iatho+noah

Le nuove storie sono in alto.

Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah, Lord Zenir, James, vampiri
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico, Guerra, Fantasy
Avvisi: Slash, Erotico
Rating: NC-17
Note: Questa è la mia quarta storia ispirata all'ambientazione in cui si è svolto il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole (le altre sono: I - II - III) Partecipa alla settimana del COW-T dedicata al COW-T. Ridondanza nelle spiegazione, we haz it. L'ho scritta un po' di corsa, quindi penso che prima o poi ci rimetterò le mani... crediamoci.

Riassunto: La guerra si è conclusa da quasi un mese. Noah è morto. Eppure Iatho non perde la speranza.
THE FIRST STEP TO ETERNAL LIFE IS YOU HAVE TO DIE


La guerra si era conclusa all'inizio della primavera, quando gli alberi in superficie avevano iniziato a mettere i fiori e si era sciolta la prima neve. Sui campi di battaglia i morti giacevano ancora insepolti, su letti di primule appena spuntate. Non c'era stato il tempo di seppellirli tutti, né quello di trovare un posto abbastanza grande da contenerli. A poco a poco ogni comunità stava portando via i propri cadaveri, accatastandoli gli uni sugli altri su grandi carri che non erano mai abbastanza e sarebbero dovuti tornare per un altro viaggio. Soltanto i corpi dei cavalieri non c'erano più. Caduti in minor numero, nell'ultima fase della guerra, era stato facile per loro portare via i morti e, per certi versi, anche meno doloroso. La vittoria del loro popolo rendeva la morte dei compagni più sopportabile, perché il sangue versato lastricava la via che portava al comando delle altre razze ed era un prezzo che i paladini erano ben felici di aver pagato, ora.
Festeggiavano da quando la Veggente s'era affacciata in cima allo spuntone di roccia dov'era posta la sua caverna e, sollevando le belle braccia nude, le aveva poi abbassate di colpo dichiarando la fine delle ostilità e la loro vittoria. Mentre quel poco che rimaneva delle altre tre razze si ritirava sconfitto nel proprio territorio in attesa di capire che cosa sarebbe venuto dopo, la musica era salita dai villaggi dei cavalieri e aveva viaggiato ovunque, portata dal vento. L'avevano sentita perfino lungo i confini più remoti, come il rombo lontano del tuono prima del primo acquazzone d'estate. Le note allegre e l'euforia si erano sciolte nel terreno attraverso i fiori e sembravano gocciolare come rugiada lungo le radici nel sottosuolo fino a raggiungere le orecchie dei vampiri, che rancorosi, non avevano ancora smesso di digrignare i denti e maledire gli Dei che per quello stesso motivo li avevano un tempo reclusi lontani dal sole.
Il rumore dei tamburi si affievoliva durante il giorno per tornare più potente al calare della notte e pulsare attraverso la terra stessa, rendendo odioso ai vampiri persino il risveglio.
Garkos schiantò il pugno chiuso sulla scrivania, mandando un piccolo vaso a frantumarsi sul pavimento. Lord Zenir, che era intento a scrivere l'ennesimo inutile rapporto di una giornata passata a far niente, non alzò nemmeno la testa. “Calmati, Garkos” mormorò, mentre apponeva la sua firma sul pomposo timbro rosso sangue al quale i vecchi burocrati guardavano con compiacimento.
“Ma non li sente?” Ringhiò quello, accartocciando fogli tra le mani. “Non fanno che cantare e ballare da settimane.”
“Sono soltanto tamburi,” insistette Lord Zenir, con un sospiro. “Prima o poi si stancheranno di suonarli o gli verranno i calli alle mani. Non si può suonare in eterno.”
“A me sembra che lo stiano facendo,” replicò Garkos, impilando le pergamene che aveva raccolto in uno spazio sulla scrivania di lord Zenir che quello aveva giustappunto liberato.
Il capo dei vampiri guardò con un po' di sconforto quel quadrato di legno scuro che aveva faticosamente conquistato e già non si vedeva più. “Non puoi sapere davvero che cos'è l'eternità se non hai passato almeno dodici ore consecutive a firmare scartoffie,” mormorò.
“Come, scusi?”
Lord Zenir gli sollevò addosso un sorriso stanco e un po' divertivo. “Niente, mi lamentavo, amico mio,” ammise e poi visto che Garkos non accennava a darsi pace, posò la penna e sospirò ancora. “Questi festeggiamenti si esauriranno prima se smetti di ascoltarli,” suggerì.
“Non hanno nessun pudore,” commentò Garkos. “La sfacciataggine con la quale festeggiano è irrispettosa.”
“E' la stessa con la quale avremmo festeggiato noi,” gli fece notare l'altro, senza la minima nota di rimprovero. La sua era una semplice constatazione, una che aveva provato a rifilare un po' a tutti negli ultimi giorni, ma senza che qualcuno sembrasse coglierla.
“Noi abbiamo molto più onore dei cavalieri,” ritorse Garkos, leggermente punto sul vivo, mentre lanciava occhiate furiose fuori dalla finestra. “Avremmo già smesso di festeggiare da un pezzo per occuparci delle questioni importanti.”
Lord Zenir ne dubitava fortemente. Se la fortuna avesse voluto che fossero i vampiri a vincere, le pire si sarebbero innalzate nel cielo per mesi. Sarebbe scorso sangue a fiumi e non escludeva che, forti dei loro nuovi poteri, sarebbero corsi a caccia al di fuori dei propri confini. Forse, se fossero stati loro a vincere la guerra, ne avrebbero scatenata subito un'altra comportandosi come animali. Garkos era un bravo soldato e un ottimo amico, ma era così vecchio da non riuscire più a vedere al di fuori dello schema mentale nel quale aveva vissuto per secoli e così dimenticava spesso com'erano fatti davvero quelli della loro razza.
I vampiri erano creature troppo presuntuose per poter accettare la sconfitta in silenzio, senza sminuire la vittoria degli avversari in qualche modo, o accusarli di una qualche ingiustizia. Lord Zenir era circondato ogni giorno da individui simili che sapevano solo lamentarsi di come erano andate le cose.
Anche lui era scontento di com'era andata a finire, certo, ma era già stanco di piangersi addosso per quel risultato. Durante le prime fasi della guerra erano stati i più forti e se l'erano cavata egregiamente anche nelle settimane che erano seguite, ma sul finale qualcosa non aveva funzionato. Il fatto che fosse stato incaricato di capire cosa, esattamente, non lo aiutava a doversi sorbire anche il malcontento degli altri. Per come la pensava lui, c'era poco da fare adesso e lamentarsi dei tamburi non migliorava le cose, tuttalpiù le rendeva più insostenibili.
“Come fate ad essere tanto tranquillo, Lord Zenir?” Gli chiese all'improvviso Garkos, staccandosi finalmente dalla finestra per raggiunverlo alla scrivania. “Come fate ad accettare che i cavalieri, degli esseri umani mortali e deboli, debbano ora decidere delle nostre sorti?”
Lord Zenir pensò che poteva considerare conclusa quella stressante giornata di firme e al massimo dare la colpa all'insistenza delle domande di Garkos, se proprio doveva darsi una giustificazione. Certo non sarebbe bastato scaricare la responsabilità su di lui se mai il Concilio avesse chiesto spiegazioni sui ritardi di varia natura che stava per generare, ma non ne poteva davvero più e cominciava a fargli male la mano. “Innanzitutto, amico mio, i Cavalieri non possono decidere le sorti di nessuno,” iniziò, invitandolo a sedersi, cosa che Garkos non fece, preferendo ricominciare a girare in cerchio come un animale in gabbia. Lord Zenir intrecciò le mani in grembo e sospirò. “E' vero, potranno decidere di certe questioni per tutti quanti noi e non escludo che nel lasso di tempo che gli sarà concesso di comandare si riserveranno di vessarci fino alla nausea con i loro inutili tentativi di redimerci in quelche modo, ma alidà di questo e qualche altro fastidio che, ti assicuro, potremmo pur sopportare, non avranno grandi spazi di manovra.”
“E come fa ad esserne così sicuro?” Chiese Garkos, guardandolo dritto negli occhi. “Come fa a sapere che l'esercito dei Cavalieri non piomberà qui uno di questi giorni e in nome di una qualche legge che sarà stata creata a posta, non ci sterminerà tutti?”
Lord Zenir piegò la testa di lato e si torturò per qualche istante il labbro, come se stesse valutando a fondo la domanda. “A parte l'impossibilità pratica di far scendere un intero esercito qui sotto senza che noi ce ne accorgiamo, Garkos, per cortesia,” lo guardò, cercando di inculcare un po' di buon senso in uno dei suoi collaboratori migliori “c'è il fatto che quella ragazzina non permetterebbe mai una cosa simile.”
“Ragazzina?”
Lord Zenir annuì. “La Veggente, naturalmente. Ella è lì per impedire che l'equilibrio venga a mancare.”
“Ci ha mandati lei in guerra per stabilire a chi toccasse la supremazia,” commentò Garkos, poco convinto.
“Sì, ma certo. Naturalmente,” annuì di nuovo il capo dei vampiri. “Ma il suo compito era dare un ordine al caos, una qualche sorta di organizzazione razionale che stabilisse una volta per tutte lo stato delle cose, non certo eliminare una delle razze dalla faccia della terra.”
“Sarebbe potuto accadere,” insistette Garkos. “La lotta è stata dura.”
Lord Zenir si strinse nelle spalle. “Io sono propenso a credere che se questa fosse stata una possibilità, lei lo avrebbe saputo e impedito. E' il suo compito, dopotutto.”
“Quindi, forse, sapeva già che avrebbero vinto i Cavalieri.”
“Non lo so. Probabilmente no, queste profezie non funzionano mai con tanta precisione. Se così fosse, perché vivere in cima ad un monte invece che andare di regno in regno a chiedere denaro per prevedere gli esiti di guerre e battaglie? No, lei non lo sapeva. Sapeva solo che non ci sarebbe stato nessuno sterminio, ergo non ci farà sterminare nemmeno ora,” concluse Lord Zenir, per poi alzarsi e spolverarsi gli abiti con estrema cura. “E ora se vuoi scusarmi, devo passare all'ennesimo noioso compito da passacarte. Pensavo che i problemi sarebbero finiti con la guerra e invece ne ho sempre di più grossi.”
In quel momento, il corridoio al di fuori dell'ufficio fu attraversato da un ringhio bestiale, seguito da rumori sempre più forti di collutazione e dal nome di Zenir urlato a gran voce.
“Come questo?” Chiese Garkos, con un mezzo sorriso divertito e una punta di soddisfazione.
Lord Zenir socchiuse gli occhi. “No, lui non era previsto. Almeno per oggi.”
Più per evitare che le urla facessero venire giù il palazzo che per vera e propria voglia di occuparsene, Lord Zenir uscì dall'ufficio per incrociare due guardie che tenevano Iatho ben stretto, mentre quello si dimenava, urlando, ringhiando e imprecando contro tutto e tutti. “Si può sapere che cos'è questa confusione?”
Quando il ragazzo si rese conto di averlo davanti, smise subito di prendersela col mondo per concentrare tutta la propria rabbia su di lui. I suoi strattoni divennero più violenti e le guardie dovettero stringere la presa per evitare che si liberasse. “Zenir digli di lasciarlo stare!” Urlò. “Vogliono portarmelo via, ma possono anche scordarselo! Mi hai capito? Digli di lasciarlo in pace.”
Lord Zenir fece cenno alle guardie. “Lasciate pure. Ci penso io,” ordinò. Le due guardie esitarono, forse messe in allarme dalla violenza con la quale il ragazzo si dimenava. “Non preoccupatevi. Iatho non mi farà del male.”
Le due guardie annuirono e liberarno il prigioniero, per poi congedarsi. Iatho si allontanò da loro con un gesto rabbioso. Dietro di lui c'era la figura alta e dinoccolata di un altro vampiro, la cui pelle era di un bel bianco perlaceo, così liscia ormai da far pensare che fosse davvero molto antico, molto più di Lord Zenir a cui un buon pasto regalava ancora un'illusione di umanità. “Signore, ho cercato di fermarlo ma sa com'è fatto,” si giustificò. Era rosso di capelli e la luce delle candele lungo il corridoio lo accendevano quasi come una torcia. “Non sente ragioni.”
“Tu dovresti solo stare zitto!” Sibilò Iatho, voltandosi solo un istante per piantargli un indice accusatore in faccia. “Non hai mosso un dito per fermarli, dovresti vergognarti.”
“Che cos'è successo, stavolta?”
“I tuoi uomini sono venuti a prenderlo. Un'altra volta,” esplose Iatho, ansimando per tutte le urla che lo avevano faticosamente portato fino a lì. “Dicono che non c'è più niente da fare e devono liberare la stanza. Se non li tieni lontani, io ti giuro che trovo il modo di farteli a pezzi, uno dopo l'altro!”
“Iatho...” Il vampiro più anziano sospirò. “Pensavo che ne avessimo gà parlato. I miei soldati stanno solo cercando di fare il loro lavoro. So che per te è doloroso, ma devi capire che il tuo angelo è--”
“Noah non è morto!” Il ragazzo lo interruppe ringhiando, con l'aria di qalcuno che ha già detto così tante volte la stessa cosa da non disturbarsi più a trovare il tono giusto per ripeterla.
“Iatho...”
“Non è morto. Dobbiamo solo aspettare, a volte ci vuole tempo.”
“Ne abbiamo aspettato a sufficienza. Più di quanto fosse logico,” Zenir lo guardò stanco, ma con pazienza e affetto. Avrebbe volentieri allungato una mano per stringerlo a sé se non avesse avuto paura che Iatho potesse azzanargliela. “Noah non si risveglierà più.”
Il vampiro dai capelli rossi si fece avanti, appoggiandogli una mano sulla spalla per consolarlo, ma Iatho lo scostò in malo modo senza nemmeno voltarsi. “Lo abbiamo trasformato. Abbiamo fatto tutto come si deve, quindi lui si risveglierà. E' solo questione di tempo. Non è mai successo che la maledizione non avesse effetto!”
Erano passate settimane da quando avevano cercato di vampirizzare Noah, ma non era successo niente. Dopo averlo quasi del tutto privato del suo sangue e avergli fatto bere quello di Iatho, l'angelo aveva avuto una specie di collasso. Aveva perso i sensi e infine, lentamente, il suo cuore aveva smesso di battere e lui aveva smesso di respirare. Un processo del tutto normale, del quale non si erano preoccupati perché tutto procedeva esattamente nella maniera in cui avrebbe dovuto; ma da quel momento in poi, niente era più andato per il verso giusto. Noah, che avrebbe dovuto risvegliarsi da lì a qualche ora, aveva continuato a rimanere immobile e privo di vita.
Lord Zenir spostò lo sguardo oltre il ragazzo, dove l'altro vampiro era tornato a posare le mani in grembo, dispiaciuto di non essere di nessun conforto. “James?”
“Abbiamo fatto tutto il possibile, signore,” disse quello, scuotendo la testa. “Non so ancora per quale motivo Noah non abbia reagito come ci aspettavamo. Forse è la sua natura di angelo ad impedirgli di risvegliarsi--”
“Lui si risveglierà!” Ripeté Iatho, testardo. “E nessuno gli si deve avvicinare.”
James si schiarì la voce, facendo qualche passo avanti. “Signore, il Concilio ha inviato i soldati questa mattina e anche ieri. Non sappiamo che cosa fare.”
E mentre Iatho ricominciava a ringhiare, Zenir sospirò. “Per quanto tempo ancora possiamo aspettare e sostenere che è improbabile, ma non impossibile, che si risvegli?”
“Signore, io non credo che...”
“Una stima approssimativa. Una settimana? Due?” Insistette Zenir, guardandolo dritto negli occhi. “Possiamo dire con certezza che è morto per sempre?”
“E' passato quasi un mese,” mormorò James, incerto.
“Perché non si decompone, allora?” Chiese il capo dei vampiri, frustrato. Una parte di lui avrebbe voluto farla finita, permettere che il cadavere fosse rimosso e passare oltre ma gli occhi di Iatho gli impedivano di dare l'ordine e, anche senza di loro, era bastato il corpo intatto di Noah a fargli venire dei dubbi. “A quest'ora avrebbe dovuto già imputridirsi.”
“E' un angelo,” insistette James. “Forse i loro cadaveri si comportano diversamente.”
Lord Zenir indicò con il braccio teso oltre la finestra, verso un campo di battaglia distante chilometri ma che sia lui che James potevano ben vedere con gli occhi della mente. “Ci sono decine di cadaveri là fuori e sono pieni di vermi!”
“Si tratta di una cosa completamente diversa,” James tornò a scuotere la testa e si rimise bene gli occhiali sul naso appuntito. “Abbiamo tentato una trasformazione. Forse si tratta di un meccanismo di difesa, o magari il sangue vampirico è abbastanza potente da conservare il corpo ma non da rianimarlo. Potrebbe darsi che...”
“Forse, magari, potrebbe. C'è una cosa della quale sei sicuro?” Sbottò Zenir. “Dammi delle risposte concrete, una buona volta!”
“Signore, non ci sono risposte concrete. Come le avevo già detto all'inizio, questo tipo di tentativo non ha che pochi precedenti ed esiste un solo caso documentato che sia andato a buon fine. Io non posso, in tutta coscienza, darle delle informazioni sicure.”
Lord Zenir si chinò verso di lui, fin quasi a sfiorarlo. “Allora inventale, se necessario. Mi serviranno se vogliamo strappare una proroga al Concilio.”
Iatho sgranò gli occhi, assolutamente sorpreso da quella reazione. Vista la piega che avevano preso le loro discussioni sull'argomento nell'ultima settimana, aveva ormai perso le speranze di avere il supporto di Zenir e invece eccolo che tentava di guadagnare altro tempo. “Zenir, io...”
“E' Lord Zenir, Iatho,” il vampiro gli scoccò un'occhiata severa che si addolcì solo quando il ragazzo abbassò il capo, annuendo. “Parlerò al Concilio e vedrò che posso fare.”
“Grazie.”
“Ma non ti fare troppe illusioni. Anche se gli lasciassero tutto il tempo del mondo, io non credo che sarebbe sufficiente.”
“Ecco perché sono io che spero e tu che intercedi per il Concilio.”
Iatho sorrise, ma era un sorriso triste come quello di Zenir.

*


Noah era riuscito a creare un grande scompiglio tra i vampiri, anche senza fare assolutamente niente. Durante la guerra, Iatho lo aveva salvato dall'assalto di alcuni suoi simili e Lord Zenir aveva deciso di farlo prigioniero, per aiutare il proprio protetto e frenare, almeno temporaneamente, la sete di vendetta di quelli che si erano visti portare via sotto il naso una preda già spacciata.
Il Concilio aveva cercato di sfruttare il prigioniero facendosi dare informazioni utili per battere almeno gli angeli che erano i loro rivali più pericolosi, ma Noah non aveva voluto tradire il suo popolo anche a costo della sua stessa vita e così era stato condannato a morte.
Mentre saliva le scale che lo avrebbero portato al patibolo, non provava paura; solo un grande senso di liberazione. Per come era stato cresciuto e per quello che gli era stato insegnato, la morte non faceva paura. Non avrebbe fatto altro che chiudere gli occhi e, quando il suo corpo avrebbe cessato di vivere, il suo spirito lo avrebbe abbandonato, tornando a far parte di quell'energia divina che ben presto Dio si sarebbe occupato di utilizzare in qualche modo. Forse sarebbe stato un altro angelo, o forse sarebbe stato pioggia. Qualunque cosa Dio avesse deciso per lui, sarebbe stato libero e al sicuro, lontano dal dolore che aveva sofferto negli ultimi giorni. Iatho lo fissava disperato e urlante tra il pubblico di suoi simili che avrebbero assistito alla morte come ad uno spettacolo di intrattenimento. Gli dispiaceva lasciare Iatho, provava una grande malinconia al pensiero che sarebbero stati divisi. Si consolava pensando che, in qualche modo, Iatho lo avrebbe sempre portato nel cuore e lui, come parte di un'energia che componeva tutto ciò che li circondava, gli sarebbe stato comunque sempre vicino.
I vampiri urlavano cose che non avrebbe mai voluto sentire. Alcuni ringhiavano così forte da coprire, a tratti, le grida dei loro compagni. Tutti volevano il suo sangue come se da quello dipendesse la vittoria dell'intera guerra. Si chiese se anche gli angeli avrebbero provato lo stesso odio, lo stesso senso di stupido trionfo nell'avere per le mani uno di loro e poterlo uccidere. Non aveva mai assistito ad un'esecuzione, quant'era ingiusto che fosse proprio la sua?
Il boia non era incappucciato. Era un vampiro molto vecchio, Noah ne sentiva il potere enorme ma controllato appena sotto la superficie di una pelle dura e gelida come la pietra. Lo aveva strattonato lungo le scale, con fermezza ma non con vera e propria violenza. L'ondata d'odio proveniva soltanto dal pubblico ai suoi piedi, forse perché era più facile volere morto qualcuno quando si aveva la certezza di non doverlo ammazzare con le proprie mani. Quasi sempre togliere una vita faceva paura quasi quanto perderla, era per questo che uccidere non gli piaceva. Non gli piaceva avere paura.
Il ceppo sul quale il boia gli aveva fatto appoggiare la testa era di legno ruvido, Noah ne sentiva le venature contro la guancia e si concentrò su quello piuttosto che sullo stridio sinistro della pietra che affilava la lama alle sue spalle. Quando il boia si avvicinò, il ruggito della folla si fece più forte e lui cercò la voce di Iatho fra le centinaia che invocavano la sua morte per avere qualcosa di famigliare a cui aggrapparsi nel momento in cui il colpo di scure avrebbe posto fine alla sua vita. Si immaginava che sarebbe stato doloroso, seppure solo per un attimo; la voce di Iatho sarebbe stata un conforto.
Il vampiro fece tre passi verso di lui e Noah li sentì rimbombare attraverso il corpo premuto contro il legno di quel palco improvvisato. Non poteva vedere il suo assassino, perché una mano gli teneva ferma la testa, anche se non aveva alcuna intenzione di voltarsi, così come non ne aveva di scappare. Voleva soltanto che tutto finisse, l'attesa era quasi peggiore dell'idea della morte stessa.
Un tamburo si mise a suonare, dapprima velocemente per attirare l'attenzione della folla sulla quale calò un improvviso e ordinato silenzio, e poi iniziò a scandire il tempo, un colpo alla volta. Ad ogni colpo, Noah pensava che sarebbe morto e serrava gli occhi, ma ce n'era sempre un altro, dopo, che non faceva che aumentare la sua ansia. Inevitabilmente, una parte del suo cervello iniziò a pensare che il tamburo sarebbe andato avanti a suonare in eterno e proprio quando se ne fu convinto, il colpo successivo non arrivò e si sentì mancare il fiato. Annaspò in cerca d'aria e cercò di divincolarsi in quei pochi istanti che, sapeva, lo separavano dalla morte. L'urlo che gli scappò di bocca si perse nel sibilo della lama che si abbatteva su di lui.
“Fermi!” Gridò una voce che non conosceva.
Noah serrò gli occhi, ma non successe nulla. Si chiese se morire fosse così semplice, se il passaggio tra la vita e la morte fosse una questione di secondi di cui nessuno davvero si accorgeva. Intorno a lui c'era ancora silenzio, così si arrischiò a guardare, confuso soprattutto perché da morto non avrebbe dovuto poter sentire le cose come le aveva sentite da vivo. L'energia non ha orecchie, né occhi né naso, eppure lui sentiva e vedeva il buio dietro le palpebre.
La folla di vampiri urlanti si era zittita e guardava qualcuno alle sue spalle, probabilmente la stessa persona che aveva gridato un attimo prima che il boia colpisse, o si accingesse a farlo. Per un lunghissimo istante, tutto quanto rimase immobile così come lo vedeva. Noah sembrava essere l'unico a muoversi, cercando di liberarsi dalla stretta d'acciaio della mano che lo teneva bloccato al patibolo.
“Fermi,” ripeté di nuovo lo sconosciuto, infrangendo quell'incantesimo e ridando vita a tutto ciò che fino al momento prima si era fermato. “Non uccidetelo. Ho una soluzione migliore.”
A Noah quelle parole non piacquero affatto. Dopo tutto ciò che aveva subito nella tenda che gli aveva fatto da prigione nelle ultime settimane, non vedeva come una cosa qualsiasi, aldilà della libertà, potesse essere più desiderabile della morte. Uno dei consiglieri, quello più alto e con i capelli di un biondo quasi dorato che al processo era stato il primo ad opporsi alla sua sopravvivenza, si alzò in piedi e aspettò che la folla si zittisse di nuovo prima di parlare. “E tu chi saresti? Come osi interrompere l'esecuzione?”
La voce dello sconosciuto si fece più dimessa, quasi colpevole. “Mi chiamo James e vi chiedo perdono, Lord Kaynn. L'urgenza ha reso necessario il mio gesto.”
Lord Kaynn non sembrà colpito da quelle scuse. Intrecciò le mani davanti a sé e si fece ancora più rigido e severo. Noah vedeva solo parte del suo viso dietro il corpo enorme del boia, se sporgeva la testa quel tanto che la mano del suo aguzzino glielo permetteva. “Spero che tu abbia una ragione valida, ragazzo,” disse con voce gelida. “O assisteremo ad una doppia esecuzione.”
“Ce l'ho, signore,” annuì subito quello. Noah sentì i suoi passi incerti sul legno e poi un rumore come di pergamena. “Io credo che ucciderlo sarebbe un enorme spreco, soprattutto adesso che siamo in guerra. Il suo sangue e il nostro insieme potrebbero darci la forza che ci serve a sconfiggere le altre razze.”
“E come pensi di mischiarli? Anche ammesso che la nostra razza non fosse sterile e avessimo il tempo di crescere un ibrido, questa creatura è un maschio.”
Noah si sentì arrossire anche mentre pensava che Lord Kaynn doveva saperne ben poco di angeli se non era al corrente del fatto che erano tutti quanti come lui. Maschi, cioè. Anche se la definizione lasciava a desiderare giacché molti di loro diventavano quelle che lui avrebbe definito madri, e generavano.
“Signore, con tutto il rispetto,” disse James, con un colpetto di tosse che sembrò vagamente impietosito, “mi riferivo, naturalmente, ad una vampirizzazione.”
Noah sgranò gli occhi mentre la folla di fronte a lui veniva attraversata da un mormorio sempre più forte. “Calma! Calma, tutti quanti!” Lord Kaynn alzò entrambe le mani e chiese silenzio. “Adesso non agitiamoci per delle fantasie. Per secoli la nostra razza ha tentato di passare il proprio sangue ad altre creature che non fossero umane ma, come la storia ci insegna, questo non è possibile. Per quanto la cosa sia detestabile, possiamo solo trasformare in noi ciò da cui noi veniamo, e nient'altro. Tantomeno creature potenti come gli angeli. James, è per questo che ci stai facendo perdere tempo?” Il Consigliere fece cenno al boia che rinsaldò la presa sul manico dell'ascia, ma James lo fermò di nuovo.
“Aspetti, per favore!” Esclamò, facendosi più vicino. Noah riusciva a vedere i suoi stivali e parte di un abito che non somigliava alla divisa militare che aveva visto indossare a Iatho. “So che può sembrare improbabile, ma ho dedicato la mia vita a studiare questo genere di vampirizzazioni e io sono sicuro che questa volta abbiamo una possibilità.”
Lord Kaynn sembrò improvvisamente annoiato, ma uno degli altri consiglieri gli bisbigliò qualcosa all'orecchio, così si sedette e fece un cenno con la mano a James perché continuasse.
Il vampirò si schiarì la voce. “Ecco, sì. Dunque...L'angelo che vedete qui appartiene alla terza gerarchia. La società degli angeli è piramidale. In alto: Serafini, Cherubini e Troni,” spiegò tenendo la mano in alto, sopra la testa. Poi la spostò più in basso, “A seguire, Dominazioni, Virtù e Potestà. E infine...” spostò la mano più in basso, all'altezza delle spalle. “Principati, Arcangeli e Angeli.”
Lord Kaynn non fece alcun commento. Rimase immobile sul suo scranno di pietra, in annoiata attesa che James concludesse qualunque discorso stesse cercando di fare. Noah, invece, era interessato perché aldilà di qualche imprecisione, la visione di James era piuttosto veritiera.
“Un angelo di alto livello, diciamo una Potestà, non potrebbe mai essere vampirizzato. Più in alto si va nella piramide, più l'energia divina è intensa e potente. Cercare di mordere una Potestà, ammesso che questa lo permetta, non servirebbe a molto perché o il suo sangue, intriso di volontà divina, annullerebbe la nostra maledizione nel caso il dissanguamento riuscisse o peggio, ancora, sarebbe così forte da avvelenarci. Ma quest'angelo qui...” James gli si avvicinò ulteriormente e Noah vide un lungo l'indice lungo e innaturalmente bianco puntato su di lui “...questo è un angelo molto meno potente. Forse della seconda gerarchia, ma più probabilmente della terza. Un angelo comune. Il suo sangue contiene l'energia divina necessaria a renderlo virtualmente eterno, a curare le ferite più gravi e, in generale, a fare di lui il tramite divino che dovrebbe essere, ma non è abbastanza potente da tenerci lontani e non è velenoso.” Noah sentì la mano che lo teneva fermo allontanarsi e un attimo dopo era in piedi, di fianco a James, che gli fece piegare gentilmente la testa e mostrò ai presenti il suo collo e le braccia legate. “Come vedete, signori, quest'angelo è stato morso mentre si trovava qui. Le sue ferite sono in gran parte guarite, ma se ne vedono ancora le tracce. E non mi risulta che qualcuno sia arso vivo, ultimamente.”
Il borbottio fra la folla riprese, forse perfino più forte di prima. “Questo non dimostra niente,” rispose Lord Kaynn, i gomiti puntati sui braccioli dello scranno. “E' di sicuro un angelo inferiore dal momento che sarebbe morto prima ancora di farsi catturare se un atto di tradimento da parte di Iatho non lo avesse salvato e di certo il suo sangue non è velenoso, ma ciò non significa che possa essere vampirizzato. Tutti i tentativi precedenti sono finiti tragicamente. Sprecheremo del tempo prezioso e ci ritroveremo comunque con l'ennesimo corpo da smaltire.”
“Senza contare che tentare la vampirizzazione su un angelo potrebbe suscitare domande da parte degli altri popoli, soprattutto dai Cavalieri che sono molto devoti,” intervenne per la prima volta un altro dei Consiglieri, seduto all'estremità opposta della fila. “Potrebbero chiedere giustizia direttamente alla Veggente e considerarlo un atto di eresia. Andremmo incontro ad una serie di problemi che non varrebbero la pena nemmeno se il tentativo andasse a buon fine.”
“Sono d'accordo,” annuì Lord Kaynn. “Alla fine che cosa avremmo? Un vampiro più potente degli altri?”
“No, signori,” James stavolta sorrise. “Avremmo un demone.”

*


Iatho immerse la striscia di stoffa pulita nell'acqua e la passò delicatamente sul viso immobile di Noah.
Aveva sentito spesso di persone che, spentesi tranquillamente, conservavano nella morte l'espressione serena del sonno. Noah sembrava aver chiuso gli occhi soltanto un istante prima, come faceva sempre quando andava a trovarlo e si distendevano insieme sull'erba a guardare il cielo stellato del paradiso. L'angelo chiudeva gli occhi e sorrideva, fingendo di dormire, così che lui potesse giocare a svegliarlo. Iatho poteva quasi vedere l'ombra di quel sorriso sulle labbra chiuse e rigide del suo corpo privo di vita e quando le sfiorava, attratto dalla stessa forza irresistibile che lo portava a farlo anche prima, rimaneva deluso di non sentirle calde e morbide al tatto, di non vederlo arricciare il naso e posare un bacio lieve sui suoi polpastrelli per invitarlo ad insistere.
“Ancora con quel secchio d'acqua?” Chiese James, entrando in quel momento nella stanza e trovandolo intento a lavargli il viso e il collo dalla polvere che si andava accumulando giorno dopo giorno sul suo corpo perfetto. Perfino l'aria era sporca della cenere del generatore di nebbia e durante il giorno lasciava tracce scure sulla pelle che andavano lavate via la sera.
“Tu fatti gli affari tuoi,” ringhiò Iatho, senza nemmeno sollevare lo sguardo. “Piuttosto, hai trovato qualcosa che può esserci utile?”
James appoggiò sulla scrivania una pila di libri alta quasi il doppio di quella che già svettava in bella vista tra i suoi appunti. C'erano libri ovunque, in realtà, sulle sedie, sulla finestra, ammassati negli angoli per non impedire il passaggio e ce n'erano alcuni perfino su un vecchio letto scassato che era lì per fare arredamento. Sembrava che per quante volte andasse in biblioteca per recuperarli, ce ne fossero sempre degli altri ad aspettarlo quando ci tornava la volta successiva. “Assolutamente niente,” sospirò, rimettendosi gli occhiali rettangolari sul naso e cominciando a smistare i volumi tra quelli che aveva già letto, quelli che doveva ancora leggere e quelli a cui avrebbe fatto meglio a dare una ripassata. “Abbiamo fatto tutto ciò che dovevamo fare e lo abbiamo fatto nella maniera corretta, eppure lui continua a non svegliarsi. Ho riletto le procedure e tutti gli appunti che sono riuscito a trovare. Non siamo noi il problema.”
“Forse i tuoi appunti non sono corretti,” gli fece notare Iatho. “Quanti secoli hanno quelle pergamene? E se ti sbagliassi? Se il sangue di Noah fosse più potente di quello che dici? Magari è un angelo che appartiene alla prima categoria.”
“Se fosse un Serafino, io e te non saremmo più qui a parlarne,” commentò James, voltandosi verso di lui con un sospiro annoiato. “E comunque se non lo sai tu che cos'è il tuo angelo...”
“E' un custode,” rispose subito Iatho, cercando di non lasciar trapelare quella punta di esitazione che sentiva nella voce. In realtà lui e Noah non avevano mai parlato delle loro vite al di fuori di quei quattro metri di giardino in cui si incontravano. Lui aveva supposto che si trattasse di un custode perché diceva di aiutare gli umani, a volte. E perché non era un soldato e sapeva per certo che i custodi non lo erano; ma non poteva essere sicuro.
“E allora non può essere molto potente,” sospirò di nuovo James, finendo per lasciar perdere lo smistamento. Prese una sedia e si sistemò accanto a lui, al capezzale di Noah. “Davvero non capisco. Tu hai bevuto da lui e lui da te. A quest'ora dovrebbe già essere sveglio, forte abbastanza da scoperchiare il tetto di questa stanza, per altro.”
Iatho dedicò alle travi del soffitto soltanto un'occhiata, cercando di immaginare le dita morbide di Noah stringersi intorno ad esse e sradicarle, e non ci riuscì. “Che cosa succederà quando si sveglierà?”
“Questo propro non lo so,” James scosse la testa, allargando le braccia in segno di resa. “Non ci sono molti precedenti documentati e i racconti dicono tutti cose diverse. Probabilmente la natura del demone dipende dalla natura della creatura originaria.”

*


Noah non voleva. D'altronde Iatho non si era aspettato una risposta diversa quando si era recato nella cella in cui lo avevano messo per dargli la notizia. “Non volevo darvi informazioni, questo è perfino peggio!” Esclamò, seduto sulla sua branda, con le mani in grembo e le ali pietosamente piegate dietro la schiena, una delle quali ancora rotta. “Ero pronto a morire. Voglio morire. Perché non mi uccidete e basta!”
Iatho sospirò e si inginocchiò di fronte a lui prendendogli le mani. “Ti sembra davvero una soluzione migliore?”
“Sì, Iatho! Sì!” Esclamò Noah con enfasi. “Mi sembra l'unica soluzione. E' così difficile per te capire che non voglio in alcun modo tradire il mio popolo? Che morire non è così terribile in confronto al pensiero di fare in qualche modo del male alla mia gente?”
Iatho finì con l'arrabbiarsi. Era arrivato preparato a quel suo atteggiamento, lo aveva perfino previsto, ma la verità era che non lo comprendeva e che la sola idea che Noah preferisse morire piuttosto che vivere con lui, lo mandava in bestia. “Avevi paura,” disse perciò, alzandosi di nuovo in piedi e lasciandogli le mani, per l'irritazione.
“Cosa?”
“Aveva paura sul patibolo. Ho visto il terrore nei tuoi occhi, quindi non venirmi a dire che sei pronto a morire,” esclamò. “Perché non lo sei.”
Noah abbassò la testa e serrò le labbra, stringendo i pugni in grembo. “Iatho, io non ho mai detto che sarebbe una cosa facile da affrontare, solo che preferisco affrontare quella, indipendentemente dall'alternativa.”
“Beh, non hai più questa possibilità.”
Noah sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi, improvvisamente impaurito. “Cosa?”
L'attimo di irritazione svanì com'era arrivato, sciogliendosi nello sguardo terrorizzato dell'angelo. Non c'era niente che colpisse Iatho di più della paura di Noah, perché prima di conoscere lui non ne aveva mai provata di così violenta e che avesse un fondamento così reale. Noah aveva avuto paura di uscire dal giardino, paura di stare da solo, paura perfino della sua ombra, ma non era mai stato davvero in pericolo finché Iatho non era stato nella sua vita. Il vampiro si sentiva responsabile all'inizio, e si sentiva ancora più responsabile adesso. “Il Concilio ha deciso di vampirizzarti, che tu lo voglia o meno,” sospirò.
“Questo non è giusto! Io ho il diritto di poter decidere una cosa del genere,” protestò l'angelo, senza preoccuparsi di sembrare ingenuo. “Siamo... siamo in guerra, non c'è una legge, un onore, delle regole da rispettare?”
Iatho avrebbe voluto dirgli che di regole simili non ce n'erano nemmeno in tempo di pace, figurarsi durante la guerra, ma lasciò perdere. “Hanno mandato me a farlo,” disse, sperando che questo potesse far apparire la situazione un po' meno nera. “E ti prometto che ti renderò le cose il meno traumatiche possibile.”
“Io non voglio!” Esclamò Noah e quando Iatho fece per avvicinarsi ed abbracciarlo, si tirò indietro e si raggomitolò tutto in un angolo della branda, schiacciandosi contro il muro ed abbracciandosi le ginocchia, terrorizzato. “Non voglio, Iatho! Ho paura! Non voglio! Non voglio!”
Iatho rimase fermo dov'era, per evitare di peggiorare la situazione. “Ti prego, calmati,” chiese piano. Non aveva idea di come gestirlo, se faceva così. Sapeva solo che nemmeno lui voleva farlo in queste condizioni e sapere di non avere altra scelta che imporsi non lo aiutava a portare a termine il suo compito.
“Non voglio,” ripeté piano l'angelo, cercando disperatamente di chiudersi all'interno delle proprie ali e fallendo miseramente. “Sono un angelo. Io sono un angelo.”
Iatho rimase a guardarlo e per un attimo si chiese quanto sarebbero riusciti ad andare lontano se lo avesse preso e portato via adesso, lasciandosi tutto alle spalle. Probabilmente potevano passare il confine senza essere fermati, ma dove potevano andare? In superficie tutti sarebbero stati disposti a proteggere Noah, ma non lui. Era una causa persa.
Ad interrompere i suoi pensieri fu James che spalancò la porta senza nemmeno bussare. “A che punto siamo?” Chiese sbrigativo. “Il Concilio non vuole aspettare oltre.”
In tutta risposta, Noah si fece ancora più piccolo. Perfino i piedi nudi sparirono dentro l'orlo dei pantaloni. Iatho salì piano sulla branda, strappandogli un brivido ancora più forte degli altri e gli si avvicinò, trattenendo a sé la sua energia per quanto era possibile. Noah non si mosse, lasciò perfino che gli scostasse le ali e le mani dalla faccia, ma lo accolse con un'espressione così spaventata che il vampiro dovette raccogliere tutto il proprio coraggio per proseguire. “Lo faranno comunque,” mormorò, accarezzandogli il viso. “Lascia almeno che sia io.”
L'angelo cominciò a scuotere la testa, dapprima piano e poi sempre più forte, mugolando disperato per poi finire a mormorare nella sua lingua senza che Iatho potesse più distinguere anche solo le sue preghiere disperate. Iatho gli prese le mani, i polsi e le spalle quando Noah cercò di liberarsi, sebbene senza convinzione. “Noah, ti prometto che farò in modo che non sia tanto male,” mormorò piano, tenendolo stretto senza fargli male e premendo il naso contro il suo.
Noah strinse gli occhi e due lacrime pesanti gli scivolarono giù dalle ciglia. Iatho ne sentì quasi il sapore da quanto era vicino. Lo lasciò singhiozzare e aspettò che quei singhiozzi si facessero più forti per poi calmarsi, di fronte all'evidenza che sarebbe successo.
“Ti ho mai mentito?” Chiese Iatho, strusciando il naso contro la sua tempia. Noah scosse la testa, senza aprire gli occhi.
Il vampiro gli posò un bacio leggero sulla guancia, per poi seguire l'odore invitante della sua pelle lungo il collo e la spalla. “Vieni qua,” mormorò sedendosi e tirandoselo addosso. Arreso, Noah non fece alcuna resistenza. Gli si sedette in grembo senza mai aprire gli occhi e gli appoggiò la fronte su una spalla, con le mani raccolte sul suo petto, totalmente abbandonato. Mormorò qualcosa e le sue ali fremettero piano, fu come un brivido che sollevò le piume per un istante.
Iatho sollevò gli occhi su James che se ne stava immobile di fianco alla porta, con le braccia incrociate al petto. “Ti dispiace?” Gli chiese, indicandogli l'uscita con un cenno del capo.
James sospirò, ma con un colpo di reni si staccò dal muro al quale era appoggiato, senza sprecarsi a disincrociare le braccia. “Quando hai finito fammelo sapere. Sono qui fuori per ordine del Concilio.”
Iatho fissò la porta finché non la vide chiudersi e non sentì il rumore del chiavistello che li condannava là dentro senza possibilità di appello.
“Fallo e basta,” mormorò Noah, all'improvviso. La sua voce arrivò ovattata dalle sue labbra premute contro la sua spalla, ma comunque comprensibile. Strinse le mani intorno alla stoffa della sua maglia e tirò, senza sapere bene che cosa volesse fare. Iatho se lo scostò di dosso e lo costrinse a guardarlo negli occhi. L'angelo serrò la mascella. “Non ne posso più, quest'attesa mi sta uccidendo. E' una tortura. Prima il patibolo e poi il tamburo e ora questo! Fallo e basta!”
“Noah, tu non sai quello che stai dicendo.”
L'angelo scosse la testa. “No, non lo so. Ma ho tutta questa rabbia dentro e... voglio solo che tu la faccia finita. Mordimi, avanti. E' questo quello che devi fare.”
“Sarà un po' più complesso di così.”
L'angelo volse lo sguardo e gli porse il collo di sua spontanea volontà. “Fallo e basta.” Ripeté. “E non parlare.”
Iatho lo distese sul materasso ma Noah non sembrò apprezzare né quello né gli altri tentativi di metterlo a proprio agio. Rimase teso, nonostante il suo corpo si sistemasse sotto quello di Iatho per abitudine, cercando la curva dei suoi fianchi a cui appendere le gambe e premendo il ventre piatto contro il suo, mentre Iatho gli baciava il collo, stando bene attento a non sfiorarlo con la punta delle zanne prima del tempo.
Lo accarezzò come aveva fatto la prima volta, in un passato che sembrava lontanissimo, sfiorandogli le braccia e le gambe con la punta delle dita e trovandovi la stessa tensione, la stessa paura, lo stesso leggero tremore. Allora Noah non conosceva affatto il proprio corpo, non ne controllava le reazioni e si era abbandonato alle cure di Iatho con una fiducia commovente, di cui adesso non c'era più alcuna traccia.
Il vampiro lo sentiva muoversi sotto di sé, socchiudeva gli occhi alle carezze forse involontarie che Noah gli lasciava sulla schiena e alle unghie che gli affondava nelle spalle quando scendeva ad accarezzarlo ed indugiava tra le sue gambe, cercando di strappargli un mugolio che non fosse così doloroso, oltre che perso. Ma dell'abbandono che c'era stato, non c'era più niente.
Noah inseguiva sulla sua pelle gli ultimi istanti di piacere su cui poteva ancora mettere le mani, ma non si fidava più di lui al punto da lasciarlo fare, da concedersi il lusso di chiudere gli occhi e vedere che cosa sarebbe successo. Voleva essere presente a se stesso. Iatho lo capì quando forzò la sua apertura, trainato quasi a forza dai gemiti che l'angelo gli lasciava scivolare lungo il collo per incitarlo e fra i quali lo sentì mormorare a fatica. “Fallo adesso,” lo implorò, cercando la voce che gli era morta in gola, nel momento in cui Iatho si era spinto completamente in lui. “Mordimi finché posso sentirti. Fallo adesso.”
Le zanne scesero contro il suo volere. Iatho né sentì lo scatto involontario, al quale anche Noah ebbe un fremito e gli si strinse addosso ancora di più, strusciandosi contro di lui e cercando la frizione necessaria a fargli perdere quel briciolo di lucidità che gli era rimasta.
Iatho accarezzò la pelle morbida del suo collo con la punta dei denti e vi affondò con un morso deciso, assaporando sulla lingua il sapore del sangue e godendo del corpo di Noah che si serrava intorno al suo con uno scatto mentre l'angelo reclinava la testa all'indietro.
Cercò di bere piano, ma Noah non faceva niente per trattenerlo. Aveva ripreso ad accarezzarlo un attimo dopo, abituato all'orgasmo violento che seguiva il morso e precedeva quello fisico. Gli serrava le cosce intorno ai fianchi, abbracciandolo stretto, spingendolo verso il proprio collo e sulla ferita.
Iatho ringhiò e lottò per mantenere un contatto con quella cella e il luogo in cui si trovavano, con la realtà che stava all'esterno del corpo caldo sotto di lui che sembrava invitarlo a prenderselo, pezzo dopo pezzo, in ogni modo possibile. Seguì con attenzione il battito del cuore di Noah, né ascoltò il ritmo violento all'inizio e frenetico poi, finché non lo sentì rallentare, un passo alla volta. Oltrepassò il momento in cui avrebbe dovuto fermarsi e lo accompagnò fino a spegnersi, finché le sue gambe non persero la presa sui suoi fianchi e le sue braccia ricaddero stanche e pesanti accanto al corpo. Allora lo adagiò di nuovo sul materasso, gli ravvivò i capelli umidi di sudore e lo chiamò piano.
Noah si mosse lentamente, quasi troppo poco per poterlo notare, e cercò i suoi occhi, faticando a mettere a fuoco. “Iatho...” mormorò.
Il vampirò si aprì il polso senza darsi il tempo di pensare, gli appoggiò la ferita alla bocca e quando Noah fece per ritrarsi, gliela premette contro le labbra finché non fu costretto a schiuderle e bere il sangue che ne usciva. Rimase ad osservare la luce nei suoi occhi fissi nei suoi finché non si spense del tutto e il sangue non cominciò a colargli da un angolo della bocca, allora lo prese tra le braccia e si mise a piangere, aspettando che l'alba del mondo di sopra li raggiungesse entrambi.

*


Dopo altre due settimane, Lord Zenir dovette arrendersi all'evidenza che avrebbe dovuto convincere Iatho a lasciare perdere. Il Concilio aveva fatto non poche storie per concedere altro tempo. Adesso che la guerra era conclusa e le acque si erano, per così dire, calmate, i vampiri più anziani che gestivano la colonia erano irrequieti e temevano che si venisse a sapere della presenza di Noah nell'accampamento. Volevano servirsene o liberarsene il prima possibile ed erano poco propensi ad occuparsi di un cadavere solo per il cuore tenero di un vampiro che, fra le altre cose, visto il pessimo esito della vampirizzazione, avrebbe dovuto essere ucciso come voleva la sua condanna originaria.
L'ordine del Concilio era arrivato quella sera. In uno slancio di buon cuore che sapeva tanto di sarcasmo, Lord Kaynn l'aveva avvisato un'ora prima che la procedura iniziasse così che avesse il tempo, queste erano state le sue parole esatte, di confortare la debole natura del suo protetto con qualunque parola di conforto ritenesse necessaria.
Zenir aveva letteralmente dato fuoco alla pergamena con il messaggio e distrutto un altro paio di incartamenti, prima di calmarsi e cercare le parole adatte da dire a Iatho. Non ce n'erano, naturalmente. Conosceva la testardaggine del ragazzo, sapeva che non accettava mai un no come risposta e l'insistenza con la quale aveva continuato quella relazione nonostante gli avesse più volte detto dove sarebbe andata a parare, rendeva impossibile, ora, dirgli che doveva accettare l'idea che fosse finita.
Noah era morto più di un mese prima, e lui non avrebbe voluto capirlo.
Quando arrivò nello studio di James che aveva ospitato il cadavere per tutto quel tempo, Iatho stava già urlando e in quattro lo tenevano fermo, mentre Lord Kaynn in persona gli comunicava che la pazienza sua e del Concilio era finita e che questo esperimento, come tutti i precedenti, poteva dichiararsi concluso e fallito. La condanna a morte di Iatho sarebbe stata eseguita all'alba del giorno dopo.
Lord Kyann si fece da parte e, con un cenno del capo, indicò ai suoi uomini di prendere il cadavere che giaceva perfettamente composto al centro della stanza. James se ne stava defilato e in silenzio, forse più dispiaciuto per il fallimento che non per la morte di Noah, per il quale non riusciva a provare nessun trasporto e nessuna pietà, nonostante si fosse in parte scoperto emotivamente coinvolto nel dolore di Iatho che sembrava così vero e così profondo da suscitare in lui una certa, scientifica curiosità.
I soldati di Kyann stavano avendo dei problemi a tenere fermo Iatho che aveva preso a ringhiare così forte da dare l'impressione di essere pronto ad uccidere, cosa che Lord Zenir non dubitava affatto.
Quando uno dei soldati si avvicinò a Noah, però, uno dei sue bracci pallidissimi scattò in alto e le sue dita si serrarono intorno al collo del vampiro che emise un gorgoglio doloroso, cercando di liberarsi. Gli occhi dell'angelo si spalancarono fissi sul soffitto e per un lungo istante calò il silenzio prima che il soldato venisse lanciato dall'altra parte della stanza e impattasse violentemente contro il muro.
“Noah!” Iatho fu il primo ad urlare e, colti di sorpresa come tutti i presenti, i soldati che lo tenevano, lo lasciarono libero di muoversi. Corse verso l'angelo ma quando questi, che si era ormai alzato seduto, si voltò verso di lui, i suoi occhi erano rossi come il sangue e non dava alcun segno di riconoscerlo.
“Noah, sono io!” Iatho sorrise, troppo stupidamente felice di vederlo muoversi per poter pensare alla forza che aveva appena dimostrato.
L'angelo lo fissò per qualche istante ma, quando Iatho fece un passo avanti, saltò sul tavolo ed emise un sibilo furioso e un rumore secco e vibrante, di gola, qualcosa di simile al verso di un qualche animale che però nessuno di loro aveva mai sentito prima.
“Non aver paura. Sono io, Iatho,” continuò il vampiro, ma più avanzava, più quel verso si faceva forte e Noah tendeva i muscoli, quasi tremando. “Non mi riconosci?”
Quando gli fu abbastanza vicino da toccarlo, Noah ringhiò – un ringhio potente e violento, incredibilmente più spaventoso dei propri, provenendo dalle sue labbra angeliche – si gettò giù dal tavolo e con due lunghe falcate a quattro zampe, saltò contro il muro e fuori dalla finestra.
Quando Iatho corse ad affacciarsi, lui non c'era già più.
“Cosa diavolo era?” Esclamò sconvolto Lord Kyann, guardando prima Lord Zenir, che era sorpreso quanto lui, e poi James che invece sorrideva soddisfatto. “Quello, signore. E' un demone,” rispose.
“Beh non stare lì impalato,” gridò. “E anche voi. Organizzate delle squadre, trovatelo! Quella creatura non deve uscire dai confini del regno!”
Lord Zenir si incaricò di organizzare le ricerche, ma non nutriva alcuna speranza di trovarlo. Dopo altri due di quegli strani richiami, non lo avevano più sentito ed erano andati alla cieca fino all'alba senza trovare nemmeno una traccia, come si fosse volatilizzato nel nulla.
Iatho aveva cercato con gli altri, aveva annusato l'aria ma, fin da quando si era svegliato, Noah aveva avuto un odore diverso e lui non era stato abbastanza sveglio da registrarlo. Poi, quando ormai aveva perso le speranze di ritrovarlo e il sole stava ormai per fare capolino dalle fessure della terra, aveva capito. “So dove trovarlo!” Aveva detto a Lord Zenir. “Ma devo andare da solo.”
Aveva varcato i confini dei territori dei vampiri, sfidando il sole nascente all'orizzonte. Aveva corso più forte che poteva e si era arrampicato sulla montagna che collegava la terra ai territori angelici. Il calore del sole gli aveva quasi bruciato la pelle.
Quand'era arrivato in cima, Noah era là come aveva previsto. Sfinito dal giorno che bussava alle porte – forse non più angelo e forse non del tutto demone, ma di sicuro in parte vampiro – dormiva accasciato ad un passo dalle porte del paradiso, incapace di attraversarle. Iatho notò i graffi delle sue mani sul terreno, quando aveva cercato di avvicinarsi oltre ed era stato respinto dalla forza divina, le unghie rotte e le dita sanguinanti. Si tolse il mantello della divisa e ce lo avvolse dentro con cura, portandolo via.
Solo allora, sorreggendo il peso del suo corpo minacciato dal mattino, si rese conto che Noah non c'era più.
Era strano notarlo solo dopo che era tornato dal regno dei morti.
Lo strinse al petto mentre scendeva la montagna e lo baciò sulla fronte, consapevole che anche nel buio pesante che gli annebbiava la mente lo avrebbe sentito.
Sperò di poter gestire le conseguenze di ciò che era successo e poi, disteso accanto a lui, lasciò che il sonno li avvolgesse entrambi.
Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah
Genere: Fantasy, Introspettivo
Avvisi: Pre-slash
Rating: PG
Note: Questa storia è ispirata all'ambientazione in cui si sta svolgendo il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole ed è ambientata prima di All the arms we need are for hugging; nello specifico parla del primo incontro fra Iatho e Noah, quando il primo si sentiva un gran figo e il secondo era ancora molto più ingenuo. Partecipa alla quarta settimana del COW-T per la squadra dei vampirli (prompt: Angelo). Sono abbastanza soddisfatta di com'è venuta fuori, anche se avrei preferito di gran lunga raccontare qualcosa di un po' più consistente. Immagino che mi rifarò nelle prossime, se ci saranno ;)

Riassunto: A Iatho è proibito varcare il confine che divide il regno dei vampiri da quello degli angeli ma, curioso di vedere più da vicino la dimora che si intravede aldilà delle mura della città celeste, disobbedisce agli ordini di Lord Zenir e s'introduce nel regno degli angeli, incontrandone uno in particolare.
THE ZONE


Iatho aveva sempre avuto problemi di disciplina, anche quando era umano. Suo padre le aveva provate tutte – le lusinghe, le ricompense, le minacce e perfino le botte – ma non era mai riuscito a fargli fare qualcosa se non voleva farla e suo fratello, che aveva avuto il compito di istruirlo nell'arte della spada, aveva avuto con lui diverse discussioni sull'argomento. Patrel era così devoto alla disciplina che non concepiva come il fratello minore potesse vivere senza. Ma Iatho non era mai stato in grado di stare alle regole degli altri perché gli andavano strette. Quando era diventato un vampiro, tenersi a freno era stato molto difficile. C'erano molte cose che non poteva fare. La comunità era piena di regole e viveva secondo un codice d'onore il cui tradimento era punibile con la morte; per non parlare dell'esercito, nel quale era finito perché combattere era l'unico modo che aveva per sfogare tutta l'energia che lo faceva smaniare se stava fermo a non fare nulla. E poi suo fratello era stato un cavaliere, lui avrebbe dovuto diventarlo prima di morire, fare il soldato sembrava la cosa più logica.
La disciplina militare, comunque, non aveva potuto niente contro la sua insofferenza alle regole. Era per questo che, nonostante Lord Zenir gli avesse detto di perlustrare il confine con i Territori Celesti mantenendosi all'interno dei loro territori, lui stava ora costeggiando le alte mura della città degli angeli che si trovava a circa quattro chilometri dal confine. Attraversare la foresta era stato più facile del previsto. Aveva percepito la presenza di qualche piccola pattuglia, formata da una decina di angeli minori e uno, forse due Hashmallim, ma gli era bastato tenersi a debita distanta e non sotto vento perché quelli non si accorgessero di lui. Le Dominazioni erano abbastanza potenti da ucciderlo, se lo avessero trovato da solo, ma, invece di spaventarlo, questo aveva reso le cose molto più eccitanti.
Le mura della città degli angeli erano altissime e bianche come quel poco che s'intravedeva delle torri aldilà di esse. Lord Zenir sosteneva che quelle creature vivessero tutte quante insieme, in una dimora enorme, simile ad un castello, che si accendeva di luce ogni volta che era irradiata dai raggi del sole. A Iatho sarebbe piaciuto osservarla durante il giorno, ma si sarebbe accontetato anche di vederla immersa nella luce della luna, che da lassù era molto più brillante di come l'avesse mai vista.
Saggiò la consistenza dei mattoni e faticò a trovare appigli fra l'uno e l'altro. Qualunque cosa fosse ciò che li teneva insieme era perfettamente levigato e dovette premere bene i palmi delle mani contro la pietra per riuscire a scovare i punti utili ad arrampicarsi. Non c'era dubbio che gli angeli, oltre a cantare le lodi del Signore e spargere amore, fossero anche degli ottimi muratori, ma nessun muro era privo di appigli e lui era bravo a scalare, soprattutto da quando aveva unghie abbastanza forti per farlo.
Arrivò in cima e si affacciò con circospezione nel caso qualche guardia stazionasse proprio là sotto, ma non c'era nessuno. Si sedette e osservò l'immenso giardino che si estendeva sotto ai suoi piedi. Gli alberi erano di ogni tipo, Iatho sapeva riconoscerli tutti. Suo padre era stato un contadino, e tutto ciò che aveva potuto insegnargli era il proprio mestiere. Era ironico che sapesse piantare ogni genere di verdura, quando non poteva più mangiarne.
Dal gruppetto di querce di fronte a lui spuntava un piccolo sentiero che girava intorno ad un gazebo in pietra e si infilava in una limonaia completa di panchine e steccati di legno dipinto sul quale si avvolgevano stralci d'edera e graticci di rose. Sullo sfondo di questo delizioso giardino la dimora celeste si innalzava immensa e luminosa. Iatho non aveva mai visto niente del genere. Non c'erano edifici così alti nel regno degli esseri umani e nel sottosuolo dove viveva adesso non abbondavano i grattacieli. La costruzione più alta era la ciminiera del generatore di nebbia, su uno degli spuntoni di roccia nuda che si ostinavano a definire montagne. Iatho ricordava com'era vivere in un mondo popolato di artisti che costruivano edfici bellissimi e dipingevano affreschi dai colori brillanti. Perfino nella chiesa del suo piccolo villaggio la natività dipinta sulle pareti di una delle navate era così splendida che sembrava prendere vita. E quel ricordo era ancora così vivido dentro la sua testa, nonostante gli anni che erano trascorsi, che non riusciva ancora ad accettare di vivere in un luogo freddo e inospitale, il cui unico guizzo di creatività era rappresentato dalle miriade di tombe tutte diverse che spuntavano come funghi nel terreno appena fuori dal cimitero. Per questo si innamorò della dimora degli angeli non appena vi posò gli occhi sopra. Osservò con grande interesse la struttura quadrata, abbellita ai lati da quattro torri. Il corpo centrale era sormontato da una copertura tondeggiante che andava affinandosi verso l'alto e che si illuminava ogni tanto delle strature azzurrognole della luna. All'esterno quattro file di balconi giravano intorno all'edificio e c'erano più finestre di quante Iatho potesse contarne. Gli venne la curiosità di sapere come fosse l'interno, se fosse davvero tappezzato di cuscini bianchi e colonne lisce di marmo come se lo immaginava.
Lanciò un'occhiata dubbiosa al giardino in basso. Si era avventurato nel territorio nemico con l'idea ben precisa di arrivare fino a quel muro ma non aveva ancora deciso se si sentiva coraggioso abbastanza da saltare giù ed esplorare ancora. In fondo la sicurezza sarebbe stata ben più stretta e probabimente anche meno comprensiva. Tra il popolo dei vampiri e quello degli angeli c'era una tregua secolare che non aspettava altro che una scusa per annullarsi. Iatho era quasi certo che un vampiro che s'introduceva nella fortezza degli angeli, il cuore stesso della communità, fosse un motivo sufficiente a far scoppiare la guerra. Se avesse saputo che da lì a qualche mese la Veggente stessa avrebbe dato loro l'esplicito ordine di combattere, forse si sarebbe calato nel giardino fin da subito, invece di rimanersene appollaiato come un pappagallo.
Mentre valutava la situazione e cercava di prevedere che cosa gli avrebbe fatto Zenir se solo si azzardava a scatenare una guerra solo per curiosità, dalla limonia spuntò un caschetto di strettissimi riccioli biondi.
Iatho si aquattò subito in cima al muro, cercando di rimanere nascosto dietro le fronde di una quercia che si allungava verso di lui. La creatura fece qualche passo incerto, guardandosi intorno ma non sembrava preoccuparsi di lui, quanto di essere seguito.
Quando Iatho si rese conto che non era stato scoperto, si accucciò meglio e rimase ad osservare. Non aveva mai visto un angelo così da vicino. Si era aspettato una creatura imponente, dall'aria severa, rigida e marziale nei movimenti, con l'espressione aliena tipica delle creature eterne che vivono lontane dai mortali, ma lui non assomigliava per niente alle sue fantasie e, se per questo, neanche alle illustrazioni che aveva sbirciato nei libri di Zenir. Tanto per cominciare sembrava giovanissimo, forse perfino più piccolo di lui quando era stato trasformato, e aveva un viso tondo e rubicondo che non avrebbe fatto paura proprio a nessuno. Camminava scalzo sull'erba e piroettava di tanto in tanto, ridendo per qualcosa che stava leggendo su un libriccino. Iatho seguì ogni suo movimento, cercò di capire il colore dei suoi occhi e rimase affascinato dalla luce che sembrava emanare, come una lucciola.
L'angelo rimase sotto la sua quercia a lungo, leggendo ad alta voce ma in una lingua che Iatho non conosceva; era fatta di suoni acuti ma graziosi che insieme al frullare delle sue ali bianche lo facevano somigliare ad un passerotto bellissimo ma un po' troppo cresciuto. Ogni tanto, quando un passaggio del libro lo colpiva particolarmente, o quando era fermo da troppo tempo, le apriva soltanto un pochino e risistemava le piume che, per un attimo, andavano avanti e indietro per poi quietarsi ordinatamente.
Iatho si trovò ben presto così affascinato dalla creatura che lasciò perdere ogni cautela e, quando quella si diresse nuovamente alla limonaia, allontanandosi da lui, uscì dalla protezione dell'albero e la seguì camminando acquattato lungo il muro.
L'angelo avanzava tranquillamente, tendendo la lunga tunica bianca ad ogni passo. Iatho era curioso di vedere le forme di quel corpo che poteva soltanto intuire quando la stoffa vi aderiva per un breve istante. C'era qualcosa di incredibilmente affascinante nella figurina esile dell'angelo; in quel momento credeva ancora che fosse la curva morbida e bianca del suo collo.
Sperava che si fermasse a sedere su una delle panche accanto alle piante di limoni ma lui non si fermò e si diresse spedito verso la dimora. Iatho rischiava di perderlo di vista, così ignorò la voce nella sua testa, per altro molto somigliante a quella di Zenir, che lo avvertiva di stare per fare un'idiozia.
“Non pensavo che poteste uscire di notte,” esclamò.
L'angelo cacciò un urletto sorpreso e quando, voltandosi, vide che a parlare era stato un estraneo seduto in cima al muro, ne cacciò un altro ancora più forte. Le sue ali scattarono in avanti racchiudendolo protettive in un bozzolo di piume, da dentro il quale lanciò un qualche tipo di richiamo che gli perforò le orecchie.
“No! No! Non fare così” Esclamò il vampiro, cercando di preservare timpani che una volta esplosi non era troppo sicuro di poter far ricrescere come i capelli. “Mi chiamo Iatho e non sono qui per farti del male!”
Il richiamo s'interruppe e le ali si aprirono, ma solo un po', per permettere ad un paio di occhi azzurri di far capolino. “Che cosa sei?” Chiese, osservando con grande attenzione il suo pallore di porcellana e i lunghi capelli neri. “Tu non sei un angelo.”
Iatho rise. “No, decisamente no,” rispose. “Sono un vampiro, vengo dal sottosuolo.”
Le ali si richiusero subito. “Non posso parlare con te e tu non dovresti essere qui,” disse. La sua voce era ovattata e sembrava lontanissima, così racchiusa dal guscio delle sue ali.
“E' vero, ma mi sono perso,” mentì. “Ti ho sentito cantare, così mi sono fermato.”
L'angelo dischiuse di nuovo le ali, anche se con diffidenza. “Non stavo cantando,” puntualizzò. “Pregavo.”
Iatho sollevò un sopracciglio. “Ballando?”
L'angelo si strinse nelle spalle. “Perché no? Non facevo niente di male.”
“Assolutamente niente,” concordò Iatho. “Ballare non è mica peccato. E' per questo che eri qua fuori? Là dentro non si può ballare?”
L'angelo si voltò a guardare la dimora che il vampiro stava indicando. “Là dentro non si può fare niente,” commentò con una mezza smorfia, ma si rese subito conto di quello che aveva detto e si tappò la bocca con entrambe le mani, diventando tutto rosso.
Iatho scoppiò a ridere divertito e gettò indietro la testa. “Qualcuno non è molto contento di questo posto.”
“Oh no! No!” Si affrettò a dire l'angelo. “Mi piace qui. E' la mia casa.”
“Solo che ogni tanto, ci sono troppe regole,” suggerì Iatho e l'angelo annuì con foga.
Iatho sorrise e gli accennò il muro. “Mi fai compagnia?”
L'angelo esitò e si stropicciò le dita, guardandosi intorno come si aspettasse di veder spuntare qualcuno da un momento all'altro. Iatho non sentiva la presenza di nessun angelo, a parte quello che aveva davanti, quindi era tranquillo. “Non posso lasciare neanche il giardino,” lo informò.
Iatho sorrise. “E io non posso entrarci,” confermò. “Staremo qui sul muro. Né dentro né fuori. Tecnicamente, non violeremo nessuna regola.” Si chinò in avanti a tendergli la mano.
L'angelo sbuffò una risatina. Sulle labbra di qualunque altra persona sarebbe stata di scherno, ma sulle sue fu soltanto deliziosamente chiara e limpida, così dolce che Iatho non si offese per niente. Anzi, osservò meravigliato le grandi ali bianche aprirsi fin quasi a sfiorare i rami più bassi degli alberi e sbattere un paio di volte, come a saggiare l'aria. “Ti avverto,” disse l'angelo, sollevandosi in volo con un piccolo salto e planando seduto accanto a lui. “Se questo è un trucco per azzannarmi, comincerò ad urlare così forte che l'intero essercito sarà su di te prima che te ne accorga.”
Iatho continuò a sorridere, sollevando entrambe le mani. “Vengo in pace. E ho già mangiato,” rispose.
L'angelo si lisciò le pieghe della tunica sulle ginocchia e ripiegò ordinatamente le ali, posando le mani in grembo con molta cura. “Come faccio a fidarmi?”
“Se avessi voluto attaccarti, non avrei perso tempo a parlarti,” gli fece notare Iatho.
L'angelo sembrò trovarla un'affermazione sensata, ma rimase comunque seduto a debita distanza. “Non assomigli per niente ad un vampiro,” gli disse dopo un po'.
“Ah davvero? E come sono i vampiri esattamente?”
“Cattivi, spietati e assetati di sangue,” rispose subito l'angelo, imbronciandosi con aria preoccupata fino a farsi venire una riga sopra la fronte. “Ringhiano e sbavano.”
“Sbavano?” Esclamò sconvolto Iatho.
“E rapiscono i putti,” insistette l'angelo, annuendo con grande serietà.
Iatho inarcò un sopracciglio, non sapendo se essere più divertito o sorpreso dall'affermazione. “Noi non rapiamo i putti,” commentò. “Cosa dovremmo farcene?”
“Per mangiarli, naturalmente,” rispose l'angelo. “O per renderli come voi. Non sono sicuro, le lezioni sull'argomento mi spaventano molto e mi confondo.”
Iatho scosse la testa. “Queste sono stupidaggini, noi non facciamo niente del genere,” esclamò, a dire il vero un po' oltraggiato. Poi si schiarì la voce, imbarazzato. “I putti sarebbero troppo piccoli comunque, per l'una e per l'altra cosa.”
“E gli angeli adulti sì?”
Iatho si inclinò un po' verso di lui. Non tanto da toccarlo, ma abbastanza da farlo arrossire. Fu un'impresa abbastanza complessa perché l'angelo emanava un odore dolcissimo e invitante, qualcosa di così intenso che copriva anche quello del sangue, ed era intossicante. Iatho sarebbe rimasto lì ad inspirare per ore. “Loro hanno la possibilità di decidere per loro stessi,” mormorò.
L'angelo distolse lo sguardo. Le sue ali si chiusero un po' intorno a lui, ma non così tanto da nasconderlo alla vista. “Potresti allontanarti un po'?” Chiese a disagio, lanciandogli un'occhiata di tanto in tanto, quasi volesse essere sicuro di non offenderlo.
Iatho si tirò su dritto. “Nessun problema,” rispose. Per un po' rimasero in silenzio. Iatho con le gambe che penzolavano una da una parte e una dall'altra del muro e l'angelo seduto composto e con lo sguardo basso, entrambi impegnatissimi a sostenere la presenza dell'altro che si era fatta ingombrante. “Non mi hai detto come ti chiami!” Esclamò Iatho all'improvviso, con tanto entusiasmo che l'angelo sussultò.
“Puoi chiamarmi Noah,” balbettò incerto.
Proprio allora, dalla piccola macchia di alberi si alzò un richiamo acuto, simile ma non esattamente identico a quello che Noah aveva emesso poco prima, chiudendosi dietro al rifugio protetto delle sue ali. Il suono era breve e ripetuto a distanza di qualche secondo. Noah incassò la testa nelle spalle. “Mi stanno chiamando,” si giustificò, guardando prima lui e poi gli alberi. “Devono essersi accorti che non sono nel mio letto.”
Iatho ascoltò quel richiamo e si rese conto che non era esattamente un grido, che c'era qualcosa di musicale, delle sillabe, che lo componevano. Era la stessa lingua nella quale l'angelo aveva pregato poco prima. “Quello è il tuo nome,” esclamò sgranando gli occhi, mentre qualcuno continuava a chiamare. “Non ti chiami Noah.”
L'angelo sospirò. “Il mio vero nome non potresti pronunciarlo,” rispose a mo' di scuse. “Noah andrà bene.”
“E hai intenzione di usarne uno diverso ogni volta che verrò a trovarti?” Chiese Iatho, sorridendo.
Noah aprì la bocca sorpreso. “Perché, quante volte hai intenzione di venire, ancora?”
“Tutte quelle che serviranno.”
“A fare che cosa?” Chiese confuso, Noah.
Iahto sorrise e basta. “Per scoprirlo dovrai essere qui, quando verrò, non ti pare?” Chiese. Poi accennò verso gli alberi, la voce si faceva più vicina e più preoccupata. Gli angeli erano nei paraggi e lui cominciava ad innervosirsi, ma cercò di mantenere il sorriso perché l'espressione dell'angelo lo ripagava di ogni paura. “Ora va', o finiranno per punirti.”
Noah non sembrava affatto convinto di quella risposta. Era troppo vaga per farlo stare tranquillo. Saltò giù dal muro e planò dolcemente con le ali appena aperte. Quando atterrò sull'erba, non fece alcun rumore. “Non è... non è detto che m'interessi saperlo,” esclamò cercando di fare il sostenuto e fallendo miseramente, soprattutto quando continuava a guardare verso gli alberi per paura di veder spuntare chi lo cercava.
“Io farò comunque un tentativo,” disse Iatho, tornando ad accucciarsi sul muro, pronto a saltare giù. “E se non ci sarai, sarò costretto ad entrare per venirti a cercare.”
“Questo sarebbe inaccettabile!”
Iatho sorrise. “E allora non costringermi a farlo.”
Noah lo guardò un po' storto, comprendendo di aver perso un qualche tipo di battaglia senza sapere quale. Due angeli adulti, dalle ali immense, sbucarono dagli alberi emmettendo nello stesso istante un sospiro di sollievo di fronte al ritrovamento del fratello perduto. Noah, invece, non rispose ai loro richiami e si voltò di nuovo verso il muro, convinto che da lì a qualche istante avrebbero visto anche Iatho, ma scoprì che lui non c'era già più. Mentre i suoi fratelli lo abbracciavano con affetto prima ancora di sgridarlo, come se fosse mai uscito dal giardino o fosse stato lontano intere settimane, Noah pensò che Iatho non sarebbe affatto tornato, che stava soltanto scherzando.
Ciononostante, la notte dopo si fece trovare sulla panchina della limonaia e, quando il vampiro comparve seduto sul muro, gli disse che aveva soltanto avuto voglia di pregare di nuovo alla luce della luna.
La terza notte, Noah gli disse che si preoccupava per la sicurezza dei suoi fratelli, sapendo che lui era in giardino, e quindi era venuto a controllare.
La quarta notte raccoglieva fiori e la quinta era troppo caldo per dormire tra le pareti.
Iatho rise ogni volta, ma tornò ancora e ancora. E allora Noah smise di dire bugie.
Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah, Lord Zenir, vampiri.
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico, Guerra, Fantasy
Avvisi: Slash, Violenza, (per certi versi) Non-con.
Rating: R
Note: Questa storia è ispirata all'ambientazione in cui si sta svolgendo il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole e, nello specifico, analizza più dettagliatamente il finale di All the arms we need are for hugging, ma ho fatto in modo che fosse perfettamente comprensibile anche da sola (o almeno ci ho provato), se vi va di leggere questa e non quella prima. Partecipa alla terza settimana del COW-T per la squadra dei vampirli (prompt: Amanti).

Riassunto: Quando il boia calò la scure, era pronto e non ebbe paura.
WAR GRAVEYARDS ARE FILLED WITH LOYALTY


Quando Noah aprì gli occhi, non aveva idea di dove si trovasse né perché fosse ancora vivo. Aveva ricordi confusi di quanto era accaduto sul campo di battagia, ma era certo di essere stato attaccato da cinque vampiri. L'ultima immagine che aveva in testa era il ritaglio di cielo grigio che aveva intravisto tra i volti dei suoi assalitori e sul quale si era concentrato per non vedere le loro fauci snudate. Avrebbe preferito morire guardando il cielo azzurro del paradiso, ma in fondo anche la lastra scura dalla quale filtrava debole la luce del sole era a suo modo una volta celeste e aveva dovuto accontentarsi di quella.
Ma qualcuno doveva aver deciso di risparmiarlo, difatti la catena che gli stringeva la caviglia dimostrava che non era stata una missione di salvataggio. Si tirò su a fatica dal pavimento, e scoprì di avere un'ala spezzata che non si muoveva e gli pendeva floscia lungo il braccio. Le richiuse entrambe con attenzione e fece una smorfia mentre si guardava intorno. Non si trovava dentro una cella, ma sotto una piccola tenda di tela scura. C'era odore di sporco e sangue e un altro più sottile ma pungente, appena percettibile che gli faceva agitare lo stomaco; faceva freddo. Il terriccio bagnato e la tunica strappata non facevano che peggiorare la situazione. Saggiò con il piede la lunghezza della catena che lo legava al palo centrale della tenda, e scoprì che poteva muoversi solo nel raggio di un metro. Si rannicchiò nell'angolo più lontano dall'apertura della tenda, trascinandosi dietro la catena pesante, ma la stoffa non offriva alcun riparo dal gelo esterno, era come trovarsi all'aperto comunque.
Sentiva rumori indistinti provenire da fuori, alle volte erano urla brutali, altre scoppi di risa incontrollate. Ogni volta che qualcuno si avvicinava, l'ombra si proiettava ingigantita all'interno della tenda, costringendolo a farsi ancora più piccolo. Nessuno venne a controllarlo per molte ore. Il sole sorse e all'esterno calò il silenzio, confermando quello che aveva temuto. Si arrischiò a sbirciare dallo spiraglio aperto della stoffa, e vide la landa desolata del sottosuolo, la luce solo vagamente più chiara che illuminava il cimitero di tombe inesorabilmente vuote e l'orizzonte piatto e privo di vita.
Era logico che se si era salvato da un attacco di vampiri, era perché i vampiri stessi non l'avevano portato a termine; quello doveva essere l'accampamento che aveva intravisto in lontananza durante la battaglia. Si chiese che cosa sarebbe successo al tramonto ed ebbe paura. L'unico vampiro che conoscesse era gentile, ma era consapevole che il resto della razza non corrispondeva esattamente alla stessa descrizione di Iatho e dubitava profondamente che lui si sarebbe fatto vivo, anche solo per non tradirsi. All'improvviso la prospettiva di essere lasciato per sempre a se stesso, anche se ferito, sporco e affamato, non gli sembrava più così terribile se l'alternativa era incontrare i suoi carcerieri. Tornò ad accasciarsi in un angolo, disperato.
Il momento che temeva arrivò prima di quanto si aspettasse. Nel pensare alla propria situazione, non aveva potuto impedirsi di piangere e lo aveva fatto con una tale violenza che aveva finito per addormentarsi e il sole era di nuovo tramontato senza che lui se ne rendesse conto. Stava cercando una posizione comoda che non gli facesse dolere le ali, quando qualcuno entrò nella tenda.
Noah si svegliò al suono di un respiro non suo e quando sollevò lo sguardo c'erano due vampiri, ed entrambi lo guardavano sorridendo.
Noah si fece indietro, schiacciandosi contro la tenda che si piegava sotto il suo peso, senza però dargli nessuna via di fuga.
“Si è svegliato,” disse il primo.
“Era l'ora, cominciavo a credere che fosse morto,” commentò il secondo avvicinandosi.
Noah si agitò in maniera irrazionale; l'aspetto, l'odore, l'energia, tutto di quelle creature lo spaventava a morte e il suo corpo gli diceva di scappare il più velocemente possibile. Aveva provato qualcosa di simile con Iatho la prima volta, ma aveva dimenticato la sensazione che era andata quietandosi man mano che lo conosceva. Eppure era quasi certo che il terrore che gli attanagliava lo stomaco non fosse mai stato così forte. Il suo cervello percepiva solo il pericolo, non gli veniva neanche in mente di parlare. Si alzò di scatto ma i suoi piedi scivolarono sulla fanghiglia e finì per inciampare nella catena mentre si spostava di lato. Cadde arrotolato sul pavimento, con la punta delle ali che fremeva, come fossero pronte a portarlo via di lì non appena avesse raggiunto uno spazio aperto.
“Non ti agitare,” disse il primo vampiro, “tanto non puoi andare da nessuna parte.”
Noah tentò di nuovo, strattonò la catena nell'arretrare, ma non la spostò di un millimetro e si graffiò la caviglia. Il secondo vampiro, che parlava poco e aveva continuato ad avvicinarsi, lo afferrò per un polso e lo tirò praticamente su di peso con una mano sola. Era enorme, e vecchio. Il caschetto dei suoi capelli grigi fu l'ultima cosa che vide prima di sentire il dolore acuto dei suoi denti che gli perforavano la pelle del collo. Spaventato, cercò di sottrarsi a quella stretta e le ali si aprirono di colpo strappandogli uno stridio disperato. Si sollevò in aria, schiacciandosi contro il soffitto della tenda, limitato dalla catena che lo teneva legato.
Sbattè furiosamente le ali, agitandosi e muovendosi in cerchio inutilmente mentre i due gli afferravano le gambe per tirarlo giù, c'erano le sue piume ovunque, e la terra che sollevava e che gli finiva negli occhi.
Il primo vampiro ringhiò qualcosa e con l'ennesimo salto lo riportò a terra. Noah sbattè violentemente la testa e per un attimo gli si confuse la vista. Quando riuscì a riprendersi abbastanza per capire cosa fosse successo, il più piccolo dei due gli aveva agguantato la caviglia e l'altro gli teneva la bocca chiusa con una mano. Lo morsero insieme e il dolore fu quasi troppo intenso da sopportare. Annaspò senza emettere alcun suono, e sapeva che se anche non glielo avessero impedito, non avrebbe fatto comunque rumore. Non ne aveva la forza.
Chiuse gli occhi e pregò che finissero in fretta, cercando fra le immagini che gli invadevano il cervello qualcosa a cui aggrapparsi per sostenere quel dolore, ma scoprì che le visioni piacevoli che gli attraversavano la mente quando Iatho lo mordeva, erano solo cortesie.
Quando riaprì gli occhi, molte ore dopo, era ancora vivo e di nuovo solo. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, né di quando esattamente fosse svenuto, ma si sentiva debole e la cella puzzava ancora più di prima. I segni sul suo corpo erano molti di più dei morsi che ricordava, e questo doveva spiegare il giramento di testa e l'incapacità di sollevarsi, se non a quattro zampe, posizione nella quale vomitò immediatamente. Non gli era mai capitato di stare così male, non solo con Iatho, ma in generale nella sua esistenza. Gli angeli erano creature perfette per definizione, immutabili e virtualmente eterne; ma in realtà lontano dal paradiso iniziavano a deperire, perché erano fatti della stessa materia e da esso traevano forza. Così più rimaneva in quella cella e più lentamente guariva, se mai glielo avessero lasciato fare.
Nelle giorni che seguirono dormì molto, stremato dalle ferite e dalla situazione, svegliandosi a fasi alterne nelle quali ogni tanto rimetteva e ogni tanto mangiava quello che i suoi carcerieri gli portavano, generalmente prima di morderlo di nuovo.
Perlopiù si trattava di pane vecchio, a volte di frutta. Una volta aveva trovato della carne, ma il solo odore lo aveva nauseato e così l'aveva lasciata lì a marcire, come era convinto che avrebbe fatto lui, che ormai non faceva altro che stare seduto sul pavimento in attesa del prossimo giro di morsi.
Le guardie erano sempre le stesse, ma ogni tanto ne arrivavano altre. Erano i momenti in cui pregava di perdere conoscenza prima di poter sentire qualcosa, ma non accadeva mai abbastanza in fretta e il ricordo di tutte quelle mani e bocche addosso non lo lasciava in pace.
Nessuno, però, veniva mai ad interrogarlo o a chiedergli chi fosse, tanto che a poco a poco perse la speranza che ci fosse una qualche ragione per quella reclusione. Forse era stata un'iniziativa personale dei due vampiri che lo tenevano rinchiuso, non era un prigioniero di guerra. Era solo cibo e divertimento.
Si chiese dove fosse Iatho e se sapesse davvero che si trovava lì o se invece non fosse convinto che era ancora fra la sua gente, o magari morto. L'idea che Iatho potesse aggirarsi in quell'accampamento ignaro della sua presenza lo faceva star male. Gli veniva voglia di urlare e farsi sentire, magari chiamarlo per nome nella speranza che si trovasse aldilà del telo di stoffa oltre il quale non riusciva a vedere, ma aveva sempre paura di metterlo nei guai. Non sapeva che, in effetti, Iatho nei guai c'era già.
Finalmente, dopo un tempo lunghissimo che aveva smesso di cercare di quantificare, venne a fargli visita un vampiro diverso dagli altri. Si presentò qualche minuto dopo che il sole era calato e lo fece da solo.
Non appena oltrepassò la soglia, Noah si ranicchiò lontano. L'ala spezzata non gli permetteva di nascondersi alla vista, così ne piegò soltanto una, abbastanza da non guardarlo negli occhi.
“Io sono Lord Zenir,” si presentò quello. “Sono il capo di questa colonia di vampiri. Sei stato preso prigioniero sei giorni fa, durante la prima fase della guerra.”
Il vampiro aveva una voce bassa e profonda e molto gentile. Noah ne fu attratto istintivamente perché non c'era stato niente di gentile finora in quella cella, e lui ne aveva invece un disperato bisogno; ma si trattenne. Rimase immobile dietro lo schermo delle sue piume, come se non lo avesse sentito.
“So che voi angeli amate considerarvi come una sola entità e non avete nomi come li intendiamo noi,” disse ancora il vampiro, ora in piedi vicino al palo con la catena. “Come possiamo chiamarti, dunque?”
L'angelo rimase in silenzio anche stavolta. Noah non era il nome con cui era nato, lo aveva scelto perché Iatho potesse chiamarlo in qualche modo. La parola che lo indicava sarebbe stata troppo complessa e troppo incomprensibile per lui da pronunciare. Era stata la prima delle sue disobbedienze: agli angeli non era permesso avere un nome personale, perché questo li avrebbe distinti dal resto dei loro fratelli.
Lord Zenir attese un tempo infinito, senza mai dare segni di fastidio. Forse perché ricordava come l'angelo fosse stato condotto in quella tenda e vedeva in che stato era ora.
Il Consiglio stava chiudendo un occhio su ciò che i soldati facevano al prigioniero per limitare il malcontento causato dalla notizia che Iatho, il vampiro che lo aveva salvato ai danni di un altro vampiro, sarebbe stato giudiciato soltanto alla fine della guerra, per intercessione di Lord Zenir stesso che ne era il protettore. C'era stata una mezza rivolta all'ultima assemblea, e il Consiglio era stato sul punto di revocare quella grazia momentanea, fortunatamente decidendo altrimenti.
Lord Zenir fissò la forma immobile e minuta del prigioniero e sospirò. Quell'angelo stava pagando più colpe di quante ne avesse in realtà: le proprie, quelle di Iatho e anche la sua testardaggine a voler proteggere un ragazzino che era indiscutibilmente colpevole sotto ogni punto di vista.
“Collaborare gioverebbe alla tua permanenza qui,” insistette, facendo un ultimo tentativo quando gli fu chiaro che l'angelo non avrebbe parlato. “Pensaci. “

*


Iatho stava ancora sfogando la rabbia nella città morta, dall'altra parte dell'accampamento. Lord Zenir vide i segni delle sue unghiate sulle vecchie lapidi ammuffite e su quel che restava dei vecchi edifici. Si diceva che un tempo quella fosse stata una città immensa, ma adesso non era che una distesa sterminata di macerie che secolo dopo secolo veniva mangiata viva dall'erba. Iatho veniva sempre qui quando qualcosa lo turbava; lo aveva trovato ranicchiato tra le pietre anche quando, dopo aver aperto per la prima volta gli occhi sulla luna, era scappato sconvolto dalla trasformazione che aveva subito. Adesso era più forte e più testardo, e invece di piangere aggrediva la pietra inerme, ma era sconvolto e spaventato come allora.
“Iatho,” lo chiamò.
“Vattene Zenir,” ringhiò il giovane, passandogli di fianco a velocità sovrumana.
Zenir poteva vederlo chiaramente, come fosse fermo, perché i suoi occhi e la sua mente si muovevano allo stesso passo. “Devo parlarti,” disse. Gli sembrava di non fare nient'altro da giorni. Parlare. Con il Consiglio, ai suoi soldati, all'angelo. E nessuno che lo stesse a sentire. “Fermati un secondo per favore.”
Iatho ringhiò furioso ma si fermò a qualche centimetro da lui, guardandolo dall'alto in basso e mostrando i denti incurante dei gradi che li separavano e dell'età, tanto ormai non aveva più niente da perdere.
“Che cosa vuoi?”
Lord Zenir non sembrò scosso dall'atteggiamento, e d'altronde lo aveva visto rispondere in malo mondo ad uno degli anziani tre giorni dopo la sua trasformazione, rischiando l'esposizione al sole per direttissima, quindi niente della sua indisponenza lo sorprendeva più. “Come stai?”
Iatho sbuffò dal naso infastidito, stava per allontanarsi di nuovo ma Zenir gli serrò le dita intorno al polso e gli impedì di scappare.
“Lasciami. Se sei venuto qui a fare conversazione, non sono in vena,” rispose.
“Iatho, per favore...”
“Mi hanno condannato a morte,” lo informò ironico. “Ti basta come risposta?”
Lord Zenir sospirò, cercando di essere paziente. “Non ne sono felice, Iatho. Sto cercando di tirarti fuori dai guai, ma quello che hai fatto va oltre i miei poteri. Ho bisogno di tempo!”
“Non ne hai! E non ne ha lui!” Sbraitò Iatho, ansimando forte. Lo sbotto d'ira sembrava averlo sconvolto più del normale, così ci mise un po' a riprendersi e, mentre si calmava, continuò a guardarlo negli occhi. “Non so nemmeno dove lo tengono! Non sento il suo odore. Per quanto ne so potrebbe essere già morto!”
“E' vivo,” lo rassicurò Zenir.
“Voglio vederlo,” esclamò subito Iatho. Aveva provato a fargli visita fin dal primo giorno che lo avevano condotto al campo e non era mai riuscito ad ottenere il permesso. Quando i suoi compagni non minacciavano di farlo a pezzi, il Consiglio lo diffidava, promettendo ritorsioni.
“Lo vedrai,“ annuì Lord Zenir. “Ti hanno concesso di vederlo, ma ad una condizione.”

*


Iatho si stupì quando trovò una sola guardia di fronte alla tenda in cui Noah era tenuto prigioniero. Si era aspettato un qualche tipo di vigilanza, vista l'importanza del soggetto ma, quando entrò, capì che non ce ne sarebbe stato bisogno. Noah giaceva a terra immobile, rannicchiato sotto la cupola spettinata e sporca delle sue ali. Lo tenevano legato per un piede e c'era un tale fetore nell'aria che gli venne voglia di vomitare.
Si avvicinò piano perché Noah tremeva. La sommità delle piume esterne vibrava leggermente, come se là sotto stesse singhiozzando. Quando allungò una mano a sfiorarlo, l'angelo sussultò e si allontanò nell'angolo più lontano, fermandosi di scatto con un violento strattone quando la corda non gli permise di proseguire oltre. Emise un verso acutissimo e impaurito, uno che Iatho non aveva mai sentito.
Con una mano si tappò un orecchio, mentre agitava l'altra di fronte al viso. “Noah! Noah, sono io!” Cercò di calmarlo. Si allungò verso di lui, ma ci ripensò quando l'angelo si mise ad urlare ancora più forte e arretrò fino a graffiarsi la caviglia con la catena. “Noah, sono Iatho! Iatho. Non mi riconosci?”
Quel lamento stridulo, simile al verso spaventato di un uccello, continuò ancora per qualche secondo, finché Noah non si convinse ad aprire gli occhi e l'immagine del vampiro non si mise a fuoco tra le sue lacrime, allora si gettò fra le braccia di Iatho e gli si aggrappò addosso disperato, stringendo tra le dita la stoffa della sua maglietta e nascondendogli il viso nel collo, quasi volesse sparirci dentro. L'ala sinistra sbatté un paio di volte in aria, la destra rimase immobile, come atrofizzata, lungo la sua schiena.
Iatho finì seduto a terra per lo slancio, ma non se ne curò; lo strinse con attenzione e gli posò un bacio sulla sommità della testa. I suoi capelli erano incrostati di terra e sangue e il suo profumo era quasi scomparso, ma lo sentiva ancora. “Va tutto bene,” cercò di calmarlo, mentre Noah veniva scosso dai singhiozzi fin quasi a non riuscire a respirare. “Ci sono qui io, adesso.”
Noah pianse per un tempo lunghissimo e Iatho lo cullò fra le braccia finché non si calmò abbastanza da sollevare il viso e guardarlo negli occhi mentre tirava su col naso. Il vampirò gli asciugò le lacrime che ancora gli scivolavano sulle guance e avevano formato un solco più chiaro nella terra che gli copriva il viso. “Ehi,” lo salutò, provando a sorridere.
Noah, però, non rispose. Continuava a tremare e il suo viso era così addolorato e triste da stringere il cuore. Iatho gli accarezzò ancora la testa. Aveva bisogno di un bagno, di cibo e di un posto più pulito in cui vivere. Quella tenda sembrava una gabbia per animali. A fatica riuscì ad alzarsi con lui addosso e lo convinse a staccarsi dalla sua maglietta. Quando lo vide allontanarsi verso l'uscita, Noah emise di nuovo quel verso stridulo e Iatho gli promise che sarebbe tornato.
Dal momento che parlare lui stesso alle guardie non sarebbe servito perché quelle ce l'avevano con lui, Iatho andò direttamente da Lord Zenir, entrando nella sua tenda di forza, nonostante le proteste della vigilanza, e pretese una cella a modo, un bagno e del cibo per l'angelo, sottolineando che se volevano che li aiutasse dovevano prima trattarlo con il rispetto che si meritava. Urlò tanto che Lord Zenir finì per acconsentire a qualsiasi sua richiesta anche solo per levarselo di torno; le proteste che sarebbero arrivate da parte del Consiglio di fronte ad un tale favoritismo nei confronti del prigioniero sarebbero state niente in confronto alla testardaggine di Iatho. E poi il ragazzo aveva ragione, il prigioniero non li avrebbe mai aiutati se la prospettiva era comunque morire di fame in mezzo allo sporco.
Noah fu spostato in una vera e propria cella, con un letto, un tavolo e sbarre che ne impedissero la fuga anche senza una catena a segargli le caviglie. Prima di rinchiuderlo, Iatho si fece portare la vasca e l'acqua calda, pretese che tutti uscissero e quando non gli vollero dare retta, si voltò verso Lord Zenir che ribadì l'ordine, prendendosi ogni responsabilità.
La parte più difficile fu spogliarlo, perché Noah non voleva. Quando Iatho allungò le mani sulla fibbia che gli teneva legata la tunica sulla spalla, l'angelo si fece indietro scuotendo la testa. “Noah, non posso lavarti vestito,” gli fece notare.
L'angelo si rifiutò ancora e ancora, finché Iatho non si risolse a costringerlo, seppur dolcemente. Non aspettò che si spogliasse o gli desse il permesso di farlo, sganciò il fermaglio e quel che rimaneva della tunica cadde a terra in un mucchietto di stracci. Noah guardò altrove, ma non si coprì.
Iatho avrebbe voluto essere così ingenuo da sorprendersi di quello che vide, ma la cosa non lo stupì, lo rese solo furioso. Noah era stato morso ovunque, e i morsi erano così profondi e recenti che non erano ancora guariti. La sua pelle era livida dove le zanne l'avevano trapassata e incrostata delle ultime gocce di sangue che ne erano uscite. Era stato attaccato in più di un'occasione e da più vampiri, in maniera tanto violenta che le ferite avevano i bordi frastagliati. Quello che non capiva era perché nessuna di esse si fosse ancora rimarginata. Lo accarezzò piano, strappandogli una smorfia infastidita. L'ala sana frullò lentamente e ne caddero molte più piume del solito, sgualcite e spettinate. Noah stava sfiorendo.
“Mi dispiace,” momorò, non sapendo che altro dire. “Non avrei dovuto lasciarti da solo.”
Strinse i pugni e ringhiò piano, senza volerlo. Lo avevano tenuto lontano, e lui non aveva fatto abbastanza sforzi per andare a trovarlo. Aveva pensato che se si fosse comportato bene, se avesse fatto quello che gli veniva chiesto, forse il Consiglio sarebbe stato più clemente con lui o con Noah. A formularlo chiaramente quel pensiero appariva davvero stupido. Si chiese come avesse potuto pensare che il Consiglio non si sarebbe vendicato, che facendo il bravo qualcosa gli sarebbe stato condonato e che le sue colpe non sarebbero ricadute su Noah. Gli avevano fatto del male, ed era stato a causa sua.
Noah allungò una mano e gli sfiorò una guancia, forzandolo ad alzare il viso. Quando lo guardò, Iatho vide che sorrideva gentile e sul suo viso era tornata l'ombra di compassione che aveva sempre avuto. Per un istante lo ricordò com'era stato soltanto una settimana prima: bellissimo e roseo e soffuso della luce del Creatore che lo illuminava tutto come una stella. Quella luminosità non si era spenta del tutto, era ancora lì, solo più prudente e triste. Ferita come lo era lui.
“Non è stata colpa tua,” mormorò pianissimo l'angelo, quasi le parole facessero fatica ad uscirgli di bocca.
Iatho fu solo felice di sentirlo parlare, per un attimo aveva temuto che si fosse ridotto a quello stridio che gli spezzava i timpani e gli stringeva il cuore. Lo scortò fin dentro la vasca tenendolo per mano e lasciò che si immergesse. Noah sospirò sollevato quando l'acqua calda gli sfiorò la pelle. Le su piume si appesantirono, appiccicandosi contro la sua schiena e facendo sembrare le sue ali incredibilmente più piatte. Iatho s'inginocchiò accanto alla vasca e lo lavò con cura, facendo attenzione a non riaprire le ferite. Man mano che lo puliva, lui tornava a risplendere. Era un po' come lucidare una lampada d'oro dimenticata in un cassetto troppo a lungo. Quando gli versò l'acqua sulla testa con una brocca, anche i boccoli tornarono ad avvolgersi su se stessi, lucidi e brillanti.
Mentre lo aiutava ad asciugarsi, Iatho gli chiese perché le sue ferite non si rimarginassero e lui sospirò, strofinandosi i capelli con un altro asciugamano. “E' troppo tempo che sono lontano dal paradiso, la sua forza non mi rigenera più e il mio corpo deve fare da solo. E' possibile, ci vuole soltanto più tempo.”
Iatho si chinò a lasciargli un bacio sulla fronte, ma Noah spostò il viso in cerca delle sue labbra e, mentre lo accontentava, il vampiro sentì il suo corpo rilassarsi gradualmente tra le sue braccia. L'ala sana si stese spruzzando minuscole goccioline d'acqua e poi tornò al suo posto, sfiorando umida il braccio di Iatho.
Il vampiro aveva pensato che stargli addosso, per quanto gli fosse tragicamente mancato in quei giorni, non fosse esattamente un'opzione dopo una settimana di reclusione – men che mai dopo aver scoperto quello che era successo – ma Noah non sembrava dello stesso avviso. Gli allacciò le braccia al collo e gli si strinse addosso. “Resti un po' qui con me? Puoi restare?”
Iatho non aveva esattamente discusso con Zenir del tempo che gli era permesso restare, ma dal momento che voleva e che lui non aveva specificato nessuna scadenza, annuì e si lasciò trascinare sulla branda, dove Noah gli si accoccolò addosso e si mise a tubare incosciamente, come faceva sempre per rassicurarsi.
Iatho gli accarezzò piano il viso e la testa, guardandolo come se non credesse di averlo davvero lì tra le braccia; in quel momento nemmeno le sbarre della cella che chiudevano dentro anche lui gli sembravano minacciose. Le cose andavano male solo se lui non era fisicamente al fianco di Noah a vedere che cosa succedeva.
“Pensavo che non saresti venuto,” mormorò l'angelo ad un certo punto, infilando le dita magre nelle asole dei suoi bottoni. “Sai, per non finire nei guai.”
Iatho sorrise amaramente. “Per quello è tardi, ci sono già dentro fino al collo,” rispose. E, visto che Noah aveva perso conoscenza poco prima che arrivasse a salvarlo e che Iatho non aveva idea di come fosse finito a rischiare la vita, si raccontarono com'erano andate le cose.
Durante la prima battaglia della grande guerra tra le quattro razze che abitavano il mondo, i vampiri avevano sfruttato un diversivo offerto da maghi e cavalieri per attaccare l'apparentemente invicibile esercito angelico. L'attacco era riuscito, l'esercito si era diviso in due e gli arcangeli avevano dato l'ordine di ritirarsi. Nello sbattere d'ali e nella mischia dei suoi fratelli sicuramente più addestrati di lui alla battaglia, Noah si era perso, ritrovandosi solo e circondato da cinque vampiri che non gli avevano dato il tempo di alzarsi davvero in volo. L'ultima cosa che Noah ricordava era che uno di loro aveva fatto un enorme balzo da terra per afferrarlo alla vita e tirarlo giù di peso. Aveva battuto la testa, forse su un sasso, ed era calato il buio.
Iatho, che si trovava da quelle parti e lo stava cercando proprio per evitare che capitasse una cosa simile, aveva sentito il suo profumo ed era intervenuto giusto in tempo.
Nel farlo aveva non tanto accidentalmente ucciso uno dei suoi simili per salvare un angelo, guadagnandosi un'accusa di tradimento e la condanna a morte, particolare che si riservò di non riferire a Noah.
Soltanto l'intervento di Lord Zenir, suo non voluto – ma in questo caso utile – protettore aveva permesso che Noah fosse tratto prigioniero invece che ucciso come era destinato a finire fin dall'inizio e che la sua esecuzione, seppur confermata, fosse posticipata alla fine della guerra, dando così a lui e a Zenir la possibilità di cercare una via d'uscita.
“Non avresti dovuto farlo,” gli disse subito l'angelo, serio come lo era stato la notte prima della battaglia, quando si erano incontrati per augurarsi buona fortuna. “In questa guerra sono tuo nemico.”
“Non tu,” precisò il vampiro. “La tua gente.”
“E' la stessa cosa,” sospirò Noah. “E se non vuoi rinunciare alla tua preziosa individualità, prova a pensarla al contrario. La mia vita vale forse più di quella di uno, due, tre dei tuoi simili?”
Iatho non riusciva proprio a capire come potesse ostinarsi a chiedergli di non avere pietà di lui a confronto di vampiri di cui nemmeno conosceva il nome. Eppure era un angelo, non avrebbe dovuto essere così difficile per lui comprendere il concetto di amore. Lo amava, per forza lo avrebbe salvato in ogni caso. Forse tutto dipendeva dal fatto che lui, come ogni vampiro, si percepiva come un entità singola mentre gli angeli si sentivano un'unica entità. Da questo punto di vista, l'idea di uccidere un nemico per salvare un tuo simile, significava salvare l'unità intera. Preferì non chiedergli che cosa avrebbe fatto al suo posto, preferì piuttosto farlo arrossire. “Avrei dovuto, ma sei felice che siamo entrambi vivi, ora,” lo prese in giro. “E' un pensiero incongruente.”
Noah sbuffò. “Sei tu che mi hai reso incoerente.”
“Uno dei miei migliori lavori,” si vantò il vampiro.
Noah scoppiò in una risatina che nascose nel suo collo e fu così graziosa che, al solito, anche a Iatho venne da ridere. C'era voluto un sacco di tempo perché imparasse a tenere a freno i propri istinti in modo che la naturale appetibilità dell'angelo non lo portasse ad azzannarlo alla gola ogni volta che lo vedeva. Era stato difficile, ma c'era qualcosa nel modo di fare di Noah che gli piaceva aldilà del suo sangue e della sua purezza, e quel qualcosa era tutto racchiuso in quella risata. Era a quella che si aggrappava quando guardarlo diventava difficile perché aveva fame, la amava perché rappresentava la possibilità per loro di stare insieme e l'amava di più adesso perché era tornata nonostante quello che era successo.
“E adesso che cosa vogliono farne di me?” Chiese Noah, all'improvviso.
Iatho sentì fisicamente l'allegria scivolargli di dosso. Se lo strinse contro un po' di più e si sistemò meglio sulla branda scomoda. “Ti tengono in vita perché vogliono che tu li aiuti.”
L'angelo piegò la testa di lato e lo guardò con occhi interrogativi. “Aiutarvi in che senso?” Chiese.
Iatho non si stupì della sua ingenuità, anche perché quello che aveva davanti non era un angelo soldato e non era uno di quelli che, ai piani alti, prendevano le decisioni a nome dell'Altissimo. Noah era un angelo custode, che non aveva una vera e propria concezione del mondo se non quella limitata ed esclusiva che riguardava solo lui e le persone che proteggeva. Di certo non ne sapeva un accidenti di strategia militare, di prigionieri e del perché le persone catturate venissero o meno uccise. Per altro si chiedeva se applicasse ai suoi protetti lo stesso ragionamento che applicava a lui: li avrebbe uccisi se li avesse trovati in battaglia? Fece a meno di domandarglielo, comunque. “Il Consiglio vuole sapere come funziona il vostro esercito e quali sono i vostri piani,” spiegò meglio. “E' disposto a scambiare la tua libertà con i dettagli sull'armata angelica.”
Noah si sollevò seduto e Iatho lo seguì a ruota. “Quindi dovrei fare la spia,” esclamò.
“Sì,” ammise il vampiro e abbassò la voce. “Ma non ti hanno chiesto niente di specifico perché non sanno cosa chiederti. Di' qualcosa, qualcosa che non vi metta troppo nei guai e falla sembrare importante. Andrà bene e ti lasceranno andare.”
Noah espirò dal naso. Iatho gli stava talmente vicino che sentì proprio lo sbuffo caldo. “Lo stai facendo di nuovo,” lo rimproverò.
“Cosa sto facendo di nuovo?”
“Stai mettendo me prima dei vampiri,” ripeté l'angelo per l'ennesima volta. “Io non lo farei, quindi non farlo nemmeno tu.”
Pur quasi del tutto atrofizzato, il cuore di Iatho si strinse un po', ma cercò di non darci peso. D'altronde Noah era cocciuto e veniva pure indottrinato con quella fesseria da secoli, non ci si poteva aspettare che cambiasse idea nel giro di qualche mese – o di anni o ere geologiche, probabilmente –, combinazione letale per qualunque tentativo di convincerlo a fare qualcosa che non voleva. Noah tendeva a non scostarsi mai da quello che gli era stato insegnato, se non dopo una lunga opera di convincimento. E se decine di notti faticosamente passate a ridurre la distanza fra di loro erano di una qualche indicazione, allora lui ne sapeva qualcosa. “Metto te e i vampiri sullo stesso piano,” sentenziò. “Questo almeno posso farlo?”
“No, non puoi,” rispose l'angelo. “Ad ogni modo non è importante, perché io non parlerò.”
“Ti uccideranno,” ribadì Iatho.
Noah abbassò lo sguardo. Non è che volesse morire, gli angeli non erano programmati per desiderare la morte o il suicidio, ma avevano priorità ben precise e così semplici che proprio non capiva come Iatho non potesse vederle. Anche lui avrebbe voluto che ci fosse un'altra soluzione, ma era evidente quanto fosse più importante salvare la razza degli angeli, piuttosto che un angelo solo. Non avrebbe nemmeno dovuto spiegare le sue motivazioni. Nessun altro angelo le avrebbe chieste. Sollevò una mano per accarezzargli una guancia, ma Iatho lo scostò, alzandosi con irritazione. “Tu preferisci morire,” sibilò furioso. “Io ti chiedo di aiutarmi a liberarti e tu preferisci morire! Che cosa ti costa prendere tempo perché i tuoi possano chiedere un dannato scambio?”
Noah era perfettamente sereno, ora. Era inginocchiato sul materasso, le mani appoggiate composte sulle cosce, e lo guardava con affetto. “Nessuno chiederà niente, Iatho,” gli rivelò. “Per loro sono perso, ed è giusto che sia così.”
“Che significa che sei perso?”
“Che non mi cercheranno e non tenteranno di riavermi indietro,” specificò Noah, con una lucidità e una calma quasi inquietanti. “Sarà come non mi avessero fatto prigioniero, perché non esisto più.”
Iatho coprì la distanza che li separava con due passi veloci e gli fu addosso all'improvviso, ma Noah non sussultò nemmeno. “Tu vuoi dirmi che ti hanno abbandonato qui ma tu comunque non vuoi parlare?” Gli chiese a muso duro, parlandogli a due centimetri dal viso.
“Non possono fare altrimenti, tentare un accordo potrebbe essere rischioso. Così facendo, invece, vi tolgono l'unica arma che avete per manovrarli: me.”
“Se tu parlassi, questo ragionamento non avrebbe senso,” gli fece notare.
Noah emise una risatina leggera, venata di qualche cosa di molto simile alla pietà, che fece imbestialire il vampiro. “Ma io non parlerò,” disse semplicemente. “Né ora né mai.”
“Anche se ti lasceranno a marcire, qui?”
“Anche se dovrò morire, sì,” Noah annuì con calma, socchiudendo appena gli occhi. Il vampiro emise un forte ringhio e si allontanò, sbattendo le mani contro le sbarre della cella per la frustrazione. Noah sospirò e gli tese una mano perché si avvicinasse di nuovo, ma lui non lo fece. “Iatho, so che per te è difficile da capire, ma sono la mia gente e non li tradirò. Ho disobbedito con te quando e nella misura in cui potevo farlo senza causare del male a nessuno, ma adesso è diverso. Devo pensare a tutti i miei fratelli.”
“E a me non ci pensi?” Esclamò. “Quando tu sarai morto, io che cosa dovrei fare? Guardare il cielo e rallegrarmi perché almeno gli altri angeli sono ancora vivi?”
Noah lo guardò triste. “Ricorderai che l'ho fatto perché amavo i miei simili e che sapere di non averli traditi mi rendeva orgoglioso.”
“E perché questo dovrebbe consolarmi, quando è evidente che ami l'universo creato ma non me?” Esclamò Iatho, allargando le braccia, sconvolto.
“Questo non è vero,” gli occhi di Noah si fecero più dolci e la sua voce più tenera e quando tese di nuovo la mano, stavolta Iatho si avvicinò e la tenne stretta tra le sue. “Io ti amo, è solo che ci sono cose più grandi di noi.”
Iatho sembrò rassegnarsi. Noah si alzò in ginocchio e gli prese la testa fra le mani. Strusciò il naso lungo il suo collo e il suo viso, e per un attimo sembrò che fosse una notte come le altre, appena fuori dalle mura della città degli angeli. Si baciarono a lungo, piano come se ci fosse tutto il tempo del mondo ad aspettarli fuori da quella cella, ma Iatho avrebbe voluto urlare. Serrò disperatamente le dita intorno alla sua vita e strizzò forte gli occhi, finché non fu Noah a sciogliersi gentilmente da quell'abbraccio. “Ora va da Lord Zenir e digli perché non posso fare quello che mi ha chiesto tanto gentilmente.”

*


Iatho aveva chiesto, aveva perfino implorato il Consiglio di aspettare, di dargli un'altra possibilità di convincere l'angelo a parlare; non importava che avesse ormai compreso che non ci sarebbe mai stato modo di riuscirci, erano solo loro che dovevano crederci. Si appellò a Lord Zenir e quello cercò di sostenere la sua causa, ma il Consiglio non volle starli a sentire. Avere un angelo vivo nell'accampamento li rendeva nervosi e, se non potevano nemmeno trarne vantaggio, allora lo volevano morto il prima possibile. Inoltre, l'uccisione dell'angelo rientrava nella condanna di Iatho, per il quale espiare le proprie colpe con la morte non era evidentemente sufficiente.
L'esecuzione fu fissata al tramonto di due giorni dopo e si stabilì di procedere con la decapitazione, in modo dal rendere tutto il più veloce e meno truculento possibile. Noah fu portato di fronte al boia dentro una gabbia. Trovargli una tunica era stato impossibile, così Iatho gli aveva fatto avere una delle sue maglie e un paio di pantaloni; era la prima volta in assoluto che indossava qualcosa di diverso da una tovaglia bianca drappeggiata con una spilla.
Noah si sarebbe trovato a disagio con le gambe così costrette, se con la mente non fosse stato altrove, così lontano da dimenticarsi dov'era veramente. Pensava a casa, ai colori tenui del giardino e alle stanze bianche e calde che lo avevano ospitato per così tanti anni. Chiuse gli occhi quando lo trascinarono per i tre scalini del palco. La sua maglia aveva il profumo di Iatho, così gli sembrava un po' che fosse lì insieme a lui. Il Consiglio lo condannò come prigioniero di guerra, e lui cercò Iatho tra la folla. Mentre lo costringevano a piegare la testa sul ceppo, lo vide che si agitava cercando di liberarsi dalla stretta di Lord Zenir che lo teneva fermo per impedirgli di correre da lui. Isolò la sua voce tra le molte che invocavano la sua morte, cercò di concentrarsi su quanto fosse bella e calda, e su quanta gioia gli avesse dato fino all'ultimo istante, piuttosto che sul dolore che la riempiva. Cercò di sorridere e pregò che Iatho potesse perdonare tutti quelli che avrebbe odiato dopo la sua morte. Quando il boia calò la scure, era pronto e non ebbe paura.
Fandom: !Originali
Pairing:
Personaggi: Iatho, Noah, Lord Zenir, Garkos, vampiri, angeli, maghi e cavalieri
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico, Guerra, Fantasy
Avvisi: Slash, Violenza, Angst
Rating: R
Note: Questa storia è chiaramente ispirata all'ambientazione in cui si sta svolgendo il COW-T di maridichallenge e fiumidiparole, e trae spunto dalla prima settimana di gioco, durante la quale la Veggente (che qui viene citata, ma non è un mio personaggio) ha rivelato ai rappresentanti delle quattro fazioni che l'unica soluzione per stabilire chi comanda è ammazzarsi di botte.
Naturalmente questa è una mia libera interpretazione della faccenda, non so se i tre amministratori avessero in mente un mondo di questo tipo, io ci ho solo fantasticato su per divertimento e per potare a casa punti per la squadra dei vampirli (prompt: Guerra). Iatho e Noah sono nati mentre parlavo con Liz, anche se allora erano diversi, senza nome molto più tondi e di sicuro meno epici, ma si sa che le vie del writing sono infinite e quindi, come al solito, hanno fatto quello che hanno voluto.

Riassunto: Dopo che la Veggente ha rivelato che non può esserci pace tra i quattro popoli, un vampiro si trova a dover difendere i suoi stessi sentimenti oltre alla vita dei suoi simili.
ALL THE ARMS WE NEED ARE FOR HUGGING


Nella luce tremolante delle candele, la stanza sembrava muoversi.
Iatho osservò le ombre aprirsi e chiudersi sulle pareti come il respiro di una qualche immensa bestia che li avesse inghiottiti e nelle cui viscere si fossero ridotti a vivere per sfuggire alla luce del giorno.
Aldilà della vetrata, il sottosuolo si estendeva cinereo e spento per miglia, illuminato soltanto all'orizzonte da un chiarore lattiginoso e opaco, pallido riflesso della gloria del tramonto che avveniva in superfice. Provò ad immaginare il sole che si immergeva dietro le montagne per venir inghiotto dalle tenebre che lo avrebbero nascosto fino all'alba, ma non sapeva quanto accurate fossero le sue fantasie.
“Non è poetico?” Disse, senza voltarsi. “Per metà del giorno siamo custodi di una stella che non ci è permesso vedere.”
“Perchè essa ci ucciderebbe,” replicò sbrigativa la figura alle sue spalle, immobile sulla porta.
Iatho sorrise appena. Si voltò per osservare il suo ospite e poi tornò a guardare fuori dalla finestra. “Non lei, Garkos. La sua luce.”
“Ai miei occhi non c'è molta differenza,” commentò l'altro, liquidando il discorso prima che diventasse una delle solite discussioni infinite che, in più di ogni occasione, avevano rischiato di ammazzarlo di noia. Fece qualche passo avanti nella stanza e si fermò alle sue spalle. “Lord Zenir è tornato. Perché non eri all'assemblea?”
“Perché non ne avevo motivo,” rispose Iatho, piegando la testa all'indietro per scoccargli un'occhiata impertinente, che tradiva la sua età molto più dell'aspetto ancora tragicamente umano. Ci sarabbero voluti almeno altri due secoli prima che il colore gli abbandonasse del tutto le guance e le labbra, e gli occhi perdessero quella scintilla di vita che, come una stella morta da tempo, continuava ancora a brillare ignara del proprio stato. La vita che persisteva tenace anche dopo la morte. Per molti era un risvolto tragico ma romantico in cui crogiolarsi per assecondare l'immagine che il mondo aveva dei vampiri, per Garkos era soltanto una seccatura, nonché il motivo principale per cui soltanto pochi dei più giovani sopravvivevano abbastanza a lungo da farsi le ossa.
“Lord Zenir ha fatto visita alla Veggente e ha riportato notizie di fondamentale importanza,” insistette con pazienza.
Iatho sospirò, chinando la testa. “Non fatico ad immaginarle,” mormorò.
“Iatho-”
“Garkos,” gli fece il verso, stancamente. Si guardarono per un lungo istante e poi Iatho lasciò ricadere le spalle e si sedette sul rientro della finestra, come se all'improvviso non avesse più voglia di mantenere quell'atteggiamento. “Avanti, dillo.”
“La Veggente sostiene che dobbiamo combattere.”
Iatho scosse la testa, abbattuto. “D'altronde, la guerra finora ci ha portato alla vittoria. Perché non continuare?”
Garkos ignorò quel commento ironico, attribuendolo alla sua giovane età e anche alla buona dose di sfacciataggine che aveva sempre posseduto. Sperava soltanto che prima o poi non esondasse in maniera inopportuna di fronte a chi non l'avrebbe accettata. “Lord Zenir ti vuole nella sua guardia,” precisò, così che fosse chiaro che cosa ci si aspettasse da lui.
Iatho annuì. “Ci sarò, non preoccuparti.”
Aveva con Lord Zenir un debito che risaliva alla sua creazione, e provava per lui un rispetto – se proprio non si poteva parlare di affetto – che lo portava ad eseguire i suoi ordini anche se non sempre ne condivideva gli obbiettivi. All'inizio combattere era esaltante; in vita era stato un cavaliere, o almeno stava per diventarlo prima di venire morso, la battaglia era stata tutta la sua vita. Ma adesso, con duecento anni sulle spalle che non aveva mai previsto di vivere, l'idea di una guerra non lo esaltava più così tanto. Era stanco. Avrebbe combattuto, naturalmente, perché Lord Zenir lo voleva, ma non ne vedeva l'utilità e non avrebbe dimenticato di dirglielo non appena si fossero visti.
Garkos annuì, soddisfatto. “Il tuo contributo sarà essenziale per...”
“Sì, lo so,” tagliò corto Iatho. “Come sempre.” Alzò gli occhi al cielo e scosse al testa, scivolando giù dal rientro della finestra con fare annoiato.
L'altro vampiro s'incupi. “Ci metteremo in marcia domani al calare del sole,” disse burbero, ma c'era qualcosa nella tristezza di Iatho che gli impediva di rimanere irritato con lui troppo a lungo. Gli appoggiò una mano sulla spalla in un gesto gentile. “Farai meglio a riposarti, dovrai essere in forze.”
Iatho annuì e fissò lo sguardo sull'ultimo baluginio di tramonto che rendeva la luce leggermente più bianca. Il buio all'esterno era ormai quasi completo.

*


Nel regno angelico, la notte non era davvero buia, ma puntellata di piccole stelle e la luna era sempre piena, un disco enorme e potente, che avvolgeva ogni cosa nella sua luce lattiginosa e rassicurante. Eppure aveva anche lei le sue ombre, ed erano più profonde, più oscure e spaventose di quelle del giorno. Guardandole si aveva l'impressione che, a lasciarsi andare al loro interno, in quel buio si potesse anche scomparire per sempre.
Noah ne era spaventato e affascinato insieme. La quiete silenziosa della notte lo attirava come una calamita, ma non camminava mai nelle zone d'ombra, lo facevano rabbrividire. I suoi passi seguivano il sentiero di stelle che aveva sopra la testa, che come fiammelle di candela lo facevano sentire meno solo mentre attraversava di corsa il bosco, diretto al confine.
Il perimetro era pattugliato dall'esercito al comando degli Hashmallim, le Dominazioni, e nessuno aveva il permesso di varcare le porte angeliche dopo il tramonto, ma Iatho gli aveva insegnato come sfruttare i tempi morti del passaggio delle guardie per muoversi indisturbato.
Noah sapeva che quella era una cosa sbagliata e che non avrebbe dovuto farla, ma era anche consapevole che Iatho gli aveva insegnato cose che violavano ben altre regole, e pertanto si giustificava pensando che pentirsi per le piccole cose non serviva a niente se poi ne faceva di peggiori; e per quelle non riusciva a pentirsi. Era un pessimo angelo, sapeva anche questo.
Raggiunse la fine del bosco, quindi si guardò intorno per controllare che non ci fosse nessuno. Quando fu sicuro che la guardia che aveva appena girato l'angolo continuasse per la sua strada, spalancò le ali e le sbattè un paio di volte per scuoterle dal torpore prima di librarsi in volo e superare con un salto l'alto muro di cinta. Le richiuse lentamente non appena poggiò i piedi sull'erba dall'altra parte, e si guardò intorno con apprensione.
Fuori dal regno, era sempre nervoso. Tutto sembrava più ostile senza la luce di Dio.
“Stai cercando qualcuno?”
Trasalì, voltandosi di scatto ma non fece in tempo a vedere chi aveva parlato perché le ali si chiusero subito intorno al suo corpo, per proteggerlo. L'aria si era improvvisamente saturata di energia negativa, era come venire tempestato da tante piccole scosse elettriche, capaci di superare la barriera delle sue ali e infilarsi sotto pelle. Da dietro lo schermo delle proprie piume sentì una risata divertita ma gentile, e subito dopo una carezza leggera che lo arruffò. “Noah, sono io,” disse la voce. “Apri.”
Noah dischiuse le ali molto lentamente e poi le ripiegò con cura dietro la schiena prima di alzare finalmente gli occhi azzurri sulla persona che gli stava davanti. I suoi strettissimi boccoli biondi ondeggiarono come molle. “Ciao, Iatho.”
Il vampiro si esibì in un mezzo sorriso storto, cercando di non ridere. “Ciao a te,” mormorò.
Noah continuava a sentire la sua energia sulla pelle, e ne era attratto e spaventato esattamente come dalla notte. Desiderava allungare una mano e toccarlo, ma l'istinto lo teneva lontano; così non si muoveva. A Noah sembrò di restare immobile per un sacco di tempo. Sentiva i muscoli tesi e le gambe quasi tremavano per la voglia di fare un passo rimasto a metà e impedito dalla certezza che la forza che lo chiamava era pericolosa. Seguire il cuore era una questione complicata quando l'istinto e la logica ti dicevano l'esatto opposto; e sembrava non migliorare col tempo. Ad ogni incontro, fosse anche solo di sguardi, era sempre la stessa storia.
Iatho continuava a sorridere. Avvisato da un fremito impercettibilmente più forte degli altri, aprì le braccia per accoglierlo nell'istante esatto in cui Noah cedette e gli si gettò addosso, nascondendogli il viso nel petto. “Non pensavo che stanotte non saresti venuto,” disse in un mugolio.
Iatho passò le dita fra i riccioli biondi, posandogli un bacio sulla sommità della testa. “Perché non avrei dovuto?” Chiese.
“Perchè siamo in guerra!” Esclamò Noah, scostandosi, ma senza andare troppo lontano. Strinse le dita bianchissime intorno alle cinghie della sua maglia.
Iatho lo sentì tremare, non sapeva se per veemenza o per paura, ma conoscendolo era più probabile la seconda. Per quanto lo riguardava, era inconcepibile che creature perfette come gli angeli, che avevano la possibilità e l'onore di guardare il volto di Dio, dovessero vivere in una costante situazione di panico. Lo portava a pensare che il Paradiso non fosse poi così diverso dalla landa desolata in cui viveva lui, dove era facile commettere errori e doverne pagare le conseguenze. E questo era profondamente sbagliato. Una certezza in più – quella che in Paradiso ci fosse amore infinito – che si sgretolava.
“Tecnicamente,” gli disse prendendolo per mano e sedendosi con lui nell'erba. “Non siamo ancora in guerra. Non fino a domani notte, almeno.”
Noah abbassò lo sguardo con un piccolo gemito. Sistemò la tunica bianca sui pantaloni e si strinse di più accanto a Iatho. Faceva freddo lontano da casa. “Combatterai?”
Noah aveva il profumo e il calore delle cose vive, ma non era affatto come gli esseri umani. Tutto in lui era più intenso e vivace. Il suo cuore batteva ad un ritmo del tutto diverso e il suo sangue era più denso, scorreva lentamente. Iatho riusciva a seguirne con le dita il percorso sotto la pelle, mentre gli accarezzava il collo distrattamente. “Non ho molta scelta,” rispose.
“Stavolta ci sarò anch'io,” annunciò Noah.
Il vampiro si chinò su di lui, sorpreso. “Che cosa?” Chiese sconvolto. “Che cosa c'entri tu?”
Le gerarchie angeliche erano molto rigide, e dalla punta della piramide fino alla base i compiti erano stabiliti con estrema precisione. Noah non aveva mai combattuto, era un angelo custode – o almeno Iatho credeva – e non spettava a lui scendere in campo.
“La situazione è disperata,” spiegò l'angelo, stringendosi nelle spalle senza trovare la forza di voltarsi verso di lui. “La Veggente dice che non c'è altra soluzione che la guerra, e voi ci superate di numero da secoli, ormai.”
Questo perché distruggere un angelo era molto difficile ma crearlo lo era altrettanto, così non perdevano molti elementi, ma, se capitava, rimpiazzarli era impossibile per decine di anni.
“Tu non sei un guerriero,” esclamò, scuotendo la testa.
Noah rise, riempiendo l'aria di un suono che a Iatho avrebbe dovuto essere precluso. “No, affatto,” si mise supino, voltando il viso verso di lui. “Ma è come hai detto tu: non ho molta scelta.”
“Potresti...”
“Rifiutarmi? Non mi è consentito.”
“Scappare,” Iatho corresse il tiro. “Non tutti combatteranno e di certo non avrai problemi a trovare qualcuno che possa nasconderti. Sei un angelo, almeno questo dovrebbe servirti a qualcosa.”
Lo sguardo con cui Noah lo guardò era pieno di tenerezza. “Tu lo faresti?” Chiese. “Lasceresti i tuoi fratelli nei guai?”
Quando era umano e poco più che un ragazzino, il villaggio di Iatho era stato attaccato dai vampiri. Gli abitanti avevano cercato rifugio nella chiesa, senza rendersi conto che le sue mura potevano fare ben poco per loro. Lui li aveva visti attaccare, non era ancora entrato, avrebbe potuto fuggire; ma là dentro c'era la sua gente e così era rimasto. Era rimasto a combattere finché i vampiri non lo avevano sopraffatto. Qualche tempo dopo, quando tutto quello che sapeva di se stesso aveva smesso di contare per lasciare spazio alla sua natura di vampiro, aveva fatto la stessa cosa. Avrebbe sempre impedito fino alla morte che qualcuno facesse male ai suoi simili, quali che fossero. I suoi valori erano sempre gli stessi, era cambiata solo la prospettiva dalla quale guardava la situazione. “No,” ammise. “Non lo farei mai.”
“Allora sai quello che provo,” concluse Noah, con la voce gentile.
“Potresti morire,” commentò lui, tetro.
“Io o un altro, non fa differenza,” sospirò Noah. “Abbiamo tutti le stesse possibilità.”
Iatho sbuffò. “Tranne quelli con la spada fiammeggiante che ne hanno di più,” esclamò sarcastico. “Non dovresti combattere.”
“Perché io no? Che cos'ho io in più dei miei fratelli?” Noah sorrise. “Non ho nessun diritto di essere salvato a dispetto di tutti gli altri.”
“Degli altri non m'importa,” mormorò Iatho.
“E di me?” Domandò l'angelo, allungando una mano ad accarezzargli una guancia.
Iatho si abbandonò a quella carezza, ne cercò il calore con le labbra e posò un bacio sul palmo della sua mano, esitando sulla carne tenera del polso. “Di te mi importa, invece,” inspirò profondamente.
Sentiva il sangue pulsare contro le labbra, appena sotto la superficie, e vi poggiò sopra la bocca aperta, facendo un tentativo e sfiorandolo con le zanne appuntite.
“Fallo piano,” mormorò Noah dolcemente, quando il vampiro cercò il suo permesso con gli occhi foschi e il respiro affannato. L'angelo chiuse gli occhi mentre Iatho affondava i denti nel suo polso. Le due punture gli strapparono uno sbuffo sorpreso che si trasformò in un gemito di piacere non appena l'altro iniziò a bere.
Il dolore del morso scivolò subito fuori dal suo corpo insieme al sangue e non restò altro che quel desiderio caldo e fortissimo che lo prendeva allo stomaco e in mezzo alle gambe dove non avrebbe affatto dovuto, che lo faceva stringere convulsamente le dita intorno alla stoffa della sua maglia per tirarselo contro il più possibile. Gli si abbandonò addosso mentre Iatho gli stringeva il braccio con entrambe le mani, cercò il collo pallido del vampiro e vi strusciò contro il naso, la guancia e la bocca. Gemette qualcosa di incomprensibile e gli nascose il viso contro il petto, chiamandolo per nome.
Iatho si fermò prima di potergli fare del male e Noah si tirò su goffamente, gli artigliò le spalle e gli cinse il collo, coprendogli la bocca con la propria alla ricerca di un qualche tipo di soddisfazione, per quanto inadeguata. Lo copri di baci isterici assaggiando il suo stesso sangue, finché quel calore non lo abbandò un po' alla volta fino ad estingersi del tutto.
Iatho lo aiutò a tornare seduto nell'erba, accanto a lui. “Tutto bene?” Chiese osservandolo attentamente. Con gli occhi neri di nuovo lucidi e la testa piegata di lato sembrava un rapace.
Noah annuì, scuotendo i riccioli. “Il mio cuore batte velocissimo,” mormorò.
“Il mio batte,” Iatho si strinse nelle spalle.
“Lo sento.” Noah sorrise, appoggiando la mano aperta sul suo petto. Era uno suono quasi impercettibile, ma adesso c'era. Sarebbe stato bello non essere il solo a considerarlo un piccolo miracolo.
In teoria, ogni passo fatto in direzione di Iatho era sbagliato, eppure ciò che ne conseguiva era sempre piacevole. Noah aveva imparato a convivere con la contraddizione, anche se continuava a non capirla.
Da qualche parte, un orologio annunciò le cinque del mattino. Iatho guardò la striscia di luce che colorava l'orizzonte. “Devo andare.”
Si alzò in piedi e poi tese la mano per aiutarlo a fare lo stesso. Noah si pulì dai fili d'erba e tirò bene le maniche della tunica perché coprissero i segni.
Iatho se lo strinse addosso a lungo, annusando il suo profumo. Poi gli sciolse la cintura azzurra che teneva in vita e la prese con sè. “Domani cercami sul campo di battaglia,” gli ordinò fissandolo dritto negli occhi e, quando lui volse lo sguardo altrove, lo scosse con decisione. “Noah, mi hai capito? Cercami. Ce l'avrò legata al polso.”
L'angelo sorrise. “Andrà come è giusto che vada,” disse.
“Noah!”
“Buona fortuna,” gli augurò con un ultimo bacio prima di spingerlo lontano da sé. “Ora vai, sta sorgendo il sole.”
Iatho guardò l'orizzonte che si faceva sempre più chiaro e guardò Noah che gli sorrideva, ben sapendo che non aveva alcuna intenzione di cercarlo l'indomani. Serrò i pugni e poi fu costretto a correre via, prima che l'alba lo cogliesse lontano dal sottosuolo.
Sarebbe andata com'era giusto che andasse, purchè fosse come voleva lui.

*


Se l'alba li drenava di ogni forza, il tramonto gliela restituiva, come se per vivere di notte dopo la morte dovessero consegnare quell'alito di vita in pegno al giorno, prima di coricarsi.
Iatho guardava le truppe vampiriche schierarsi sulla piana nel più assoluto silenzio. Nessuno di loro indossava una vera e propria armatura – che li avrebbe impediti nei movimenti, risultando per altro inutile agli strali degli angeli che trapassavano qualsiasi cosa – ma soltanto una specie di corazza robusta che gli copriva il petto per evitare i colpi diretti di lama al cuore, che avrebbero posto fine alle loro vite quasi istantaneamente.
Iatho stava legando la propria, quando Garkos gli si avvicinò già in assetto da guerra; non lo avrebbe sorpreso scoprire che si era svegliato prima degli altri, sole permettendo, e che fosse pronto da ore. “Salute, Iatho,” disse impettito, per poi sospirare alzando gli occhi al cielo ed aiutarlo a legare bene la corazza.
“Potevo farlo da solo,” protestò il vampiro più giovane.
“Certo, e farti ammazzare,” esclamò Garkos, tirando le cinghie con forza e facendolo sobbalzare. “La corazza dev'essere allacciata in modo tale da aderire al corpo e muoversi con esso. Se lasci uno spazio, lo useranno per impalarti.”
Iatho non rispose ma finì per aggrapparsi al tavolo che aveva davanti, felice di non dover respirare. Guardò la striscia rossa del tramonto all'orizzonte, il sole non era ancora calato del tutto. Mancava mezz'ora, forse anche di più. Non aveva nessuna voglia di combattere. Non ne aveva avuta durante le guerre passate, non ne aveva adesso che questa si prospettava infinita. Un tempo combattevano in attesa di una soluzione. Adesso che la Veggente aveva rivelato che non ce n'erano, tutti avrebbero smesso di cercarle e si sarebbero limitati a combattere fino a sterminarsi a vicenda. Il problema era che lui non credeva che questo sarebbe mai successo. Anno dopo anno, gli esseri umani continuavano a nascere e ad essere addestrati per diventare cavalieri oppure maghi, e buona parte di essi veniva trasformata in vampiro. In quanto agli angeli, potevano perdere ma morivano poco, e così ci sarebbero sempre stati.
“Lord Zenir vuole vederti prima dell'inizio della battaglia,” gli annunciò Garkos, interrompendo i suoi pensieri e rimettendosi composto al suo fianco, con le mani dietro la schiena.
Iatho saggiò le cinghie della corazza, quindi si legò i capelli in una lunga coda nera. “Andrò da lui immediatamente,” disse. Stava per allontanarsi, quando si rese conto che non avrebbe avuto il tempo di parlare di nuovo con Garkos prima dell'attacco. Così gli strinse una spalla e gli fece un cenno con la testa. “Riporta a casa il cuore,” gli augurò.
“Riporta a casa il cuore anche tu,” rispose il più anziano.
Lord Zenir era ancora nelle sue stanze, perciò Iatho dovette attraversare metà dell'accampamento per raggiungere la sua tenda e venire accolto dai ringhi poco amichevoli di due soldati della guardia che controllavano l'entrata e che, evidentemente, non erano stati avvisati che adesso anche lui era uno di loro.
Istintivamente, snudò le zanne e si mise a ringhiare a sua volta. Una delle due guardie fece un passo avanti nella sua direzione, flettendo le dita pronto a saltargli alla gola, se necessario.
Lord Zenir fu evidentemente richiamato dal rumore basso e continuo che proveniva dalle loro gole, perché comparve scostando i lembi della tenda. “Che succede qui?” Chiese, guadandoli tutti e tre. Le due guardie e Iatho si ricomposero.
“Signore, il ragazzo vi avrebbe disturbato.”
“Fatelo passare,” ordinò, burbero. “Da oggi in poi anche lui fa parte della guardia.”
I due bestioni si fecero da parte e Iatho passò in mezzo a loro con lo sguardo più scuro di quando era arrivato. Quando entrò, Lord Zenir era seduto dietro alla sua scrivania. “Perdonali Iatho,” si scusò. “Sono un po' troppo apprensivi.”
“Fanno il loro lavoro,” commentò, guardandosi intorno. La tenda era piuttosto grande, ma completamente spoglia a parte il tavolo e due sedie. Lord Zenir non aveva dormito lì, pensò Iatho senza un motivo preciso. Neanche la terra era smossa. “E dovrò farlo anch'io, a quanto pare. Perché mi vuoi nella guardia?”
Il capo dei vampiri sospirò pensoso. “Vorrei averti al mio fianco,” disse alla fine.
“Vuoi tenermi d'occhio,” lo corresse Iatho con un mezzo sorriso sarcastico.
“Voglio che non ti succeda niente,” precisò Zenir.
Iatho alzò gli occhi al cielo. “Questa non è la mia prima battaglia, né la prima guerra. Me la caverò.”
“Quello che ci aspetta è diverso da qualsiasi cosa abbiamo mai affrontato prima, Iatho,” insistette Lord Zenir con voce conciliante. “Questa non è più una guerra, ma un massacro. Gli angeli saranno più agguerriti.”
“E così anche noi.”
Zenir socchiuse gli occhi per un istante. “Iatho, ti prego, non devi dimostrare niente a nessuno.”
Il vampiro emise un ringhio contrariato. “Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno” esclamò, deciso. “E soprattutto non del tuo.”
Lord Zenir non se la prese, anzi gli regalò un sorriso gentile e vagamente intenerito. “Non ho capito perché ti ostini a rifiutare il mio patronato,” commentò incredulo. “Non saresti né il primo né l'ultimo ad avere la protezione di un vampiro più antico di te.”
“Non è la protezione il problema” replicò malamente Iatho, incrociando le braccia al petto e guardando altrove.
Lord Zenir lo guardò con un po' di rammarico. “Lungi da me sminuire il tuo valore agli occhi degli altri,” sospirò abbassando le spalle. “Non è per sfiducia nelle tue abilità che ti voglio nella guardia. D'altronde non affiderei la mia vita a persone incapaci.”
Iatho non rispose. Si rinchiuse in un mutismo ostinato e fiero, serrando la mascella e guardando fisso un punto alle spalle dell'altro vampiro.
Lord Zenir rimase per minuti interi in attesa di un qualche segno di apertura da parte sua ma non ne arrivarono, così alla fine ci rinunciò. “Ti sei nutrito?” Chiese.
Sembrò che il timido rossore sulle guance di Iatho si facesse più intenso. “Sì,” rispose, con lo sguardo sempre fisso a quella minuscola macchiolina sulla stoffa della tenda mossa dal vento.
“Quando?”
“Ieri,” rispose. Il suo pensiero corse alla notte precedente e alle stelle nel cielo sopra la città celeste. Il sangue di Noah era più potente del sangue umano, e molto più resistente. Infuso della grazia di Dio, ne portava il miracolo, seppur in minima parte, così i suoi effetti erano più duraturi e più concreti. Dopotutto, le alte sfere avevano il potere della resurrezione e i vampiri erano morti, non poteva essere più semplice di così. Iatho si sarebbe sentito potente e invincibile per altri due giorni ancora, senza dover soddisfare il bisogno di nutrirsi di nuovo prima di altri cinque. Anche se non era quasi mai la fame a spingerlo a bere da Noah.
“Dovresti nutrirti di nuovo prima della battaglia,” insistette Lord Zenir. “Devi essere in forze.”
“Lo sono,” lo rassicurò.
Lord Zenir lo osservò con attenzione. Notò la pelle rosea e lo sguardo vivo. Perfino le sue labbra non avevano l'aspetto ruvido e ingrinzito che in genere preannunciava la sete ma erano piene e rosse e lucide, come fossero umide. I suoi occhi indugiarono sui polsi magri e sulla stoffa azzurra che era legata stretta intorno ad uno di essi. Tutto era chiaro ora.
Il vampiro più giovane sfidò il suo sguardo non ritraendo la mano.
“Iatho...” mormorò Zenir senza nessuna rabbia nella voce, ma la stessa traccia di stanchezza che si portava dietro dall'inizio di quella discussione. “Credevo ne avessimo già parlato.”
“Lo abbiamo fatto.”
Lord Zenir batté di colpo il pugno sulla superficie della scrivania. Iatho sussultò. “Dannazione! C'è un motivo se ti ho chiesto di smetterla.”
“Mi dispiace,” rispose lui, deglutendo. “Sai che non posso farlo.”
Lo scoppiò d'ira si esauri com'era arrivato, e Lord Zenir tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia, portando le mani in grembo pensosamente. “In tempi come questi è meglio che tu non costringa la gente a chiedersi dove sta la tua lealtà,” mormorò.
“La mia lealtà sta con i vampiri,” protestò Iatho con decisione.
Lord Zenir si rese conto che quella situazione cominciava a scivolargli tra le dita come sabbia, e che non aveva avuto il coraggio neccessario a stringere la mano. “Cerca di ricordarlo quando calerà il sole.”
“Non lo dimentico mai,” replicò Iatho.
Il capo dei vampiri abbassò lo sguardo. “Questa storia è finita ieri sera,” esclamò autoritario. Iatho cercò di replicare, ma non gliene dette il tempo. “Ora va', la battaglia sta per cominciare.”
“Agli ordini.” Iatho ringhiò, lasciando la stanza furioso.

*


Iatho affondò le unghie nel petto del cavaliere, trapassò ossa e muscoli ed estrasse il cuore ancora palpitante per gettarlo lontano. Il cavaliere non ebbe il tempo di reagire. Il suo corpo si accasciò come quello di una bambola, con le ossa del torace esposte e la bocca aperta nell'ultimo grido che non aveva avuto il tempo di emettere. Lasciò il cadavere per gettarsi subito addosso ad un mago poco più avanti che con le mani cullava una sfera di energia violacea, pronta per essere lanciata su un gruppo di vampiri poco più avanti. Erano state lanciate molte sfere come quella nel corso delle ultime ore. Lui e i suoi simili avevano imparato a temerle, perché sembravano soltanto sollevarsi innocue nel cielo, per poi esplodere in una luce simile a quella del sole, che li accecava e bruciava loro la pelle, costringendoli a fughe disorganizzate ed esponendoli ai colpi dei cavalieri, che li mietevano come spighe di grano.
I due gruppi di esseri umani – maghi e cavalieri – avevano subito stretto alleanza per distruggere i vampiri. C'erano molti, fra di loro, che ancora avevano dubbi se attaccare o meno gli angeli. Per molti portava sfortuna, altri più folli credevano che l'ira delle creature celesti si sarebbe abbattuta solo su coloro che se lo meritavano – in parole povere qualche sporadico peccatore tra le fila umane e l'intera popolazione dei vampiri, naturalmente – ma cominciavano a ricredersi adesso che tra le fila angeliche, le spade infuocate non facevano distinzione di razza. Evidentemente la punizione divina si estendeva oltre il pensiero comune.
Gli angeli erano una macchina unica, i singoli inquadrati in file infinite di elementi apparentemente tutti uguali. Si muovevano in blocco, attaccavano insieme, erano inavvicinabili.
Un cavaliere fuori misura, con un elmo a forma di testa di leone si avventò su Iatho con tutto il proprio peso. Il vampiro scartò di lato e lo azzannò al collo, affondando i canini. Il corpo dell'uomo atterrò con un tonfo sordo, con lui sopra la schiena. Strappò la giugulare, sputandola subito dopo perché il sapore del sangue non lo trattenesse in un posto solo. Si stava muovendo nella calca di corpi intenti a combattere con un solo obbiettivo in mente, e non si sarebbe fermato.
Era una fortuna che, nel sottosuolo, il sole non calasse né sorgesse mai. Ne vedevano soltanto il riflesso sbiadito filtrare dalla superficie, rosa al mattino, più arancione al pomeriggio, e da esso potevano stabilire il passaggio del tempo. Combattevano da più di dodici ore, e non erano soltanto gli esseri umani ad essere stanchi. A volte con lo sguardo Iatho cercava Lord Zenir, cercava il capo dei maghi o quello dei cavalieri, e nessuno dei tre voleva cedere e dichiarare una pausa. Era una follia, come se quella battaglia da sola potesse decidere qualcosa.
Sentì la voce potente di Lord Zenir sollevarsi sul clangore delle spade e ordinare di serrare i ranghi. Alzò lo sguardo sul proprio obbiettivo – l'esercito angelico – e ringhiò contrariato, ma obbedì. Garkos attese il suo passaggio prima di chiudere il cerchio intorno a Lord Zenir, che portava sul viso i segni della stanchezza, ma sembrava non darle peso. Garkos invece era stato ferito. Iatho notò la lunga cicatrice che gli apriva la pelle da una spalla all'altra. Adesso si stava richiudendo, ma sul momento doveva quasi avergli staccato la testa. La bruciatura sul braccio, invece, sarebbe rimasta.
“E' tutto a posto?” Chiese il vecchio, sputando a terra.
Iatho annuì velocemente, ripulendosi il viso con il dorso della mano.
“Fintanto che teniamo a bada i maghi,” gli disse Zenir, chinandosi su di lui “I cavalieri non sono un grosso problema. Ne abbiamo fatti fuori a centinaia da questa parte.”
“E così hanno fatto loro con noi dalla parte opposta,” sospirò Iatho, guardando la devastazione che si apriva davanti ai suoi occhi.
“Stiamo resistendo,” gli fece notare Zenir.
Iatho non pensava che fosse una bella notizia. Si poteva resistere anche per sempre, volendo, ma non disse niente. Finse di controllare la situazione.
“Abbiamo trovato il punto debole degli angeli,” disse Lord Zenir dopo un po'. “Possiamo infliggere loro un duro colpo se ci muoviamo ora.”
Iatho ne dubitava. Per tutta la battaglia gli angeli erano stati praticamente intoccabili. Il numero dei loro morti era ridicolo rispetto al loro. Iatho aveva controllato quei cadaveri uno ad uno, fermandosi a studiarne bene i volti e annusando l'odore del loro sangue prima che svanisse in quello della morte per essere sicuro di quello che vedeva. Noah era ancora vivo. Noah era da qualche parte, mescolato alla luminescenza accecante di altre centinaia di creature come lui.
“Garkos ha studiato la formazione angelica,” continuava intanto Lord Zenir, osservando gli angeli che, poco distanti, avanzavano nella loro direzione. Per tutta la battaglia il loro esercito e quello dei vampiri non si era sfiorato che poche volte come se le due forze, le più potenti in campo, fossero tenute a debita distanza l'una dall'altra da quelle umane. “Un attacco frontale è impensabile, perché la testa dell'esercito è formata dal gruppo degli elementi più potenti, che assicurano e proteggono l'avanzata. Ma al centro ci sono gli elementi più deboli, stando a Garkos si tratta di angeli di basso livello, forse nemmeno soldati, e lo squadrone è totalmente sguarnito ai fianchi, il che significa che un attacco laterale ci permetterebbe di fare breccia nel blocco compatto e dividerlo.”
Iatho ascoltava in silenzio, osservando uno sporadico gruppo di cavalieri che si avventava sull'esercito angelico, sfruttando gli incantesimi di copertura lanciati dai maghi. La ferocia degli uomini durò solo qualche istante, prima che cadessero uno dopo l'altro sotto i colpi implacabili delle spade infuocate e degli strali degli angeli che si erano alzati in volto. Era evidente che le prime file fossero impenetrabili.
Immaginò il loro imminente attacco mentre Lord Zenir lo descriveva. Si sarebbero divisi in due gruppi e, sfruttando l'assalto dei maghi che teneva impegnata la testa dell'esercito angelico, lo avrebbero attaccato sui due lati. Con la giusta velocità, avrebbero infranto la debole barriera che ne proteggeva il cuore più debole. Lo squadrone si sarebbe spaccato in due, collassando momentaneamente. Gli elementi più forti sarebbero rimasti ma, con un po' di fortuna, la confusione del momento li avrebbe resi vulnerabili e anche gli altri due eserciti avrebbero colto l'occasione, giocando a loro favore. “Potrebbe funzionare,” esclamò.
“Funzionerà,” concordò Lord Zenir.
Garkos scelse quel momento per avvicinarsi e annunciare che non c'era più tempo ed era meglio agire finché gli angeli erano impegnati a combattere i maghi. “Bene,” annuì Lord Zenir. “Prendi metà degli uomini e dirigiti ad ovest. Io guiderò il secondo gruppo. Al mio segnale, attaccate. Iatho, tu verrai con me.”
Garkos annuì e sparì l'attimo successivo, abbaiando ordini ai suoi uomini.

*


Oltre l'orizzonte, l'alba avanzava lentamente.
La luce si era fatta rosata e polverosa, e la stanchezza aveva un nuovo peso per i vampiri. Non era la fatica a piegare le loro spalle e ad indebolire le braccia, ma il richiamo del sonno che s'insinuava sotto le palpebre e li invitava a tornare nel caldo abbraccio della terra. Iatho cercò di scrollarsi di dosso il torpore. Ancora uno sforzo, pensò. Soltanto uno.
Si trovavano ad est, lungo il fianco della montagna sulla quale sorgeva il municipio. L'esercito angelico era davanti ai loro occhi, solido e inespugnabile; apparentemente immune allo scorrere del tempo.
Lord Zenir lo osservava con lo sguardo assente, in attesa di vedere il gruppo di Garkos in posizione dall'altra parte del campo di battaglia. Il suo sospiro improvviso annunciò che si era finalmente risolto ad affrontare un argomento che aveva evitato per tutta la discussione. “Iatho, io so che la tua lealtà è verso di noi,” gli disse, anche se dal tono sembrava che volesse ricordarglielo più che constatarlo. “Spero che il tuo cuore sia rivolto nella stessa direzione.”
Iatho si voltò di scatto e incontrò il suo sguardo severo. “Non preoccuparti. La mia lealtà e il mio cuore si trovano esattamente dove devono stare,” esclamò.
Al segnale, i due squadroni si abbatterono sui fianchi dell'esercito angelico, cogliendolo di sorpresa. La testa, impegnata a difendersi dall'attaccato frontale, non poté voltarsi per contrastare l'avanzata dei vampiri, così l'esiguo gruppo di angeli scelti che aveva il compito di proteggere il nucleo debole dell'esercito si ritrovò a farlo da solo contro un intero branco di bestie assetate di sangue, pronte a tutto pur di chiudere la questione almeno per la giornata.
I primi vampiri caddero sotto i colpi di spada, ma quelli subito dietro erano pronti a prendere il loro posto e ben presto furono troppi per essere fermati da una sola fila di angeli.
Iatho ne atterrò uno prima che potesse sferrare l'attacco, strinse le ali fragili che si ruppero come rami sotto le sue mani. Lo inchiodò a terra e infine gli spezzò il collo con un morso, proseguendo oltre prima ancora che gli occhi della creatura potessero spegnersi del tutto. Avanzò abbattendone uno dietro l'altro senza dar peso ai cadaveri che si lasciava alle spalle, guardandosi intorno freneticamente alla ricerca di quell'unico paio di occhi di cui gli importasse qualcosa.
Se Noah stava davvero partecipando alla battaglia, allora doveva trovarsì lì da qualche parte in mezzo agli altri. Iatho non aveva la minima idea di che cosa avrebbe fatto una volta che lo avesse trovato, ma al momento questo non importava granché. L'unica cosa che desiderava era vedere che era vivo ed essergli abbastanza vicino da permettergli di continuare ad esserlo. Il come era un dettaglio inutile al quale avrebbe pensato poi. Si lasciò guidare dall'odore prima ancora che dagli occhi, quando lo sbattere delle ali sollevò tanta terra da accecarlo. Sentiva i vampiri intorno a lui affondare le zanne ringhiando e il grido disperato degli angeli che riecchieggiava dall'uno all'altro come se in realtà provenisse da una sola persona. Era un lamento acuto e privo di parole, lacrimevole e disperato e Iatho pensò che c'era qualcosa di antico e di animale che lo accumunava al dolore dei vampiri quando anch'essi cadevano a terra per restarci.
Dopo un po', Iatho perse nozione del tempo e dello spazio. La battaglia non si estendeva più per chilometri e fra migliaia di persone, ma era lì in quel momento e durava i brevi istanti che gli servivano ad abbattere il nemico che aveva davanti, per poi ricominciare da capo con quello successivo; e non aveva idea di quanto tempo fosse passato da che avevano iniziato l'attacco, da che era iniziato lo scontro. Da che era iniziata la guerra, forse. L'istante prima e quello dopo erano uguali agli altri mille istanti che c'erano stati, tutto ciò che vedeva erano il sangue e le piume e la terra, i corpi che cadevano e quelli che disperatamente cercavano di prendere il volo prima che uno dei suoi fratelli saltasse e li azzannasse alla gola.
Fu per questo che l'arrivo di Garkos lo colse di sorpresa. Sollevò lo sguardo sulla prima metà dell'esercito che si faceva spazio per raggiungerli. Sentì Zenir dare ordini alle sue spalle, e si rese conto che intorno a lui c'erano solo vampiri. Lo squadrone angelico era diviso. Di Noah, nessuna traccia.
Fu mentre lo pensava che il suo profumo lo investì fortissimo, misto alla paura e al dolore. Sollevò di scatto la testa dal collo di un angelo e si guardò intorno. Tra la polvere che andava diradandosi, vide Noah cadere in ginocchio, la testa che si piegava violentemente all'indietro sotto le fauci di uno dei suoi.
“No!” Il grido rauco e disperato che gli scappò di gola attirò l'attenzione di Lord Zenir che impiegò qualche secondo di troppo per individuarlo e capire cosa stava succedendo. Quando si rese conto della situazione, era già troppo tardi.
Iatho gettò via il cadavere che aveva per le mani e corse verso l'angelo, ma quando lo raggiunse, ci erano già sopra in cinque. In due gli si erano avventati sul suo collo, e gli altri erano sul punto di smembrargli le ali. Piombò sul gruppo con un ringhio basso e prolungato, appiattendosi sul terreno, pronto a balzare al minimo segno di pericolo.
Uno dei cinque, un vampiro alto e robusto con un viso rotondo e ordinario che nemmeno la trasformazione aveva saputo rendere più attraente, snudò le zanne insanguinate. Iatho gli fu addosso il secondo successivo. Lo spostò di peso dal corpo di Noah e lo artigliò al viso e al collo e al torace, finché quello dopo una breve lotta e un uggiolio non restò immobile. Ansando, Iatho si voltò ad affrontare il secondo che si era fatto sotto mentre gli altri tre, ormai dimentichi della preda, osservavano lo scontro.
Il primo colpo lo prese in pieno e lo mandò a schiantarsi contro una roccia. Si rialzò velocemente, nonostante il dolore alla spalla, flesse le braccia prima di spiccare un salto e affondargli le unghie nel petto per sbatterlo a terra. Rotolarono a lungo nella polvere, colpendosi a vicenda, poi Iatho lo azzannò alla gola e scosse la testa violentemente finché non sentì la carne strapparsi; allora lo lanciò lontano.
Corse verso Noah che non si muoveva e lo difese dagli altri che si misero a girargli intorno come lupi.
“Iatho!” Lord Zenir lo fissò inorridito, mente intorno a loro infuriavano gli strascichi della battaglia per abbattere l'esercito angelico. Alcune creature avevano provato ad alzarsi in volo per lanciare strali dall'alto, ma con il rischio di colpire anche gli amici tra i nemici in mezzo al mucchio, avevano smesso quasi subito per battere in ritirata nelle retrovie. In molti erano morti, stavolta. E altrettanti erano feriti. L'esercito angelico aveva subito in duro colpo e, dal momento che la cosa faceva comodo a tutti, né maghi né cavalieri si erano messi in mezzo. Con la luce del sole che filtrava più intensamente dalla superficie, il corno dei maghi suonò la tregua e quello dei cavalieri gli fece eco qualche istante dopo.
“Che cos'hai fatto?” Mormorò Lord Zenir sconvolto, guardando il vampiro più giovane con occhi tristi. Si avvicinò al suo protetto, scostando bruscamente di lato i vampiri che ora fissavano rabbiosi la scena. Iatho ringhiò subito, sulla difensiva, stringendo fra le braccia l'angelo che era svenuto e sanguinante, ma vivo.
“Non ti avvicinare,” esclamò. La sua voce aveva un suono gutturale e ruvido, come se per farla uscire avesse prima dovuto strapparla al controllo della bestia che si era impadronita di lui. “Nessuno si deve avvicinare. Lui è mio.”
Lord Zenir lo osservò tornare a guardare l'angelo con occhi offuscati di potere, ma comunque teneri e preoccupati. C'era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui se lo stringeva al petto. Lord Zenir non sapeva se fosse più fuori luogo l'affetto che dimostrava o la bestia che traspariva dai suoi lineamenti. Sembravano entrambi sbagliati, forse perché erano presenti in lui nello stesso momento.
Garkos li raggiunse in quell'istante e si avvicinò a Lord Zenir per sussurrargli all'orecchio, guardando anche lui Iatho, come chiunque altro là intorno. “Suonano i corni della tregua. Dobbiamo rispondere.”
Lord Zenir annuì, ma non disse niente. Continuò a guardare Iatho a terra e a chiedersi che cosa li aspettasse ora. Il suo protetto aveva ucciso un suo simile e ne aveva ferito un altro per salvare quell'angelo, la legge era chiara. Lo aspettava una condanna a morte.
Garkos si agitò sul posto. I corni nemici continuavano a suonare. Per quanto grave, qualunque altra questione doveva essere rimandata al momento in cui sarebbero tornati all'accampamento. La tregua andava accettata e confermata. “Signore?”
“Suona la tregua,” cedette alla fine Zenir, senza guardarlo. “E fa preparare le celle, abbiamo un prigioniero.”
“Uno soltanto, signore?” Chiese qualcuno tra i presenti.
A Lord Zenir bastò lanciare un'occhiata in direzione di chi aveva parlato perché questi chinasse il capo, uggiolando. Quindi fece qualche passo avanti. Iatho ringhiò di nuovo, ma lui lo ignorò. Si chinò di fronte al proprio protetto e cercò i suoi occhi prima di parlare. “Adesso lo portiamo via,” gli disse seriamente, scandendo le parole come se non fosse certo che le avrebbe capite.
Iatho scosse la testa, si fece indietro, trascinando un po' il corpo esanime di Noah.
Lord Zenir lo fermò stringendolo per un polso. “Sarà curato e per il momento resterà in vita,” gli sussurrò. “E' il massimo che posso fare.”
Iatho sembrò valutare le possibilità che aveva, o l'assoluta mancanza delle stesse.
Lord Zenir ripeté che sarebbe stato loro prigioniero. Lo ripeté più volte, forse perché l'unica altra cosa che aveva da dirgli non gli piaceva affatto e rimandava il momento, nella speranza che non arrivasse mai e che una volta riuscito a trascinare via tutti i presenti da quel dannato campo di battaglia, una volta tornati all'accampamento, forse sarebbe riuscito a strappare al Concilio una sentenza clemente.
Alla fine Iatho acconsentì che lo portassero via.
Seguì con lo sguardo i due vampiri che si allontanavano trasportando Noah mentre i corni suonavano la tregua e l'alba si completava. Il campo ormai deserto era immerso in una luce biancastra e lattaginosa, troppo fioca per essere davvero giorno e già troppo luminosa per essere notte.
Iatho osservò l'orizzonte chiedendosi se sarebbe stata l'ultima volta, poi lasciò che gli legassero le mani dietro la schiena e seguì il resto dell'esercito all'accampamento.

*


Nei giorni che seguirono, la situazione fu tesa.
Il Concilio si presentò da Lord Zenir senza essere stato convocato e lui fu costretto ad indire una riunione speciale per discutere la questione in oggetto. Aveva sperato che si trattasse di una discussione preliminare, e che ci sarebbe stato il tempo di analizzare i pro e i contro di quello che era accaduto, ma la verità era che Iatho era stato condannato direttamente sul campo dagli occhi di chi lo aveva visto nell'atto di uccidere il compagno, e sembrava che non ci fosse niente che Zenir potesse dire o fare per convincerli a cambiare idea, anche perché le pressioni da parte del popolo dei vampiri erano pesanti, e il Concilio non avrebbe mai rischiato di perdere i suoi privilegi per salvare un traditore assassino filo-angelico solo per la bella faccia di Zenir, che aveva tanti meriti ma evidentemente non abbastanza per avanzare richieste di favori simili. Neanche per un suo protetto che non si era dimostrato all'altezza dei suoi compiti.
La condonna sarebbe stata la morte per esposizione al sole.
L'unica cosa che Lord Zenir riuscì ad ottenere fu che l'esecuzione venisse rimandata alla fine della guerra, sostenendo che sarebbe di certo stato più semplice estorcere informazioni al loro prigioniero con l'aiuto di Iatho piuttosto che non con la tortura, e il Concilio aveva dovuto concordare.
Lord Zenir avrebbe pensato successivamente a come convincere Iatho a fare una cosa simile; per il momento gli serviva tempo, tanto tempo. Tutto il tempo che poteva riuscire a trovare.
Iatho, dal canto suo, non parlò se non per ripetere che voleva vedere Noah, che era tenuto legato in una tenda non molto lontana da quella in cui si trovava lui, libero dalle corde ma non di andarsene dove gli pareva. Passarono i mesi, ma la condanna rimase. Passarono i mesi, e gli fu chiesto di tradire Noah.
A Noah fu chiesto di tradire gli angeli. E quando arrivò il momento, entrambi fecero ciò che era giusto fare.