Personaggi: Bushido, Bill, OFC
Genere: Commedia, Romantico
Avvisi: Slash, Lemon, Language
Rating: R
Note: Dunque, questa storiellina nasce da due esigenze fondamentali: mettere Bushido in ridicolo e scrivere qualcosa su Spartacus: blood and sand, la mia fissa del momento. Dal momento che mi sentivo molto ferrata sulla prima, ma non abbastanza sulla seconda, l'ambientazione già utilizzata da lisachan in Cliché mi permetteva di unire le due cose, quindi perché non usarla con il beneplacito della gioiosa autrice?
Per chi non lo sapesse, Spartacus è una serie televisiva statunitense che narra le vicende di Spartaco (dai?) ed è dunque ambientata nell'antica Roma, più precisamente a Capua, ancora più precisamente in un Ludus (una palestra gladiatoria) di proprietà di un uomo meraviglioso che risponde al nome di Batiatus (che, tra le innumerevoli cose che lo riguardano, è anche interpretato da John Hannah – quello che faceva il fidanzato what if di Gwyneth Paltrow, per intenderci. E sua moglie in questo telefilm è nientemeno che Lucy Lawless). Il telefilm ha una fotografia stupenda ed è girato ispirandosi a film come 300, per cui scene di estrema violenza al rallentatore, secchiate di sangue sullo schermo e denti che volano, ma – giusto perché altrimenti non ci interesserebbe – così tanto sesso da darti la nausea, un infinito numero di pairing canon ma anche un numero infinito di pairing potenziali (e/o suggeriti), dello slash (canon!) e anche uomini quasi costantemente nudi coi pirulini di fuori. Non vi viene voglia di vederlo?

Riassunto: Volete che torni nella mia cella?
CLICHE' - VOL. II


Bushido sapeva di aver compiuto un bellissimo percorso nella sua vita.
Era partito malissimo – non per sua scelta, naturalmente – con un padre violento e una madre incapace di contrastarlo, e un'adolescenza fra le strade del ghetto a fare uso di droga, coltelli a serramanico e imbrattando i muri e le fiancate dei treni con il proprio nome, nella speranza che un giorno quel King of Kingz scritto a lettere quadrate e puntute potesse finalmente arrivare sulla bocca di tutti, come meritava. Avrebbe potuto finire male, con lui in galera, con lui morto, con lui buttato in qualche angolo di strada senza più niente in cui credere se non la necessità di farsi ancora una volta prima di crepare nel proprio vomito. E invece aveva fatto grandi cose perché lui era un grande, l'aveva sempre saputo, e i grandi erano sempre destinati a vincere.
Il simbolo della sua grandezza era senza dubbio la Villa Gialla, che rappresentava non solo il punto di arrivo della sua carriera ma era anche la dimostrazione tangibile di quanto lui fosse figo e gli altri facessero schifo. Un concetto che gli premeva fosse ben chiaro a chiunque. Aveva comprato quella villa per dimostrare di poter pagare due miliardi di euro sull'unghia come niente fosse – anche se la cifra era esagerata per quella casa e anche se una casa di quelle dimensioni non gli serviva minimamente – e l'aveva recintata perché quando la gente ci passava davanti per darci un'occhiata potesse ragionevolmente morire di invidia e curiosità nel non riuscire a scorgere che le finestre del piano superiore. Per questo era bello tornarci: per rilassarsi e per gettare in faccia al mondo la propria indiscussa superiorità. La Villa Gialla era il suo piccolo tesoro e provava per lei un affetto da padre orgoglioso; la conosceva così bene che non gli sarebbe sfuggito nemmeno un graffietto sull'intonaco della facciata posteriore, figurarsi se poteva non notare la rivoluzione che era avvenuta in sua assenza, senza per altro nessun permesso da parte sua.
Innanzi tutto il cancello automatico non aveva funzionato, quindi gli era toccato scendere dalla BMW e aprirlo a mano, passare e poi riscendere per chiuderlo, sequenza di azioni che già di per se potevano rovinargli la giornata. E poi i cani gli erano corsi incontro in un parcheggio completamente deserto, cosa che lo aveva portato a chiedersi dove fossero finite tutte le sue automobili. Posto che aveva un servizio di sorveglianza che era lì proprio per evitare i furti e quindi le sue meravigliose, preziosissime auto dovevano essere da qualche altra parte, voleva capire chi si fosse preso la briga di spostarle senza il suo permesso e per qualche cazzo di motivo, per altro.
Quando entrò in casa ed ebbe gettato le chiavi sul mobile dell'ingresso – scoprendo per altro che non c'era più un mobile dell'ingresso – le cose strane aumentarono così tanto di numero che perse subito il conto. Innanzi tutto dal salotto erano spariti il televisore al plasma, l'impianto stereo e con buona pace della sua sanità mentale anche i divani e il tavolino di cristallo, e alla sua destra, appena un secondo dopo la sua entrata, era comparsa una figura che non era sicuro di voler riconoscere.
“Karima?” Chiese. Ad una prima occhiata, gli sembrò che la donna indossasse un abito tradizionale tunisino ma poi si rese conto che lui non aveva idea di che aspetto avesse un abito tradizionale tunisino e che comunque, qualunque aspetto avesse, di certo non sarebbe stato quello. La sua domestica aveva addosso quella che poteva solo supporre essere una specie di tunica, sopra una tuta coprente color carne.
“Non chieda,” sibilò lei, le mani in grembo e lo sguardo ridotto ad una linea orizzontale, come nei cartoni animati giapponesi.
Bushido sentì un brivido percorrergli la schiena mentre nella sua testa si faceva strada una consapevolezza che non avrebbe voluto avere perché alle volte era meglio vivere nell'ignoranza che conoscere il proprio destino senza poterlo evitare. “Immagino tu abbia qualcosa da dirmi,” sospirò, togliendosi il cappotto. Si guardò intorno in cerca dell'attaccapanni e, non trovando nemmeno quello, decise di lasciarlo cadere per terra.
“Tutto questo non rientra tra i miei compiti,” sibilò ancora la donna, che aveva i capelli acconciati in una specie di crocchia e una coroncina di plastica sulla sommità della testa.
“Lo so, Karima.”
“Lei dovrà risarcirmi per i danni morali,” continuò, senza sollevare la testa e senza che il suo sguardo si addolcisse o diventasse qualcosa di diverso da quello pietrificante della Medusa che era al momento.
“Ne sono consapevole e sarò disposto ad ascoltare le tue richieste una volta che questo martirio avrà avuto fine,” concordò, annuendo sempre più rassegnato.
“E una volta uscita da quella porta, non mi rivedrà per una settimana,” commentò Karima, “anzi due, perché mi prendo le ferie e vado a trovare mia sorella a Tunisi.”
A questo punto Bushido poteva soltanto immaginare di che proporzioni fosse questa tragedia se anche la sua domestica non aveva potuto sottrarvisi e, soprattutto, se era così tanto imbestialita da acconsentire di lasciarlo solo in cucina per più di tre giorni. “Ne hai tutto il diritto, naturalmente,” mormorò.
“Bene,” constatò lei. “Ora procediamo con questa follia, così potrò andarmene.”
“Procedi pure.”
Karima si schiarì la voce e fece schioccare la lingua. “Sei convocato,” commentò con poco sentimento, leggendo le due righe scritte sul palmo della mano. “Dalla... domina.”
“Dalla cosa?” Commentò Bushido, aggrottando le sopracciglia.
“Non ne ho idea e non m'interessa,” rispose sbrigativamente Karima, togliendosi la coroncina storta e piantandogliela in mano con mala grazia.
“Ma cosa– ?“ Bushido si voltò per seguirla con lo sguardo mentre recuperava il soprabito e la borsetta nascosti dietro una libreria e si affrettava a passi svelti verso la porta. “Karima!”
“Buona fortuna,” commentò lei, prima di sbattersi la porta alle spalle. “Ne avrà bisogno.”

*


Bushido avrebbe voluto rimettersi il cappotto, recuperare le chiavi dell'auto e quindi fuggire a gambe levate a casa di qualcun altro, evitando di salire le scale che portavano ai piani superiori, ma non lo fece. Sapeva bene, infatti, che evitare adesso la fatica mentale che lo aspettava in cima alla rampa di scale, non avrebbe fatto che aumentare il dolore fisico che sarebbe venuto dopo, quando chi lo aspettava lo avrebbe infine trovato. Era una questione di scegliere il male minore, lo aveva imparato a proprie spese.
Salì la rampa cercando di indovinare a cosa stesse andando incontro ma, anche quando il suo cervello sfiorò la soluzione giusta, si rifiutò di accettarla perché era davvero improponibile.
Aprì la porta di camera con il sacro terrore di un uomo che sa verrà costretto a fare cose che non vuole. Per un istante gli tornò in mente l'immagine di un innaffiatoio a forma di papera e vasi di azalee. Rabbrividì.
A prima vista la stanza sembrava vuota, ma sapeva di non essere un uomo benedetto da questa fortuna, così sospirò e volse lo sguardo finché non incontrò quello annoiato di Bill, in piedi davanti alla finestra.
“Ci hai messo tanto,” mormorò il ragazzo, allontanandosi dalle tende che stava accarezzando e guardandolo come se avesse disubbidito a qualche regola; il che era probabile, giacché nessuno lo aveva informato di quali fossero. “Devi obbedire, quando ti chiamo.”
“Bill...” iniziò.
“Domina,” puntualizzò il moro, con una stilettata degli occhi.
Bushido prese un respiro profondo e cercò di rammentarsi perché questo ragazzino appena ventenne si trovasse nella sua stanza, nella sua casa e, cosa ancora più importante, nella sua vita. Perché, in nome di una qualsiasi divinità disponibile al momento, non lo aveva preso di peso e scaraventato fuori da una finestra quando gli si era presentato, intenzionato a diventare il suo fidanzato? “Tesoro,” iniziò. “Non avevamo forse deciso di smetterla l'ultima volta?”
Bill non si mosse. Era nudo, fatta eccezione per una specie di lunga vestaglia quasi trasparente e legata all'altezza del bacino con una spilla microscopica che faticava a tenere coperto alcunché. Una situazione che rendeva difficile a Bushido anche rammentarsi perché adesso stesse facendo storie sul gioco di ruolo, a dire il vero. “Non ti è bastato il giardiniere messicano?” Tentò, inutilmente.
“Oh ma Anis, questa è tutta un'altra cosa!” Saltò su Bill, mentre la sua gelida maschera da seducente padrona di casa si frantumava nel suo sguardo esaltato ed infantile. “Sarà meraviglioso.”
Bushido non lo pensava affatto. “Dove sono finite le auto?” Chiese invece. “E il televisore, lo stereo... il salotto in generale.”
“Ho fatto sparire tutto,” rispose con orgoglio Bill, battendo le mani, “i ragazzi mi hanno aiutato a portare tutto in cantina.”
Bushido immaginò i suoi uomini che, agli ordini di Bill, si issavano mobili sulle spalle e pensò che alla fine della giornata avrebbe dovuto pagare anche loro. “Perché?” Piagnucolò.
“Perché siamo a Capua, Napoli, e mio marito possiede un Ludus,” esclamò il ragazzo, con aria più seria, rientrando nella parte molto prima di quanto il tunisino avrebbe voluto.
“Che diavolo è un Ludus?” Esclamò Bushido terrorizzato, seguendolo mentre gli girava intorno come a valutarlo, nemmeno fosse un cavallo al mercato. “E di quale marito stai parlando?”
Bill scosse la testa con noncuranza, passandogli due dita sul petto. “Non devi preoccuparti di lui, è andato al mercato a condurre i suoi affari e non sarà di ritorno prima di qualche ora.”
“Mi fa piacere,” commentò l'uomo, assurdamente infastidito all'idea di un marito immaginario, possessore di un qualcosa che non sapeva cos'era ma che di certo doveva essere importante perché Bill non avrebbe mai impersonato la moglie di un poveraccio. E poi il tipo aveva una serva.
A tal proposito... “Hai coinvolto anche Karima in questa cosa?” Chiese, ricordandosi di non usare la parola pagliacciata, per il bene suo e anche della casa, che Bill avrebbe probabilmente incendiato in caso contrario.
Bill fece una smorfia. “Ho dovuto, Tomi non era disponibile,” commentò sbrigativo. “E Chaku si è rifiutato di farmi da serva. Possiamo punirlo?”
“No, non possiamo, Bill.”
“Domina,” lo corresse. “Significa padrona.”
Bushido strinse le dita per impedirsi di commettere spropositi. “E' una donna anziana,” tentò, cercando di fargli capire l'ovvio.
“Infatti le ho fatto mettere quell'orrenda tuta color carne sotto al vestito,” esclamò Bill. “Avrebbe dovuto essere nuda, ma ho dovuto accontentarmi.”
“Meno male,” esclamò Bushido agghiacciato. “Non mi sarei mai più tolto l'immagine dalla mente.”
“Per questo ci sono qua io,” Bill lo guardò, tentando di essere sensuale e lascivo, ma ne venne fuori una smorfia impostata che lasciò Bushido perplesso. “Così puoi guardare me, gladiatore, e non quella stupida serva.”
Nonostante Bill fosse nudo e profumasse di qualcosa che gli stava oggettivamente dando alla testa, Bushido rimase immobile. “Gladiatore?”
“Sì, sei un gladiatore” sussurrò Bill, strusciandoglisi addosso “e hai appena interrotto i tuoi faticosi allenamenti per venire da me, come ti ho ordinato.”
“Bill...”
“Domina,” sussurrò Bill, lasciando scorrere le dita più in basso per poi stringere e strappargli un versetto sorpreso e preoccupato. “Impara a chiamarmi così, o ti farò frustrare.”
“Ok, ok, basta così,” Bushido mise le mani avanti e si sottrasse con attenzione alla stretta non proprio forte ma preoccupante delle dita di Bill. “Amore, tesoro,” ghignò in una smorfia isterica. “Che cosa stai dicendo, per l'amor di Dio?”
A quel punto Bill rilasciò uno sbuffo frustrato e indispettito. “Anis, non è difficile!” Esclamò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. “Siamo ai tempi degli antichi romani, tu sei uno dei gladiatori di mio marito e io sono la padrona di casa zoccola che ne chiama uno per farsi scopare,” spiegò. “Tu devi solo dire 'Sì, domina.' E' una parte facilissima!”
Bushido si passò una mano sulla faccia, stancamente. “Ho lavorato dodici ore,” gli fece presente.
“Esattamente!” Esclamò Bill esaltato. “L'allenamento di un gladiatore è sempre molto duro e sfiancante, così tu sei sudato e ansimante, i tuoi muscoli sono scolpiti e tesi. Questo e la tua forza maschia e selvaggia ti rende sessualmente irresistibile ai miei occhi, così ti faccio convocare dalla mia serva perché tu venga a soddisfarmi nelle mie stanze. Tutto chiaro?”
“Forza maschia e selvaggia?”
“A tal proposito, dovresti indossare questo per me. Per rendere il tutto più realistico.”
Bushido abbassò lo sguardo su questo paio di mutande di iuta, tremende e irragionevolmente piccole perché lui potesse anche solo pensare di indossarle. “Cosa?”
“Voglio vedere i tuoi muscoli sudati e guizzanti da gladiatore,” mormorò Bill, preso benissimo, mentre iniziava a spogliarlo. “E poi nessuno nel Ludus è mai così vestito.”
“No, non se ne parla,” scosse la testa.
“Anis, andiamo!”
“Non posso semplicemente spogliarmi?” Tentò di mediare. Meglio nudo che con le mutande di iuta.
Bill mise il broncio. “Ma non puoi essere arrivato qui nudo!”
“Magari quando sono arrivato qui avevo quelle addosso e tu me le hai strappate a morsi, preso dalla libido,” sputò Bushido, nell'ultimo estremo tentativo di essere conciliante ma mantenere un po' di dignità.
Bill sembrò valutare la proposta e poi alla fine annuì, anche se di malavoglia. “D'accordo, allora facciamo che ti ordino di spogliarti e tu lo fai,” concluse. “Spogliati.”
Bushido sospirò, evitando di alzare gli occhi al cielo per il semplice fatto che questo avrebbe, come sempre, istigato Bill all'isteria, quindi iniziò a spogliarsi. Bill batté le mani, quindi con una scrollata di spalle rilassante, si calò di nuovo nella parte e prese a guardarlo con l'espressione dell'allevatore di cavalli, qualcosa che non stuzzicava la fantasia di Bushido proprio per niente.
“Tu rimani vestito?”
“Zitto,” lo apostrofò Bill mentre lui se ne stava lì nudo a prendere gli spifferi della camera da letto. “Non ti ho dato il permesso di parlare.”
Il moro gli girò intorno, sfiorandolo appena con la punta delle dita e poi si avviò verso il letto, dandogli le spalle, per poi lasciar cadere la vestaglia a terra e regalargli un'ottima visuale del suo fondoschiena. Ecco, questa era una cosa su cui Bushido poteva lavorare, anche interpretando il gladiatore. Rimase immobile a guardare Bill che si stendeva sul letto e si teneva su con i gomiti per poterlo osservare attraverso le palpebre semi-chiuse. Da quel preciso punto in poi Bill avrebbe potuto lasciar correre, bearsi del gioco di ruolo fin quando era durato e godersi l'obbiettivo raggiunto. E soprattutto smettere di dire idiozie e starsene zitto. Bushido sarebbe stato perfettamente d'accordo; nella sua parte di gladiatore selvaggio era pronto a prendere la padrona di casa per dritto e per rovescio in modo che si dimenticasse di avere un marito impegnato al mercato. Anzi, soprattutto perché si dimenticasse di avere un marito da qualche parte.
Ma Bill non era mai bravo a capire quando piantarla, quindi, mentre Bushido gli si distendeva addosso e trovava felicemente la strada tra le sue gambe, già dimentico dell'impero romano, delle sue auto scomparse e del suo salotto in cantina, il ragazzino non trovò niente di meglio da fare che reclinare la testa ed esclamare un: “Prendimi qui e ora, il tuo padrone non tornerà che fra qualche ora,” esalando esageratamente e, in generale, agitandosi come un'anguilla.
“Bill,” gli sussurrò contro la pelle del collo, mentre tentava di fermargli le mani sopra la testa, un po' perché rientrava nel gioco ma soprattutto perché rischiava di prenderle in faccia.
Il cantante gli piantò le unghie nella schiena e lo guardò rabbioso. “Domina,” sibilò. “E così che devi chiamarmi.”
“No, guarda Bill, così non va.” Bushido si divincolò dalla stretta delle sue gambe e si sedette lì di fianco, nudo com'era, scuotendo la testa.
“Anis, che ti prende?” Mormorò Bill che con i capelli tutti arruffati e le guance un po' rosse sembrata tutto tranne che quello che voleva essere.
“Che mi prende?” Esclamò Bushido. “E me lo chiedi pure? Cos'era quella roba sul letto?”
“Quale roba?”
“Tu che ti agiti!” Sospirò. “Bill, seriamente, non potremmo scopare e basta?”
La trasfigurazione del viso di Bill avveniva a velocità così elevate che forse avrebbero dovuto studiarla. Il faccino preoccupato si trasformò istantaneamente nella maschera dell'odio e del tradimento. “No che non possiamo scopare e basta! Perché dobbiamo sempre fare questo discorso?” Sputò con un mezzo singulto da diva navigata; ci mancò quasi che gettasse un braccio in aria e chinasse la testa a favore di camera. “Perché non fai mai uno sforzo per assecondare le mie fantasie?”
“Ma tesoro,” replicò lui, allungando un braccio che venne puntualmente scostato di malumore. “Io le assecondo le tue fantasie, ma tu devi anche capire che c'è un limite. E c'è un motivo se mi rifiuto di vestirmi da Spartaco o di chiamarti Domina quando, vivaddio, riesco a schienarti. Lo capisci, sì, che ho trent'anni e non mi drogo più abbastanza per convivere col pensiero di aver fatto cose del genere?”
Bushido sapeva che per qualche strana ragione aver avuto quello stesso dialogo nemmeno due mesi prima non era servito a niente. Il problema con Bill era che se pensava di avere ragione su una cosa, difficilmente ti permetteva di contraddirlo. Solo nel caso in cui replicavi in maniera tanto seria da sembrare sul punto di sfanculare lui e le sue idee allora s'imbronciava e s'intristiva e decideva che per quel momento preciso poteva pure fingere di aver capito la follia nelle sue azioni. Ma non è che ammettesse di avere torto. Così Bushido aveva potuto anche lamentarsi di non voler fare il giardiniere messicano e ottenere che si finisse con quella pagliacciata, ma in sostanza quello che Bill gli aveva concesso era solo che non si dovesse più vestire da giardiniere, non che fosse esonerato per tutto il resto della sua vita dall'impersonare uomini che lo attizzavano sessualmente. Ma questo lo aveva scoperto adesso, per dire.
L'unica differenza tra lui e Bill era che Bill si fissava su qualcosa senza mai davvero cercare una soluzione che soddisfacesse entrambi – perché era un ragazzino e si aspettava che lo facesse lui – mentre lui, appunto, lo faceva, perché non sapeva come non viziarlo.
Bill comunque non rispondeva. Anzi, si era seduto a gambe incrociate e giocava con il lenzuolo, regredito improvvisamente ai cinque anni, cosa che impediva a Bushido di essere davvero innervosito con lui ma, contemporaneamente, anche di farci pace senza sentirsi inappropriato. “Bill?” Chiamò. Il moro non rispose e fece anche finta di non notare il sospiro rassegnato che Bushido emise l'attimo successivo.
L'uomo lo prese per una spalla e, nonostante i tentativi di Bill di opporre resistenza, lo stese di nuovo tra le coperte. “Lasciami andare,” esclamò subito lui, strattonando con le mani che Bushido gli teneva inchiodate al materasso. “Non voglio più.”
“Mi avete convocato apposta,” gli sussurrò sulle labbra. Evitare di chiamarlo padrona era necessario, ma non per questo doveva rinunciare al resto. Lo baciò anche se sapeva che Bill non avrebbe risposto subito e quindi cercò la strada tra le sue gambe, aspettando di vederlo sussultare ed emettere quel sospiro minuscolo che gli scappava ogni volta, prima di aggiungere. “Volete che torni nella mia cella?”
Bill faticò a trovare la voce tra le sue dita che lo accarezzavano, e scosse la testa a scatti, già troppo perso per controllare un muscolo qualsiasi del proprio corpo. Il che era un bene perché almeno aveva smesso di agitarsi. “Resta,” ansimò alla fine. “Resta e scopami come se fosse l'ultima volta.”
Bushido lo accarezzò più forte e più a lungo, solo per vederlo ansimare di più. “Non sarà l'ultima volta,” commentò, chinandosi a baciarlo.
“Non hai paura di morire, gladiatore?”
Bushido ringhiò, decidendo che l'ambientazione gli permetteva di divaricargli le gambe senza preavviso e prenderlo come meglio credeva senza la minima cortesia. “Un gladiatore affronta la paura,” sibilò tra i denti, “L'abbraccia...”
“... e la scopa,” concluse Bill in un ansito impaziente.
L'uomo se lo fece sedere in grembo e Bill gli avvolse quasi istantaneamente le braccia intorno al collo, solo un attimo prima che Bushido entrasse in lui, strappandogli il proprio nome dalle labbra. Ad ogni spinta Bill gli si stringeva deliziosamente intorno senza farsi mancare i mugolii che avevano smesso di essere doloranti dopo il primo, che aveva dovuto sopportare solo perché Bill non era Bill se non si lamentava almeno un pochino. “Dio...” iniziò il moro, ma non finì la frase quando Bushido usò quel poco di lucidità che gli era rimasta per stenderlo di nuovo e spingersi più forte e più a fondo. Bill reclinò la testa. “Anis... “
Si spinse un'ultima volta, con molta meno precisione ma con più forza, venendo e trascinando con se la padrona di casa.
Quando ebbe ripreso fiato, il che avvenne molto più tardi di quando in effetti lo riprese Bill, che stava già disegnando arabeschi sul suo petto da qualche minuto, pensò che alla fine non era andata poi così male e che l'antica Roma, per quanto ridicola, gli aveva concesso le sue soddisfazioni.
“Ricordami di fingere più spesso di possedere un gladiatore,” esclamò Bill, quando finalmente si accorse che anche lui era tornato dal limbo post-orgasmico nel quale finivano sempre.
“Scordatelo,” rise il tunisino, tirandoselo addosso. “Anzi, voglio che tu mi consegni immediatamente tutti i DVD di quel telefilm sui gladiatori perché io possa farne un enorme falò.”
“Ma Anis, me li ha prestati mio fratello!”
Bushido zittì le sue proteste strappandogli un bacio a tradimento. “Meglio.”
“Sei un cretino.”
“Mai quanto quello che ti sei sposato.”
Bill lo guardò storto, ma poi Bushido gli strinse piano le dita tra i capelli e riprese a baciarlo. Così dimenticò quello che voleva dire e fu improvvisamente contento che non dovessero temere davvero il ritorno di nessun marito.

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