Fandom: !Originali
Personaggi: Nathan, Joshua, Dakota e altri.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy
Avvisi: Gen
Rating: PG
Prompt: Scritta per la terza settimana del COW-T maridichallenge e fiumidiparole (prompt "Attesa", gen) e porta punti alla causa dei vampirli, ingiustamente odiati da tutti.
Note: La bozza di questa storia era completamente diversa, partiva da un altro punto e voleva narrare un altro evento, ma chi ero io per impedirle di fare quello che voleva? Nathan, Joshua e Dakota sono tre miei personaggi vecchissimi che non hanno mai avuto modo di svilupparsi fino a questo momento e che, per questo, oltre che alla mia totale incapacità di gestire dei veri e propri originali, forse appaiono un po' troppo abbozzati. Un giorno, magari complice un altro prompt, approfondirò alcuni aspetti della loro esistenza che qua non credo si capiscano per niente. Il titolo è una citazione di Alexandre Dumas.

Riassunto: Nathan e Joshua sono gemelli e vivono nell'unica terra libera di un impero comandato da un uomo spregevole che ha ucciso i loro genitori; mentre Joshua spera che un giorno le cose possano migliorare, Nathan è rassegnato allo stato in cui si trovano ora, al punto di arruolarsi nell'esercito imperiale per smettere di fare la fame. La vita per Joshua e sua sorella Dakota va avanti come prima, finché un giorno il Gran Sacerdote non viene ferito. Alla sua sopravvivenza è legata anche quella del regno ma, nell'attesa di scoprire se egli morirà o meno, Joshua fa una scoperta terribile.
ALL HUMAN WISDOM IS SUMMED UP IN TWO WORDS (WAIT AND HOPE)


Joshua si svegliò con uno strano presentimento.
Il paesaggio fuori dalla finestra era bianco per la neve arrivata con largo anticipo. Quell'anno l'inverno sembrava aver fretta di congelare lui e sua sorella nella minuscola casetta di legno nella quale vivevano. Dakota dormiva ancora e decise di non svegliarla; era presto e, bloccati com'erano in cima alla montagna, non c'era molto da fare per lei se non starsene a letto. Lanciò un'occhiata al calendario che avevano improvvisato sul muro, fatto di vecchi fogli di pergamena sui quali ogni giorno la bambina segnava una stanghetta per tenere a mente il passaggio del tempo.
Erano passati dodici mesi e quattro giorni da quando Nathan era partito e due dall'ultima lettera che, passando di mano in mano, era faticosamente riuscita a raggiungerli attraverso due stati. In quella lettera, Nathan era stato ancora più breve del solito e, se possibile, ancora più vago sul luogo in cui si trovava e su quelli missioni lo aspettassero. Voci dicevano che gran parte dell'esercito imperiale fosse partito per sedare le rivolte di contadini nei territori del nord e che il resto fosse ancora nella capitale, ma Joshua non aveva modo di stabilire in quali dei due gruppi si trovasse il gemello – o se non si fosse arruolato da tutt'altra parte, per altro –, poteva solo aspettare che si facesse vivo in qualche modo, possibilmente di persona.
Fece il caffé mentre la neve riprendeva a cadere in piccoli fiocchi morbidi. Non riusciva a togliersi di dosso l'ansia che lo aveva preso non appena aveva aperto gli occhi, come se avesse fatto un sogno orribile del quale non si ricordava niente se non la sensazione che gli era rimasta addosso, come un brivido lungo la schiena. Non era la prima volta, negli ultimi tempi era successo spesso e la cosa che più lo preoccupava erano i piccoli incidenti che avevano seguito quella sensazione. Si era trattato soltanto di cose di poco conto – come Dakota che scivolava sul ghiaccio e batteva il sedere, o un attrezzo che si rompeva – eppure, in qualche modo, ne aveva avuto sentore. Ora la sensazione era molto più forte e persistente, e aveva paura di scoprire che cosa volesse lasciargli intendere.
Se Nathan fosse stato lì, ne avrebbe riso. Lui non credeva nella magia o nei poteri magici, continuava volutamente ad ignorare il fatto che la madre fosse stata una maga e che quando erano piccoli e vivevano altrove, li faceva divertire entrambi creando fiamme fredde di tutti i colori tra le mani. Non era così improbabile che lui avesse ereditato i suoi poteri e, anche se la legge gli avrebbe comunque impedito di usarli, questo non significava che non potessero essere lì.
Finì di fare colazione e poi uscì a preparare il carro da trascinare al mercato. Il tempo non era dei migliori e scendere a valle con una ruota che traballava era pericoloso per lui e per la merce, ma fra un paio di giorni avrebbero finito quelle poche provviste che erano riusciti a mettere via convinti che l'autunno sarebbe durato più a lungo e se non riusciva a vendere almeno una spada nei prossimi giorni, sarebbero probabilmente morti di fame piuttosto in fretta.
La strada era quasi invisibile sotto la neve e fu costretto ad avanzare lentamente per non rischiare di finire nel burrone che la costeggiava, così quando arrivò in paese era già metà mattina e la strada si stava riempiendo, anche se non come al solito. Il freddo chiudeva in casa anche i clienti, non solo i venditori che, a giudicare dagli spazi vuoti, erano meno della metà.
Mise giù il banco e appese con cura le armi ai loro ganci, facendole un po' tintinnare perché il rumore attirasse l'attenzione della gente. Una paio di uomini si avvicinarono quasi subito e si misero a saggiare i pugnali che teneva disposti su pezzi di raso nero. Rispose alle loro domande, ma non si dilungò come faceva di solito, la testa continuava a ronzargli in maniera fastidiosa e il freddo non aumentava la già poca voglia che aveva di starsene lì quando il cervello gli mandava segnali di ogni tipo che non aveva alcun modo per decifrare, se non con supposizioni una peggiore dell'altra che servivano solo a farlo inquietare di più.
La risposta alle sue domande arrivò inaspettata verso l'ora di pranzo, con lo scampanio di pericolo del tempio che chiamò tutta la popolazione a raccolta nella piazza principale. I banchi del mercato furono lasciati incustoditi per via dell'urgenza con la quale i monaci urlavano alla tragedia.
Joshua corse in piazza e si fece largo fino a raggiungere la prima fila. C'era un monaco era sconvolto, con i capelli scarmigliati e le vesti in disordine. Le occhiaie scure e il volto pallido suggerivano che non dormisse da giorni.
“Vengo dalla capitale,” gemette, accasciandosi sugli scalini del tempio. Il cavallo dal quale era probabilmente sceso un minuto prima si mise a brucare l'erba che spuntava ostinata tra il ciottolato. “E porto notizie orribili.”
La folla rumoreggiò per qualche istante, ma poi si quietò in attesa. “Che cos'è successo?” Chiese Joshua, prendendo la fiasca d'acqua che era appesa al cavallo e porgendogliela perché potesse bere.
L'uomo deglutì a fatica, scuotendo la testa. “Ieri qualcuno si è introdotto negli appartamenti del Gran Sacerdote e lo ha pugnalato nel sonno.”
Sulla folla scese un silenzio terrorizzato.
“Ed è morto?” Chiese Joshua.
La risposta sembrò arrivare con incredibile lentezza. “Non ancora,” mormorò il monaco, “ma le ferite sono gravi e i medici non sanno che cosa succederà. Quell'animale lo ha colpito quattro volte allo stomaco, ha perso tanto di quel sangue...”
L'uomo scoppiò a piangere e Joshua si ritrovò a sorreggerlo, troppo preoccupato per ciò che li aspettava in caso il Gran Sacerdote fosse morto per sentirsi a disagio.
Un uomo si staccò dalla folla e aiutò Joshua a portare il monaco dentro al tempio, dove lo fecero distendere su una panca e gli dettero altra acqua da bere. “Chi è stato?” Chiese il ragazzo, quando il monaco si fu calmato abbastanza da respirare di nuovo normalmente.
“Un soldato della guardia imperiale,” rispose quello, passandosi una mano sul viso. “Chi altro poteva volerlo morto? Lo hanno visto uscire dalle sue stanze e lo stanno cercando ovunque, ma sembra sparito nel nulla.”
Joshua sentì lo stomaco chiudersi in una morsa dolorosa. Scambiò con gli altri l'augurio che il Gran Sacerdote potesse uscire vivo dall'attacco e disse che in un modo o nell'altro le cose si sarebbero sistemate, poi lasciò il monaco nelle mani del medico che li aveva appena raggiunti e si affrettò a tornare a casa.

*


"Hai i soldi per pagarla quella mela?" Esclamò il venditore, vedendo una piccola mano grassoccia spuntare da sotto il banco per afferrare una delle belle mele rosse che c'erano sopra. Si affacciò per scoprire chi fosse la proprietaria di quella mano e sorrise quando riconobbe la bambina mulatta che guardava felice il proprio tesoro con l'aria di qualcuno che non vede l'ora di tirargli un morso. “Ah, sei tu!” L'uomo le scompigliò i capelli neri. “Sei in anticipo, stamattina!”
“Dakota! Quante volte ti ho detto di non chiedere da mangiare?”
La bambina incassò la testa nelle spalle, strizzando gli occhi, e corse a nascondersi dietro il venditore, che era un uomo alto e pasciuto, con due enormi baffi rossicci che si mossero allegri quando scoppiò a ridere.
Il ragazzo che si era avvicinato andava per i venti, aveva un cesto di capelli castani spettinati e raccolti in malo mondo alla base del collo e gli stessi occhi verde smeraldo della bambina che aveva sgridato.
“Non c'è nessun problema, Nathan,” lo accolse il venditore, recuperando altre due mele dal banco e porgendogliele. “Anzi, tieni anche queste. Offre la casa.”
Nathan sorrise, prendendo per mano la sorellina che mangiava di gusto. “Grazie signor Adalbert, ma non posso accettare.” Non passava giorno che l'uomo non offrisse loro qualcosa ma, per quanto gli avrebbe fatto comodo avere in casa del cibo in più, dal momento che ne potevano comprare ben poco, l'orgoglio gli impediva di farsi fare l'elemosina così spudoratamente. Suo padre sarebbe morto di fame pur di provvedere alla sua famiglia per conto suo.
Il signor Adalbert, comunque, ignorò totalmente il suo rifiuto e infilò le due mele in una borsa, ficcandola a forza tra le braccia del ragazzo. Si giustificò dicendo che non gli avrebbe permesso di tornarsene a casa e dare da mangiare ad una bambina di cinque anni soltanto un pezzo di pane. Era contro la legge, gli disse con un bel sorriso gioviale. La legge era un argomento che al signor Adalbert premeva parecchio, che fosse quella di Dio o degli uomini non importava; non perdeva mai l'occasione di disquisire dell'una e dell'altra con grande foga, ricordando a tutti come da giovane avesse rischiato di diventare monaco, come poi si fosse deciso a studiare legge e infine, per aiutare la buon anima del padre, fosse finito dietro un banco di frutta al mercato. Era un lavoro onesto anche quello, diceva comunque con grande orgoglio, e di certo dietro alle scelte che il destino aveva compiuto per lui doveva esserci una legge troppo grande perché un piccolo uomo come lui potesse comprenderla.
Era un uomo semplice ma felice, e Nathan lo invidiava molto perché, ammesso che ciò che raccontava fosse vero, era sempre riuscito a trarre il meglio della propria esistenza. Lui non ci riusciva; costretto a vivere in quel minuscolo paesino abbarbicato tra le montagne, con un passato che gli pesava sulle spalle come un macigno, sognava di viaggiare per il mondo come aveva fatto suo padre prima di fermarsi e sposare sua madre. Certo, non passava il tempo a lamentarsi del proprio destino, ma non lo accettava con la calma serafica del signor Adalbert. Non credeva affatto che ci fosse una qualche legge cosmica che regolasse il suo posto nel mondo; che lui fosse finito lì a vivere in una minuscola casa insieme ai suoi fratelli era solo un caso. Era successo e basta, come il lampo che colpisce un albero tra tanti nella foresta, o una frana che sommerge una casa piuttosto che un'altra proprio lì accanto. A lui era toccato quello, e non c'era nessuna motivazione perché fosse capitato proprio a lui, a suo fratello, a sua sorella e, tornando indietro, a sua madre e a suo padre. E lo trovava profondamente ingiusto. Per questo non faceva altro che fare progetti su progetti per andarsene da lì in un modo o nell'altro e, per quanto fino a quel momento non avessero mai funzionato, un giorno ci sarebbe riuscito. Ad ogni costo.
Ringraziò educatamente il signor Adalbert mentre Dakota lo trascinava più avanti per una mano, attirata da un banco di dolciumi che traboccava di caramelle e lecca lecca colorati. La bambina tentò di convincerlo a farsi comprare qualcosa, ma le bastò un'occhiata per capire che non c'era nessuna possibilità di riuscirci. Come ogni bambino di cinque anni nella stessa situazione, anche Dakota ci rimase male, ma era abituata a sentirsi rispondere di no e aveva imparato a conviverci di conseguenza. Era una fortuna che avesse ereditato la posatezza da sua madre, e quasi niente del padre. L'unico segno che se ne riscontrava in lei era la pelle mulatta, che già di per sé le creava abbastanza problemi da non voler aggiungervi anche un pessimo carattere.
Il mercato verso l'ora di pranzo si riempiva di persone che venivano dal paese ma anche da quelli vicini, dal momento che era l'unico posto nel raggio di chilometri in cui si potessero acquistare delle merci di buona qualità e, cosa ancora più importante, che fossero ancora libere dalle tasse dell'imperatore. Il loro era l'unico regno che ancora non si era piegato a quell'uomo tremendo e, sebbene ogni giorno l'esercito imperiale conquistasse in un modo o nell'altro un metro di terra in più, il popolo era ben deciso a continaure ad opporsi e il piccolo gruppo di ribelli faceva del suo meglio per tenere a bada i soldati quando si facevano un po' troppo prepotenti. Il regno godeva di una protezione molto potente, quella del Gran Sacerdote, capo spirituale della nazione, e per questo l'imperatore si faceva delle remore ad invaderlo come invece aveva fatto con tutti gli altri, ciononostante si concedeva ogni tanto qualche incursione lungo il confine, per saggiare il terreno e inviava spie e uomini di fiducia affinché convincessero i signori locali a passare dalla sua parte con promesse di enormi ricchezze; fortunatamente il ricordo di ciò che era successo nei regni limitrofi appena qualche anno prima era così vivido nel cuore di chiunque che nessuno avrebbe mai permesso all'imperatore di fare la stessa cosa anche lì.
Nathan si fece strada a fatica tra la folla di persone che chiedevano prezzi o si fermavano di colpo in mezzo alla strada ad osservare una collana di perline particolarmente luccicante; strinse la mano intorno al polso della sorellina e cercò di non perderla in mezzo alla calca. Lei si fece trasportare, ignara di tutto e tutti, dedita solo alla sua mela.
Alla fine del mercato, dove la strada si apriva in una piazza che ospitava le ultime bancarelle, Joshua stava illustrando i notevoli pregi di una spada a due mani che aveva forgiato non più di quattro giorni prima e della quale stava raccontando una storia assolutamente inventata che parlava di nani e di elfi, o di qualche altra strana creatura di cui leggeva nei libri. Nathan non aveva mai capito che cosa ci trovasse di tanto interessante in quelle storie. Succedevano così tante cose eccitanti nel mondo, di cui arrivavano notizie ogni giorno, che non c'era affatto bisogno di inventarsi uomini alti mezzo metro che scavavano gallerie nel cuore della terra.
Il cliente, comunque, sembrò affascinato. Tirò sul prezzo dell'arma ma, siccome Joshua tendeva a gonfiarli già in partenza, quando quello se ne andò convinto di aver fatto chissà quale affare, loro avevano guadagnato comunque più del doppio. “Ancora dal signor Adalbert, peste?" Chiese Joshua alla bambina, infilando le monete in tasca.
"Mi ha dato tre mele!" Esclamò orgogliosa Dakota, mostrando tre dita.
"Addirittura tre?" Si stupì il fratello maggiore. "Sarà stato per il tuo irresistibile fascino?" Le sfiorò il naso con il proprio. "Sei bella come una principessa."
"Dovrebbe smetterla di comportarsi in quel modo!" S'intromise Nathan con aria scocciata, posando la spesa dietro al banco e sistemandosi seduto su un sacco. "Non mi va che elemosini in giro."
Joshua sospirò, mentre la sorellina giocava con i suoi capelli. "Nat, è soltanto una bambina."
"E questo cosa significa?"
L'altro si strinse nelle spalle. "Che non lo fa di proposito?"
"Lo farà quando sarà più grande se continua così," commentò Nathan. “E potrei fare a meno di una sorella che adesca i venditori di frutta.”
"Oh che idiozia!" Joshua rise, lasciando andare la sorella che si mise a correre intorno al banco, inseguendo chissà cosa. “A volte la tua testa si fa dei viaggi incredibili.”
“Lei si muove da questo buco, almeno. A proposito, quand'è che torniamo a casa? Ho esaurito la mia dose di bancarelle per la giornata.”
“Abbiamo a malapena i soldi per mangiare questa settimana,” sospirò affranto Joshua, tirando fuori l'incasso della giornata, che consisteva in una manciata di monetine da aggiungersi all'altra esigua manciata che era nascosta nel materasso a casa. “Se rimaniamo un altro paio d'ore forse ci comprano qualcos'altro.”
“O forse, stando qui immobili al freddo e al gelo, ci verrà una polmonite. Uno di noi tre morirà di freddo e gli altri potranno mangiare carne essiccata per tutto l'inverno.”
“Nathan!” Joshua fece una smorfia. “Non dirlo nemmeno per scherzo.”
In quel momento, la folla si fece da parte per lasciare spazio ad un gruppo di soldati che passò marciando proprio davanti alla bancarella. Avevano divise nere come la pece ed elmi che recavano le insegne della famiglia imperiale dipinte di rosso. “Ecco vedi? Quello sarebbe un lavoro remunerativo,” commentò Nathan, tirando giù i piedi dal banco su cui li aveva appoggiati per alzarsi in piedi e guardare meglio quella sfilata. Gli uomini avanzavano all'unisono, tenevano un ritmo costante con i piedi e con le lance battute sulla pietra della strada. Guardavano tutti in avanti, come se non vedessero nient'altro che l'obbiettivo da raggiungere.
“Vorrai scherzare!” Sibilò suo fratello. “Quelli sono soldati imperiali.”
“L'esercito lo abbiamo sempre avuto,” gli fece notare Nathan, senza distogliere lo sguardo. “L'impero non lo ha reso né migliore né peggiore.”
“Non voglio starti a sentire,” Joshua scosse la testa e si mise freneticamente a riporre le armi, nonostante quello che aveva detto nemmeno un minuto prima. L'esercito lo disgustava come e più dell'imperatore.
Erano i soldati a fare il lavoro sporco e più della metà di loro era rimasta nell'esercito anche dopo il colpo di stato per il denaro e non perché avesse condiviso i principi che c'erano dietro. Andava da sé che l'imperatore non avrebbe avuto il potere che aveva se chi non lo appoggiava si fosse rifiutato di lavorare per lui.
Sperò che quella discussione fosse morta lì dov'era nata, ma Nathan lasciò cadere il discorso solo finché non furono tornati a casa. La sera, dopo che Dakota ormai dormiva da un pezzo, stretta alla sua bambola sbrindellata, i due ragazzi si sedettero davanti al camino, a fissare la fiamma rossa e viva che vi danzava all'interno. “Credo che proverò davvero ad entrare nell'esercito,” disse Nathan all'improvviso.
Joshua in qualche modo se lo aspettava. Gli occhi di suo fratello brillavano sempre quando qualcosa lo colpiva al punto che non poteva pensare a nient'altro, e avevano brillato quella mattina.
Si voltò stizzito verso di lui. “Quegli uomini hanno ucciso delle persone innocenti.”
“Tutti i soldati lo fanno.”
“Io non ti capisco, davvero!” Sbottò il ragazzo. “Ogni giorno la gente di queste terre cerca modi per restare libera dal giogo di quell'uomo e tu vorresti entrare a far parte del suo esercito?! Attirare i poveri con lauti stipendi è proprio quello che vuole! Se ci pieghiamo, non ci libreremo mai di lui.”
“Svegliati, Josh! Ma ti sei guardato intorno? Sono cinque anni che l'impero prospera. Che cosa ti fa pensare che un gruppo di contadini armati di forconi possa cambiare le cose?”
“Il Gran Sacerdote ci sostiene, prima o poi...”
“Quell'uomo è vecchio e solo. Lui protegge noi, ma a proteggere lui c'è solo un'aura di santità che sparirà non appena avrà chiuso gli occhi. Non riavremo mai più le terre libere perché fanno parte del passato! E' tutto finito, la situazione è cambiata e tu dovresti fartene una ragione!”
“E' stato l'imperatore ad uccidere i nostri genitori!”
“Neanche loro sono stati in grado di cambiare, Josh. Per questo è successo.”
Joshua scosse la testa e le mani, alzandosi in piedi. “Non posso credere che tu lo abbia detto, Nathan. Davvero, non puoi pensarlo sul serio.”
Anche Nathan si alzò in piedi, in fondo la frase gli era uscita male e sapeva che mettere anche solo vagamente in dubbio suo padre e sua madre di fronte a Josh era il metodo peggiore per fargli capire il suo punto di vista. C'era una parte di lui ancora irrazionalmente bambina che non riusciva a sopportare l'idea che fossero scomparsi, lasciandoli soli a prendersi cura di loro stessi. “Non sto dicendo che se lo meritassero,” si corresse più dolcemente, stringendogli una spalla con affetto. “Dico solo che sono stanco di vivere nell'attesa di qualcosa che non accadrà mai.”
“E quindi vuoi arruolarti nell'esercito nemico?” Sbottò Josh ironico, alzando la voce e facendo sussultare la bambina che dormiva nel suo letto in un angolo della stanza.
“Nemico di cosa, Josh? Non c'è più niente! C'è solo l'impero e io voglio solo...”
“Tradire tutto quello in cui credevano mamma e papà.”
“Adattarmi,” concluse Nathan, con un sospiro triste. Era una battaglia senza speranza. Josh viveva ancora nel mondo che era finito cinque anni prima, quando l'imperatore aveva spazzato via tutti i regni liberi riunendoli sotto un'unica bandiera, la sua. Non capiva che quello sputo di terra che si ostinavano a chiamare regno, non sarebbe rimasto indipendente ancora a lungo. Per quanto i ribelli lo difendessero, prima o poi sarebbe caduto e allora anche le ultime tracce del passato sarebbero state cancellate. Era doloroso ed era ingiusto, come la fame, la povertà e la morte dei loro genitori, ma Nathan era convinto che a cercare di recuperare quello che avevano perso, non avrebbero ottenuto nulla. Dovevano accettare le cose come stavano adesso, non c'era altro modo; ma Josh questo non lo avrebbe mai capito, c'era così tanto di suo padre in lui che avrebbe finito col farsi ammazzare per niente.
“E' meglio se andiamo a letto,” Josh, seccato, chiuse la discussione e si stese nel proprio letto, girandosi con la testa verso il muro per non doverlo guardare.
La mattina dopo, Nathan se n'era andato.
Sul tavolo un biglietto di scuse e la promessa che sarebbe tornato, prima o poi.


*


La notizia del ferimento del Gran Sacerdote aveva fatto il giro del regno e la gente era preoccupata.
Non solo la vita dell'uomo era appesa ad un filo, ma anche la loro libertà. Se il sacerdote fosse morto, l'imperatore non avrebbe perso tempo ad invaderli e occupare anche l'ultima terra libera rimasta. I ribelli si aspettavano un attacco da un momento all'altro e si diceva che fossero già pronti a reagire; ma si diceva anche che l'imperatore stesse preparando l'esercito intero per essere sicuro di ottenere ciò che voleva, e neanche i più ottimisti pensavano davvero che il gruppo dei ribelli potesse farcela in quelle condizioni. L'agitazione era così forte che tutte le attività si erano interrotte.
Sembrava che nessuno avesse testa per continuare con la propria vita se prima non sapeva che ne sarebbe stato del Gran Sacerdote.
L'attesa era snervante e, da giorni, le strade erano piene di gente nervosa che guardava in continuazione l'orizzonte per veder spuntare l'ennesimo messo che recava notizie contrastanti rispetto a quello prima.
Anche Joshua, che pur aveva fatto la fatica di portare il carro giù dalla montagna per provare a vendere qualcosa, non riusciva a trovare la forza di invogliare la gente ad avvicinarsi. Se ne stava seduto su un sacco e affilava un pugnale dietro l'altro, tanto per darsi da fare. Dakota aveva corso per un po' e, quando si era stancata, gli aveva chiesto di farle le trecce e si era messa a giocare con la sua bambola.
Di lettere da parte di Nathan non ce n'erano state nemmeno quel giorno. Aveva chiesto ad ogni messaggero e a chiunque potesse, per una qualche ragione, avere con sé messaggi da parte di suo fratello. Era sparito nel nulla e questo non faceva che aumentare l'inquietudine di quel presentimento che ormai si portava dietro da quasi tre giorni e che invece di sparire, giustificato dal ferimento del sacerdote, era andato aumentando di ora in ora, dimostrando che di qualunque cosa stesse cercando di avvertirlo, di certo non erano le sorti del vecchio.
Il quarto messaggero, che come gli altri recava le insegne del Sacerdote, arrivò al tramonto, quando ormai Joshua si era rassegnato a non avere idea di che cosa aspettarsi e anche a non vendere nemmeno una spilla. Fermò il cavallo appena oltre le porte e si fece portare da bere mentre la gente gli si assiepava intorno facendo una domanda dopo l'altra. L'uomo era stanco e di fretta, come fosse pronto a ripartire non appena avesse consegnato il messaggio. “Purtroppo non ci sono novità sul Sacerdote,” li avvertì immediatamente. “Le sue condizioni restano gravi, ma non sono peggiorate. C'è ancora speranza.”
“E il responsabile?” Chiese Joshua, stringendo la mano di Dakota che, svogliatamente, lo aveva seguito fin lì.
“Sono qui per questo,” confermò il soldato. “E' stato avvistato nelle campagne a qualche miglio da qui. La guardia personale del Gran Sacerdote è sulle sue tracce. Si tratta di un uomo giovane, sulla ventina, alto e con i capelli castani. Al momento della fuga indossava ancora la divisa imperiale ma è molto probabile che si sia cambiato. E' ferito ad una spalla perché gli arceri sono riusciti a colpirlo prima che fuggisse di nuovo. C'è una taglia sulla sua testa. A chiunque lo catturi vivo, saranno consegnate trecento monete d'oro.”
“L'imperatore che cosa dice?” Chiese ironico il signor Adalbert, le mani infilate nella tasca davanti del grembiule e le labbra corrucciate sotto i grandi baffi.
“Egli ha fatto una dichiarazione poche ore fa, sostiene che non manca nessuno degli uomini all'appello e che per tanto si tratta di un impostore.”
La folla esplose in un boato e per qualche minuto non fu possibile capire niente di quello che veniva detto in mezzo a quel vociare. “Che bastardo!” Gridò qualcuno.
“Ci scommetto quello che volete che è stato uno dei suoi!” Abbaiò il vecchio fornaio, che aveva l'abitudine di sottolineare l'ovvio ma che, per l'occasione, venne acclamato come un filosofo giacchè aveva dato voce al pensiero di tutti quanti.
“Questo suo atteggiamento finirà per ritorcersi contro di noi come tutti gli altri,” commentò un vecchio, agitando il bastone nodoso. E la sua affermazione fu seguita dal secondo scroscio di consensi.
Anche Joshua era d'accordo. Se davvero l'assalitore era un uomo dell'imperatore e questo suddetto uomo era stato tanto imbecille da farsi scoprire, di certo il suo padrone avrebbe negato di conoscerlo o che avesse mai fatto parte dell'esercito, scaricando tutta la colpa su qualcun altro. Generalmente quel qualcun altro era sempre legato all'unico regno che ancora non aveva. Certo sarebbe stato alquanto difficile trovare una motivazione per la quale i ribelli del regno avessero dovuto assalire il loro protettore, ma Joshua era fiducioso che la mente contorta di quell'uomo ne avrebbe trovata una abbastanza solida da farsi credere da qualcuno.
Rimase in piazza anche dopo che il messaggero ebbe ripreso la strada, diretto a nord; discusse con gli altri della situazione ma c'era ben poco che potessero fare. Il piccolo gruppo di uomini armati che difendeva la zona, era già sulle tracce del cavaliere, convinto che se lo avesse preso avrebbero non solo potuto vendicare il Gran Sacerdote ma anche servirsi dell'uomo per dare un duro colpo all'imperatore. Joshua non sapeva se questo fosse possibile, ma di sicuro ci sperava e si sarebbe unito alle ricerche se avesse avuto dove lasciare la bambina. Alla fine, Dakota lo tirò per l'orlo della maglia, chiedendo di poter andare a casa e lui l'accontentò.

*


La prima lettera di suo fratello era arrivata ad un mese dalla sua partenza ed era datata più o meno due settimane dopo. Il venditore ambulante di ceramiche che gliel'aveva recapitata non sembrava molto felice della provenienza quando gliela passò. “Spero non siano brutte notizie,” gli disse accennando al timbro imperiale sulla busta.
Joshua si era limitato a scuotere la testa, voltandosi per strappare la busta e recuperare un foglio scritto fin troppo di fretta per soddisfare l'attesa.
Suo fratello chiedeva scusa per il modo in cui se n'era andato ma, diceva, se lo avesse avvertito di quello che aveva intenzione di fare, di certo lui l'avrebbe fermato. Joshua ne era consapevole. Se avesse anche solo sospettato che la discussione con suo fratello lo avrebbe spinto a partire il giorno dopo, probabilmente si sarebbe comportato in maniera diversa; non per questo giustificava Nathan per essere scappato, era ancora fermamente intenzionato a picchiarlo quando sarebbe tornato.
La lettera continuava ancora per poche righe, nelle quali Nathan lo informava di essersi davvero arruolato, spergiurando – come se servisse a qualcosa – che non sarebbe stato un soldato come gli altri e che lui, più di tutti, doveva fidarsi. Salutava promettendo di tornare non appena gli fosse stato possibile e mandava un bacio a Dakota.
Joshua aveva stracciato la lettera subito dopo, lanciandone i pezzi a terra. Avrebbe voluto giurare di non voler avere più niente a che fare con lui, ma Nathan era il suo gemello: niente poteva portarlo a non volerne sapere più niente, nemmeno un atto assurdo come quello. Sperò invece che quel momento di follia potesse concludersi così com'era iniziato, e che qualcuno lassù gli volesse abbastanza bene da riportarlo a casa intero. Nathan non aveva lasciato nessun'indirizzo, così non potè rispondergli e dovette attendere che fosse lui a farsi vivo.
Nathan inviò regolarmente ogni mese brevi messaggi in cui accennava vagamente alla sua ubicazione, non parlava mai di quello che faceva e chiedeva informazioni su di loro anche se poi non lasciava mai alcun indirizzo a cui potesse riceverle. A metà primavera, per il compleanno di Dakota, spedì una nuova bambola di pezza, più bella di quella che la bambina aveva, ma lei non le dedicò nessuna attenzione. Aveva ormai smesso da tempo di chiedere di Nathan e la bambola non la faceva sentire meglio per la sua assenza.
Mese dopo mese, le persone avevano iniziato a fare domande e lui aveva mentito, raccontando una delle sue lunghe storie. Per tutti, Nathan era partito per trovare lavoro aldilà delle grandi montagne, che segnavano il confine del regno dell'imperatore. Quando avrebbe fatto fortuna, e sarebbe di certo successo a breve, lui e Dakota lo avrebbero raggiunto.
Poi all'improvviso, le lettere avevano smesso di arrivare. Sapeva che non era morto, perché dentro di lui ne percepiva ancora la presenza da qualche parte, ma ciò non escludeva che potesse trovarsi comunque nei guai.
Il presentimento che qualcosa, da lì a poco, non sarebbe andata nel verso giusto si presentò una mattina mentre spaccava la legna, circa due settimane prima che il Gran Sacerdote venisse assalito. L'ansia gli scivolò lungo la schiena come un brivido freddo e gli si piantò in testa senza più lasciarlo andare. Come un tarlo s'insinuava in tutti i suoi pensieri, tramutando in prospettive disastrose anche quelli più felici e sostanzialmente innocui. Vi aveva dato subito il peso che meritava, quello che sua madre gli aveva insegnato a dare alle ansie che sembravano non avere alcun senso ma, come lei, poteva soltanto aspettarsi il peggio senza sapere esattamente in che ambito. Era quantomeno frustrante. Ogni piccolo incidente gli lasciava credere che si trattasse soltanto di quello, ma poi ecco che apriva gli occhi il giorno dopo e la certezza che qualcosa di orribile sarebbe successa era di nuovo lì, ad offuscargli i pensieri e a tendergli i muscoli, come se lo sforzo di tenerla sempre presente fosse quasi fisico.
Poi il Gran Sacerdote era stato colpito, lui aveva creduto ancora una volta di liberarsi del peso di quel presentimento, ma così non era.
C'era qualcosa di peggio, e non si era fatto attendere troppo.


*


Dakota era saltata giù dal carro sul quale al mercato era montato il banco per correre in casa non appena il tetto era stato in vista e, quando suo fratello la raggiunse e accese il camino per scaldare la zuppa, lei si era già tolta le scarpe e si raccontava da sola storie segrete di principesse e ranocchi dalle quali Joshua era momentaneamente escluso, almeno fino a quando lei non si sarebbe annoiata abbastanza da raccontarle anche a lui. Le disse che avrebbero mangiato tra poco, e uscì di nuovo per trascinare il carro fin dentro al granaio. A giudicare dal cielo, minacciava di nevicare ancora quella notte, e voleva evitare di dover passare la mattina a togliere il ghiaccio dalle ruote per poter andare in paese.
Forse un po' paranoico, fisso il carro con delle corde nel caso il vento avesse scoperchiato il granaio. L'ultima cosa che gli serviva era perdere tutto in mezzo alla tormenta.
Era distratto dall'ultimo nodo ma sentì comunque la presenza alle proprie spalle. Si voltò di scatto e colpì alla cieca, senza guardare davvero chi gli stava davanti, strappandogli un lamento dolorante e vagamente familiare; d'altronde chiunque si fosse intrufolato all'interno del suo granaio e se ne stesse nell'ombra non poteva essere una brava persona.
“Josh, sono io!” Ringhiò Nathan, tenendosi la faccia. “Si può sapere che ti prende?”
“Cosa ci fai tu nel granaio in silenzio, piuttosto!” Replicò Joshua, con il cuore che gli batteva forte in petto. Espirò uno sbuffo di fiato. “Cavolo, mi hai fatto prendere un colpo.”
I gemelli si guardarono in cagnesco soltanto un secondo, poi si gettarono uno nelle braccia dell'altro e si strinsero forte. “Si può sapere dove sei stato? Sono mesi che non ho tue notizie.”
“Non ho avuto modo di spedirtele,” si giustificò Nathan.
“Anche gli indirizzi a cui rispondere, non hai potuto darmi?”
Nathan lo trascinò su un cumulo di paglia poco distante, guardandosi intorno inquieto. “Non volevo che ti venisse in mente di venirmi a cercare,” rispose.
“Non lo avrei fatto,” replicò Joshua. Poi Nathan lo guardò male e allora si corresse. “D'accordo, forse lo avrei fatto, ma puoi biasimarmi? Sei sparito da un giorno all'altro senza dare nessuna spiegazione. Trovarti e prenderti a calci nel sedere era il minimo!”
Nathan gli fece un sorriso triste. “Avrei dovuto lasciartelo fare,” ammise. “Adesso è troppo tardi.”
“Che succede?” Quando Nathan sollevò lo sguardo, Joshua capì tutto immediatamente, forse perché in parte già lo immaginava o forse perché il presentimento gli stava urlando esattamente questo. “Dimmi che non sei stato tu ad uccidere il Gran Sacerdote.”
Nathan sgranò gli occhi quasi impercettibilmente. “No,” esitò.
“E allora perché stai scappando?”
“Perché pensano che sia stato io,” replicò Nathan. “Ero nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma non ho prove per dimostrarlo.”
“Se non sei stato tu, non hai niente da temere,” disse ingenuamente il gemello.
Nathan rise. “Credi davvero che funzioni così? Mi hanno visto uscire dalla casa del Gran Sacerdote, il Sacerdote era ferito. Non c'è altro da sapere.” Joshua gli appoggiò una mano sulla spalla e Nathan fece una smorfia, mostrandogli la fasciatura. “L'unico modo che ho di salvarmi è aspettare e sperare che quell'uomo sopravviva. Lui potrà dire a tutti che io non c'entro niente. Nel frattempo, avrò bisogno del tuo aiuto.”
Joshua annuì. “Certo, puoi stare qui.”
“No, non se ne parla neanche,” scosse la testa il ragazzo. “Rischio di mettere in pericolo sia te che Dakota. Penso che mi nasconderò nel bosco, nella capanna di papà. Nessuno sa della sua esistenza, ed è abbastanza isolata perché qualcuno ci capiti per caso. Quando e solo se sarà sicuro, potrai portarmi cibo e informazioni.”
Joshua annuì ma era preoccupato, e il suo presentimento gli affondava così profondamente le unghie in testa che faceva quasi male. “Potremmo chiedere aiuto ai ribelli,” propose. “Loro sarebbero dalla nostra parte e...”
“Dalla tua forse,” esclamò Nathan, mostrando il simbolo imperiale che aveva tatuato sul braccio. “Non dalla mia quando vedranno questo.”
Joshua non disse niente. Lo abbracciò soltanto, poi lo osservò mentre, avvolto nel mantello, lasciava il granaio per avventurarsi nel bosco, proprio mentre la bufera iniziava.

*


Aspettare fu la cosa più difficile da fare.
Joshua aveva pensato che nascondere suo fratello, rischiare l'arresto ed essere costretto a vivere la sua vita sussultando ogni volta che qualcuno, per sbaglio, gli accennava al fuggitivo che ancora non si trovava sarebbe stato un inferno, ma non era niente in confronto alla consapevolezza che la sua salvezza fosse appesa all'ultimo respiro di un uomo che giaceva praticamente moribondo da ormai una settimana.
Ogni giorno andava al mercato per sentire le notizie e ogni giorno tornava a casa senza saperne più del giorno prima. Starsene seduti davanti al caminetto con le mani in mano, senza poter fare attivamente niente per suo fratello, era frustrante e lo rendeva nervoso. Gli sembrava di stare fermo inutilmente, quando invece avrebbe potuto fare qualcosa per lui, anche se non sapeva bene cosa. Forse avrebbe dovuto ignorare la volontà di Nathan e chiedere comunque aiuto ai ribelli, ma se lo avesse fatto e poi quelli si fossero rifiutati di aiutare una guardia imperiale, lo avrebbe messo in una situazione senza più via di scampo e lui non era abbastanza sicuro di quella gente per poter rischiare.
L'attesa si era fatta ancora più odiosa da quando le ricerche di suo fratello si erano concentrate nella zona, a seguito di un avvistamento. Le pattuglie erano ancora ben lontane dalla capanna, ma prima o poi ci sarebbero arrivate a forza di battere la montagna e per allora il Gran Sacerdote avrebbe fatto meglio a svegliarsi.
Ogni volta che poteva, Joshua preparava del cibo e lo portava alla capanna, dove suo fratello passava il tempo a leggere e si annoiava. Appena lo vedeva varcare la soglia, gli chiedeva subito notizie sul sacerdote e si abbatteva quando, come sempre, non erano diverse da quelle che già aveva.
“Si sveglierà, vedrai,” gli disse Joshua una mattina, cercando di sorridere mentre sistemava il cibo su un vecchio tavolo di legno. “Se fosse peggiorato, ce l'avrebbero detto.”
“Stanotte ho sentito ululare i cani a qualche chilometro da qui. Si stanno avvicinando, non posso più restare.”
Joshua l'aveva guardato quasi con terrore. “Non puoi andartene ora, sono ovunque. Non arriveresti nemmeno al confine,” gli disse. “Resta ancora qualche giorno, abbi fiducia. Si sveglierà.”
Qualche giorno divenne una settimana, e il Gran Sacerdote non si svegliò. La notizia della sua morte arrivò dopo il tramonto, per bocca di un messaggero che viaggiava da quella mattina e aveva fatto il giro del regno senza quasi mai fermarsi. Come il monaco che aveva portato la notizia del ferimento, anche lui si lasciò andare giù dal cavallo stremato e riferì che il vecchio se n'era andato la sera prima, senza mai riprendere conoscenza. I medici avevano fatto tutto il possibile, ma le ferite erano troppo profonde e il suo cuore non aveva retto.
Joshua era già a casa quando arrivò la notizia, ma capì lo stesso che l'attesa era finita quando sentì il suono lugubre delle campane a lutto che riecchieggiava fra le montagne. Senza la protezione del sacerdote, suo fratello non sarebbe stato ascoltato, e il regno tutto sarebbe finito nelle mani dell'imperatore. Era incredibile quanto stesse per perdere in una sola notte.
Preparò il cibo per Nathan e si avviò alla capanna. Potevano andarsene via tutti e tre insieme, nascondersi da qualche parte e, quando le acque si sarebbero calmate, tentare di superare il confine.
Ma, quando vi arrivò, era vuota e suo fratello se n'era già andato.

*


I soldati imperiali lo trovarono nemmeno sei ore dopo, mentre attraversava la piana che dal paese portava a valle. I cani si misero ad abbaiare e gli furono addosso l'attimo dopo. A capo della spedizione c'era un uomo che aveva conosciuto nella capitale, un tipo lungo e allampanato, con la faccia cattiva e un sorriso ancora peggiore, che gli fece la cortesia di legargli i polsi così stretti da farlo sanguinare.
Non ci furono discorsi da parte sua, né Nathan chiese niente perché sapeva esattamente che cosa lo aspettava.
L'esecuzione nella capitale fu un evento sfarzoso, quasi una festa. L'imperatore guardò bene di ordinare che gli coprissero la mano col tatuaggio e che fosse imbavagliato, così che non parlasse.
Lui stesso salì sul palco e parlò al popolo di vendetta e di giustizia di cui non aveva la minima nozione. Presentò il prigioniero come la feccia della ribellione che si era rivoltata al suo stesso protettore, ad un uomo – disse con contrizione – che lui rispettava nonostante le innumerevoli incomprensioni e che non meritava di morire ad opera di un attacco così vigliacco e meschino.
L'ultimo pensiero di Nathan, prima che la botola gli si aprisse sotto i piedi, fu che gli dispiaceva non aver saputo dire a suo fratello la verità. Gli era mancato il coraggio. Era vero che l'imperatore aveva ordinato l'omicidio ed era vero che lui l'aveva eseguito, e tutte le sue motivazioni stavano scritte in una lettera che non era mai arrivata, persa chissà dove e chissà da chi. Gli dispiaceva non salutare Joshua e Dakota per l'ultima volta. Forse ce l'avrebbe fatta se avesse ascoltato i consigli di suo fratello, o forse sarebbero finiti nei guai in due. Pensò che non importava, ormai.
A Joshua sembrò di sentire il collo che si spezzava mentre quello del fratello lo faceva davvero.
Fu una fitta dolorosa e violentissima e poi nella sua testa ci fu silenzio, come se fosse sparita una presenza, un fruscio, di cui fino a quel momento non si era mai accorto.
Pianse anche se Nathan non avrebbe voluto. In qualche modo contorto, Dakota capì ogni cosa.
Si chinò sotto al letto e recuperò la bella bambola di stoffa che aveva sempre ignorato.

*


La lettera arrivò in ritardo, per le mani di un vecchio che vendeva vasi di ceramica e che la febbre aveva tenuto fra la vita e la morte per quasi due mesi, impedendogli di consegnarla.
Si presentò al banco di Joshua con il cappello in mano e un sorriso incerto. Si scusò per il ritardo, gli disse che gli dispiaceva per tutto e gli passò una busta stropicciata e quasi illeggibile.
Joshua non riuscì ad aprirla. La mise da parte e se la dimenticò.
Finì per credere di stare ancora aspettando di ricerverla, in quel modo Nathan poteva ancora essere vivo. Da qualche parte.

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