Personaggi: Fler, Chakuza
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash, Linguaggio
Rating: R
Note: Pant.. pant... puf.. puf! Ce l'ho fatta, nonostante le previsioni. Questo mese sarà un inferno. Correzione, questo mese è già un inferno, ma niente al mondo mi avrebbe impedito di scrivere una storia per il compleanno del mio gemello virtuale. TANTI AUGURI ARMADIO A DUE ANTE! Ora, giacchè quello stronzo del tuo fidanzato collega, Chakuza, non mi regalerà un duetto con te per l'uscita del suo nuovo cd (2 giorni dopo il mio compleanno), regalami tu un duetto con lui nel tuo prossimo album, chiaro? Quasi dimenticavo una cosa importantissima. Avete presente quando parlo delle cose piccole che hanno sempre bisogno di fare qualcosa? E' una citazione di Liz, che l'aveva già scritto in una delle shot del Ghettodrama (e forse nemmeno una sola) o forse in una delle shot già scritte che deve ancora postare. Insomma, è roba sua. E ce ne sono anche un altro paio di citazioni, che però non mi ricordo quali diavolo siano. Comunque poi le capirete, perché quando lei posterà le sue robe voi penserete "Ah, guarda, come quella di Tab" e invece no! E' questa mia che copia spudoratamente la sua. Sappiatelo. Tanto per chiarire.

Riassunto: Io non volevo raccontarvi questa storia.


Ora, io non volevo raccontarvi questa storia.
Ritengo che almeno per il giorno del proprio compleanno una persona dovrebbe essere esonerata dal rendere pubbliche le proprie figure di merda, le proprie disgrazie, o le croci che il cielo gli ha amorevolmente consegnato in un pratico formato di un metro e quaranta.
E sono ancora convinto di questo. Il compleanno andrebbe festeggiato, anzi andrebbe festeggiato chi compie gli anni e questa persona – nel caso specifico io – non dovrebbe fare assolutamente niente e godersi il giorno a lui dedicato come meglio crede, ma senza faticare, lasciando passare le ore una dietro l'altra beate e senza rotture di cazzo.
Quando però ho esposto questo mio pensiero perfettamente logico a Chakuza, lui non è stato d'accordo; forse perché lui non ha nessuna familiarità con i concetti logici o con la logica in generale – essendo un individuo generato nel caos primordiale e in esso allevato fino all'età della ragione mai realmente raggiunta – oppure, molto più probabilmente, non ha capito un cazzo di quello che gli stavo dicendo perché, a meno che la tua frase non contenga il concetto facciamo sesso ora e subito in qualsiasi forma lo si possa esprimere, lui non ti ascolta veramente. Il suo cervello, che occupa un volume ben minore di quello che potrebbe sembrare a vedere quella testa tonda come un'enorme lampadina lucida, non funziona sempre, come quello di qualsiasi essere umano. Per qualche errore al momento dell'assemblaggio, gli arriva meno corrente del dovuto, quindi ha sviluppato una sorta di sistema di protezione naturale – un tratto evolutivo istantaneo, per così dire – che gli permette di conservare la poca energia che gli arriva e di incamerarla per quando effettivamente gli serve. Ne consegue che il suo cervello entra in ibernazione come un portatile ogni volta che non c'è un effettivo bisogno di lui, che nel suo caso significa: preparare da mangiare e recepire la richiesta di qualcuno di fare sesso. In tutti gli altri casi il suo cervello si chiude – se lo ascolti bene si sente proprio il rumore di meccanico di qualcosa che si ripiega su se stesso – ed entra in funzione una specie di segreteria automatica che dovrebbe registrare i tuoi messaggi perché poi lui, una volta attivo, li legga ma che, di fatto, non lo fa forse per colpa di un nastro smagnetizzato o perché non ha la spina nella presa.
Ad ogni modo, Chakuza non era d'accordo perché, come ha tenuto a farmi notare in maniera pedante, per il suo compleanno è stato lui a raccontare la sua storia, quindi adesso toccherebbe a me raccontare la mia, visto che il compleanno di cui sopra sarebbe il mio.
Io alla fine ho ceduto perché la piantasse di insistere e, soprattutto, per evitargli di morire giovane – perché sono buono e lo amo ma, se ad un certo punto non cedo, finisce che pure io ho voglia di ammazzarlo e mia madre dice sempre che non sta bene.
Il problema, con Chakuza, e lo capisci solo dopo un po' che per un motivo o per un altro ti ritrovi a girargli intorno come fosse una boa, è che lui non molla mai. E quando dico mai, intendo quel tipo di mai quantificabile con l'eternità o con un film d'essai bielorusso con i sottotitoli in guatemalteco. Se non ottiene nessun risultato concreto, qualsiasi essere umano sulla Terra – per quanto sia ostinato – ad un certo punto capisce che una certa linea di comportamento non lo porterà da nessuna parte. Magari non subito, magari dopo tanto tempo, ma prima o poi giocoforza lo capisce. Per Chakuza è diverso. Lui si rende conto che il suo atteggiamento non sta sortendo alcun effetto, ma dà la colpa di questa mancanza di risultati non alla natura del suo agire, bensì alla durata delle sue azioni. In parole povere, e non so cosa mi sia preso a parlare così, dal momento che io per contratto devo apparire un povero spiantato del ghetto, di buon cuore ma praticamente un gradino sopra l'analfabetismo, Chakuza non pensa mai di sbagliare atteggiamento, ma di non aver perseverato abbastanza. Per lui è sempre una questione di tempo. E siccome lui ha molta più pazienza di te, chiunque tu sia – non lo so se la capacità di romperti i coglioni in eterno l'ha acquisita col tempo o se non sia, invece, una sorta di abilità ascetica zen derivatagli dal nascere sulle montagne – finisce che ha ragione lui.
Per dire, qualche tempo fa si era convinto che il più grande investimento che potesse fare in quel preciso momento della sua vita era comprare un camper. Vai tu a sapere perché, visto che da uno che passa metà della sua esistenza su un tourbus, tutto ti aspetti tranne che voglia passare le vacanze su una casa mobile, ma ho smesso da tempo di chiedermi secondo quale legge fisica girino gli ingranaggi nella sua testa e, anzi, mi sono convinto che in realtà l'intero, arrugginito meccanismo sia azionato da un branco di gerbilli ubriachi che a stento riescono a fare due giri di ruota senza cappottarsi. Insomma, si era fissato tantissimo e voleva a tutti i costi comprarne uno il prima possibile, ma siccome oltre ad essere pazzo è anche uno preciso – che non ci si crede vedendo casa sua, la sua testa o anche solo il contenuto delle sue tasche – quando deve comprare qualcosa, s'informa prima su tutti i dettagli. Ha comprato quintali di riviste di settore, ha consultato milioni di siti internet e poi, e qui viene il bello, ha deciso che fosse tempo di andare a toccare con mano la mercanzia. Per settimane non ha fatto altro che chiedermi se lo avrei accompagnato alla mostra di caravan che si teneva a Stoccarda. La mia prima risposta, chiara come un fiume di montagna – che lui dovrebbe ben conoscere essendo nato tra i caprioli – è stata “Ma anche no” bello scandito, così che il concetto gli arrivasse chiaro anche in presenza di disturbi sulla linea.
Lui però non si è lasciato abbattere e non ha nemmeno protestato, come ci si potrebbe immaginare. Questo perché Chaku non ti chiede spiegazioni dei tuoi rifiuti, lui semplicemente li ignora come se tu in realtà non avessi mai risposto, che per lui è più pratico e per te è dieci volte più frustrante. Il giorno dopo è tornato all'attacco e mi ha fatto la stessa domanda, candido come se la discussione del giorno prima non fosse mai avvenuta, nemmeno in un universo parallelo di ubicazione incalcolabile e raggiungibile solo attraverso distorsioni spazio temporali generate dalla Delorian. E io, pur sapendo com'è fatto quest'uomo, pur conoscendone i più oscuri segreti e pur avendo visto cosa si nasconde nel suo cassetto dei calzini, l'ho guardato con gli occhi spalancati dalla sorpresa perché davvero tu non puoi, ho pensato, tu non puoi venirtene qui candido e fingere che io non ti abbia già chiaramente risposto di no. E invece lui può. Ho scoperto che Chakuza può tutto e in effetti avrei dovuto aspettarmelo da un uomo che è riuscito ad arrivare illeso ai ventinove anni nonostante le condizioni mentali in cui vive.
Questa scena si è ripetuta per settimane: lui che viene da me e chiede, io che gli dico di no e lascio il salotto, sperando che il mio trasferirmi in uno spazio che non lo comprende possa essere in qualche modo un concetto più semplice da afferrare rispetto alle parole “No, non voglio venire a scegliere un camper con te” che probabilmente in Austria devono significare “Non sapevo che volessi andare a vedere camper, ci penserò. Richiedimelo domani” e lasciano quindi spazio a fraintendimenti più che legittimi. Forse è una questione di lingua.
Chakuza però non ha mai mollato, sono stato io a cedere per farlo smettere. Un giorno, prima che lui aprisse la boccuccia di rosa e mi chiedesse di questi cazzo di camper a Stoccarda gli ho detto: “Andiamo a vedere i camper a Stoccarda?” nella speranza, lo ammetto, che essere colto di sorpresa gli provocasse un infarto. Già mi immaginavo che si sarebbe accasciato, magari tentando di aggrapparsi al punto interrogativo che chiudeva la frase, per poi stramazzare al suolo sul tappeto macchiato del salotto, con gli occhi aperti e le dita della mano destra contratte negli ultimi scatti di vita. Lui invece non ha avuto nemmeno la decenza di crepare. Ha sorriso e ha detto: “Vedrai, sarà divertente.” E se n'è andato a preparare la cena.
Così sono andato con lui fino a Stoccarda a vedere centinaia di camper senza intendermi di camper e senza il minimo interesse per niente che anche solo li riguardi da lontano. E questo era solo un lunghissimo esempio. Potrei farvene altri cento milioni e ne avrei ancora un po' da raccontarvi se poi avanzasse del tempo. Così, per concludere, Chakuza mi ha costretto per sfinimento a raccontarvi questa storia, che è iniziata per colpa sua, come tutto ciò che non ha né capo né coda.

*


Il bello di questa storia, e anche il motivo per cui è assolutamente ridicola, è che è una storia per il mio compleanno ma non era esattamente il mio compleanno quand'è cominciata e forse non lo era nemmeno quand'è finita. Diciamo che è avvenuta a cavallo fra il giorno prima del mio compleanno e il giorno del compleanno stesso, ma siccome non avevamo un orologio sotto mano, forse è finita prima che il giorno scattasse. Non lo so. Sarà che non sono convinto perché ho visto la faccia di Chakuza quando mi ha detto che avrei dovuto raccontarvela io perché era il mio compleanno. Era la stessa faccia che fa quando giochiamo a poker con le patatine al formaggio e sembra che lui abbia una buona mano e invece poi scopri che non ha una carta in fila con l'altra. Le prime volte ti spilla interi sacchetti di patatine, poi lo capisci – io l'ho capito perché le sue facce ormai le so tutte – e allora lo fai tornare a casa in mutande. Mi ha chiesto di raccontarvi questa storia con quella faccia lì, quindi presumo che in mano non avesse niente e non fosse affatto il mio compleanno, ma ormai ve la racconto perché a questo punto diventa una questione di principio mostrarvi un altro aspetto di quell'uomo che vi porterà a chiedervi perché abbia il permesso di entrarmi nel letto e nelle mutande. Potrei rispondervi, naturalmente, ma so che vi crogiolereste nella risposta, quindi vi attaccate.
Voi sapete, ormai, che nel nostro lavoro ci sono dei tempi morti non indifferenti, seguiti da periodi di stress lavorativo che può portarti alla pazzia, seguiti da ulteriori tempi morti che prima agogni come ossigeno e poi ti pesano addosso nemmeno non lavorassi più da vent'anni, questo ve l'ha già detto Chakuza. Quello che l'austriaco non vi ha detto è che durante questi periodi di pausa lui è la più grande piaga sfrangia-coglioni che sia mai esistita nella storia del Terra e, con ogni probabilità, anche in quella di tutti gli altri pianeti del Sistema Solare e oltre. Io non lo sapevo prima di conoscerlo e non l'ho saputo subito nemmeno quando l'ho conosciuto le prime volte. Non l'ho saputo nemmeno dopo che siamo andati a letto la prima volta – che nel caso di Chakuza significa molte volte a distanza di niente in un solo giorno, per recuperare tutto il tempo che fino a quel momento non avevamo scopato e rimetterci in pari con le tempistiche del mondo, credo – perché in quel periodo stavamo lavorando e lui non si annoiava. E non è che gli altri ragazzi dell'etichetta mi hanno preso da parte e mi hanno detto: Guarda Patrick, stai attento, perché è tutto rosa e fiori finché quello ha qualcosa da fare, ma poi! Così, proprio, con il punto esclamativo alla fine. Avrebbero dovuto avvertirmi e invece no. Lo hanno protetto. C'è dell'omertà in quell'etichetta e io, ovviamente, ne ho fatto le spese. Anzi, credo che mi abbiano atteso con ansia e quando ho varcato la porta degli studi quel giorno che Bushido ha deciso che non ci dovevamo più mandare a quel paese di giorno, di notte e anche nelle ore intermedie e devono aver pensato: ecco che arriva il fesso che ci libererà dal mostro. E io sono arrivato.
Come tutte le persone piccole, Chakuza ha sempre bisogno di muoversi e fare qualcosa. Dal momento che la strada dalla testa alle estremità nel suo caso è molto breve, il suo sistema ci mette niente a portare le informazioni da una parte all'altra e nel suo corpo è tutto un avanti e indietro di informazioni, continuamente. Per questo dorme poco e quando è sveglio deve trafficare. Generalmente la prima cosa che fa è cucinare. Anzi, la prima cosa che fa è aprire il frigo, farne uscire i pipistrelli che ci hanno fatto il nido nelle settimane di inattività precedente e constatare che contiene un limone, due yogurt scaduti e qualcosa che sua madre gli ha fatto sei mesi prima e che giace ormai irriconoscibile e pieno di muffa in un contenitore col tappo blu. A quel punto si precipita al primo supermercato, compra quintali di generi alimentari come da un momento all'altro dovessimo subire un attacco con armi chimiche e quando torna a casa cucina. Di tutto. A qualsiasi ora lo chiami, lui sta cucinando e quando poi vai lì finisce che ti da tre o quattro teglie di cibo perché oggettivamente non può mangiarsi tutto da solo e noi e le nostre famiglie mangiamo per settimane e settimane dopo che lui ha avuto questi scatti. Mia madre a volte piange di gioia quando l'avverto che ho una cosa per lei da parte di Peter. E quando entro in casa, prima abbraccia le lasagne e poi me e dice “Grazie! Ma che belle!” come se io fossi una ricetrasmittente umana e Chakuza, dall'altra parte della città, potesse sentire le parole che lei sta dicendo a me. Lo adora, lei, il suo Peter. Non sono sicuro che abbia capito che il suo Peter è l'unica vera ragione al mondo per cui non avrà dei nipoti, forse dovrei dirglielo così poi non adorerebbe così tanto una teglia di lasagne.
La seconda cosa che Chakuza fa quando si annoia e ha già cucinato per un esercito è scopare. Anche se le due soluzioni si invertono se in casa ha qualcuno che renda possibile l'inversione, tipo me, ma io faccio sempre in modo di non essere nei paraggi quando so che si avvicinano i momenti di noia, perché i suoi momenti di noi scatenano i miei momenti di stanchezza e se non voglio ammazzarlo – sempre per far piacere a mia madre che non vuole che uccida gente – devo difendermi in qualche modo. Quando Chakuza ha già fatto o è impossibilitato a fare queste due cose, allora è un uomo perso. Non so se avete familiarità con il concetto, ma in pratica si tratta di un uomo adulto che vaga per casa senza niente da fare, con lo sguardo vacuo e prossimo a spegnersi del tutto. Alle volte mi è capitato di vederlo, magari perché lui credeva dormissi e non se l'è sentita di infilare le dita senza permesso – una cosa che capita estremamente di rado perché Chakuza è convinto di aver acquisito ogni permesso immaginabile quando quella sera, forse ubriaco, gli ho detto prego, entri pure – e quindi nell'attesa che mi svegliassi non sapeva che cazzo fare della sua vita. Ed è qui che cominciano i guai.
Quando questa storia è cominciata – e tre, mi rendo conto, ma prima o poi comincia – io ero a casa mia e lui era a casa sua, c'era fra di noi una distanza appropriata che mi avrebbe permesso di riprendermi da non mi ricordo più nemmeno quanti mesi di lavoro serratissimo, tra il tour con Bushido e la campagna pubblicitaria per la Psalm 23. Ed ero di buonumore.
Così ho aperto il computer e ho visto quello che stava avvenendo a qualche decina di chilometri da casa mia, in una palazzina fatiscente, in un appartamento disordinato, nello studio di un uomo ormai perso che sarebbe venuto da me a chiedere conto e ragione della sua noia. E ho quasi avuto il desiderio di fare le valige e fuggire.
Peter non ha un buon rapporto con la tecnologia, anzi a dirla tutta non ha un buon rapporto con niente in cui lui non possa infilare una teglia e cuocere qualcosa. E anche in quel caso fa delle distinzioni, perché, per dire, sa usare benissimo una cucina professionale ad otto fuochi, ma dagli un piano in vetroceramica a due bruciatori e va nel panico perché invece di avere le manopole per regolare il gas ha un display touchscreen. La stessa cosa si può dire dei computer, dei cellulari e di qualunque cosa, credo, non si accenda con una chiave da girare o una manovella. E' totalmente negato, come se la zona di apprendimento del suo cervello avesse smesso di funzionare quando aveva vent'anni e ora si stia lentamente atrofizzando, rifiutandosi di assimilare qualunque concetto abbia meno di dieci anni. Il problema è che se anche può organizzarsi per cucinare con un forno a legna – o su uno spiedo in salotto – e possa guardare film in DVD – sì, al DVD ci siamo arrivati, con il blue ray fa ancora fatica – su un televisore che non abbia troppe funzioni, di certo non può più promuoversi come si faceva una volta con i volantini e il passaparola e non so cos'altro. Ha bisogno di internet ed è abbastanza intelligente per rendersene conto, così ci prova. E siccome noi tutti lo aiutiamo, qualcosa magari funziona anche, cioè le notizie su di lui in giro ci sono, quando fa un video noialtri lo pubblicizziamo così in qualche modo, a qualunque fanpage, forum o blog uno è scritto lo vede. Ma lui non ha voglia di star dietro a queste cose, non è uno che va a pisciare, si fa fare una foto e la mette sul twitter come Bushido. O non avverte nessuno se è andato da quella parte o da un'altra come me. E' proprio che non gli passa per il cervello di farle, queste robe. Lui è più il tipo che magari ti telefona e ti dice di andare a farti una birra con lui, cosa che non è che possa fare con tutti i suoi fan – e comunque lui i suoi fan non li conosce, quindi non vuole averci niente a che fare, intimamente parlando. E' molto riservato. Ed è molto tradizionalista. Ed è impedito. Le uniche volte che posta su Facebook è quando si annoia.
Questa è una di quelle volte. E non è nemmeno troppo difficile capirlo giacché ha scritto proprio “Noiaaaaaaaaaaaaaaaa”, così, con un sacco di A. E qualche ora dopo: “Mi annoio e ho il mal di testa” che indica non solo che la noia precedente non è affatto passata ma che è peggiorata da uno stato fisico che già di per se lo mette in condizione di nuocere. Facendo un rapido riassunto di quello che ho appena appreso: a qualche decina di chilometri da casa mia, in una palazzina fatiscente, in un appartamento disordinato c'è un Chaku annoiato che ha il mal di testa. Sto per alzarmi e fare le valige, quando lui mi inchioda con la chat – e mi maledico perché sono stato io ad insegnargli ad usarla, faccine e tutto, cazzo. La finestra salta fuori all'improvviso ed è un po' come lui, piccola e isterica, e penso che se lui, fisicamente, potesse saltare fuori dal mio schermo farebbe proprio così. Plop!
“Che stai facendo?” Mi dice subito. Neanche mi saluta. Io medito di allontanarmi dallo schermo e fingere di non esserci già più; magari ho aperto la pagina per controllare gli ultimi messaggi ma poi non sono rimasto. Non ci sono.
“Patrick?”
Io osservo lo schermo in silenzio e lo vedo riempirsi, a distanza di mezzo secondo, di “Ci sei?” “Ma mi leggi?” “Non capisco mai se funziona questo cazzo di affare.” “Ma sto parlando?” che è come sentirlo borbottare dal vivo, perché fa così. Riesco perfino ad intuirne il tono e alla fine non riesco proprio ad allontanarmi, perché se lui fosse qui fisicamente non cambierei stanza ma lo farei smettere in qualche modo, fosse anche a badilante in testa. “Sì, ti vedo. Ero al bagno,” mento.
“Che stai facendo?” Ripete.
Sospiro perché questa è la tipica domanda che ti fa quando lui non sta facendo niente ed implica, in maniera molto velata, che qualunque cosa tu stia facendo devi smettere di farla per dedicargli attenzione o, al massimo, che devi fare qualcosa che lui possa fare con te, così almeno non si annoia più. “Niente, mi sono appena svegliato,” dico. “Ora faccio colazione.”
“Aspetta, ho fatto una torta ieri sera. Te la porto così mangi quella.”
Vorrei dirgli che no, se ne stia a casa sua, che magari mi va di fare colazione con la pizza al salame piccante avanzata da ieri sera o con del cibo cinese che tengo in frigo da tre giorni e poi se no va a male, o magari ho una zuppa di pasta e fagioli giusto per iniziare leggero. Solo che non glielo dico perché sennò poi ci rimane male, che non significa che metta il broncio ma che me lo rinfaccerà a vita quando poi, per dire, farà una cazzata, io gli dirò che ha fatto una cazzata e allora lui mi farà notare che le cazzate le fa sempre perché tanto io non sono buono a rallegrarmi nemmeno quando per una volta cerca di essere carino – tipo ora – e che non mi va mai bene niente. Quindi sospiro e accetto di fare colazione con la torta. “D'accordo, ma muoviti che ho fame.”
Lui non saluta e la prossima volta che lo vedo è quando mi suona il campanello.

*


Specifico che quando lui suona il campanello sono esattamente due minuti dopo che io mi sono alzato dalla sedia di fronte al pc, quindi inizialmente io non collego le due cose. Penso che la signora del piano di sotto sarà venuta di nuovo a lamentarsi perché tengo la musica troppo alta e lei ha un bambino di due mesi posseduto dal demonio che non dorme mai e urla come se andasse a fuoco notte e giorno senza però finire in cenere mai. Io adoro i bambini, ben inteso, e sono pure bravo a trattarci, ma questo secondo me ha dei problemi oggettivi e forse andrebbe fatto visitare. Io comunque ieri sera a casa non c'ero, quindi se qualcuno ha svegliato il pargolo in uno dei suoi rari momenti di sonno, quello non ero io e mi premurò di farglielo notare nel modo più gentile che conosco prima di aver fatto colazione.
Invece quando apro la porta c'è Chakuza.
Non me ne accorgo subito perché sono troppo impegnato a cercare di capire perché la signora del piano di sotto – tutto sommato una bella donna di quarant'anni con i capelli lunghi e castani – sia diventata notte tempo un uomo pelato e tracagnotto, con in mano un vassoio porta-torte. Visto che Chakuza parlava con me al computer nemmeno due minuti fa, mi sembra di stare guardando un'immagine impossibile, come quelle figure che ogni tanto vedi in giro, che non si capisce bene la prospettiva o la profondità. Io guardo Chakuza e penso che non può essere davvero lui, che dev'essere la signora del piano di sotto, eppure non può essere nemmeno lei perché non era pelata ieri. E non era nemmeno un uomo. “Ciao,” fa lui. Ed è indubbiamente la voce del Chaku, quella non si confonde, quindi dovrò ammettere la mia sconfitta nei confronti della realtà possibile.
“Che ci fai qui?” Chiedo, mentre lui entra in casa mia come fosse la nostra, o qualcosa di simile. Insomma, senza permesso. E a me non resta che chiudere la porta.
“Non ti avevo detto di aspettarmi che ti portavo la torta?”
“Sì, due minuti fa! Come diavolo hai fatto? Casa tua sta a mezz'ora da qui,” protesto. E poi mi rendo conto che c'è la possibilità che ciò non sia vero. “Non avrai cambiato casa?” mormoro sconvolto. Ed è un'ipotesi improbabile – ieri lui abitava ancora dove ha sempre abitato da che lo conosco – ma non impossibile – magari ha comprato casa da queste parti mesi fa e io non lo sapevo e ora ci si è trasferito e io non avrò più un momento di pace. Il panico.
Lui ride, e lo fa in modo fastidioso e cioè come uno che sa cose che tu non sai e ti guarda con aria di superiorità, cosa che lui non dovrebbe mai fare perché se ci sono cose che io non so, la probabilità che non le sappia nemmeno lui è molto alta. “No, scemo, ero già qui.” E mi mostra un telefono di ultima generazione, uno di quei modelli di cui lui non dovrebbe nemmeno intuire l'esistenza. Qualcosa di paragonabile allo scarico automatico del gabinetto per un uomo del medioevo.
“Quello è un BlackBerry,” dico molto stupidamente.
“Sì così mi hanno detto,” fa lui, rigirandoselo tra le dita come una forma di vita aliena.
“Tu non sai usare niente che funzioni con un sistema operativo,” gli faccio notare. “Chi stava parlando con me su Facebook se tu eri fuori dalla porta di casa mia a-Che poi cosa ci facevi là fuori, Cristo Santo, sei inquietante!” Sono sconvolto, mi aggiro per il salotto intorno a lui e mi passo le mani sopra la testa. Magari è anche pericoloso.
“Infatti non l'ho nemmeno acceso. E' stata la commessa del negozio qui sotto a fare tutto, lo ha programmato, ci ha fatto robe, non so,” mi dice lui, continuando a sorridere a questo telefono che scintilla da quanto è nuovo. “Così le ho chiesto se potevo anche andarci su internet e lei ha detto sì certo. E così io le ho detto: anche su Facebook? E lei: tutti i siti. Così mi ha fatto vedere e tu eri lì, così ho scritto, anche se questa tastiera è piccola e premo un sacco di tasti insieme.”
Sono sempre più sconvolto. E' come uno scimpanzé in un laboratorio. Sono certo che quelli del negozio gli abbiano dato quel telefono per studiare le reazioni di un uomo allo stadio primordiale di fronte alla tecnologia. Dev'essere uno studio sociologico. “Hai comprato un telefono di quella portata perché poteva andare su internet?”
“No, perché la commessa era carina,” fa lui, con una scrollata di spalle mentre si infila il prezioso oggetto in tasca. “E perché mi annoiavo.”
Mentalmente ringrazio che quest'uomo qui non abbia a disposizione cifre da capogiro, o ci ritroveremmo con un secondo Bushido. Anis è stato capace di comprarsi due moto ad acqua e tre appartamenti perché si annoiava (e probabilmente anche perché chi glieli ha venduti era carino). Non so neanche perché ringrazio, visto che i soldi sono suoi, ma insomma. Forse ho paura che un giorno si presenti qui e mi dica: Vieni a vedere con me la mostra dei camper a Stoccarda? L'ho comprata! Con le braccia alzate e la testa pelata in mezzo, come quando scrivi sul twitter.
“Comunque quest'affare è scomodissimo, quindi credo che lo regalerò a mia sorella,” conclude, mentre si appropria anche della mia cucina come fosse la sua e mi mostra la sua creazione, che è una roba allucinante con la panna, la cioccolata e la base di pan di Spagna, qualcosa che deve aver impiegato ore e ore a fare, mica che ha aperto una scatola, ha versato in una tortiera e via.
“Faccio un po' di caffè?” Chiedo, guardando la torta che non è una torta da colazione, è qualcosa da dopo pranzo, ma visto che ci siamo quasi tanto vale...
“Sì bravo, ci sta bene,” approva lui e tira fuori piattini e tazzine e tovagliette e forchette minuscole che non so dove abbia trovato.
“E quelle cosa sono?”
“Forchettine da dolce,” risponde lui, disponendo i tovaglioli a forma di uccello del paradiso, tipo, non lo so ma li sta piegando in maniere che non credevo possibili e di cui non vedo l'utilità visto che stiamo per mangiare, io e lui, una fetta di torta mica è una cena elegante con mille invitati.
“D'accordo, ho sbagliato domanda: a chi hai rubato quelle forchettine da dolce?” Chiedo. Perché non ho mai posseduto niente del genere.
Lui le sistema col calibro e ci manca solo che si allontani dalla tavola per vedere la prospettiva della brocca del latte. “A nessuno, Fler,” mdi dice sistemando un uccello del paradiso sulla tazzina. “Sono tue, te le ho comprate io due mesi fa perché il tuo servizio di posate era incompleto.”
Il mio servizio di posate era... cosa? Ma dico, quest'uomo ha in bagno un boiler che perde acqua da quasi due anni e viene a dire a me che sono manchevole di forchette lunghe dieci centimetri per mangiare un accidenti di dolce? “Me le hai comprate? Mi hai comprato delle posate?”
“Sì e tu non te ne sei nemmeno accorto,” mi dice intanto che mi serve la torta. “Com'è?”
“Buona,” ammetto. “Meglio di quella della settimana scorsa.”
“Eh lo so, ho capito dove sta il trucco,” commenta annuendo. Gli unici dialoghi che il suo cervello è in grado di sostenere con una certa chiarezza sono quelli sul cibo. A tavola Chakuza ritorna ad essere un essere umano senziente. “E insomma?”
Io inghiotto un altro pezzo di torta e mi lecco la panna dalle labbra. “E insomma cosa?” Chiedo.
Lui mi guarda e non ha nessuna espressione. O meglio, ha quell'espressione che significa, più o meno: Mi pare che quello che voglio dirti sia chiaro, non lo leggi sul mio viso? Là, proprio in mezzo ai miei occhi verdi e rotondi.

*


E insomma, non si scopa?
Questa era la domanda che aleggiava nel vuoto del suo cervello. Là dentro, fra gli ingranaggi messi in moto dai gerbilli, doveva essere una sequenza piuttosto logica: aveva cucinato, aveva mangiato, si era un po' annoiato e ora doveva espletare quest'altra funzione primaria, come se i suoi lombi perdessero elasticità se privati della loro ginnastica quotidiana. E io, nella mia persona di compagno di letto fisso, dovevo occuparmi di tale incombenza, naturalmente.
E fin qui mi va anche bene, perché non è che sto con lui e poi lui mi va a scopare in giro solo perché ha delle necessità superiori a qualsiasi altro essere umano io abbia mai incontrato. Insomma, visto che lui non si adatta – ci ha provato ma è davvero infattibile, poi magari un giorno vi dirò – mi adatto io e prendo un sacco di integratori e faccio palestra per reggere il suo ritmo. Ma ho un limite. E quel limite lo superiamo quando sono le ventitré – un due e un tre sulla mia cazzo di sveglia – e noi non ci siamo mossi da questo letto mai, tranne una volta che lui si è alzato e ha corso – ha corso nudo e felice, e il solo ricordo del suo sedere che si avvia gioioso verso la cucina mi provoca stati d'animo da terapia pluriennale – per recuperare la torta alla panna e ricominciare a scopare con l'ausilio della sua creazione culinaria, che è poi il suo sogno erotico definitivo: sesso e cibo. Olè.
Dopo che ha sospirato soddisfatto per l'ennesima volta, approfitto del momento in cui si stende e si stira per tirare il fiato e appoggiarmi al braccio che tiene sul mio cuscino, un po' perché mi piace questa specie di coccola e un po' perché se magari gli impedisco l'uso di una mano, l'altra non sarà sufficiente a ricominciare di nuovo. Le palle, naturalmente.
“Spero ti sia passata la noia,” commento, ridendo.
Lui sorride, guardando il soffitto e io osservo come gli si stringono gli occhi quando lo fa. “Quasi. Credo di avere ancora un po' di noia da smaltire.”
“Non guardare me,” commento. Mi fa male tutto, non solo le parti più ovvie.
Lui si gira verso di me e mi striscia addosso approfittando del fatto che lui ha la capacità di ricaricarsi in dieci minuti mentre a me ci vogliono le ore e anche delle dormite e in generale del riposo fisico e mentale. Ha una mano tra le mie gambe l'attimo dopo ma credo che anche lui, lì, sia troppo stanco per dargli retta.
“Posso provare a darti delle buone motivazioni?” Mi chiede, mordendomi il collo.
E io penso che quest'uomo non è veramente umano e non è veramente neanche una scimmia, non so cosa sia. Forse è semplicemente ancora un adolescente, perché anche io ero così da ragazzino, ed era un casino con Anis che mi prendeva sempre per il culo perché mi bastava vedere un paio di cosce per dovermi sistemare tra le mutande, a ripetizione. E lui che c'era già passato si sentiva abbastanza sicuro del proprio corpo da poter ridere del mio. Chakuza di questo stadio disastroso della crescita ha fatto uno stile di vita. Indossa la sua erezione quasi-permanente con disinvoltura e la moda dei pantaloni larghi lo aiuta a non essere arrestato per atti osceni in luogo pubblico. La moda lo spalleggia e gli dà un alibi. Ora forse capisco perché alla fine a scelto di fare il rapper e non il cuoco: il grembiule bianco non lo avrebbe coperto abbastanza.
“Peter, dico sul serio...” piagnucolo, mentre mi allarga le gambe con un ginocchio e le sue mani tentano di rianimare ciò che è morto da due ore, credo. “ ...non c'è più speranza, per oggi.”
Lo sento ridacchiare mentre mi morde sotto il lobo dell'orecchio, ora che ha la mappa delle mie zone calde non ce n'è più per nessuno, e difatti sento l'interruttore in fondo allo stomaco che scatta di nuovo. Mugolo e gli dico che è uno stronzo.
“Lo so,” fa lui e mi accarezza così piano che sono io, ad un certo punto, a muovermi contro di lui e giuro che lo ammazzerei se in questo preciso momento ammazzarlo non fosse l'ultimo dei miei problemi. So che domattina odierò la mia vita perché sarò così a terra da non voler nemmeno alzarmi per fare la doccia, eppure dovrò farla. Ne dovrò fare due, anzi, perché probabilmente lui domattina sarà ancora qui – dove vuoi che vada a quest'ora e tutto nudo, poi – quindi mi seguirà nella doccia e lì si sentirà abbastanza fresco come una rosa da salutare il nuovo giorno nello stesso modo con cui ha salutato quello vecchio. Ma in questo momento, naturalmente, non m'importa di nulla perché si è già sistemato dove deve e i suoi baci sanno ancora di panna e cioccolato, quindi mi ci sono perso alla grande. Penso distrattamente che la sensazione fantastica di sentirlo spingere dentro di me è ancora dieci volte più forte dell'indolenzimento generale, quindi forse il mio limite di sopportazione non l'ho ancora superato. Stringo le ginocchia intorno ai suoi fianchi e m'inarco un po' perché lui non perde di forza, ad un certo punto, ma perde un pelo di precisione per cui se non mi sistemo finisce che domattina la torsione della mia schiena sarà una roba incresciosa. Quando mi sposto lui si risente, perché aveva preso il suo ritmo, così mi afferra per un fianco e stringe, tenendomi lì dove sono mentre pianta bene l'altra mano fra quel disastro di lenzuola che è ora il mio letto, come a dirmi di non prendere iniziative, che poi sennò gli scombino i piani. E' un sacco esigente quest'uomo qui, e ci sarebbe anche da rimetterlo in riga con due urla a volte, ma sono così stanco che la prendo anche un po' sul tenero. Va bene, Chakuza, mi va bene anche così, sistemami un po' come vuoi ma non ti fermare perché è stupendo e non so come abbiamo fatto a riuscirci visto che sono troppe ore che siamo qui e non sarebbe umanamente possibile.
In lontananza sento suonare delle campane. Ovviamente non conto i rintocchi ma mi viene da guardare la sveglia. E' mezzanotte, mi sembra. Non faccio in tempo perché sento di nuovo la panna, la cioccolata ma, soprattutto, questa volta sento Peter. Ovunque. Sulla lingua, dentro e addosso. Mentre lo penso, lui lo dice: “Buon compleanno”, in un soffio sulle mie labbra. Quando apro gli occhi ci trovo i suoi e per qualche motivo che forse ha a che fare con l'incredibile quantità di tempo che il suo corpo ha toccato il mio senza che ci irritassimo a vicenda, mi sembra che quelle due parole stiano anche per qualcos'altro. Su quel pensiero, però, metto appena le dita e poi mi sfugge di nuovo e non so più chi di noi due stia espirando in maniera così liquida. Molto probabilmente entrambi.

*


Il giorno del mio ventottesimo compleanno mi sveglio senza sapere chi sono e senza ricordarmi che è il mio compleanno, per giunta. La prima cosa che vedo è il bianco del cuscino e solo dopo, molto lentamente, ritorno consapevole del mio corpo un pezzo alla volta, quando i muscoli ricominciano a fare male. Maledico Chakuza anche senza sapere che lui è effettivamente in questa casa, da qualche parte, perché so per esperienza personale che nel novanta percento dei casi se mi sveglio in questo stato è colpa sua. Ho la bocca impastata e la gola riarsa e con ogni probabilità non sono nemmeno un bello spettacolo in generale. Voglio morire.
Forse mi riaddormento, però, perché quando riapro gli occhi sul mio cuscino e su di me c'è un'ombra scura che quando mugolo qualcosa ride e allora capisco che si tratta di Peter, il quale è probabilmente in piedi da una mezza eternità perché lui dorme due ore e già gli basta. Penso che forse è anche pomeriggio e che lui ha avuto la possibilità di fare chissà quali danni stando in casa da solo ad annoiarsi. Quasi piango al pensiero che in cucina ci sarà già pronta una cena da venti portate. Dovremo invitare gente a cena, non ce la posso fare. “Dimmi che almeno non hai fatto l'arrosto,” è la prima cosa che dico. L'arrosto cuoce per ore e siamo in aprile. Fa caldo per l'arrosto.
“No, niente arrosto. Li apri gli occhi, sì?”
E io li apro sostanzialmente perché me lo dice lui e so che, se non lo faccio, lui me lo chiederà ancora e ancora e ancora finché estenuato o morto non farò come dice lui. Lo metto a fuoco solo dopo due minuti e lui è vestito di tutto punto, ha su perfino il cappellino e sorride. “Buon compleanno,” mi dice e quando lo fa a me viene in mente quando l'ha fatto stanotte, così mi copro il viso con una mano e faccio finta di stropicciarmi gli occhi.
“Che ore sono?”
“Le undici,” e mi passa un vassoio con tanta di quella colazione che potrebbe bastarmi per tutta la settimana. Chakuza mi nutre più di mia madre, ecco perché lei lo adora. Perché sa che non mi farà mai morire di fame, cascasse il mondo. “Potevo lasciarti dormire ma-”
“Come perdere l'occasione di scassare le palle?” Dico.
Lui mi tira uno scappellotto che però poi si trasforma in una carezza e io sono confuso da quest'uomo, stamattina. “No, ma è il tuo compleanno, quindi forse non ti andava di perderlo dormendo.”
Io alzo lo sguardo e lui mi sorride di nuovo: non più annoiato, ha già cucinato, ha pure scopato ed è tipo... a posto. Ha la faccia di uno che è lì per te. E io ce lo voglio, Dio Mio. E' questo che mi spaventa, credo. Si è anche ricordato che odio perdere le mattine, soprattutto quelle del mio compleanno. “Facciamo quello che vuoi, che ne dici?” Esclama. “Sono ai tuoi ordini. Dimmi che devo fare.”
Io lo guardo, guardo la casa e guardo il vassoio di legno a cui nessuno aveva mai dato un senso se non lui, come anche a tutto quanto il resto: il grembiule, la cucina, la casa. Me.
E penso: resta, ecco che devi fare.

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