevo qui, ora, Kurt,” Karofsky lo guardò con l'aria vagamente impietosita.
“Oh.” Kurt si guardò intorno, improvvisamente consapevole che quella stanza era diversa dalla precedente e, in quanto tale, forse, aveva qualcosa di speciale. Solo allora il letto a baldacchino, gli oblò il bagno e soprattutto la pulizia e il rifornimento della camera gli apparvero sotto tutta un'altra luce. Fece un giro quasi completo su se stesso prima di tornare a guardarlo, deglutendo. “La cabina del capitano?” Chiese con un filo di voce e la paura negli occhi.
Dave Karfosky annuì, facendo di nuovo schioccare le labbra in quel modo irritante che faceva rabbrividire Kurt dalla cima della testa alla punta dei piedi. “Eh sì, è la mia cabina,” confermò. “Quindi, non solo sei salito sulla mia nave di nascosto, quando ti avevo vietato di farlo, ma ti sei anche accampato qua dentro spargendo i tuoi cappellini.”
Kurt deglutì di nuovo, indicando la maschera per la notte che l'altro si stava facendo roteare su un indice. “E' una maschera per la notte,” lo corresse. “Non riesco a dormire se c'è troppa-”
“Non me ne frega niente,” ripeté il capitano col tono da cantilena e Kurt abbassò lo sguardo annuendo e trattenendo palesemente la lingua. Karofsky aspettò di essere certo che non parlasse, prima di gettare via la maschera da notte. “Vieni qui e ti accampi. Ora, che cosa dovrei fare, secondo te?”
“Dirmi gentilmente di prendere le mie cose e andarmene?” Tentò Kurt, con un sorriso isterico che mise in mostra la dentatura.
“E dove?” Chiese Karofsky, fingendosi interessato. “La nave è partita mezz'ora fa, non te ne sei accorto?” Gli fece cenno con la testa e, quando Kurt guardò fuori dall'oblò si rese conto che la prima volta che ci aveva guardato attraverso aveva visto la costa.
“Come sarebbe a dire partita?” La voce gli schizzò di un'ottava. “Eravate tutti ubriachi.”
“I marinai non si ubriacano mai veramente,” Dave scosse la testa. “O meglio, non sono mai veramente sobri. Vivono in uno stato di ubriachezza perenne. Comunque, adesso che siamo in mare aperto, sei decisamente un intruso. E tu lo sai che cosa succede a chi viaggia su una nave senza permesso?”
“Lo si lascia gentilmente al primo porto?” Tentò ancora Kurt, occhieggiando la propria valigia ancora aperta.
Dave scosse la testa. “No. Si trova un bel punto profondo e infestato di pescecani e lo si butta a mare.”
Kurt si affrettò a recuperare i suoi vestiti che ancora giacevano sul letto e a ficcarli a caso nella borsa, il tutto sotto gli occhi di Karfosky che non si era mosso nemmeno di un millimetro. “Sono sicuro che non siamo ancora così lontani. Qualcuno potrebbe venirmi a prendere, o potrei nuotare.”
“Già ti vedo colare a picco, abbracciato alla tua piastra per capelli,” commentò il capitano.
Kurt pensò intensamente ad una risposta da dargli, ma l'idea di essere a millemila chilometri dalla costa, da solo, con le valige e in una condizione disagiata senza speranza gli faceva venire le lacrime agli occhi, quindi tutta la forza che aveva la usò per non piangere e non gli venne nessuna risposta. Chiuse la valigia e si diresse a grandi passi verso la porta, senza riuscire ad arrivarci.
“C'è sempre la seconda possibilità,” esclamò infatti Karofsky, muovendosi più fluidamente di quanto ci si potesse aspettare da uno della sua stazza e allungando un braccio ad impedirgli il passaggio verso il corridoio. Kurt si fermò dubbioso e vagamente diffidente, e rimase così immobile che Karofsky ebbe tutto il tempo di insinuarsi tra lui e la porta con tutto il corpo, proseguendo quel movimento liquido che Kurt gli aveva visto fare con la coda dell'occhio. “Non vuoi sapere quale?”
“Quale?” Deglutì Kurt.
“Potresti dormire qui,” sorrise Karofsky, solo che il suo sorriso non era quello dolce e comprensivo che parlava di capitani che andavano a dormire su divani freddi e scomodi per lasciare la propria stanza ed emeriti sconosciuti intrufolatisi sulle loro navi. Ad ogni modo, Kurt non era troppo sicuro di sapere nemmeno il significato reale delle labbra tirate del capitano.
“Grazie,” rispose annuendo come un invasato, “ma non è necessario, posso buttarmi fuori a babordo. La borsa di Gucci mi porterà a riva.”
In tutta risposta, il capitano chiuse la porta con una mano e girò la chiave, per poi infilarsela nei pantaloni. Quindi lo guardò col mento sollevato, come aspettando qualcosa.
“Non ho molta scelta, vero?”
Karofksy scosse la testa, e si passò la lingua sulle labbra, guardando ancora in terra prima di sollevare gli occhi su di lui e staccarsi dalla porta con una spinta. Kurt arretrò di qualche passo, boccheggiando.
“Non potremmo discuterne?”
Il capitano fece qualche passo verso di lui e gli tolse di mano la borsa con delicatezza. “O ti butto in pasto agli squali, o trovi il modo di giustificare la tua presenza in questa stanza,” rispose con molta chiarezza. Quindi gli si avvicinò abbastanza da accarezzargli il collo con la punta del naso e sussurrargli all'orecchio. “Io almeno non mordo.”
Kurt fu scosso da un brivido, uno vero di quelli che faceva sembrare stupidi tutti gli altri, anche quelli che aveva provato nemmeno due minuti prima quando aveva pensato di morire per aver messo piede sulla nave. Era un brivido molto più caldo, che sulla pelle gli lasciava un'energia statica piacevole e non la pelle d'oca.
Le dita gli formicolavano perché Karofsky si faceva sempre più vicino e il suo corpo era solido soltanto a guardarlo, avrebbe voluto già allungare le mani e scoprire se quell'impressione era corretta. Era incredibile come ancora non lo toccasse eppure se lo sentisse già addosso.
Sorpreso dalla sua stessa reazione, fece un altro passo indietro per darsi almeno l'illusione di stare opponendo una qualche resistenza seria, ma si ritrovò a sbattere contro le colonne del baldacchino; la sua testa fece un suono chiarissimo, cozzandoci contro. Commise lo sbaglio di chiudere gli occhi per il dolore, perdendo così il contatto visivo con Karofsky che aveva sempre mantenuto fino a quel momento, e quello se ne approfittò per schiacciarlo contro la colonna e premere il proprio corpo contro il suo.
In un attimo, Kurt sentì tutto insieme quello che si era immaginato di sentire. Il ventre teso di Karofsky che sbatteva contro il suo, le sue spalle tornite alle quali fu costretto ad aggrapparsi per non ribaltarsi sul materasso e perdere, così, quel minimo di vantaggio che aveva stando in piedi e soprattutto la sua erezione, che gli tirava i pantaloni, e si strusciava in maniera tanto sfacciata contro la sua che quella sfuggì al suo controllo, completamente.
Il primo gemito che gli scappò di bocca non andò molto lontano, fu Dave ad accoglierlo sulle labbra quando si chinò a baciarlo. Kurt si accorse che lo stava facendo quando ormai la bocca del capitano era sulla sua, perché aveva ancora gli occhi chiusi. Si aprirono di scatto quando Karofsky gli leccò le labbra e insinuò la lingua a cercare la sua che per un primo momento non reagì nemmeno.
A Dave sembrava non importare. Lo baciava come se Kurt stesse rispondendo e insinuava le mani sotto la sua maglia, come se non stesse cercando di allontanarsi – anche se, in realtà, non lo stava facendo troppo disperatamente.
Kurt sapeva di dover rifiutare, anche perché pagare la traversata con favori sessuali non era esattamente quello che aveva in mente per arrivare dall'altra parte dell'Oceano, e poi suo padre non avrebbe approvato. Che figura ci faceva ad essersene andato col favore delle tenebre, lasciandogli un bigliettino e un bacio in fronte, per poi finire nel letto del capitano nemmeno sei ore dopo? Certo poteva andargli peggio, avrebbe potuto fermarsi nella stanza dei marinai che probabilmente non avrebbero preso quell'intrusione meglio del capitano; e se nemmeno loro volevano buttarlo in mare...
I baci del capitano erano tanto dolci, anche se invadenti, che Kurt si ritrovò a sentirne la mancanza quando Karofsky si staccò da lui per fargli passare la maglia dalla testa. “Spogliati,” gli sussurrò addosso un attimo dopo, tracciando i contorni delle sue spalle nude con quella bocca che Kurt avrebbe voluto riavere sulla propria all'istante. “Hai un sacco di posto dove mettere i vestiti, qui. Non c'è nessun motivo di tenerli addosso.”
Kurt strizzò gli occhi e fece una smorfia, sospirando. “Va bene, d'accordo,” piagnucolò, sollevando entrambe le mani e frapponendole tra il suo corpo e quello di Karofsky che, da qualche parte durante il suo monologo interiore, aveva trovato il tempo di levarsi la maglia lurida, dimostrando che, sì, il petto che aveva intuito sotto i polpastrelli, era in effetti ampio come sembrava. “Già l'intera situazione sembra la premessa di un brutto film porno, possiamo almeno smetterla con le battute da quattro soldi? Se deve farlo, lo faccia in silenzio!”
Dave scoppiò a ridere quando Kurt chiuse gli occhi, si appiattì contro la colonna del baldacchino e sollevò il mento, probabilmente immolandosi per il bene di un intero popolo che esisteva soltanto nella sua testa e la cui salvezza dipendeva dal suo sacrificio. “Certo, come vuoi,” disse con un'altra risatina, prima di sollevarlo di peso e lanciarlo sul materasso, dove Kurt rimbalzò un paio di volte, urlando.
“Ma che modi!” Protestò, non appena ebbe smesso di rimbalzare e si fu ripreso dallo spavento.
Dave salì sul letto e gli si allungò addosso senza più dire una parola. Le sue mani ritrovarono subito la strada per il suo corpo e lo accarezzarono come per ricordarsi ciò che della sua pelle avevano visto fino a quel momento, quindi andarono alla scoperta di nuovo territori, insinuandosi sotto l'elastico dei pantaloni.
Kurt non poté impedirsi di mugolare, e il versetto che gli uscì di bocca strappò a Karofsky un altro sorriso soddisfatto, mentre con due strattoni lo liberava anche dei pantaloni.
Si ritrovò ben presto molto più nudo di quanto si era mai sognato di essere con qualcuno, soprattutto non con il capitano Karofsky – o forse con lui sì, ma non sulla nave e non come punizione per esserci salito di nascosto. Non era per nulla romantico! – e si chiese che cosa ci si aspettava che facesse, in quella situazione. Aveva un'idea vaga delle basi, certo, ma non era questo il punto. Se il capitano pensava che avrebbe reso la cosa quantomeno intrigante per espiare il grave errore di essersi intrufolato sulla sua nave, si sbagliava di grosso perché lui non sapeva nemmeno da che parte iniziare a mettere le mani. E si sentiva anche molto in imbarazzo perché il suo corpo sembrava fregarsene della propria ignoranza e continuava a cercare di strusciarsi contro quello di Karofsky anche senza la diretta approvazione del suo cervello.
Dave Karofsky, però, non si aspettava un bel nulla da lui; anzi, se si era aspettato qualcosa, era di dover fare tutto quanto da solo ed era quello che stava facendo, senza lamentarsi e con un certo impegno.
Mentre Kurt cercava di protestare in maniera valida senza riuscirci minimamente, Dave gli aprì le gambe e vi si sistemò in mezzo, calandosi così piano su di lui che Kurt ebbe modo di sentire con precisione tutto il movimento e di seguirlo involontariamente con il proprio bacino fino a stringergli le gambe intorno alla vita quasi per riflesso. Schiuse gli occhi e cercò il soffitto inarcandosi sotto le dita di Dave che si erano fatte più possessive e ora lasciavano il segno quando il capitano le stringeva forte intorno ai suo fianchi, ai suoi polsi, alle sue caviglie e per ogni bacio e ogni carezza che gli faceva piovere addosso c'era sempre quella stretta a ricordargli cose che forse avrebbero dovuto preoccuparlo, ma che in realtà non lo facevano abbastanza.
Il tempo, che fino a quel momento si era lasciato scandire dalle azioni di Dave, sempre più precise e concitate, sempre più imbarazzanti e calde e invadenti, ora aveva perso definizione. Kurt non sapeva quanto fosse passato dal momento in cui era finito sul letto, non sapeva da quanto Dave lo stesse baciando o da quando i suoi baci si fossero fatti così assurdamente eccitanti da doverli cercare e volere se anche solo la sua bocca si allontanava di poco. Tutto ciò che percepiva era il calore del ragazzo e il peso del suo corpo tra le proprie gambe, il pulsare fastidioso del proprio desiderio e di quello di Dave che si cercavano a vicenda, pretendendo una soddisfazione più completa delle semplici carezze che aveva ricevuto finora.
Non si accorse di mugolare, né di andare incontro alle dita che si facevano spazio nel suo corpo da chissà quanto e lo costringevano a sollevare il bacino e a chiedere sulla lingua di Dave che quella tortura smettesse al più presto. Si rese conto delle parole che aveva pronunciato solo nel dirle per l'ennesima volta, mentre affondava le dita nelle spalle di Dave nel tentativo di schiacciarglisi addosso il più possibile, ed arrossì quando aprì gli occhi per vedere se era l'unico ad essersi sentito e invece trovò Dave che lo fissava e sul suo viso c'era più o meno lo stesso bisogno, forse perfino più intenso.
Il respiro di Kurt si perse da qualche parte lungo la strada per uscirgli di gola, così si mise a cercarlo sulla pelle di Dave, ma ne trovò solo uno sbuffo quando Dave entrò, costringendolo a stringere i denti e a trattenere l'impulso di allontanarlo quando una scarica di dolore, breve ma intensa, gli attraversò la spina dorsale.
Karofsky gli strinse forte un fianco e gli si fece addosso con più forza e più violento di prima. A Kurt non rimase che incrociare le caviglie e abbracciarlo al collo, lasciando che portasse loro due come portava la nave.
E non importava più che anche quel pensiero fosse uscito dallo stesso brutto film porno che li aveva portati fin lì. Quando pensava che non gli sarebbe rimasto che strusciarsi contro Karofsky per trovare un po' di sollievo, quello si mise ad accarezzarlo e la stretta della sua mano fu così improvvisa, che Kurt cacciò un urlo del quale non ebbe tempo di vergognarsi, perso com'era nel vortice di sensazioni che lo avevano colpito tutte quante insieme. Del suo inarcarsi violento contro le coperte e delle ultime spinte di Dave che veniva dentro di lui si ricordò solo dopo che fu tornato presente a se stesso, disteso tra i cuscini morbidi e riprese coscienza di dove si trovava. Il sonno che lo avvolse quasi subito era caldo e rassicurante e, per un attimo, Kurt pensò che somigliasse molto alle braccia di Karofsky.
Chiuse gli occhi cullato dalla stanchezza e dal rollio della nave; se volevano buttarlo in mare adesso, non avrebbe opposto resistenza. Sperava solo che si ricordassero dei suoi vestiti, sarebbe stato seccante arrivare a riva nudo. Sentì solo vagamente il lenzuolo che lo copriva e il materasso che si agitava.
La voce del capitano era sicuramente un sogno quando ordinò che nessuno disturbasse il nuovo membro dell'equipaggio.

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