Personaggi: Freddo, Nero
Genere: Introspettivo
Avvisi: Gen
Rating: PG
Prompt: Oltre ad essere, in sostanza, un mio parco giochi personale dove muovere il pupazzetto del Nero, questa storia partecipa anche alla quinta settimana del COW-T per la squadra dei vampirli (prompt: Nostalgia).
Note: Ah! E io che pensavo di non postare, e invece! Ah! E io che pensavo di finirla molto prima, e invece! Ah! E io che... ok, la smetto. Dunque, è circa... hmn, quasi un mese, direi, che smanio dalla voglia di scrivere del Nero, il quale è diventato un personaggio a me gradito grazie al libro (De Cataldo, tu sei un genio). Anzi, a dirla tutta, per me adesso non esiste altro Nero al di fuori di quello del libro, quindi pure Jesus Emiliano Coltorti (che è l'essere che ha dato la faccia al personaggio nella serie) per me, in realtà, è il Nero del libro, anche se i due Nero in effetti non c'azzecano niente l'uno con l'altro. Canon!Mesh-up, ebbene sì.

Riassunto: Freddo. Nero. E il ricordo del Libanese, guardando il cielo di Roma.
A TENSION I DON'T NEED


Freddo non era mai stato un tipo socievole. Da bambino, mentre tutti gli altri giocavano in cortile, lui preferiva star seduto sui gradini di casa a contare le figurine dei calciatori, anche se non erano le figurine in sé ad interessarlo perché lui di calcio non è che se ne intendesse granché; sì, giocava, naturalmente, come chiunque altro, ma non era un tifoso incallito come Gigio, ad esempio, che già a cinque anni sapeva dire la formazione della Roma. Forse era anche per questo che suo padre lo preferiva a lui, che non spiccicava nemmeno una parola e della formazione dimenticava sempre qualcuno, magari il calciatore più forte, che perfino sua madre lo prendeva in giro.
Quello che gli piaceva delle figurine, era proprio poterle contare. Tenere il mazzetto in mano e poi sfogliarle una ad una velocemente, tenendo il conto. Questa operazione gli permetteva di concentrarsi quando aveva qualche problema da risolvere, e capitava spesso che ne avesse, visto che in famiglia le cose non andavano un granché bene. Il portinaio del suo palazzo, che a pensarci bene era stato il primo Proietti che gli fosse capitato di conoscere in vita sua, diceva sempre che gli faceva male stare preoccupato perché non era cosa per ragazzetti avere tutti quei pensieri per la testa. Ma lui non si sentiva un bambino, si sentiva un adulto e pertanto autorizzato ad avere tutte le preoccupazioni che si sentiva addosso.
Quasi dieci anni dopo, il Nero gli stava dicendo la stessa cosa. “Tu pensi troppo,” esclamò all'improvviso, mentre erano entrambi intenti a fissare il cielo appena fuori Roma, distesi sull'erba accanto alle moto. “Quando vuoi meditare, la tua mente dev'essere libera da qualunque pensiero.”
“Ma non sto meditando,” rispose lui, scuotendo la testa e aspirando una boccata. Dalla sigaretta, naturalmente; perché a portare canne quando usciva col Nero c'era da sentirlo ricominciare con la storia della roba da compagni. Come se tirare di coca fosse meglio. “Io voglio solo guardare il cielo.”
“E cosa cerchi nel cielo?”
“Niente, Nero, non cerco niente. Lo guardo e basta,” sbuffò, sistemandosi meglio il giubbotto arrotolato sotto la testa. “Quando lo capirai che a me i segreti dell'universo non mi interessano?”
“Solo perché nessuno te li ha mostrati,” ribatté lui, con la solita calma placida.
Il Nero aveva l'indiscutibile pregio di non farsi mai sconvolgere da nulla. Freddo lo ammirava per questo. Era vero che il suo nome se l'era guadagnato perché sembrava che quando sparava non avesse sentimenti, ma in verità era solo bravo a nascondere la rabbia che gli ribolliva sotto la pelle. Era un maestro nel trattenersi dal fare una strage quando lo facevano imbestialire, ma non era di certo calmo. Nero, invece, era tutta un'altra storia. Lui sì che era davvero imperturbaile e distaccato, costantemente immerso nel liquido di raffreddamento del suo amato karma e avvolto nell'abbraccio del sesso tantrico che amava spiegare più di quanto gli interessasse praticarlo. Il Nero era più freddo del Freddo; e di sicuro Freddo era più nero di lui, con il muso lungo col quale se ne andava in giro, soprattutto dopo la tragedia. Forse avrebbero dovuto scambiarsi i nomi.
“Se me li mostrano che segreti sono?” Ritorse, con una smorfia.
Il Nero sorrise impercettibilmente; era il massimo dell'entusiasmo che ci si potesse aspettare da lui. Freddo aveva imparato a convivere con quelle sue reazioni appena accennate. Non che lui fosse espansivo, ma dopo essersi abituato all'esagerazione del Libanese, ogni comportamento anche solo vagamente più composto appariva insufficente, come se ogni azione non fosse seguita da tutta l'intensità necessaria.
A volte, quando il Nero festeggiava il successo di un colpo limitandosi ad annuire, o rispondeva solo con calcolati monosillabi a mezz'ora di distanza l'uno dall'altro, gli sembrava che nel terreno si aprisse una voragine profondissima, che avrebbe dovuto riempirsi di tutto l'entusiasmo sguaiato, le pacche sulle spalle e le risate profonde che riuscissero a tirare fuori, e che invece restava lì, vuota, con un unico cenno del capo appoggiato in fondo in fondo, che quasi non si vedeva.
Quando pensava ai vuoti, alle assenze, il pensiero correva subito al Libanese; anche se, e aveva smesso di negarlo ormai, il pensiero correva a lui in qualunque caso, quindi forse non era una questione di vuoti in generale, ma di quello che aveva dentro e che sembrava farsi più grande ogni giorno come se il tempo, invece di chiuderlo, gli desse forza per aprirsi ancora e ancora. Freddo non aspettava che il momento in cui lo avrebbe fatto abbastanza da mangiarselo vivo, così ci sarebbe caduto dentro e quella tortura sarebbe finita.
C'era uno spazio vuoto anche tra lui e il Nero, a causa della morte di Libano. Non era qualcosa di preciso o, meglio, non era qualcosa che Freddo fosse disposto a definire o a quantificare oltre i limiti del rispetto ma, di qualunque cosa si trattasse, era leggermente diversa senza più il freno impostole dalla presenza del Libanese. Freddo ne era cosciente soprattutto ora che quella presenza non c'era più.
Con la possibilità di poter smettere in qualunque momento di essere arrabbiato con lui per quello che stava facendo alla banda, si era sentito autorizzato a fare quello che gli pareva, a sparire per giorni, a lasciarlo sulla porta della bisca a mangiarsi il fegato, se voleva, e sparire nella notte con la moto e il Nero a fianco; il Nero che allora era solo quello che lo aveva spedito al gabbio. Se lo immaginava, il grugno indispettito del Libanese quella sera, quando l'aveva visto andare via con il Nero come se fossero amici, mentre con lui – che aveva smosso mari e monti per tirarlo fuori – non voleva restare.
La verità era che, in quel periodo, aveva sperato che il Libanese ci ripensasse a quella cosa di diventare grandi, e invece quello aveva la testa di cemento. Freddo avrebbe dovuto saperlo che allontanarsi avrebbe solo peggiorato le cose. Finchè il Libanese era vivo, però, c'era sempre tempo di tornare indietro e rimettere a posto le cose. Così aveva rimandato e rimandato, finché il Libanese era morto e lui non aveva potuto cambiare proprio più niente.
Adesso passare il tempo col Nero era doloroso, perché guardandolo si ricordava di cos'avesse perso, ma di certo non era colpa sua. Per questo ancora prendeva la moto e lo seguiva in cima alle colline a parlare di stelle, anche se lui di stelle non ci capiva un cazzo. Il tono monocorde della sua voce lo rilassava e gli portava alla mente di nuovo tutta la storia. E anche se faceva un sacco male, andava bene così.
Freddo sapeva che non provare più dolore avrebbe significato che il ricordo di Libano aveva finalmente smesso di scavargli il cuore e non era ancora pronto per questo. Non lo sarebbe stato mai, in realtà, neanche fra un centinaio d'anni quando la storia sua, della banda o di Libano stesso avrebbe fatto parte del passato di Roma. Freddo sperava soltanto che a raccontarla desse i brividi, perché a lui li aveva dati.
“I ricordi non ti lasciano mai in pace, come i pensieri,” disse il Nero, dopo un altro lungo silenzio. Si era tirato su a sedere e si stringeva le gambe al petto, appoggiandoci sopra il mento. Freddo si chiese perché non si abbassasse a fare domande. Sembrava che di bocca potessero uscirgli soltanto verità assolute.
“Chi ti dice che io sia tormentato dai ricordi?”
Nero si strinse nelle spalle. “Te lo leggo in faccia,” rispose. “I tuoi occhi guardano qualcosa che puoi vedere soltanto tu.
“Ti ho già detto che sto solo guardando il cielo e nient'altro.”
Nero non rispose, si limitò a guardarlo con gli occhi spenti. Non gli importava che gli altri ammettessero che aveva ragione; quand'era consapevole di averla – il che accadeva più o meno sempre secondo i suoi calcoli – si limitava a fissare il suo interlocutore con occhi annoiati e distanti, del tutto disinteressato a come il cervello di chi aveva davanti avesse deciso di non lavorare. Non era uno di quelli che tentava a tutti costi di convincerti della sua idea, quanto piuttosto uno di quelli che te la esponeva e poi, appurato che non eri ancora ad un livello adeguato di conoscenza per comprenderla, si disinteressava del tutto di te e dell'educazione che aveva avuto intenzione di impartirti nemmeno un secondo prima. Lo stava facendo anche adesso. Si era zittito subito e ora lo guardava in silenzio, forse in attesa che Freddo si reincarnasse in un essere di intelligenza superiore che potesse ammettere la chiara ragionevolezza del proprio pensiero.
Freddo cercò di tenere le sue posizioni a lungo, ma perse la gara di sguardi perché non era mai stato capace di mentire a se stesso e anche perché detestava essere fissato in quel modo. “D'accordo,” sospirò alla fine, arrendendosi e sedendosi a gambe incrociate. “Non riesco a smettere di pensarci, contento?”
Nero non rispose, piuttosto continuò il discorso che aveva interrotto per mancanza di sostegno da parte sua. Il tutto come se un qualche tipo di interruzione non fosse mai avvenuta. “Nè contento né infelice,” rispose senza cambiare impressione. “Non è una cosa che mi tocca.”
Freddo avrebbe voluto dirgli che allora se le tenesse per se le sue perle di saggezza induista se poi, quando uno si apriva, finiva col dire che non gliene fregava un cazzo, ma rimase in silenzio perché aveva l'impressione che a dargli corda sarebbe finito in un ginepraio di filosofie nelle quali, al momento, non aveva nessuna intenzione di entrare. Si limitò a stringersi nelle spalle, continuando a guardare il panorama di Roma dall'alto.
“Sai che cosa faccio io quando mi prende la nostalgia di qualcuno?” Disse il Nero.
“Perchè ci sono delle persone che ti mancano?” Chiese incredulo il Freddo. Non è che lo ritenesse del tutto impermeabile ai sentimenti umani – d'accordo, forse un po' sì, viste le reazioni di marmo che aveva il più delle volte – ma di certo non se lo immaginava a struggersi di dolore guardando il tramonto.
“Il fatto che io non mi lasci condizionare dal mio dolore, non significa che non ne provi,” replicò il Nero, senza però lasciar trasparire l'irritazione che una frase del genere, in bocca a qualunque altra persona, avrebbe sicuramente contenuto a litri. “Ad ogni modo, io ho una teoria ben precisa sull'argomento.”
“Non mi sorprende. Coraggio dimmela, so che muori dalla voglia di farlo.”
Le labbra del Nero si piegarono impercettibilmente in un sorriso. “Vedi, a morire non sono le persone, ma soltanto il loro corpo. Lo spirito vive in ciò che esse si sono lasciate alle spalle, per questo tutti cerchiamo di lasciare un segno del nostro passaggio.”
Freddo aveva voglia di ridere da quanto era triste questo concetto, e per altro si era aspettato di sentirglielo dire perché se c'era una cosa in cui il Nero era bravo era dotare di anima e cuore qualunque oggetto, idea e pensiero lo circondasse. L'importante era che non fosse vivo. Era incredibile pensare di quante cose inanimate avesse cura e rispetto quando poi ci metteva niente a sparare in fronte ad un povero cristiano che nemmeno conosceva. A volte pensava che il Nero riuscisse a provare compassione solo per chi non poteva ricambiare, come se la sua fosse un'azione caritatevole di un qualche tipo. Una restituzione al karma o chissà cosa. “Il problema è che io, di quello che Libano ha lasciato, non me ne faccio niente,” commentò rabbioso, sentendo il bisogno di alzarsi in piedi e di schiacciare il mozzicone sotto la punta dello stivale.
“Gli oggetti e le idee tengono vivo il ricordo,” insistette il Nero paziente.
Freddo scosse la testa, mentre montava in sella alla moto. “Il ricordo non si tocca, Nero,” concluse, allacciandosi il casco. “E mi perdoneranno le tue ruote cosmiche, ma io avrei preferito tenere in vita lui.”
Il Nero non ha il tempo di rispondere perché Freddo dà gas ed è sparito l'attimo successivo; sgomma via così velocemente che, se non lo conoscesse e non sapesse quanto controllo ha sulla moto, forse il Nero avrebbe paura per la sua incolumità. O forse no, perché per lui la morte, come la vita, fa parte del gioco, pertanto non se ne preoccupa mai.

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