chakuza+fler

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Fler, Chakuza
Genere: Commedia
Avvisi: Slash, Crack!Fic
Rating: PG
Note: Questa storiella lascia il tempo che trova, ma mi fa guadagnare il punto del Love!Fest su Fanfic Italia e punti per la squadra dei vampirli al COW-T (prompt: Oscurità), quindi – per quanto piccola e sciocca sia – io le voglio bene. Non c'è molto altro da dire, seriamente.

Riassunto: Misteriosi collegamenti tra l'impianto elettrico e la stupidità di Chakuza, passando per le aringhe.
- Perché un'aringa? - Chakuza è seduto sul divano e con questa domanda sta mancando il punto di così tanto che mi trovo costretto a smettere di essere arrabbiato per provare un profondo senso di pietà nei suoi confronti. Non dovrei, perché è una persona orribile che non si merita né il mio corpo né tantomeno la mia pazienza – pur avendole entrambe – ma quando la lampadina che gli tiene acceso il cervello improvvisamente si spegne lasciandolo a brancolare nel buio, io non riesco più a dargli addosso perché sarebbe come trovare un vecchio centenario per strada, togliergli di mano il bastone e dargliele di santa ragione, per poi vantarsi che lui non si è difeso.
Ma andiamo con ordine. Immaginate di riavvolgere questa giornata di un'ora, diciamo fino a quando alle nove di stasera io non rientro dagli studi di registrazione dove con Bushido sto cercando di mettere insieme almeno una canzone che non ci faccia ridere dietro, e apro la porta di questo appartamento fatiscente dove vivo mio magrado, trovandolo buio. Allungo una mano sull'interruttore dell'ingresso, ma quello va su e giù a vuoto e non dà segni di vita. - Chaku, sei in casa? - chiamo, entrando e spogliandomi - Guarda che si è bruciata la lampadina in corridoio. -
Lui però non risponde, così mi tocca andare a cercarlo; è vero che questa non è una reggia, ma è vero anche che Chakuza è molto piccolo ed è facile perderlo. Per raggiungere il salotto brancolo completamente nel buio, perché non arriva luce nemmeno dall'esterno. Questo palazzo si trova in una zona di Berlino talmente disastrata che siamo secondi soltanto ai terremotati, nella via non c'è un lampione funzionante dal 1989. La signora del piano di sotto dice sempre per scherzo che, cadendo, il muro ha fatto tremare la lampadina che si è rotta e nessuno è mai più venuto a sostituirla. Comincio a credere che sia vero.
Avanzo tastando le pareti e scoprendo con le ginocchia mobili che pensavo si trovassero da tutt'altra parte. La casa avvolta dal buio totale è ancora più inquietante di quando è in piena luce. C'è una tale confusione qua dentro, che gli oggetti non hanno più la loro forma originale. Impilati gli uni sugli altri e privati dal buio dei loro singoli contorni, sembrano tanti mostri a più teste, pronti a saltarmi addosso non appena ci passerò davanti. - Chakuza! - chiamo più forte, aggrappandomi alla libreria del salotto mentre cerco inutilmente di abiturarmi all'oscurità. - Si può sapere dove cazzo sei? -
- Fler! - Chiama lui, perso da qualche parte. La sua voce mi arriva lontanissima e disperata, così attraverso il salotto il più velocemente possibile, lasciandomi alle spalle una scia di suoni inquietanti di oggetti che cadono e riviste che si sparpagliano sul pavimento.
Lo trovo seduto sul pavimento del bagno, con la testa rotonda e lucida che fa capolino da dietro la vasca. Non c'è luce nemmeno lì.
- Chaku? - Lo chiamo, aiutandolo a tirarsi su. Immagino che si stesse facendo il bagno perché è ancora umido e ha l'asciugamano legato in vita. Mi scivola tra le mani, quasi finendo di nuovo a terra. - Ma cos'è successo? -
Lui si aggrappa al lavandino e scuote il testone, pensoso. - Non lo so, dammi un secondo. Forse ho battuto la testa, mi sono sono svegliato sul pavimento. -
Mi preoccupo perché ondeggia, così lo metto seduto sull tazza del water mentre mi guardo intorno. - Ti ricordi chi sei? Sai che giorno è oggi? - Chiedo, guardandolo. Quando gli tocco la tempia si scosta con una smorfia, deve aver preso una bella botta. - Mi sa che ti sei fatto male. Sei scivolato? -
- Fler, piano con le domande - si lamenta lui.
- Almeno ti ricordi come mi chiamo – sospiro. - Aspetta qui, vado a cercare una torcia. -
La torcia non la trovo, ma nascosto dietro l'angolo delle piante mummificate trovo il quadro elettrico.
Scopro che in questo appartamento che ha l'acqua calda solo di giovedì e il riscaldamento solo se la congiunzione astrale con venere è favorevole, c'è però un salvavita. La sicurezza è importante.
Così mi basta tirare su quello perché questa casa venga subito riportata nel ventunesimo secolo, dal quale era stata strappata brutalmente.
Chakuza emerge dal bagno ed è una maschera di sangue. Sopra l'occhio ha un taglio che butta come una fontana ma lui sembra non notarlo. - Non mi sento tanto bene – dice solo.
Io lo intercetto prima che si diriga automaticamente in cucina, luogo a lui così familiare che nella confusione del trauma cranico deve sembrargli anche il più logico, nonostante stia sanguinando e sia sostanzialmente nudo.
Lo recupero per le spalle e lo faccio sedere sul divano mentre recupero un asciugamano per tamponargli la testa, che ora sembra un uovo rotto sul bordo di una scodella. - Forse dovremo chiamare un medico - lo avviso.
- No, sto bene - annuisce pensieroso - sono solo un po' confuso. Ho un buco di qualche minuto. Che ore sono? -
- Le nove. -
- Facciamo di mezz'ora. -
- Chakuza, sei hai perso conoscenza per mezz'ora devo portati all'ospedale – ripeto con pazienza. Cerco il suo sguardo e, quando finalmente aggancio i suoi occhi, li trovo abbastanza vivi da non farmi pensare alla tragedia.
Lui annuisce, non so se a me o a cose che sono avvenute nella sua testa. - Sto bene – dice ancora. - E' andata via la luce! Ecco cos'è successo! - esclama all'improvviso, sgranando gli occhi.
Vedo tornare sul suo viso un barlume di coscienza e capisco che quello che ho visto finora non era stato confusionale, era lui che pensava. D'altronde dovevo aspettarmelo che battere la testa per lui non fosse così tragico, non è uno dei suoi organi vitali. Scommetto che con un calcio nelle palle non si riprende più.
- Questo non spiega perché eri disteso sul pavimento del bagno. -
- E' una storia lunga – risponde lui.
Vado a prendere una bacinella con dell'acqua e del ghiaccio. Gli passo l'asciugamano sulla fronte e sugli occhi. - Ho tempo. Dai, raccontami bene tutto. -
- Per qualche motivo che non so, il postino è passato oggi pomeriggio. Io stavo facendo la spesa, per cui l'ho incontrato per strada e, siccome avevo le mani occupate dalla spesa, gli ho detto di darmi la posta in mano, invece di metterla in cassetta, che sennò mi toccava posare la borsa e cercare le chiavi. Così lui mi ha consegnato questa pila di bollette e questa cartolina. La cartolina era la pubblicità di uno di quei centri benessere che compaiono come funghi. Stavo per buttarla, quando mi sono accorto del cuoricino. A quel punto mi sono ricordato che era San Valentino e ho pensato che dovevamo festeggiare, però ero stato al supermercato senza sapere di dover comprare cose per la cena di San Valentino, quindi ho portato su la spesa e sono tornato al supermercato. Mentre ero in coda alla cassa, una bambina mi è corsa incontro, è inciampata nel carrello e mi ha spalmato sulla maglietta un intero cono gelato. Era l'ultima maglietta pulita che avevo, e l'intenzione era quella di usarla stasera a cena, così sono tornato a casa, ho messo via la roba e ho caricato la lavatrice. Erano le cinque e mi sono detto: se la metto su ora, fa in tempo a finire. Poi la metto nell'asciugatrice e il gioco è fatto. Mentre la lavatrice andava, ho cominciato a preparare la cena, ma non mi ricordavo la ricetta. Così ho acceso il computer per cercarla su uno di quei siti che avevo trovato l'altro giorno, e lì ho perso un sacco di tempo su Facebook. Bushido mi ha contattato in chat e si è messo a parlare del più e del meno e non mi riusciva di scollarmelo. Quando finalmente se n'è andato, mi sono ricordato che avevo la ricetta che mi serviva su DVD, quindi mi sono messo a cercare il DVD e ho perso un sacco di tempo anche lì perché sai dov'era? Nel mobiletto del bagno. No, non lo so perché. Insomma, per fartela breve, il lettore DVD aveva problemi, ho dovuto scollegare e ricollegare un milione di spine non so quante volte. Alla fine ho visto questa benedetta ricetta e mi sono reso conto che la base della torta andava cotta prima per mezz'ora in forno. Allora ho fatto la pastafrolla e l'ho messa a cuocere e ho pensato di farmi un bagno mentre quella e il sugo cuocevano. Ero lì a mollo quando è saltata la luce. Mi sono alzato per andare a vedere, ma ero nudo e mi ero dimenticato l'asciugamano, così per prenderlo dall'armadietto sono salito sul bordo della vasca e sono scivolato. -
Io lo osservo così a lungo che anche lui, alla fine, si accorge che se lo sto guardando fisso c'è qualcosa che non va. - Che c'è? - Mi dice. - E' per la luce, vero? Quella non lo so perché è saltata. E' strano, infatti. -
Vorrei picchiarlo, ma non lo faccio perché la natura lo ha evidentemente già punito quando è nato.
- Chakuza... - inizio cercando un punto del salotto su cui posare gli occhi per non guardare lui. - Perché il postino? Perché il supermercato? Perché ti ascolto, santiddio? -
- Me lo hai detto tu di raccontarti tutto. -
Lo guardo intensamente negli occhi, cerco in loro risposte a domande che non ne hanno. Ad esempio come ha fatto a sopravvivere a se stesso per tutto questo tempo, stupido dodo primordiale in un mondo di animali più intelligenti di lui. - Sai Chaku, a volte davvero mi dai da pensare. Io cerco di abbassarmi al tuo livello mentale da ameba, ma sono arreso, mi segui? - Il testone rotondo e ora sanguinolento si scuote facendomi capire che non mi segue, ma non importa più perché io ho appena passato quaranta minuti della mia vita a tamponare la testa sbreccata di un uomo di quasi trent'anni che nel buio di una casa generato dalla sua totale ignoranza del mondo della corrente elettrica, è salito con i piedi umidi, sul bordo di una vasca umida, rischiando di fracassarsi la testa. - Capire come ragioni è come tentare di forzare una serratura con un'aringa bagnata! -
- Perché un'aringa? -
All'ospedale il medico mi rassicura. - Non si preoccupi. I punti guariranno in fretta. -
Non è quello, dottore. E' lo stato confusionale, che mi preoccupa.
Personaggi: Chakuza, Fler, Eko, Bushido, Bill, Valezka
Genere: Commedia, Drammatico
Avvisi: Slash, AU
Rating: PG 13
Note: Storia scritta per la maritombola di maridichallenge (prompt nr.32: "AU.").

Riassunto: Non aveva gran voglia di farsi licenziare sulla base di voci che aveva nella testa ma si decise comunque ad entrare, perché la mancanza di Fler era talmente forte e talmente dolorosa, che avrebbe fatto qualsiasi cosa – per quanto sciocca – pur di liberarsene.

NO LOOKING BACK, NO WAY TO KNOW


Preparare la cena in un ristorante di lusso non era un gioco da ragazzi. Chakuza lo sapeva bene perché era il capocuoco dell'”Ersguterjunge” da quasi cinque anni ed erano stati i più lunghi della sua vita. Non che si lamentasse del posto di riguardo che ricopriva, perché aveva sgobbato come un matto per ottenerlo e lo sapevano tutti nel grattacielo che se qualcuno avesse provato a soffiarglielo sarebbe finito dritto nello spezzatino con le patate, era solo che a volte le disgrazie capitavano tutte insieme e lui aveva ancora due sole mani per occuparsene. Quella sera, ad esempio, non solo il nuovo sous chef era un disastro più del solito, ma durante la notte era mancata la corrente; così, aprendo, quel pomeriggio, avevano scoperto che metà delle scorte surgelate era andate a male, così come i fondi e le basi preparate la sera prima.
Chakuza aveva dovuto inventarsi su due piedi un menù che fosse, se non all'altezza del precedente, per lo meno accettabile, qualcosa che non screditasse il buon nome del locale. E aveva dovuto farlo tenendo presente quello che era rimasto, cioè quasi niente, e il fatto che, a quasi un anno e mezzo dalla sua richiesta, la Guten Appetit, la più importante rivista gastronomica dell'intera Germania, avesse deciso proprio quel giorno di venire a controllare l'operato del suo ristorante.
Chakuza aveva un critico impossibile da soddisfare seduto in sala e nessuna possibilità di ordinare gli ingredienti mancanti, perché la vigilia di Natale non c'erano negozi che facessero consegne, nemmeno urgenti, nemmeno se pagate più del dovuto.
In tutto questo, come se già la pessima recensione che avrebbe ricevuto e la conseguente degradazione del miglior ristorante della città a bettola di quart'ordine non fosse stata sufficiente, il ceppo di influenza più virulento degli ultimi vent'anni aveva fatto strage dei suoi camerieri e così adesso il suo capo-cameriere, nonché suo fidanzato da tre anni, stava gestendo la sala con il solo aiuto di altri due elementi che erano lì da una settimana. Era un disastro.
L'uomo in questione, per altro, aveva appena fatto irruzione nelle cucine, spingendo la porta con il sedere e tenendo in equilibrio sulle mani e le braccia un numero impossibile di piatti. “Mi serve il primo del tavolo quattro, due fettine di vitello per il tavolo sei: meno cottura, più condimento,” snocciolò a raffica, posando vassoi e recuperando stoviglie. “La macedonia del tavolo otto, il caffè del dodici e del pane all'aglio per il ventidue – si salvi chi può, ha già un alito pestilenziale e Chakuza, Chakuza, Chakuza quel tuo critico è insostenibile. Ho chiesto è tutto di suo gradimento? E lui, vedremo poi se è di mio gradimento. E io: vuole che le porti qualcos'altro? E lui: se volevo ordinare la chiamavo, intanto mi porti quello che ho chiesto due minuti fa. E io gliel'ho portato ma è sempre tutto troppo caldo o troppo freddo o troppo perfetto. Che cosa significa che è troppo perfetto? Se è perfetto è perfetto, non può esserlo troppo.”
“Fler ti vuoi calmare?” Chakuza gli piantò una mano sulla bocca e quello si zittì di colpo, come se qualcuno avesse premuto il bottone di spegnimento. “Respira ogni tanto, fa bene ai polmoni.”
Il ragazzo fece un grosso sospiro e quindi gli sorrise. “Scusa. Troppi tavoli, sto andando a velocità doppia per tenere il passo.”
“Come va là fuori?”
“Bene, a parte il fatto che ci sono venti tavoli e noi siamo in tre. Se avessimo dei pattini sarebbe tutto molto più semplice, ma immagino che questo sia contro le regole del ristorante.”
“Appena un po',” annuì Chakuza. “Che tipo è il critico?”
Fler si strinse nelle spalle. “Uno normale, niente di che,” rispose. Poi lo prese per un polso e se lo tirò dietro fino alla porta che aveva due enormi oblò trasparenti. “Lo vedi? E' quello là in fondo.”
“Me lo aspettavo diverso,” commentò sorpreso Chakuza, osservando con ancora più attenzione l'ometto alto e magro, con la faccia appuntita.
“Sembra un topo, vero?” Ridacchiò Fler. “Ha anche i baffetti.”
“Sei sicuro che sia lui? Non sembra per niente un critico.” Commentò Chakuza, sempre più perplesso. “Sono dei jeans e una maglietta, quelli?”
“E dovresti vedere il cappellino,” commentò l'altro. “Ha due piccole ali disegnate sopra. Bianche e un po' rotonde, come quelli dei cartoni animati. Te lo dico io, dev'essere per forza un critico, sennò col cavolo che lo facevano entrare qui dentro senza cravatta.”
Chakuza si staccò dalla porta con un sospiro stanco. “Mi sa che hai ragione,” disse tetro.
“Ehi, che cos'è quella faccia?” Chiese il cameriere, posando tutti i suoi piatti e prendendolo per le spalle, con uno sguardo preoccupato. “Guarda che stiamo andando alla grande! Non si è ancora lamentato nessuno, sai? Ce la caveremo, in fondo mancano solo-”
“Non dirlo,” Chakuza scosse la testa pelata e l'appoggiò al petto dell'uomo che gli stava davanti. “In questa cucina abbiamo fatto voto di non contare il tempo che passa. Abbiamo settato un orologio da cucina ad un orario accettabile e l'abbiamo nascosto. Quando suonerà, saremo liberi.”
Fler scoppio a ridere. “D'accordo allora, ti terrò all'oscuro del segreto del tempo. Comunque sappi che ormai il peggio è passato, presto potremo tornarcene a casa e dimenticare quanto è avvenuto.”
“Promesso?” Mugugnò Chakuza.
Fler lo baciò sul naso. “Promesso. Ora vado ad occuparmi dei tuoi clienti. Se non torno fra dieci minuti, vienimi a cercare, perché mi avranno preso in ostaggio.”
Chakuza sorrise e lo seguì con lo sguardo mentre assumeva una posa più elegante e tornava in sala, evitando per un pelo un altro cameriere che entrava in cucina solo in quel momento.
Pensò a casa loro, al divano, al pigiama, alle pantofole col pelo e all'energia inesauribile di Fler che aveva riempito la cucina, elettrizzando perfino i muri. Si aggrappò a quella, e continuò a lavorare.

*


Alla fine il critico aveva dato all'Ersguterjunge quattro forchette, che era un risultato ragguardevole, considerato che il massimo era cinque e che Chakuza aveva preparato una cena con gli avanzi di magazzino. Una volta chiuso il ristorante, lo chef si era permesso di festeggiare con tutti i colleghi, aprendo la bottiglia di Champagne del '75 che conservavano per le occasioni importanti. Forse una buona recensione su una rivista volubile come il Guten Appetit, che era in balia delle crisi premestruali dei suoi critici e cambiava opinione ad ogni numero, non era esattamente l'occasione importante che aspettavano, ma Chakuza pensava che il miracolo che li aveva portati in fondo a quella serata era sufficiente a giustificare l'apertura di un vino da più di 600 euro.
Non ne avevano bevuto una quantità tale da dire di essere ubriachi, ma lui e Fler erano abbastanza su di giri da canticchiare il loro trionfo contro l'esercito dei malvagi critici gastronomici quando chiuse la serranda del ristorante e si avviarono verso casa, che li attendeva a non più di cinquecento metri da lì.
Chakuza ci si era trasferito dopo aver ottenuto il posto, così da non dover attraversare mezza città ogni mattina per poter andare a lavorare. Fler non era molto d'accordo – perché, diceva, dodici ore al giorno in quel grattacielo gli sembravano già abbastanza per non doverne subire la presenza costante anche quando sedeva in salotto e lo vedeva dalla finestra – ma ciononostante si era trasferito comunque a casa del suo uomo, quando lui gliel'aveva chiesto con un messaggio di cioccolata sulla Saint Honoré più grossa che si fosse mai vista nella cucina di una persona normale, e forse era per questo – per via dell'amore ridicolo che provavano l'uno per l'altro – che quella convivenza perenne non li aveva ancora portati ad ammazzarsi a vicenda. L'appartamento, per altro, non è che fosse esattamente una reggia, anzi.
Era un bilocale ricavato da una soffitta. Il soffitto era basso – non che comunque fosse un problema per Chakuza che non arrivava al metro e settanta – e le finestre un po' piccole, ma tutte le sue scomodità erano ripagate dalla terrazza, dalla quale si poteva ammirare una vista deliziosa dei tetti della città. Fler l'aveva riempita di piante in vaso e anche di un divanetto, sul quale d'estate passavano praticamente giornate intere.
Al momento, però, non era alla terrazza che Chakuza pensava con cupidigia, bensì al suo letto morbido, al piumone viola che Fler aveva fatto il diavolo a quattro per comprare nonostante fosse estremamente lugubre e alla possibilità di smaltire lo champagne in maniera divertente.
“Sai cosa pensavo?” Chiese Fler, che ora faceva l'equilibrista sul basso muretto che costeggiava il parco pubblico.
Chakuza sollevò lo sguardo su di lui e lo osservò mentre cercava di mantenere l'equilibrio con le braccia aperte. “No, cosa?”
“Che potremmo prenderci una vacanza,” rispose quello. “Andiamo via una settimana, spegniamo i telefoni, i computer, tutto quanto. Solo io e te.”
Chakuza sorrise, infilando le mani in tasca. “Sarebbe bello.”
Fler scese dal muretto con un saltello e gli bloccò la strada, costringendolo a fermarsi. “Oh, andiamo, cosa ci vuole?” Disse incoraggiante. “In fondo sarebbero solo pochi giorni e tu non hai mai preso delle vere ferie in cinque anni. Quel ristorante potrà pure andare avanti senza di noi, no?”
“Non lo so, a chi vogliamo lasciarlo in mano?”
“Il sous-chef?” Fler fece spallucce. “Lo pagano per quello, no?”
Chakuza sgranò gli occhi, quasi inorridito. Nel giro di qualche mese quell'uomo era riuscito a fare più danni di quanti ne avesse fatti lui in tutta la sua carriera, compreso quel periodo da incubo come lavapiatti in un fast-food di infima categoria. Non si poteva pensare di dargli in mano le chiavi del ristorante e trovarlo intero una volta tornati. “Figuriamoci,” si lamentò, riprendendo a camminare. Sperò che Fler si spostasse, ma non lo fece; iniziò invece a camminare all'indietro, senza staccare mai gli occhi da lui. “Nel migliore dei casi, lo farà andare a fuoco.”
“E allora? Chi se ne frega, Chaku. Quello non è il tuo ristorante.”
“No, ma mi scoccerebbe restare senza lavoro!”
Fler sorrise. “Allora apriamo il nostro!” Esclamò, entusiasta. “Immaginatelo! Sarà bellissimo. Elegante, ma senza la puzza sotto il naso. Con una grande sala piena di tavoli rotondi e un palco con la gente che suona dal vivo. E le cucine! Ci impazzirai! Saranno enormi, e tutte d'acciaio come piacciono a te. Avrai quattro, no, cinque piastre cottura. Potrai cuocere cibo per interi eserciti e sarà il miglior cibo di tutta Berlino. E io avrò una divisa meravigliosa. Sembrerò un pinguino, ma con un sacco di stile. Ci verranno tutti, io lo so. E potremo prenderci le ferie quando ci pare.”
Chakuza sospirò malinconico, ma non poté trattenersi dal sorridere. Sognavano quel ristorante da anni e lo facevano così bene che sapevano anche di che colore fossero le mattonelle del bagno. Fler non vedeva l'ora di metterlo in piedi, ma come al solito era troppo avventato. ”E' ancora presto.”
“No che non è presto!” Protestò Fler. “Il capitale ce l'abbiamo, dobbiamo solo trovare un posto dove aprire.”
“Servono molti più soldi. E poi non è il momento.”
Fler scosse la testa con enorme convinzione. “Non è vero, serve che lo apriamo e basta,” gli prese le mani tra le sue, gentilmente. “Se aspettiamo il momento giusto, il posto giusto, la quantità giusta di soldi, non lo apriremo mai.”
Chakuza lo guardò e sospirò di nuovo, alzando gli occhi al cielo. “Dobbiamo fare le cose per bene,” tentò.
“Infatti,” annuì il ragazzo. “C'è questo posticino...”
“Fler!”
“Aspetta, aspetta! Stammi a sentire, d'accordo? E' un fondo non tanto grande, ma per cominciare va bene. Ed è dall'altra parte della città, così l'Ersguterjunge non può fargli concorrenza,” spiegò, cercando i suoi occhi che continuavano a sfuggirgli. “E' bellissimo, Chaku. Davvero. Credo di essermi innamorato.”
Chakuza studiò i suoi occhi azzurri, diventati improvvisamente enormi, acquosi e pieni d'amore per quello che probabilmente era un mezzo magazzino sgangherato e venduto a due lire, che il suo ragazzo pensava di poter prendere e rimettere a nuovo da zero. L'ultima volta che Fler aveva trovato un posto per costruire il loro ristorante e Chakuza era andato a dargli un'occhiata, aveva scoperto che impianto elettrico e tubature andavano rifatte completamente e che tutti i lavori avrebbero portato via metà della cifra che avevano messo da parte per aprire. In pratica avrebbero avuto un locale a norma di legge, ma niente tavoli dentro, figurarsi cibo da servire. Il problema non era certo continuare a cercare, era dover sopportare lo sguardo deluso di Fler ogni volta che dovevano lasciare perdere per un motivo o per l'altro. Era per questo che non voleva fare le cose di fretta. Era difficile anche sostenere lo sguardo implorante che aveva davanti adesso, però. “E va bene,” sospirò. “Andiamo a vedere questo posto che hai trovato.”
Il sorriso che si aprì sulle labbra di Fler bastò a cancellare i dubbi di Chakuza, più che altro perché valeva la pena di doverlo consolare dopo se poteva vederlo così felice. “Promesso?” Chiese.
“Promesso.”
Erano le tre del mattino e non c'era un anima in giro. La strada era completamente vuota quando misero piede giù dal marciapiede, intenzionati ad attraversarla.
Chakuza non capì da dove fosse uscito il SUV, lo sentì soltanto sterzare oltre la curva. Il tipo alla guida andava troppo veloce, a fari spenti, sbandò contro una macchina parcheggiata e perse il controllo, venendo verso di loro. L'attimo dopo, Chakuza era di nuovo sul marciapiede. Fler no.

*


Chakuza aveva smesso di ragionare due giorni prima, quando il corpo di Fler era atterrato in mezzo alla strada, dopo un volo di almeno due metri. Adesso, tutto ciò a cui riusciva a pensare era il fatto che lo aveva afferrato per la tracolla, ma che non era servito a niente perché quella si era strappata e gli era rimasta tra le mani, mentre lui veniva colpito dall'auto. Se gli avesse afferrato il braccio, forse sarebbe andata diversamente. La corsa all'ospedale era stata inutile, gli infermieri non avevano accesso nemmeno la sirena, così Chakuza aveva capito e si era messo a piangere sull'ambulanza.
Due giorni dopo, alla veglia, ancora non lo credeva possibile. Si era svegliato quella mattina non con la speranza, ma con la convinzione, che si trattasse solo di un sogno. Aveva aperto gli occhi e aveva guardato il soffitto con un sospiro di sollievo, pensando “Mamma mia, che incubo.”
Poi si era voltato e l'altra metà del letto era ancora rifatta, il completo nero era appeso all'armadio e, per quanto si sforzasse di crederlo, non era quello del matrimonio di nessuno.
Il padre di Fler se n'era andato che lui era ancora piccolissimo e, a parte sua madre, non c'era nessun altro parente. Quella donna era così disperata che Chakuza si era offerto volentieri di occuparsi di tutto così da tener occupata la testa e non pensare.
Ora che tutto era stato organizzato, però, lui non aveva più niente da fare e si aggrappava ai dettagli – un fiore appassito da togliere, una piega da sistemare – per non dover ammettere che non c'era davvero più niente, che da domani sarebbe stato solo e avrebbe dovuto continuare a vivere senza di lui, che lo volesse o meno. La bara era semplice, nera e lucida. Chakuza l'aveva fatta foderare di viola, pensando che gli sarebbe piaciuto. Era ancora tutto così confuso e così poco credibile ai suoi occhi, che gli risultava difficile pensare che il corpo che ci vedeva disteso dentro fosse il vero Fler che fino a qualche giorno prima camminava sui muretti e lo pregava di aprire un ristorante con lui. La sua mente continuava a ripetergli che doveva trattarsi di un'incredibile somiglianza, d'altronde come poteva essere morto Fler, se lo sentiva ancora così prepotentemente accanto da provare il bisogno di voltarsi verso di lui ogni volta che vedeva qualcosa di interessante o aveva un commento da fare? Non era solo una sensazione, era il calore vago ma costante che aveva sentito quando Fler era in vita e gli stava vicino ma senza toccarlo. Quando si rendeva conto di essere solo, faceva quasi paura.
“Mi dispiace per la tua perdita.”
“Grazie,” Chakuza rispose meccanicamente, prima ancora di alzare la testa e ritrovarsi a fissare gli assurdi baffetti sulla faccia da topo del critico di Guten Appetit. “E lei cosa ci fa qui? Cioè, mi dispiace, non volevo essere maleducato. Intendevo, come faceva a sapere...”
“Ero là quando è successo,” rispose l'uomo, che stavolta indossava un completo elegante, con una giacca nera a tre quarti che lo rendeva una persona completamente diversa. “Il vino della casa mi aveva dato alla testa, così ho aspettato un po' in macchina che mi passasse e ho visto il SUV venirvi addosso. E' stata una vera disgrazia.”
Chakuza non poteva dire di ricordare i dettagli di quella sera, ma tra tutte le cose che lentamente cominciavano a tornargli in mente, quell'uomo non c'era. Aveva chiamato lui stesso l'ambulanza e fino al suo arrivo, non si era fatto vivo nessuno, nemmeno un'altra auto. Era rimasto solo con Fler e con il suo assassino, privo di sensi sul volante della sua auto. “Davvero?” Chiese. “E dov-”
“Il tipo doveva essere ubriaco per guidare a quel mondo,” continuò il critico, senza preoccuparsi di averlo appena interrotto. “Non si può stare tranquilli al giorno d'oggi.”
Chakuza lo guardò senza sapere che cosa dire. Avrebbe voluto stare da solo e forse aveva tutto il diritto di chiedergli di essere lasciato in pace, ma non lo fece. Tornò a guardare Fler dall'altra parte della stanza.
“Lo conoscevi bene?”
“E' il mio ragazzo,” rispose Chakuza.
L'uomo preferì non fargli notare l'errore. “E da quanto stavate insieme?”
“Tre anni e otto mesi. Senta, adesso io dovrei davvero...”
“Un attimo, Chakuza. Non avere fretta.”
Chakuza era assolutamente certo di non aver mai detto il suo nome a quell'uomo. Era vero che il ristorante in cui lavorava era famoso, e di sicuro un critico culinario era ben informato su chi, dietro le porte basculanti, gli preparava la cena che doveva giudicare, eppure sentiva che c'era qualcosa di strano. C'era un'ombra vagamente divertita e cospiratoria negli occhi dell'uomo quando lo guardò, come se sapesse che non avrebbe affatto dovuto conoscere quel nome e lo avesse usato di proposito. “Chi diavolo è lei?” Si ritrovò a chiedere il cuoco, senza nemmeno pensare a quanto potesse essere scortese.
“Quella che hai usato è una bella scelta di parole,” sorrise il critico, frugandosi nella giacca e nei pantaloni, come se non riuscisse a trovare qualcosa.
Chakuza aveva una strana sensazione, come se l'aria si fosse fatta più pesante, ma non irrespirabile; solo incredibilmente fisica. Quando si guardò intorno, vide che erano rimasti solo lui e quell'uomo, insieme al corpo immobile di Fler nella bara. La casa era avvolta nel silenzio. “Lei non è un critico culinario.”
Il tipo sollevò un sopracciglio. “Gran bell'intuito, tigre,” commentò ironico. “Ora, se riuscissi a capire dove ho messo...Odio questo vestito, ci sono troppe tasche.”
Chakuza non era mai stato un uomo che si faceva prendere dal panico, nemmeno nelle situazioni in cui in effetti ne avrebbe avuto ogni diritto. Non che fosse razionale, quanto piuttosto lento ad afferrare bene le cose, e in quel preciso istante la sua inabilità gli tornava utilissima. Invece di agitarsi, cercò di analizzare la situazione da un punto di vista logico, sebbene la logica non fosse esattamente il suo forte. La persona che aveva davanti lo seguiva da quando avevano chiuso il ristorante qualche giorno prima, aveva un viso triangolare, con il mento un po' appuntito e curiosi baffetti neri, lo sguardo di chi sapeva un sacco di cose e non voleva dirtele ed era vestito elegante, anche se l'abito non gli cadeva benissimo. In più non gli aveva ancora detto il suo nome e le stanze messe a disposizione dalle pompe funebri per la veglia erano sprofondate in un silenzio irreale e mortuario. Razionalmente sapeva che ciò non era possibile, eppure... “Lei è il diavolo?”
Quello alzò lo sguardo su di lui, continuando a frugare nella tasca dei pantaloni come se fosse senza fondo. “Eh? No, certo che no,” lo liquidò con una smorfia impietosita. “Mezz'ora a pensare e poi se ne viene fuori con una roba del genere, incredibile.”
Chakuza si chiese se dovesse offendersi; di sicuro il borbottio dell'uomo non gli piaceva. “Beh, allora me lo dica lei chi è!”
“Ci stavo arrivando! Se solo trovassi... oh! Eccolo,” esclamò, porgendogli un cartoncino, al centro del quale era stampata la stessa aletta rotonda che l'uomo portava anche al collo, e un enorme lettera E in una calligrafia squadratissima e angolosa. “Sono Ermes, Dio della parola – saltuariamente messaggero degli Dei. Ma se vuoi puoi chiamarmi Ekram, o Eko, come fanno tutti. Sapessi perché, poi.”
Gli tese anche la mano ma la ritrasse dopo dieci minuti, quando si rese conto che Chakuza non l'avrebbe mai stretta, impegnato com'era a fissare il suo biglietto da visita.
“E' inutile che lo fissi, sai? C'è scritto solo quello, volevo qualcosa di fine e sofisticato,” commentò Eko, stringendosi nelle spalle.”
Chakuza ancora non si capacitava, tant'è che rimase col biglietto in mano. “E per Ermes intendi quell'Ermes? Scarpe alate e tutto il resto?”
“Diciamo di sì, se questo può aiutarti nella comprensione. Ora...”
“Tu non esisti.”
Eko sospirò, grattandosi la testa. “Perché non riesco mai a saltare questa parte? Voi umani siete una tale noia a volte,” esclamò esasperato. “Dunque, vediamo di fartela breve. Gli uomini spiegano il mondo attraverso il mito. Ogni mito ha un fondo di verità. Quelli come me sono il fondo di verità. In pratica qualcuno di noi, in diversi momenti della vostra esistenza, è venuto da voi, come sto facendo io ora, e ha fatto in modo che parlaste di noi. Viviamo di pettegolezzi, più ne parlate meglio è. Ultimamente non andiamo tanto forte, però, ecco perché siamo rimasti in pochi.”
Chakuza aggrottò le sopracciglia e una ruga profonda gli si formò sulla fronte. “Quindi sei qui perché io parli di te? Vuoi che scriva qualcosa o roba simile.”
“No e, prima che tu me lo chieda, non voglio neanche che tu vada in giro a predicare la mia esistenza. Innanzi tutto perché è passato di moda, e poi perché non ho intenzione di gestire milioni di fan esaltati.”
Se Chakuza poteva essere più confuso, ora lo era. Iniziò a pensare che quella confezione di funghi trifolati che aveva ingurgitato di fretta, giusto per non girare a stomaco vuoto, forse era avariata. O magari non erano funghi normali. Nonostante questo, continuò a conversare con l'allucinazione. “E allora perché sei venuto? E che cos'hai fatto a tutta la gente che era qui?”
“Non gli ho fatto niente. Smettila di agitarti prima che un infarto si porti via anche te,” commentò Eko, senza scomporsi. “Ti ho isolato dal resto dei tuoi simili a livello spazio-temporale. Pensala un po' come se fosse un messaggio privato in chat.”
Chakuza non era tanto sicuro che la metafora informatica potesse aiutarlo nella comprensione, visti i suoi trascorsi di agonia e morte con tutti i suoi pc, ma preferì non chiedere delucidazioni per non peggiorare la situazione. “D'accordo, non sei qui per prendere la mia anima e non sei qui perché io faccia proseliti in tuo nome. Non prenderla nel verso sbagliato, sono molto onorato della tua visita, ma a meno che non stiamo andando verso una gravidanza divina, uno stupro che preferirei evitare o la consegna di tavole con su qualche ordine, potremmo sbrigarci? C'è la funzione, tra poco.”
“Tu sei veramente una persona odiosa,” esclamò l'altro, ma in un modo che lasciava intendere che questo non avrebbe in alcun modo compromesso la sua presenza in quel luogo. “Come tu sia potuto sopravvivere fino all'età che hai senza farti linciare da una folla di tuoi conoscenti armati di spranga io non lo so. Ha davvero del miracoloso. Comunque,” sospirò, sistemandosi il colletto della camicia, “sono qui per darti la possibilità di rimettere a posto le cose e annullare questo sfortunato incidente.”
“Non ti seguo.”
“Non mi stupisce,” disse Eko, comprensivo, annuendo con gli occhi socchiusi. “Quando il tuo ragazzo è morto, la sua anima è migrata in un luogo diverso da questo, che tu puoi chiamare come più ti aggrada ma che per una pura questione di gusto personale e di abitudine, io chiamerò Oltretomba, che per altro è un termine piuttosto chiaro e non lascia spazio ai dubbi. Io posso farti avere un appuntamento con Ade, che gestisce questo posto, così potrai avere la possibilità di convincerlo a farti ridare indietro l'anima di Fler.”
“Vuoi dire che non è veramente morto?”
Eko lo guardò intensamente per qualche secondo, stavolta davvero indeciso se continuare o meno a parlare con lui. In fondo morivano milioni di persone al giorno, avrebbe sicuramente trovato qualcun altro più sveglio a cui dare la stessa possibilità; ma aveva studiato i piani delle Parche per settimane prima di trovare la storia perfetta, non poteva davvero buttare all'aria tutto quanto adesso. Ci voleva solo un po' di pazienza con le forme di vita inferiori. “No, voglio dire che è morto ma che la sua anima non è svanita nel nulla in un baluginare di lucette e non è finita in un quadro, in una radio o in un qualsiasi oggetto che poi prenderà vita nei momenti meno opportuni. La sua anima si trova nell'Oltretomba e, oliando la persona giusta, può essere riportata indietro e reintrodotta nel suo corpo. A tal proposito, naturalmente, Fler non può essere seppellito e il suo cadavere va fatto sparire fino a che non avrai anche l'anima, ma di quello posso occuparmi io, senza problemi.”
Chakuza ebbe bisogno di pensarci su qualche istante. “E tu che cosa ci guadagni, esattamente? Non credo che questa sia la procedura per ogni persona che muore o avremmo i cimiteri vuoti.”
“Io,” rispose Eko, avvicinando il viso ad un mazzo di rosse ed osservandone curiosamente una a pochi centimetri di distanza, “per una volta ci guadagno che mi diverto. Hai una vaga idea di quanto possa essere noiosa la vita di un messaggero degli Dei nell'era di internet? Almeno, aiutandoti nella tua impresa, mi offri una distrazione.”
“E basta?” Chiese Chakuza, dubbioso. Aveva visto abbastanza film di questo tipo, in cui un'entità sovrannaturale aiutava un essere umano ad esaudire il suo più grande desiderio, per non sapere che c'era sempre l'inghippo da qualche parte. “Non è che alla fine mi chiederei l'anima o cose simili?”
Eko buttò gli occhi al cielo e sospirò, allontanandosi dal mazzo di rose che erano diventate di un blu elettrico quasi accecante. “Oh per la miseria, Chakuza! Qual è il tuo problema, si può sapere? Sei fissato con questa storia dell'anima. Che cosa dovrei farmene, metterla in un barattolino e usarla come soprammobile? Non commercio in anime, non mi sono mai piaciute. Gemono e si lamentano, non bevono, non mangiano e non fanno conversazione. Le cose peggiori con cui passare del tempo. E io ti ho detto che mi annoio! Voglio fare qualcosa, qualunque cosa! Ti è chiaro il concetto?”
Chakuza lo guardò con un sopracciglio sollevato. “Direi di sì.”
“Bene,” annuì deciso Eko. “E se proprio vuoi ripagarmi, mi farai di nuovo quella pasta così buona che ho mangiato al ristorante. Ora, se sei finalmente convinto, posso spiegarti cosa fare.”

*


A quanto pareva, questo fantomatico signore dell'Oltretomba viveva nel grattacielo in cui Chakuza lavorava ogni giorno. Aveva sempre pensato che il suo posto di lavoro fosse un inferno, ma la situazione stava seriamente degenerando. Per quanto ricordasse giornate in cui era convinto che metà dei suoi clienti fossero l'incarnazione del demonio, faticava a credere che l'intero edificio non fosse altro – per dirla con le parole di Eko - che la manifestazione fisica sulla Terra dell'Aldilà.
Chakuza fissava le porte girevoli e non riusciva ad oltrepassarle. Non era poi tanto sicuro di quello che stava facendo perché, nonostante tutto, aveva ancora la forte sensazione che Eko e quello che Eko aveva fatto e detto fossero solo una grave forma di allucinazione uditivo-visiva; forse avrebbe fatto meglio ad andare dal medico a farsi prescrivere delle pasticche, invece che trovarsi lì.
Eko aveva impiegato pochissimo a fargli avere un colloquio con Ade e gli aveva dato appuntamento all'ultimo piano del grattacielo ma, per quanto Chakuza ne sapesse, lassù c'erano soltanto gli uffici amministrativi e, in essi, il proprietario plurimiliardario di tutta la baracca.
Non aveva gran voglia di farsi licenziare sulla base di voci che aveva nella testa – e l'uomo lo avrebbe spedito a calci nel sedere fuori da una finestra non appena gli avrebbe detto che cos'era venuto a fare, questo era certo – ma alla fine si decise comunque ad entrare, perché Eko non gli aveva effettivamente dato la possibilità di rifiutare e soprattutto perché la mancanza di Fler era talmente forte e talmente dolorosa, che avrebbe fatto qualsiasi cosa – per quanto sciocca – pur di liberarsene.
Salutò il portiere che gli fece le sue condoglianze e quindi entrò nell'enorme ascensore di vetro al centro della hall, guardando con aria dubbiosa la tessera d'accesso di cui Eko lo aveva fornito, prima di strisciarla nel lettore e venir catapultato – letteralmente – sul pavimento mentre l'ascensore saliva ad una velocità inumana e il numero sul display aumentava, superando di gran lunga i cinquanta piani che avrebbero dovuto comporre il palazzo.
Fu un trillo e una voce suadente di donna che lo avvisarono che era arrivato. Aprì gli occhi con un po' di paura, convinto di trovarsi tra fiamme violente, abissi infiniti e qualsiasi altra cosa gli avesse mai mostrato l'iconografia dell'inferno, ma non c'era niente di tutto questo. Solo un bel corridoio con i muri bianchi e il pavimento di marmo, silenzioso ma ben illuminato, con due enormi e rigogliose piante in vaso a dargli il benvenuto.
Chakuza si guardò intorno circospetto, ma non c'era nessuno, così sospirò e si diresse nell'unica direzione possibile. Se non altro all'inferno non c'era possibilità di sbagliare ufficio; l'unica porta sul piano era proprio quella in fondo al corridoio e, dalla madreperla delle maniglie, Chakuza immaginò dovesse trattarsi di quella del grande capo. Percorse tutta la strada facendosi una paranoia dopo l'altra sul fatto di bussare o meno, oppure tornare al primo piano e farsi annunciare – anche se non sapeva a chi, visto che chiedere al portiere di chiamargli l'interno di Ade gli pareva fuori discussione – ma gli bastò avvicinarsi alla porta perché quella si aprisse sulla faccia perennemente inespressiva di Eko.
“Sei venuto,” commentò con un vago accenno di sorpresa. “Dal modo in cui hai passato l'ultima mezz'ora a fissare le porte girevoli, pensavo che saresti tornato a casa.”
“Mi stavi osservando?”
“Come sempre,” Eko scrollò le spalle e, di fronte alla sua occhiata allucinata, aggiunse “Te l'ho detto che mi annoio.”
Ermes, o Eko, o quello che era, lo condusse in silenzio per altre stanze arredate elegantemente, ma vuote e così fredde da sembrare abbandonate.
“Eccoci qua” annunciò alla fine, fermandosi di fronte ad una porta più grande delle altre e nera come la notte. Chakuza si perse soltanto un attimo ad osservare i volti mostruosi che vi erano incisi sopra: demoni caprini con lo sguardo furente e lingue di serpente che si attorcigliavano per ogni dove. Eko seguì il suo sguardo e sospirò. “Non fare caso alla porta, è un pezzo unico di un architetto completamente pazzo che va di moda in questo periodo. E' brutta come non so cosa e l'hanno pagata milioni, ma a Persefone piace quindi rimuoverla non è possibile, almeno fino a quando non s'innamorerà perdutamente di qualche altro oggetto discutibile e ci costringerà tutti ad adorarlo. Comunque sia, hai dieci minuti per entrare là dentro ed esporre il tuo problema. Cerca di essere breve, ma convincente. Ade è uno che non ama perdere tempo.”
Chakuza deglutì, perché le parole non erano esattamente il suo forte. Ricordava di averci messo quasi due ore a dire a Fler che gli piaceva, e alla fine era stato lui a baciarlo perché non ne poteva più di starlo a sentire mentre blaterava cose prive di senso su cuori che battevano e sensazioni mai provate prima. Se non fosse stato per Fler, probabilmente sarebbero stati ancora in piedi di fronte alla porta di casa sua a guardarsi negli occhi senza che succedesse assolutamente nulla.
“Posso farcela,” cercò di convincersi, mentre Eko apriva la porta per lui e gli faceva strada.
La stanza era gigantesca e dall'enorme vetrata che si ritrovò davanti non appena ebbe superato la soglia si aveva una vista bellissima di qualcosa che non sapeva cosa fosse, ma che di sicuro non era Berlino. Una distesa di nuvole bianche come panna si apriva davanti a lui e dovevano essere davvero molto in alto, perché si vedeva soltanto il cielo. Quando i suoi occhi si furono abituati alla luce splendente di quel paesaggio, si rese conto che dalle nubi cominciavano ad affiorare piccole casette bianche, fino ad un enorme tempio greco, in lontananza. Eko dovette prenderlo per un braccio e trascinarlo via per impedirgli di rimanere lì a fissare di fronte a sé a bocca aperta come un cretino. “Che cos'è?” Sussurrò, guardandosi di tanto in tanto indietro, mentre il messaggero degli Dei lo conduceva altrove, in fondo alla stanza.
“E' l'Olimpo,” sospirò Eko “Ma non abbiamo tempo per il giro turistico, magari un'altra volta.”
Chakuza avrebbe voluto chiedergli altri cinque minuti di quella visione, e magari aggrapparsi a qualcosa per non venir trascinato alla presenza del Signore degli Inferi, ma non ebbe il tempo di fare né l'una nell'altra cosa perché in realtà non andarono molto lontano e il Dio in questione era già lì, per altro seduto dietro un'enorme scrivania. “E' arrivato,” lo annunciò Eko, senza tante cerimonie e con la faccia annoiata di uno che troverebbe più divertente tagliarsi le vene, prima di lasciarlo lì dov'era e spostarsi da una parte.
Chakuza si era aspettato grandi vesti nere, serpenti sibilanti e occhi come braci roventi, ma venne puntualmente disilluso; stavolta da un uomo dalla pelle color caramello, un bel completo elegante di Armani e la barba fatta di fresco. Un uomo che, per altro, Chakuza conosceva bene perché il suo viso compariva sui cartelloni pubblicitari sparsi ovunque per la città, nei quali invitava la popolazione a farsi un giro al grattacielo. Ade era Bushido, il proprietario del palazzo. Si chiese se ci sarebbe mai stata fine alla follia oppure se era entrato in una spirale della quale non avrebbe mai visto la fine. E comunque, più andava avanti, più la storia dei funghi allucinogeni sembrava credibile.
Ade sollevò lo sguardo dallo schermo del portatile che aveva davanti e lo osservò attentamente con espressione indecifrabile. “E tu saresti?”
Chakuza lanciò un'occhiata a Eko che gli fece cenno di rispondere.
“Chakuza, signor Bushido...Ade,” rispose esitante. Poi gli venne in mente che in effetti quello non era proprio il suo nome, ma un soprannome che gli avevano affibbiato alle superiori, senza che riuscisse più a schiodarselo di dosso in nessun modo. “Ma forse mi conosce come Peter Pangerl, io gestisco il ristorante al quarto piano.”
Ade annuì, del tutto disinteressato, tornando immediatamente al suo portatile. “Qualunque sia il suo problema, signor Pangerl, io non posso aiutarla. Delle questioni amministrative dei negozi ai primi 25 piani se ne occupa Persefone, chieda un appuntamento alla sua segreteria,” lo liquidò. “Perché questo tipo è qui, Eko?”
Il messaggero si affrettò a raggiungere la scrivania. “E' il ragazzo del SUV,” spiegò in fretta. “L'incidente con il tipo ubriaco, te ne ho parlato ieri.”
Bushido smise di digitare e cercò di ricordarsi la questione in oggetto. “Ma non lo avevamo già registrato?” Chiese, voltandosi verso il collaboratore, con la fronte aggrottata.
“Questo è l'altro, Bu,” sospirò Eko, alzando gli occhi al cielo. “Quello vivo.”
Bushido ci mise qualche secondo, durante il quale annuì con aria poco convinta, prima di capire. “Oh, quindi tu sei qui per la supplica,” concluse alla fine, pienamente soddisfatto di aver finalmente compreso che cosa stessero a fare tutti e tre lì in quella stanza. Si appoggiò allo schienale della poltrona e intrecciò le dita delle mani. “Allora, che cosa ti serve esattamente?”
Chakuza lanciò un'altra occhiata ad Eko, solo per trovare il vuoto cosmico nei suoi occhi, così si schiarì la voce e si preparò a rispondere; avrebbe umilmente torturato il cappello tra le mani se non avesse avuto dei problemi irrisolti con la propria calvizie. Stava per aprire bocca quando la porta laterale si spalancò, riversando nella stanza un rumore secco di passi.
“Anis, ci sono di nuovo problemi con le consegne. Ho i demoni di metà gironi a letto con l'influenza. Sono sotto organico e i miei nuovi stagisti sono bloccati sulla riva dello Stige insieme ad altre 200.000 anime perché l'acqua si è abbassata di due centimetri e Ari non vuole rischiare la barca. Io ti giuro che questa volta lo licenzio e non m'importa che siate amici dai tempi della scuola. Chiaro?”
Chakuza osservò la persona che era appena entrata ondeggiando su un paio di alti stivali in pelle nera tacco 12 e la mascella gli si sganciò finendo per penzolargli inerme dalla bocca. Gli sembrò quasi di sentirne il rumore, soprattutto quando, nello stesso istante, la persona in questione si voltò verso di lui, come se lo vedesse per la prima volta. “Oh, salve,” mormorò, stirando appena le labbra in un sorriso gentile. “Tu devi essere il postulante delle undici.”
“Sì?” Chiese Chakuza, un po' perso negli occhi color ambra e nel viso perfetto della creatura che aveva davanti. “Cioè, sì, sono io. Naturalmente.”
“Persefone, ma puoi chiamarmi Bill,” disse, allungandogli una mano da stringere. Poi il suo viso si contrasse in un'espressione di cordoglio apparentemente molto sentito. “Mi dispiace molto per la tua perdita.”
“Grazie,” mormorò Chakuza, sempre più inebetito, mentre osservava Bill che tornava a voltarsi verso Bushido perdendo quell'espressione di compassione.
“Amore, hai sentito quello che ho appena detto?” Chiese.
Bushido socchiuse gli occhi soltanto per un istante, riaprendoli prima che il gesto sembrasse troppo infastidito e suscitasse le ire della sua dolce metà. “Sì, ti ho sentito. Cerca di riorganizzare i demoni meglio che puoi. In quanto ad Ari, lo chiamo appena ho finito qui, d'accordo?”
“Sei un tesoro” Bill fece un sospiro innamorato e poi si sedette con tranquillità sul bracciolo della sedia di Bushido. “Ma continuate pure, scusate se vi ho interrotto.”
“Stavi dicendo?” Lo incalzò Ade. “Se riuscissi a condensare la questione in due minuti, te ne sarei grato. Come hai potuto sentire, abbiamo un'epidemia non voluta in corso e, dal momento che qui la gente, come puoi immaginare, non può morire di nuovo estinguendo il virus, dobbiamo fermarla prima che finiamo tutti a letto malati per l'eternità. Vuoi continuare?”
Chakuza annuì, prima ancora di aver riordinato le idee. “Dunque, il mio fidanzato, è stato investito da un'auto qualche giorno fa e ha perso la vita,” deglutì a fatica perché quella era la prima volta che lo diceva sul serio, ad alta voce, consapevole di quello che stava dicendo e non preso nel delirio che era seguito alla morte e all'organizzazione per il funerale e la sepoltura. “Aveva un sacco di progetti ed era buono, molto più buono di me, non si meritava di morire. Io sono qui a chiederle di dargli una seconda possibilità.”
Bill si profuse subito in un uggiolio mesto e triste, mentre Bushido si schiariva la voce e spostava una costosissima penna stilografica, da un posto inutile all'altro, giusto per recuperare un tono che Bill gli toglieva stando appollaiato lì di fianco. “Capisco la tua situazione, Chakuza, e mi dispiace, dico davvero. La morte è una cosa dolorosa e nessuno al mondo lo sa meglio di me, visto che è da me che dipende, ma ci sono delle regole che devono essere rispettate per il bene dell'intero sistema.”
Fino a quel momento, Chakuza aveva pensato di stare sognando e che avrebbe provato a chiedere solo per il gusto di farlo, senza crederci davvero; d'altronde era impensabile che l'inferno si trovasse all'interno del grattacielo e che il proprietario fosse Ade. Quando però si sentì rispondere di no, la delusione fu talmente enorme e pesante da schiacciargli il cuore fino a ridurlo a pezzi. “E' morto per colpa di una persona che non avrebbe dovuto trovarsi al volante in quello stato, e che al momento è viva mentre lui no,” insistette, ora con rabbia invece che disperazione. “Per questa persona le sue regole non valgono?”
“Non è così che funziona, Chakuza,” mormorò Ade, con tono conciliante e quasi affettuoso. “Non è una questione di meriti, ma di destino. Le persone buone non vivono più di quelle cattive solo perché se lo meritano di più. Tutto dipende da com'è stato filato il filo della loro vita. Quello di alcuni è semplicemente più corto di quello degli altri e, per quanto questo faccia male, dobbiamo sopportarlo.”
“Se lei è Ade e il destino viene filato, allora ci sono anche tre Parche che decidono quando tagliare,” disse Chakuza, stringendo i pugni. Bushido guardò Eko che sollevò le mani come a dire che lui non c'entrava assolutamente niente. “Magari hanno sbagliato le misure, magari il filo doveva essere più lungo, magari...”
“Chakuza, vorrei davvero aiutarti,” lo interruppe Bushido, “ma se rimandassi indietro tutte le anime delle persone care che mi vengono richieste, questo posto sarebbe vuoto. Senza contare, naturalmente, che la vita non avrebbe alcun senso, avendo eliminato la morte, ti pare?”
Bill accarezzò il braccio di Ade, mordendosi un labbro, ma non disse niente, ed Eko si agitò sul posto, improvvisamente nervoso.
Sulla stanza calò un silenzio pesantissimo, a cui Bushido sapeva di dover rimediare di persona, dopo esserne stato la causa. “Posso fartelo vedere un'ultima volta, se vuoi,” disse, con una certa riluttanza e, quando l'altro sollevò di scatto la testa, con un'espressione tra la speranza e la sorpresa, aggiunse “ma devo avvertirti che lui potrebbe non riconoscerti e che sarà molto più doloroso quando dovrete separarvi.”
Chakuza sapeva di doverci pensare, di dover valutare i pro e i contro, sapeva anche che vederlo per un attimo avrebbe raddoppiato il dolore ancora non sopito di vederselo portare via così improvvisamente, ma nessuna ragione sembrava valida di fronte alla possibilità di rivedere il volto di Fler, anche per un istante, anche senza poterci parlare. “Voglio vederlo,” mormorò debolmente. “Posso vederlo?”
“Deve ancora attraversare il fiume,” intervenne Bill, intuendo la decisione del compagno. “L'ho visto stamattina.”
“Sarà molto solido, Chakuza,” lo avvisò Bushido. “Sembrerà in vita.”
“Non importa, voglio vederlo.”
Bushido chiuse gli occhi e li riaprì, l'aria ebbe un fremito impercettibile e poi si quietò subito. “Quando sei pronto, puoi girarti. E' dietro di te,” disse l'uomo.
Chakuza si voltò molto lentamente e non lo cercò con gli occhi, lasciò che la sua figura massiccia e un po' luminosa entrasse da sola nel suo campo visivo. “Fler...” mormorò.
L'anima rimase immobile e continuò a fissare dritto davanti a sé, come fosse ancora su quella riva dalla quale Bushido l'aveva richiamata. A guardarlo, sembrava che non fosse mai morto. Era solo un po' più brillante e la luce che risplendeva da dentro, gli illuminava la pelle rendendola ancora più bianca e più liscia di quanto non fosse mai stata.
Chakuza trattenne il respiro pur rendendosi conto che, anche se avesse urlato, lui non si sarebbe mosso. Lo guardò come quando, certe mattine, si svegliava prima di lui e lo osservava dormire. Sapeva che il tempo avrebbe messo le unghie sull'immagine che aveva di lui nella sua testa e l'avrebbe fatta a pezzi, anno dopo anno, finché sarebbero rimaste soltanto le foto a ricordargli le mille sfumature del suo sorriso, così pensò che se lo guardava abbastanza a lungo, se cercava di cogliere ogni dettaglio, anche quello più insignificante, e di marchiarlo a fuoco nella memoria, forse lo avrebbe ricordato sempre chiaramente anche dopo che se ne sarebbe andato di nuovo per sempre.
“Chakuza,” lo chiamò piano Bushido. “E' tempo.”
“Io e Fler stavamo insieme da tre anni e ci conoscevamo da molto di più,” disse Chakuza senza voltarsi e senza dare troppo ascolto al Dio degli Inferi. “Io non credo di poter vivere senza di lui.”
Alle sue spalle, sentì il gemito commosso e sospirante di Bill. “Oh Anis, tesoro,” mormorò “Non c'è proprio niente che possiamo fare?”
Bushido rimase in silenzio a lungo. “Come ho già detto, mi dispiace e sono davvero addolorato per questa situazione, ma una volta varcate le porte dell'Ade, tornare indietro destabilizza l'intera struttura infernale.”
Chakuza ebbe un sussulto. Allora è finita davvero, pensò. Se forse poteva convincere Ade a ridargli Fler, di certo non lo avrebbe mai convinto a distruggere il proprio regno per questo. Non c'era speranza.
Gli stivali di Bill tornarono a ticchettare sul pavimento, quando scese dal bracciolo della poltrona. “Ma Fler non ha ancora varcato la soglia,” esclamò, facendo voltare di scatto Chakuza ed emettere un suono frustrato a Bushido. “Se non attraversa il fiume, potrà tornare senza danni.”
“Le regole non lo permettono.”
“Sì, se lui lo accompagna fuori,” intervenne Eko, che fino a quel momento si era limitato a fissare apatico qualunque cosa stesse avvenendo di fronte ai suoi occhi rotondi. “In fondo, ci sono dei precedenti.”
Lanciò un'occhiata a Bill che s'illuminò con un sorriso e Bushido scosse la testa, sbuffando infastidito. “La nostra storia è completamente diversa.”
“Non poi così tanto,” insistette Eko. “In fondo si tratta solo di regole.”
“E tu puoi cambiarle,” esclamò Bill, “Soltanto un pochino.”
Eko si fece avanti, passando così vicino a Fler che Chakuza quasi chiuse gli occhi per non vedere la manica della sua giacca passargli attraverso e rivelare che, per quanto apparisse solido, in realtà era fatto di niente. “D'altronde non è che nel corso della storia tu non abbia mai fatto cose del genere, Bu,” commentò.
Bill prese il volto di Bushido tra le mani e lo costrinse a guardarlo. “Anis, ti prego, diamogli una possibilità. Si amano così tanto che se la meritano, no? Anche il Dio dell'Amore sarebbe contento. Sono sicuro che apprezzerebbe e vi aiuterebbe a diventare amici.”
“Bill, tuo fratello non sarebbe amico mio nemmeno se finalmente gli concedessi di passare il tempo con Cleopatra, come vorrebbe. Figuriamoci cosa gliene frega a lui se questi due stanno insieme oppure no.”
Bill abbassò pudico la testa e, giocando distrattamente con un piede sul marmo del pavimento, commentò: “Ma se esaudissi questo mio desiderio potrei tornare da lui solo tre mesi invece dei soliti sei.”
“D'accordo, va bene!” Esclamò l'uomo, esasperato, suscitando la prima risata di Eko in almeno due anni e il battere incontrollato delle mani di Bill. “Ma alle mie condizioni.”
Chakuza si fece avanti, guardandolo con tanta di quella speranza negli occhi, che Bushido se ne sentì quasi travolgere e fu un fastidio fisico, come il tocco di qualcosa di velenoso. “Potrai portare Fler fuori di qui, a patto che, una volta uscito da quella porta, tu percorra tutta la strada a ritroso, senza mai voltarti indietro a guardarlo,” spiegò Bushido. “Sta' ben attento a quello che ti dico. Non potrai posare gli occhi su di lui nemmeno una volta, nemmeno per poco, finché entrambi non sarete usciti alla luce del sole. Se lo farai, Fler tornerà a me per sempre.”
Chakuza non aveva alcun motivo per starci a pensare e, anche se lo avesse fatto per giungere alla conclusione di accettare, di certo non avrebbe afferrato la difficoltà del compito che gli veniva assegnato, o il rischio che avrebbe corso a buttare anche solo un'occhiata. “D'accordo,” annunciò.
“Eko, accompagnalo,” ordinò Bill e, quando Bushido lo guardò con l'aria di non essere esattamente d'accordo con lui, aggiunse: “Riporterà indietro Fler nel caso Chakuza dovesse fallire ed eviterà qualunque tipo di problema possa presentarsi.”
Eko chiese conferma al Dio degli Inferi e quello finì per acconsentire.

*


Il suono della voce di Fler arrivò quasi contemporaneamente al chiudersi della porta.
Chakuza sentì il tonfo sordo e pneumatico e subito dopo Fler che lo chiamava. Non aveva visto che la sua forma si era fatta più definitiva e meno luminosa, che i suoi occhi s'erano schiariti fino a perdere l'apatia e la confusione che vi avevano dimorato fino ad un attimo prima. Adesso non era più sulle rive dello Stige ad aspettare un passaggio che non arrivava, era in quel corridoio, consapevole di trovarsi lì, ma non di essere morto e del tutto ignaro del perché Chakuza gli camminasse davanti, in silenzio, e non si voltasse quando lui lo chiamava. “Chaku, guardami per favore,” disse mentre scendevano le scale dell'ultimo piano. Il cuoco aveva sperato di ridurre quella pena con un viaggio in ascensore, ma sarebbe stato ovviamente troppo facile. Eko lo aveva subito avvisato che quello non avrebbe funzionato e, difatti, quando c'era arrivato davanti, la pulsantiera era spenta e l'apparecchio ricoperto di ragnatele e grigio come se non fosse in funzione da secoli quando, invece, lo aveva usato nemmeno mezz'ora prima. “Chaku perché non vuoi girarti?” Insistette Fler, la cui voce andava facendosi sempre più disperata man mano che scendevano, in un modo in cui non lo aveva mai fatto prima di allora. Fler era quasi sempre felice e, quando capitava che non lo fosse, difficilmente era così disperato. Il suo modo di reagire al dolore era sempre positivo, sentirlo così distrutto gli spezzava il cuore.
Strinse i pugni e i denti e si ricordò che non poteva rispondergli. Eko gli aveva suggerito di non farlo perché parlarci lo avrebbe più facilmente portato a voltarsi, e quella era una cosa che non voleva fare.
“Siamo al quarantesimo,” annunciò Eko, che avrebbe dovuto essere lì per Fler, ma in realtà camminava al suo fianco, seppur con aria disinteressata.
“Peter, ti prego,” Fler non smetteva mai di chiamarlo o di cercare di attirare la sua attenzione, ma non aumentava il passo per raggiungerlo né cercava di avvicinarlo. E questo era ancora peggio perché, dopo altri dieci piani in cui non aveva fatto altro che chiamarlo e chiedergli perché non volesse parlare con lui, Chakuza aveva cominciato a provare il bisogno di dargli retta. E, se lui non poteva farlo, cominciava a sperare che almeno Fler allungasse una mano, gli tirasse la maglia e lo costringesse a voltarsi. Sarebbe stato tragico ma forse, quando lo avrebbe guardato per l'ultima volta, la sua voce avrebbe perso tutto quel dolore che in questo momento lo tormentava in maniera così profonda.
“E poi dove stiamo andando?” Chiese Fler. “Che posto è questo? Che cos'è successo?”
Chakuza si chiese se, una volta fuori, l'altro si sarebbe ricordato dell'incidente, della morte, dell'Inferno e di tutto ciò che stava avvenendo in quel momento o se si sarebbe risvegliato da qualche parte, senza la minima idea di cosa avesse passato.
Tutte le domande, comunque, rimasero prive di risposta. La loro eco proseguì per qualche istante lungo le pareti dei corridoi vuoti e poi si spense, lasciandoli nel silenzio, fino al lamento successivo di Fler.
“Ancora venti,” annunciò Eko, che teneva la testa ben sollevata e vigile, a differenza di Chakuza che si guardava le scarpe nel vano tentativo di trovarle più interessanti di qualunque altra cosa. Nemmeno l'Olimpo fuori dalle finestre sembrava incuriosirlo.
“Perché non si sentono le urla dei dannati?” Chiese dopo un po' che camminavano in silenzio e perfino i richiami di Fler si erano fatti più deboli.
Eko sospirò. “Perché non ti chiami Dante e io non sono Virgilio,” rispose subito, intuendo l'immagine che il cuoco doveva avere in mente. “E' vero che ci sono i gironi, lo Stige e Caronte ma abbiamo anche delle mura insonorizzate. Persefone ci farebbe uscire tutti quanti di cervello se le anime si sentissero fin qui, ti pare?”
Al decimo piano, Chakuza si sentì libero di ricominciare a respirare. Non completamente, forse, soltanto un po', ma abbastanza da non sentire più quella presa alla gola, come se una mano gelida avesse tentato di strangolarlo lungo tutta la strada. Ancora poche rampe di scale e avrebbero rivisto la luce del sole, Fler sarebbe tornato in vita e avrebbero potuto riabbracciarsi di nuovo. L'incidente e la bara sarebbero stati soltanto un ricordo lontano, forse perfino soltanto suo.
Quando misero piede nell'atrio, quello era vuoto come tutti i piani che avevano appena oltrepassato. Non c'era nemmeno il portiere che aveva salutato entrando, quindi si chiese se fossero davvero nel mondo reale o se, uscendo da quelle porte girevoli, avrebbe trovato nuvole e case – o fiamme e crateri – e in realtà Ade non avesse mai pensato davvero di lasciarli uscire.
Il sole, però, filtrava attraverso le finestre, ed era così bello e chiaro in confronto al buio da cui proveniva, che Chakuza si sentì subito meglio. “Ci siamo quasi, Fler,” ebbe il coraggio di dirgli. “Ancora qualche passo e potremo tornarcene a casa.”
Fu allora che si accorse che l'eco dei passi che sentiva adesso era solo la sua. Eko li aveva seguiti sempre aleggiando a qualche centimetro da terra, così il rimbombo gemello del loro camminare era stato un rumore continuo fino a... Chakuza non ricordava. Forse nell'atrio, o forse anche prima.
Il panico che lo assalì prese di nuovo la forma della mano gelida, ma stavolta la stretta fu più forte e più violenta, quasi uno strattone che lo portò a voltarsi senza pensare a niente. Sentì il grido di Eko ma era già tardi, quando posò gli occhi su Fler, la sua immagine tornò a vacillare, come quella di un televisore mal sintonizzato. Nell'avvicinarsi all'uscita, Fler si era fatto più vivo e, sebbene non ricordasse gli eventi che lo avevano portato fin lì, cominciava a sentire quell'eco di dolore che era il ricordo della botta datagli dal SUV, e si era attardato qualche metro più indietro a massaggiarsi la spalla e il fianco.
Quando i loro occhi si incontrarono, tutto fu improvvisamente chiaro anche per lui e in quell'unico terrificante istante, anche lui capì che cosa sarebbe successo. “Peter!” Gridò disperato, tendendo la mano che diventava sempre più bluastra, trasparente e luminosa.
Chakuza tornò indietro correndo e si gettò a terra con lui, stringendolo forte contro il proprio corpo, come se dandogli qualcosa a cui aggrapparsi potesse impedirgli di sprofondare. “Tieniti a me!” Gli mormorò sulla pelle. “Non ti lascio, Fler! Non vai da nessuna parte.”
Lanciò un'occhiata disperata ad Eko, che aveva gli occhi sgranati e una smorfia di dispiacere a piegargli le labbra. Si guardò intorno allarmato e poi guardò l'orologio rotondo sul muro sopra di loro, che segnava orari impossibili e andava all'indietro velocemente, riavvolgendo il tempo che per tutti quei piani era stato concesso loro. Deglutì e chiuse gli occhi. “Portalo fuori,” ordinò seccamente.
“Cosa?” Chiese Chakuza. “Sta svanendo.”
“Se esce di qui prima che sia scomparso del tutto, si salverà,” gli disse Eko.
Chakuza osservò Fler che digrignava i denti, forse per il dolore, o forse perché di lui non era rimasta che un'ombra pallidissima, attraverso la quale riusciva a vedere il pavimento.
Eko ruggì e li tirò su entrambi per gli avambracci. “Muovetevi!” Abbaiò. “Fuori di qui, ora!”
Chakuza strinse forte la mano di Fler e si mise a correre, senza voltarsi indietro come avrebbe dovuto fare fin dall'inizio, infilò la porta girevole e quando il sole gli accarezzò il viso, sentì le dita dell'altro stringersi fortissimo intorno alla propria mano, solide e concrete. Sorrise.

*


Il ticchettio dei passi lo costrinse a rannicchiarsi ancora di più. Mai come in quel momento avrebbe desiderato avere il potere di teletrasportarsi altrove, come tutti gli altri Dei; ma Zeus sosteneva che per lui era inutile, visto che poteva svolazzare dove voleva a velocità supersoniche. Peccato che, in questo caso, non potesse andarsene volando senza essere intercettato.
“Eko, vieni fuori, tanto lo so che sei lì. Le alucce delle tue scarpe da ginnastica fanno rumore.”
Eko imprecò sottovoce, alzando gli occhi al cielo e stringendo le ali tra le mani, senza pensare che questo le avrebbe fatte fermare. Perse stabilità fino ad appallottolarsi e quando la porta dell'armadio fu aperta, lui ne uscì arrotolato su se stesso.
Si disincastrò a fatica, accompagnato dal fremere indispettito delle sue alucce e sorrise incerto e impaurito, di fronte alla figura sinuosa di una donna. “Atropo!” Esclamò, fingendosi sorpreso. “Che bello vederti!”
“Non usare il mio vero nome, quello è per chi se lo merita. Per te andrà benissimo Valezka,” sibilò lei, incrociando le braccia al petto e guardandolo malissimo. Al suo fianco, il chihuahua isterico di Persefone ringhiava ininterrottamente da quasi due minuti, scuotendosi tutto nel suo cappottino rosa di chiffon.
“Come mai da queste parti? Portavi Cerbero a fare i bisogni?” Tentò, con un altro sorriso ebete.
Lei non cambiò espressione. Il suo bel volto era teso e gli occhi scuri così profondi che Eko poteva perdercisi dentro per un motivo molto diverso dal solito. “Sai benissimo perché sono qui,” disse. “Rivoglio il mio libro.”
“Quale libro, tesoro? Non ho nessun libro,” Eko cominciò lentamente ad arretrare.
“Il mio libro dei morti,” sibilò lei, avanzando. “Quello su cui sono scritti i destini che Lachesi decide per i mortali. Tu sei entrato nel nostro studio e mi hai distratta per sottrarmelo!”
Eko avrebbe voluto dirle che, in realtà, era entrato nel loro studio col fine ultimo di limonarla come al solito a due passi dall'arcolaio di Cloto; l'idea di rubare il libro dei morti per pasticciare con qualche anima era venuta dopo, ed era stata così allettante che non aveva saputo trattenersi. Quindi in sostanza, non l'aveva distratta per prendersi il libro. Era stato il libro che aveva distratto lui dal limonarsela. Forse non era meno grave, ma per lo meno gli spettavano delle attenuanti.
“Allora?” Lo incalzò Valezka, tendendo la mano.
Eko ridacchiava nervosamente, sudando freddo. Strisciò sul pavimento ancora per qualche metro, con gli occhi della sua ragazza e del piccolo cane sempre puntati addosso. “Ma tesoro, come ti viene in mente che potrei averlo preso io?”
“Perché solo tu sei entrato in quello studio,” rispose lei. “E poi sei stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza, quindi piantala con le idiozie.”
Eko maledisse mentalmente quei marchingegni elettronici. La sua vita di spensierato ladruncolo era molto più facile quando il mondo era giovane e nessuno ti puntava addosso occhi meccanici mentre tentavi di fregargli qualche oggettino prezioso. “Vale, non ti arrabbiare,” cercò di blandirla. “Non volevo fare niente di male.”
“Rubare documenti secretati per cambiare i destini degli esseri umani è un reato punibile con l'espulsione dall'Olimpo, Ermes,” gli fecce notare lei.
Eko incassò le spalle. “In realtà io non ho fatto niente del genere,” si difese. “Ho solo suggerito al ragazzo che c'era la possibilità di conferire con Ade. Tutto il resto è avvenuto al di fuori del mio controllo. E' stata Persefone a proporre per prima di rispedire l'anima a casa, non io.”
Le labbra di Valezka non si aprirono in un sorriso di fronte all'abile mossa con cui si era tratto d'impaccio, anzi si tesero ancora di più. “Sai una cosa? Non m'importa con quale atroce sofferenza finirai per essere punito, io rivoglio solo il mio libro.”
Eko ci provò di nuovo, d'altronde negare anche l'evidenza era la prima regola per sopravvivere. “Te l'ho già detto, tesoro, io non--”
“Me lo ridai o devo dire a Cerbero di attaccare?”
Il cagnolino abbaiò furiosamente ed Eko deglutì, consapevole che quell'esserino malefico e microscopico era stato addestrato a mordere con violenza i gioielli di famiglia. Non c'era bisogno che a fare la guardia alle porte infernali fosse un dobermann a tre teste grosso come un toro, quando avevi un cane in grado di mettere in ginocchio un uomo di centottanta chili con un morso solo.
Persefone aveva battuto i piedi per averlo e adesso non c'era niente che amasse e viziasse di più in tutto l'universo, fatta esclusione per Bushido, naturalmente. Cerbero aveva una stanza del palazzo tutta per sé, e anche un cuoco personale, un massaggiatore, una cameriera che lo faceva giocare quando si annoiava e, nei momenti in cui alla sua padrona sembrava depresso, perfino uno psicologo che lo ascoltasse. Invece Eko, che era un Dio e nemmeno uno di quelli minori, doveva annoiarsi a morte perché non aveva assolutamente niente da fare e seguire il suggerimento di Ade di trovarsi un hobby per passare il tempo senza appestarli tutti con le sue lagne – parole sue – non stava avendo i risultati sperati. Francobolli, monete e giardinaggio si erano rivelati quasi più noiosi che passare le ore a fissare il cielo immutabile dell'Olimpo fuori dalla finestra.
“No, non farlo attaccare” mormorò alla fine, decidendo che nemmeno un morso letale alle parti basse sarebbe stato divertente. Estrasse il piccolo libro dalla tasca interna della giacca e lo porse alla seconda delle Parche. “Eccolo qua.”
Valezka glielo strappò di mano e ci sbirciò dentro per controllare che fosse tutto a posto. “Sappi che se mi fai un altro scherzo del genere, troverò quel filo di pessima lana che ti tiene insieme la vita e riuscirò a tagliarlo anche se sei immortale. Ci siamo intesi?”
Eko annuì velocemente, terrorizzato.
“Bene. Ora fossi in te comincerei a mettere in moto il cervello, perché Ade è furioso ed è appena uscito a cercarti. Vedi di trovare il modo di placarlo, è tutta la mattina che fa piovere e io devo andare dal parrucchiere; i miei capelli non devono rovinarsi, altrimenti ci penserò io ad ammazzarti, se non l'avrà già fatto lui.”
Cerbero sbuffò, come a sottolineare il concetto, poi entrambi si allontanarono. Eko li seguì con lo sguardo e non si alzò da terra finché non fu certo che non sarebbero tornati indietro.
Pensò che poteva passare da casa a prendere due cose e poi andare a chiedere asilo ad un'altra religione, ma non ce ne fu il tempo; da qualche parte, appena un piano sopra di lui, Bushido stava chiamano il suo nome e il tuono della sua voce non prometteva niente di buono.
Personaggi: Fler, Chakuza
Genere: Commedia
Avvisi: Slash, Language
Rating: PG 15
Prompt: Storia scritta per la maritombola di Mari di Challenge (prompt nr.6: "Portafoglio").
Note: - Come ogni altra storia prima di questa, anche Walletgate ha passato momenti di paura e panico ed ha anche rischiato di essere cestinata in toto per essere sostituita da una trama completamente diversa, ma il culopeso ha vinto e quindi è rimasta fedele all'idea originale che lascia un po' il tempo che trova ma filla la cartelletta, quindi è cosa buona e giusta. Vogliatele un po' di bene, se potete.

Riassunto: Il portafoglio di Chakuza non è veramente un portafoglio.
WALLETGATE


Questa settimana Chakuza è uscito sei volte senza dirmi dove andava.
Si è alzato, si è messo il capotto, mi ha baciato e poi è sparito dalla circolazione senza un'indicazione, salvo quella di chiamare se avevo bisogno – cosa del tutto inutile visto che il suo cellulare risulta spento o irraggiungibile a qualunque ora tu lo chiami.
Ora, io non sono un tipo geloso. Non sono uno di quelli che crede di possedere una persona quando ci sta insieme e, tra l'altro, col fatto che io e Chakuza non è che ci siamo mai messi lì seduti ad un tavolino a decidere se quello che siamo è una coppia o meno, non avrei nemmeno il diritto di essere geloso, se lo fossi. Ma non lo sono.
Il punto è che quando alla fine, dopo che lui si è messo il cappotto, mi ha baciato ed è uscito, io finalmente mi sveglio e trovo la forza di strisciare fuori dal letto, è un po' disturbate ritrovarmi in casa sua senza di lui e non sapere quando tornerà e se lo farà mai, per altro, oppure se devo aspettarmi che un agente immobiliare faccia irruzione in questo salotto disastrato e spieghi ad una giovane coppietta di sposini che, una volta ristrutturato, questo sarà un delizioso bilocale con cucina abitabile e che, volendo, la sala è abbastanza grande per dividerla a metà e farci una stanza per i bambini.
A parte che per ristrutturare questo appartamento in modo che diventi anche solo a malapena vivibile ci vorrebbero tanti di quei soldi ma, soprattutto, tanto di quel tempo che i due amabili piccioncini ci verrebbero ad abitare in età pensionabile, io non voglio essere qui mentre questo succede. Dovrebbe esserci lui a spiegare ai compratori perché dovrebbero tirare fuori del denaro per questa topaia, ma lui non c'è.
Lui è Dio solo sa dove a fare Dio solo sa cosa, in un posto che non è lo studio di registrazione, casa di sua madre, casa di Bushido o la casa di chiunque altro io conosca. Quando esce, non va mai in un posto di cui io possiedo il numero o anche solo una vaga indicazione, quindi ne devo supporre che non vuole essere rintracciato e questo, naturalmente, mi scazza e modifica totalmente la mia politica sulla gelosia e sul controllo altrui, perché io non sono geloso di Chakuza, ma se c'è una donna o un uomo in questa città che gli mette le mani addosso oltre a me, io lo ammazzo. Non potrebbe essere più semplice di così.
Non è una questione di gelosia, capite?, è solo che mi stanno antipatici gli agenti immobiliari, e non sopporto che mi si lasci solo a discutere con loro, anche se sono immaginari. Tutto qui.
La prima cosa che ho fatto è stata interrogare gli altri ragazzi, volevo capire se loro sapessero qualcosa di dove andava e cosa faceva Chakuza quando lasciava questa casa, ma naturalmente nessuno ha aperto bocca come mi aspettavo. Il problema è che io posso anche aver lasciato il nemico da mesi ed essere tornato con Bushido, ma per tutti quanti rimango comunque un esterno a cui è momentaneamente permesso di soggiornare da queste parti, così vengo sempre tagliato fuori da tutte le questioni ed è ovvio che, se Chakuza ha bisogno di essere coperto, loro lo fanno subito.
Così, visto che la cosa va avanti ormai da giorni e che da parte loro non posso aspettarmi nessun aiuto concreto, mi vedo costretto a prendere misure drastiche nei confronti di quest'uomo pelato con il quale, bene o male, mi ritrovo a dividere il letto più spesso di quanto si potrebbe pensare, non conoscendolo.
Quando vuoi scoprire qualcosa di un uomo e tutto il resto ha fallito, l'unica cosa che ti resta da fare è guardare nel suo portafoglio. E' incredibile la quantità di cose che puoi trovarci dentro.
Da piccolo, quando ancora mia madre era abbastanza giovane da uscire ancora con qualche uomo e magari ci usciva abbastanza a lungo da portarlo a casa a conoscermi, io facevo sempre in modo di mettere le mani nel suo portafoglio perché ero convinto che, se si trattava di un uomo che per lei non andava bene, di certo l'avrei capito guardandoci dentro. Alle volte funzionava.
Così mi tengo pronto all'impresa e, per quando Chakuza finalmente si degna di rientrare – che ormai è ora di cena – io ho già un piano. Immagino che sarà stanco, visto che è stato fuori tutto quanto il giorno, e quindi vorrà lavarsi. Aspetterò che s'infili in doccia e poi scivolerò silenziosamente in bagno per recuperare il portafoglio dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Lui non si accorgerà nemmeno che sono lì perché, generalmente, una volta che ha aperto il rubinetto, si mette a cantare e non sente più nulla. Io glielo dico sempre che finirà per farsi ammazzare nudo con una saponetta in mano mentre canta a squarciagola Alejandro di Lady Gaga, e a quel punto nessuno saprà dire se è più imbarazzante che sia morto col pisello di fuori o che il suo assassino abbia scoperto i suoi veri gusti musicali.
Chakuza però è famoso per non fare mai niente di quello che ci si aspetta da lui, il che non significa che è un uomo capace di sorprenderti in maniera positiva, ma solo che si comporta sempre in modi randomici che esulano dalla comprensione tua e, in generale, dell'intero genere umano di cui lui non fa parte.
Così, un uomo che negli ultimi sei mesi è rientrato a casa e, qualunque ora fosse, ovunque fosse andato, per quanto fosse stanco, affranto e scazzato si faceva la doccia professando di averne bisogno prima di dedicarsi a qualunque altra attività, fosse anche cambiare le pile al telecomando del televisore, ecco che oggi ne fa a meno e con un sorriso amorevole dichiara: “E' tardi, preparo la cena, che dici?”
“Perfetto, sono affamato,” sorrido, raggiungendolo in cucina, dove si è già legato il grembiule in vita, guardandosi intorno per decidere che cosa mettere insieme in dieci minuti.
“Potrei saltare un po' di verdure o condire un po' di insalata. Se hai pazienza dieci minuti in più posso fare la pasta.”
“Oppure potresti farti limonare un po,” dico, tirandomelo addosso. “Come aperitivo, magari.”
Lui non mi delude e obbedisce subito all'invito implicito di allungare le mani. Lo sento che mi accarezza la schiena mentre ci baciamo e sorrido contro le sue labbra. Su questo, Chakuza, non manca mai di essere coerente con se stesso e immagino che anche questa sia una qualità, a modo suo. C'è chi è sempre disponibile per una birra, e lui lo è sempre per un po' di palpeggiamenti. Ad ognuno il suo.
Comunque, prima che il suo cervello riassesti le priorità e abbandoni l'idea di cucinare per dedicarsi a cose ancora più gratificanti, mi scosto leggermente. “Adesso però cucina,” scherzo. “Non credere di cavartela con un po' di lingua.”
“Tu sei uno schiavista,” protesta lui debolmente.
“La cucina è la tua punizione per il fatto che mi costringi a sopportarti, Chakuza,” lo liquido con un gesto secco della mano, mentre torno in salotto. “Quindi non ti lamentare.”
Lui borbotta, ma si avvicina comunque ai fornelli.
Io sorrido e stringo il suo portafoglio.

*


A rubare i portafogli ho imparato che avevo appena sei anni, ed ero già in ritardo rispetto alla media degli altri ragazzini con cui passavo il tempo all'epoca. Ce n'erano un paio, giù in fondo alla strada, che lo facevano già da qualche anno e ne avevano uno meno di me. Io avevo visto come facevano loro e avevo cominciato a farlo anch'io, soprattutto nei tunnel della metropolitana, dov'è più facile che la gente non si accorga di un bambinetto alto un metro e venti che le infila le mani nella tasca dei pantaloni. Nel giro di un paio d'anni ero diventato un mago e avevo più o meno tutti i soldi che mi servivano per comprarmi le cose che volevo, anche se ogni tanto continuavo a chiedergli a mia madre perché non si insospettisse.
Quando sono diventato più grande e più grosso, e mi era più difficile non farmi notare, ho cominciato a farmi più furbo e veloce, mi bastava un attimo di distrazione per fregare borselli alla gente anche dentro alle borse. Ero così bravo che non mi hanno mai preso; almeno non con la refurtiva in tasca.
Ho continuato a rubare portafogli fino a sedici anni, quando è arrivato Bushido e mi ha tolto il vizio a suon di sberle. Lui ha sempre sostenuto che stare per strada non significa vivere senza regole, che un vero delinquente ha una dignità e non infila le mani nelle cose non sue.
Per Bushido la strada non è un posto merdoso in cui crescere, dove sopravvivi solo se hai fortuna e segui la legge del più forte. Lui, della strada, è innamorato. Quando è stato abbastanza grande per capire in che razza di schifo lo avesse messo al mondo sua madre, invece di cercare di scappare, lui ha cercato di diventarne padrone, e c'è anche riuscito in un certo senso. Vede il ghetto come un mondo a parte con un codice d'onore che regola gli uomini dignitosi, e per lui i ladri non lo sono. I ladri, dice, non giocano alla pari con le loro vittime perché quelle non sanno di venire derubate. Per questo è sempre stato nel giro della droga. Dice che quando la gente viene a chiederti roba, lo sa che sta comprando merda, non la stai affatto fregando. Certo è più facile pensarla così quando la vendi a chi viene a prendersela in Mercedes, e non la metti a tradimento nel bicchiere delle ragazze in discoteca per poi fartene chiedere altra la volta dopo, ma immagino che a lui queste cose non capitassero mai perché lavorava per Arafat, e quello rifornisce i piani alti, mica la merda dei bassifondi che quando si sveglia la mattina a malapena ricorda il proprio nome.
Bushido ha una serie di valori completamente sballati, ma ci crede con una tale intensità che alla fine gli dai ragione, perché è più bello credere a quello che vede lui invece che alla realtà.
Una piccola parte di me, comunque, quella che ancora lo prende per il culo, continuerà per sempre a credere che se la prese per la storia dei furti soprattutto perché il portafoglio l'avevo rubato anche a lui quella sera; non per prendergli i soldi, naturalmente, ma per fargli vedere quanto ero bravo. E' per questo che mi ha preso a ceffoni.
Comunque mi sto perdendo nei ricordi, la nostalgia dei bei tempi passati a scappare correndo dalla polizia mi fa quasi venire il magone mentre mi rintano in camera di Chakuza con una scusa qualsiasi – che lui comunque non può sentire perché sta usando il frullatore ad immersione – e mi accingo a frugare nel portafoglio appena conquistato con quella che è stato, se posso permettermi, un lavoro da maestro.
Il portafoglio di Chakuza non è veramente un portafoglio. Ce l'ha da così tanto tempo che ormai ha perso la sua forma originaria e adesso è curvato a banana, per via del fatto che lo tiene nella tasca posteriore dei pantaloni e non si prende il disturbo di toglierlo di lì prima di sedersi. Forse una volta era fatto di cuoio, adesso non saprei dire, la superficie ormai lisa, piena di graffi e a chiazze verdognole parla di avventure in luoghi inenarrabili il cui solo pensiero sarebbe in grado di far impazzire la mente di un uomo. Credo che questo oggetto, che ora giace inerme fra le mie mani, stia sperando in una morte misericordiosa e io vorrei dargliela, sono mesi che ci tento utilizzando ogni festa disponibile come scusa per avanzare l'ipotesi di regalargli un nuovo portafoglio, ma il nano non è d'accordo, si lamenta subito, dice che ci è affezionato e poi ormai si è abituato a questo e quindi farebbe una gran fatica ad usarne uno diverso, sostiene che sicuramente non ci sarà mai nel mondo un altro portafogli così bello e capiente e comodo con tutti quei begli scomparti per metterci le mille inutili tessere che possiede, più l'unica carta di credito che la banca gli ha concesso, credo, per pietà e misericordia. Immagino che dovrò prima disfarmi di questo se voglio davvero regalargliene uno degno di questo nome, ma al momento poco mi importa perché ho altre urgenze.
Apro questo residuato bellico e in parte mi rimane in mano. Due grossi pezzi di cuoio si staccano e finiscono sul letto, a guardarmi con aria disperata e colpevole. Come pensavo, dentro non c'è nemmeno un euro. Chakuza non tiene i soldi nel portafoglio, ma li accartoccia in quelle sue mani tozze e grosse e se li infila in tasca, un po' come capita, esattamente come se avesse sei anni. Alle volte andiamo al bar a pagare, lui infila una mano nella tasca del giubbotto ed estrae questa palla di pezzi da cinque euro, monetine, caramelle e lanugine che poi rovescia sul bancone sotto gli occhi inorriditi del barista. E quelle sono le volte in cui va bene, perché Chakuza in tasca può avere di tutto. L'ultima volta che siamo andati al ristorante, mentre cercava i cinque euro che mancavano al conto, ha messo sul tavolo il telecomando del televisore, che avevamo perso il giorno prima e non riuscivamo a trovarlo da nessuna parte, per dire.
Sfilo le sue tessere e le guardo tutte, ma a parte una nuova che gli dà diritto al 15% di sconto nel reparto giardino del negozio del bricolage – che immagino sfrutterà per curare la sua piantina di basilico sul lavandino in cucina, visto che non ha nemmeno il terrazzo – non c'è niente di nuovo.
Le cose interessanti sono nella tasca laterale. Ci sono quattro scontrini dall'ultima spesa al supermercato, e due della lavanderia ma, soprattutto, ce n'è uno di un ristorante che non ho mai sentito nominare avvolto intorno ad un biglietto da visita, intestato alla signorina Hilda Braun, che ha la venere del Botticelli con i lunghi capelli al vento disegnata da una parte e un numero di telefono scarabocchiato dalla grafia rotonda e inammissibile di Chakuza.
Hilda non ha un lavoro, o almeno non uno che si preoccupa di indicare sui suoi biglietti da visita, il che la dice lunga su come si guadagni da vivere. A questo punto mi sembra chiaro che se io non sono andato a mangiare la pizza “Da Nino”, dev'esserci andata lei. Chakuza, ti ammazzerò con una lentezza tale, che tra un mese a quest'ora non avrai ancora finito di agonizzare.
“Che stai facendo?” La voce di Peter mi coglie di sorpresa, quindi anche se non è accusatoria, io lancio tutto per aria e quando mi giro una pioggia di scontrini, tessere e biglietti da visita scende dall'alto su di me come neve.
“Niente,” dico.
“Ma è il mio portafoglio?” Chiede, tastandosi il sedere. “Sì che lo è. Cosa ci fai tu col mio portafoglio?”
Lo osservo mentre si china a raccogliere tutto quello che mi è piovuto addosso e io sfrutto questo tempo per riprendermi e rendermi conto che non sembra minimamente preoccupato dal fatto che io ci stessi frugando dentro e potessi scoprire il suo tradimento. “Chi è Hilda?”
Lui si raddrizza e sbianca. Si volta a guardarmi serissimo. “Quindi ci stavi davvero guardando dentro.”
“Chi è Hilda?” Ripeto.
“Tu dove lo hai preso il mio portafoglio?” Chiede lui di rimando. Poi ci pensa e sgrana gli occhi, riesco quasi a vederci nelle sue iridi mentre limoniamo e io gli infilo la mano in tasca. “Me lo hai rubato? Fler, mi hai rubato il portafoglio prima in cucina? Ma sei scemo?”
Io raccolgo il bigliettino di Hilda prima che lo faccia lui. “A quanto pare ho fatto bene,” gli dico. Ritengo che la mia parziale colpevolezza in questa faccenda sia assolutamente trascurabile di fronte alla sua gravissima mancanza. “Altrimenti non avrei mai scoperto di Hilda.”
“Allora potevi fare a meno di fregarmi il portafoglio, visto che non c'è niente da scoprire su Hilda.”
“Ah no?” Gli mostro pure la ricevuta del ristorante. “E questa allora?”
Lui la prende, la osserva bene e sospira. “E' la ricevuta di un ristorante.”
“Allora lo ammetti!”
“Di essere stato a mangiare fuori? Sì, Fler. Sono stato a pranzo da Nino, la settimana scorsa.
“Con lei!” Esclamo. “Certo che sei proprio stronzo, non tenti nemmeno di negarlo!”
Chakuza finisce di ricostruire quel che resta del suo portafoglio e se lo rimette in tasca. “Non è assolutamente come pensi.”
“Certo,” dico ironico. “E' solo una tua buona amica, immagino.”
“Anche, sì. Ma ti assicuro che qualunque cosa tu stia pensando, non ci vai nemmeno vicino.”
Io boccheggio, lo ammetto. Non è la prima volta che mi capita di beccare qualcuno che mi fa le corna, d'altronde di zoccole ne ho incontrate parecchie, ma che la reazione fosse urlarmi addosso oppure giurarmi e spergiurarmi che non era vero niente, di sicuro nessuna mi ha mai guardato con quest'aria stanca e afflitta con cui mi guarda Chakuza, che non fa niente – e dico niente! – per smentire o spiegare. “Allora dimmelo un po' tu che cosa ci facevi a pranzo con questa troia la settimana scorsa e chissà quante altre volte prima di quella! Ce la porti prima o dopo essertela scopata in qualche hotel?”
“Oh signore, Fler...” lui alza gli occhi al cielo. “Si vede che non hai proprio un cazzo da fare, in questi giorni. Si può sapere che filmini ti fai?”
“Filmini? Chakuza, mi prendi per il culo? Sono settimane che esci tutti i giorni, stai via tutto il giorno e non c'è modo di rintracciarti nemmeno con la tecnologia aliena, nel portafoglio ti trovo il biglietto da visita di una squillo e la ricevuta di un ristorante dove hai candidamente ammesso di aver pranzato. Che altro mi serve per stabilire che sei un bastardo?”
“Ti servirebbe magari sapere come sono andate davvero le cose, tu che dici?”
Io ringhio di frustrazione perché quest'uomo qui dovrebbe darmi un altro tipo di reazione, qualcosa che mi dia soddisfazione e invece no, eccolo lì calmo e tranquillo come se niente fosse. Mi siedo e gli faccio cenno col capo, con tutta la cattiveria che mi riesce di trovare, giusto per renderlo qualcosa di serio, visto che come gesto era anche un po' triste. “Allora spiegami, dai. Voglio proprio vederti mentre ti arrampichi sugli specchi, scivoli, ti spacchi la testa e muori.”
“In questi giorni ho avuto delle cose da fare.”
“Hai solo iniziato,” lo informo. Chaku sbuffa, si agita sul posto e vorrebbe palesemente uscire da questa stanza, ma sarò morto prima di lasciarglielo fare. “No guarda, è inutile che fai il cavallo imbizzarrito, ora mi rispondi. Se proprio devi infilarlo altrove, almeno dimmelo in faccia, così prendo, me ne torno a casa mia dove inizierò ad augurarti di morire solo come un cane malato.”
“Non ti sto tradendo!”
“E sei alto un metro e novanta, sicuro” dico annuendo. “Come potrei dubitarne.”
“Stai essendo stronzo.”
“E' quello che ti meriti.”
Lui sospira per l'ennesima volta e guarda altrove quando dice: “E' una specialista.”
“Non lo metto in dub-”
“E' un medico, Fler!” Sbotta all'improvviso. “Hilda Braun è un medico tricologo e ho appuntamento con lei due volte la settimana, e tutto il resto del tempo ho avuto esami su esami e già che c'ero un paio di visite a mia madre. Contento?”
Io lo guardo tutto per quanto è lungo, cioè poco. “E cosa ci stai andando a fare?”
“A farmi aiutare per il mio piccolo problema di calvizie?” Chiede ironico.
Io guardo perplesso il suo testone rotondo su cui brilla il riverbero della lampadina appesa al soffitto priva di paralume, come ogni altra lampadina di questa casa. E' liscio e sferico, senza nemmeno l'ombra di una qualche peluria. “Non si vede per niente,” commento.
“Siamo solo all'inizio,” puntualizza lui, piccato.
“Con i capelli potresti stare malissimo,” mi sovviene all'improvviso. “Sai come quando da un giorno ad un altro qualcuno si lascia crescere i baffi e poi scopri che gli stanno uno schifo. Solo che in quel caso al massimo li tagli, tu che farai? Non vorrai mica spendere un mare di soldi per una capigliatura che poi ti renderebbe ridicolo, costringendoti a rasarti ogni giorno. Non hanno delle parrucche di prova o-”
“Fler, sai che ti dico? Vaffanculo!” Prende ed esce dalla stanza a grandi falcate, così scoppio a ridere e lo raggiungo con una corsetta.
“Ehi! Ehi, Peter! Vieni un po' qui,” lo tiro per un braccio e quando fa resistenza lo tiro un po' di più, così mi finisce addosso e posso abbracciarlo. “Stavo scherzando.”
“Non facevi ridere.”
Gli do un bacio proprio in cima alla testa e me lo stringo addosso. “Tu sì, però. Un sacco anche.”
“Non stai migliorando la tua situazione,” mugugna, da qualche parte nella trama della mia felpa.
“Non puoi farmene una colpa se ero geloso. Che dovevo pensare? Ma poi si può sapere perché te la porti a pranzo fuori la tua tricologa? Va bene l'adorazione per l'unica donna al mondo che desideri senza per questo volertela portare a letto, ma insomma...”
Lui mi tira un pugno. “Cretino. E' un'amica di famiglia e visto che ha una lunghissima lista di pazienti e dovrei aspettare per mesi, mi sta facendo un favore.”
“Oh, tutti questi malvagi uomini pelati che la tengono prigioniera!”
Questa volta ride anche lui e se ne sta un po' lì, rannicchiato contro di me, che è una cosa che mi piace tanto perché non la fa spesso, si sente troppo uomo per farlo. Poi solleva la testa e mi bacia. “Sei più tranquillo adesso?”
“Sì.”
Mi bacia ancora una volta e rimane lì con il naso premuto contro il mio, anche se questo mi costringe a piegare il collo come una giraffa. “E lascerai stare il mio povero portafoglio?”
“Solo se posso comprartene uno nuovo.”
A quel punto lui si scosta, sconvolto. “Ma ci sono affezionato! E poi ormai mi sono abituato a questo e farei un sacco di fatica ad usarne uno diverso,” sbraita, estraendo il portafoglio e coccolandolo. “Nel mondo non ce n'è un altro così bello e capiente e comodo con tutti questi begli scomparti per metterci le mie tessere...”
La prossima volta che glielo rubo, devo anche ricordarmi di farglielo a pezzi.
Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Introspettivo
Avvisi: Slash
Rating: PG 15
Capitoli: Scritta in occasione della notte bianca di Mari di Challenge.
Note: -

Riassunto: A mio avviso, Chakuza è uno che non dovrebbe mai andare a lavoro".
HO FREDDO E IN CASA NON CI SONO I BISCOTTI


Chakuza è uscito per andare allo studio ad un'ora imprecisata tra le nove e le undici di questa mattina, quando io sono ancora nello stadio in cui non so il mio nome, né dove mi trovo. L'ho sentito alzarsi dal letto e vestirsi perché è l'uomo più rumoroso del mondo in qualsiasi aspetto della sua esistenza, figurarsi quando deve tirare tende, aprire armadi e sedersi ed alzarsi dal letto due, tre, quattro volte per mettersi calzini, pantaloni e scarpe. Mi sveglierebbe anche se fossi morto, immaginate se non lo fa con il sonno leggero che mi ritrovo. Fortunatamente sono uno che si adatta in fretta, così negli ultimi mesi mi sono abituato e non mi sveglio più veramente. Soltanto una parte del mio cervello diventa ricettiva quel tanto che basta per salutarlo quando esce e dirgli che ho capito a che ora torna, anche se poi quando mi alzo mi tocca telefonargli per chiedergli quand'è che effettivamente rientra. Cosa che ho appena fatto, salvo sentirmi dire che non lo sa.
A mio avviso, Chakuza è uno che non dovrebbe mai andare a lavoro o – in alternativa – non dovrebbe farsi degli amanti da lasciare a casa per poi dirgli di aspettarlo lì per un numero imprecisato di ore, questo perché la sua casa fa schifo e non è un bel posto in cui aspettare con ansia il suo ritorno.
Innanzitutto in questa casa fa freddo, ma non il freddo che ci si può aspettare alle porte di novembre, che uno magari si mette un maglione ed è a posto. No, qua dentro si gela. E' come vivere in una scatola di cartone in mezzo alla strada, la stessa cosa. Le mura saranno spesse dieci centimetri o sono fatte di polistirolo, non lo so, fatto sta che se ci appoggi una mano sopra è come appoggiarla sul vetro della finestra, l'alito gelato dell'inverno ti entra dentro le ossa e non ti abbandona più. Il riscaldamento sarebbe, forse, una parziale soluzione, se non fosse rotto da quattro anni, da quando, cioè, si è rotto la prima volta, pare, in pieno gennaio, e Chakuza continua ancora a ripetere che deve chiamare un tecnico appena ha tempo; ma quando ha tempo lui non lo spreca a chiamare utili tecnici riparatori di riscaldamenti. No. Lui generalmente scopa. O cucina. O scopa in cucina. In generale trova metodi alternativi per generare calore, i quali il più delle volte consistono nello stendersi nudo insieme ad un altro essere umano. Parsimonioso ed attento all'ambiente, forse, ma non un granché funzionale. Non quando in questa casa si è soli e sprovvisti di qualcuno da denudare.
E poi naturalmente c'è la questione del cibo. Chakuza e il cibo hanno un rapporto tormentato, il che non mi stupisce perché qualunque rapporto di Chakuza è tormentato, non importa di che cosa si tratti. C'è un'incompatibilità naturale tra lui e un qualunque oggetto o persona che con lui venga a contatto. E il cibo, naturalmente, non fa eccezione. Per dire, Chakuza ama cucinare, è una delle poche cose che lo riempia davvero di gioia, che lo faccia guardare al mondo con un bel sorriso invece che con la faccia di uno a cui è appena morto il cane. Quando prende una padella in mano, ci mette dentro il burro e lo fa rosolare, raggiunge una sorta di estasi mistica, una completezza interiore, direi quasi un trip mentale da droghe sintetiche. Lo vedi che si muove per la cucina volteggiando e se tu, per caso, fra un'anatra da spelare e una salsina al pomodoro, gli chiedi le chiavi della macchina nuova per andare a schiantarla contro un muro perché ti annoi, lui, serafico, risponde di sì, di andare pure, ma di tornare verso le sette perché altrimenti il pasticcio di funghi si sciupa. Quando lui è a casa, il frigorifero è pieno. La cucina è piena. Ovunque ti giri ci sono prodotti alimentari che escono fuori da tutte le parti. Non due mele e tre pere, ma intere cassette di frutta. Non un pollo e due hamburger ma tocchi di carne nel congelatore che sembra che abbia ammazzato un essere umano. L'ultima volta c'era tanta di quella pasta italiana che, quando ho aperto il mobiletto, sono stato sotterrato da una frana di orecchiette. Una cosa allucinante.
Quando lui non c'è, però, ecco che la cucina si spegne, diventa più brutta. Perfino i muri sono grigio topo, che poi saranno così anche quando c'è lui ma evidentemente non si vedono, coperti come sono da tende di peperoncini essiccati e non. Così, ora che entro in cucina, con addosso tutti i maglioni che possiedo e una copertina azzurra con i cavallucci marini che è una roba indecente che ho trovato nel suo armadio, mi fermo sulla soglia e sospiro affranto perché del porco da quattro chili e mezzo che c'era solo due settimane fa, disteso sull'isola della cucina con le sue gambette cicciottelle, non c'è nemmeno l'ombra. Vago infelice fino al frigorifero e, quando lo apro, volano i fantasmi di limoni morti da giorni. Il burro è quasi verde e quel formaggio – santo cielo – non voglio indagare. Anche i pensili sono vuoti. Non c'è nemmeno un biscotto, nemmeno uno orfano, magari caduto dalla scatola e finito in fondo dove Chakuza non può arrivare.
Lo chiamo di nuovo, che non è mai una grande idea quando la prima volta mi ha già detto che non sa niente di niente, perché tende ad innervosirsi quando la sua persona naviga nell'incertezza e lui non può farci niente, ma deve essere consapevole di ciò che troverà al suo ritorno.
“Fler, che cosa c'è?” Risponde senza nemmeno salutare.
“Ho freddo,” dico.
Lui rimane zitto per un po' e poi alla fine lo sento sorridere. “E in casa non ci sono i biscotti,” conclude.
Perché dire mi manchi sarebbe troppo scontato.
Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor
Avvisi: Slash, Lime
Rating: R
Prompt: Vale per la HMS Maouropia Treasure Hunt di Fanfic_Italia
Note: Dunque, il titolo è tremendo ma dopo quasi due settimane di riflessione profonda non sono riuscita a venirmene fuori con niente di meglio, quindi questo è e questo rimane. La trama originale è saltata fuori durante un meme (questo) ed era così carina nella sua semplicità che dovevo scriverla. Come tutte le cose potenzialmente corte, semplici e facili, non mi è riuscito scriverla come volevo ma penso di potermi considerare comunque soddisfatta del risultato. Ci sono delle frasi carine e tanto basta. Il fiocco dell'elefante che convince Fler a provare la mercanzia è poi caduto a fagiolo per la HMS Maouropia Treasure Hunt <3

Riassunto: Quando il pacco era arrivato, Fler non si era affatto sorpreso perché in casa di Chakuza arrivavano pacchi ogni giorno...
RIBBONED MISUNDERSTANDING


Quando il pacco era arrivato, Fler non si era affatto sorpreso perché in casa di Chakuza arrivavano pacchi ogni giorno. Solo quella settimana erano arrivati due scatoloni da parte di mamma Silvia, contenenti i generi di conforto per il figlio – come se Chakuza fosse uno sfollato di qualche tipo, impossibilitato a reperire latte, pane e acqua dal negozio proprio sotto casa – l'immancabile numero di playboy, che sarebbe finito nella pila di tutti gli altri ancora incelofanati che Chakuza teneva sopra il mobile del soggiorno a ricordargli che, da qualche parte, nel profondo del suo essere, era ancora un sano maschio etero e l'ultimo numero di “Vaniglia e cioccolato” che poteva sembrare l'ennesimo porno, ma era soltanto una rivista di cucina, per la quale aveva preso Chakuza talmente in giro che quello aveva finito per nasconderla chissà dove e poi negare che fosse mai anche solo esistita.
Il pacco di quella mattina non era, dunque, che l'ennesimo di una lunghissima serie e visto che Chakuza sembrava sempre impegnato in città a cercare il caviale beluga, il vero tartufo nero di chissà dove e altre amenità culinarie praticamente introvabili a Berlino senza vendere un rene al mercato nero, Fler era ormai abituato a dover ricevere le consegne, firmarle e in qualche caso pagare pure il contrassegno. Il postino si era ormai probabilmente convinto che vivessero insieme, cosa non vera. Fler si trovava solo a passare più tempo lì che a casa sua, ma la cosa dipendeva semplicemente dal fatto che Chakuza non lo lasciava mai raggiungere la porta senza allungarglisi addosso un'ultima volta, e poi un'ultima dopo l'ultima e poi l'ultimissima, tanto che alla fine Fler era troppo stanco per poter pensare di prendere l'auto e tornarsene al suo appartamento quando poteva morire a quattro di bastoni sul letto dell'austriaco. Per certi versi era un rapimento, ma preferiva non pensarci mentre firmava la ricevuta di consegna sotto gli occhi di un postino convinto di aver capito tutto delle loro vite. Mentre lo faceva, si rese conto che non c'era alcun nome sull'etichetta del destinatario, solo l'indirizzo.
“Come fa a sapere che è roba nostra?”
Il postino lo guardò con l'aria di chi la sa lunga, come al solito. “Ci sono tre appartamenti occupati in questo palazzo. I due del primo piano sono gente strana, non accettano mai la posta, bollette comprese. E la signora Lotte dice di non aspettare nessun pacco, così ho pensato che fosse del signor Pangerl visto che...”
“Visto che ne riceve quintali al giorno,” concluse Fler, finendo di firmare. “Posso capire il ragionamento. D'accordo, dia a me. Ci penso io.”
Il pacchetto non era molto grande. Fler se lo rigirò per le mani in cerca di una scritta che potesse indicarne il contenuto, ma le pareti della scatola di cartone erano completamente anonime. Pesava poco e non faceva rumore, quindi doveva essere qualcosa di piccolo e imballato oppure qualcosa di stoffa.
Era curioso, ma non era ancora arrivato al punto di aprire la posta del suo cosiddetto fidanzato, quindi appoggiò il pacco sul tavolo del soggiorno e cercò di distrarsi in altro modo. Per un po' si mise buono a leggere un libro, poi guardò svogliatamente la televisione e quindi pulì il bagno e la cucina che sentivano la mancanza di una spugna, ma ogni volta che passava dal soggiorno l'occhio gli cadeva sulla scatola. Qualsiasi cosa sembrava meno interessante della prospettiva di dare una sbirciatina al pacco anonimo, così alla fine cedette e pensò che aprirne un lato, guardarci dentro, e poi richiuderlo con cura non era una vera e propria violazione della privacy. Ci avrebbe dato solo un'occhiata, velocemente, poteva anche non capire cos'era.
“E poi non è colpa mia,” cercò di convincersi, mentre sollevava con cura il nastro adesivo. “Sei tu che te ne stai lì e mi chiedi di essere aperto.”
Per un istante si rese conto di stare ragionando proprio come Chakuza, che discuteva con gli oggetti esattamente come con le persone ma preferì non indagare per non dover riconoscere che la follia di quell'uomo era in effetti contagiosa come pensavano tutti.
Aprire un solo lato della scatola non servì a molto. Anche ficcandoci dentro parte della faccia, Fler non riuscì a vedere nient'altro che un po' di plastica e tanto imballaggio. Così incrociò le braccia al petto e fissò intensamente il pacco con disappunto nella speranza, forse, che si sentisse in colpa e si aprisse da solo, scusandosi anche di aver fatto ostruzionismo.
Ovviamente la scatola si guardò bene dal reagire in qualche modo, così Fler dovette prendere una decisione difficile. Si trattava di resistere alla curiosità e sperare di essere reso partecipe del contenuto una volta che Chaku lo avesse tirato fuori, oppure aprire la scatola ma poi richiuderla per evitare litigate oltraggiate, col suo uomo che urlava, agitando le braccia e lanciando oggetti in giro, come una specie di piccolo tornado in miniatura. Era un dilemma, senza dubbio.
Doveva prendere in considerazione tutte le opzioni. Ad aspettare che fosse Chakuza ad aprire la scatola, c'era il rischio che quello volesse tenere per sé il contenuto. Ad aprirla lui stesso, il rischio era di non saperla richiudere o di chiuderla male, ma le probabilità che Chakuza se ne accorgesse, con lo spirito di osservazione di una talpa morta che si ritrovava, erano minime e, anche nel caso, poteva sempre denudarsi e disporsi in bella posa su qualche superficie. Chakuza avrebbe sicuramente abboccato. “Direi che possiamo procedere allora,” concluse, annuendo con convinzione alla scatola. “La decisione è presa.”
Grazie alle amorevoli cure di Bushido, che ad un certo punto della sua esistenza lo aveva fatto entrare nel giro come se spacciare droga sotto la sua supervisione fosse più sano e sicuro che tentare di uscire dal ghetto come stava cercando di fare prima di conoscerlo, Fler aveva un passato da corriere e aveva una certa esperienza in fatto di scatole. Molto spesso, lui e Bushido tenevano per sé un po' di ciò che trasportavano, come pagamento extra per tutto lo sforzo fatto, ma ovviamente i pacchi dovevano risultare intatti quando li consegnavano o qualcuno si sarebbe preoccupato di massacrarli di botte, così avevano passato pomeriggi interi ad allenarsi per perfezionare la suprema arte di aprire le scatole in maniera quasi invisibile.
Bushido era sempre stato più bravo ma Fler poteva vantare una certa tecnica.
Si armò di taglierino, si tirò virtualmente su le maniche della camicia che non portava e quindi si apprestò a togliere il nastro adesivo che chiudeva la parte superiore della scatola, cercando di non strapparlo. Ci vollero circa venti minuti per fare le cose per bene ma, quando finì, Fler guardò il proprio operato e si sentì estremamente soddisfatto. “Bene. E ora vediamo che cosa nascondi,” commentò, appoggiando il taglierino da una parte e aprendo le alette di cartone con sacralità.
La scatola conteneva diverse cose, nessuna delle quali aveva un senso agli occhi di Fler. Non che la vista di un'ampia varietà di giocattoli sessuali lo turbasse di per sé, era solo che Chakuza non aveva mai mostrato interesse per simili chincaglierie, da uomo tradizionalista e tutto d'un pezzo qual era. Se non fosse stato così necessario, avrebbe evitato di usare anche il lubrificante, convinto di poter fare tutto da solo, con la potenza inaudita della propria salivazione o peggio.
Ormai troppo incuriosito per fermarsi ad una semplice occhiata, come del resto era prevedibile, cominciò a tirare fuori ad un ad uno gli oggetti contenuti nella scatola. Pose tutto con cura sul tavolo, in bell'ordine e poi si mise a ridere, tirando fuori l'ultimo oggetto. “Chakuza, spero che questo te l'abbiano dato in omaggio per tutto il resto,” esclamò a voce alta, sollevando con un dito un tremendo tanga a forma di elefante.
Se lo rigirò tra le mani per guardarlo bene. L'elefante aveva un viso rotondo e simpatico e sembrava estremamente compiaciuto e soddisfatto, tutte caratteristiche che lo facevano assomigliare a Chakuza.
“Se gli mettessi un fiocchetto sulla fronte,” commentò, aggiustando quello dell'elefante. “Sareste identici.”
A pensarci bene, l'austriaco doveva averlo comprato di proposito, contento della loro soddisfatta somiglianza.
Fler sorrise, stringendo il tanga nel pugno e pensò che non aveva niente di meglio da fare, alla fine.

*


Fler aveva dovuto aspettare quasi quattro ore perché Chakuza fosse di ritorno dalla sua caccia al tonno pinne gialle e, anche una volta che fu tornato, ci vollero altri venti minuti prima che si accorgesse del bigliettino sopra la porta della cucina e della freccia nel corridoio che lo avrebbero condotto in camera, dove Fler lo stava aspettando. L'idea originale era di attenderlo con un po' di atmosfera, che non significava petali di rose e candele quanto birra e... birra ancora, ma Chakuza ci aveva messo talmente tanto che Fler alla fine si era stancato, così quando l'austriaco lo raggiunse in camera da letto, stava giocando alla playstation e aveva già bevuto quasi metà della birra che aveva preparato.
“Cosa diavolo era quel biglietto?” Chiese Chaku, posando la felpa sulla sedia.
“Non mi ricordo più nemmeno cosa c'era scritto sopra,” borbottò Fler e poi gli si spalmò addosso il secondo successivo. “Ce ne hai messo ad arrivare...”
“Avevo delle...”
Fler annuì senza ascoltarlo, baciandolo lentamente mentre lo spogliava. Chakuza non si preoccupò di chiedere oltre, perché quella era già una risposta sufficiente a tutte le sue domande. Si lasciò svestire senza fare una piega e lo stese sul letto, già dimentico della spesa sul tavolo o della stanchezza o di qualunque altra cosa che non fosse l'uomo sotto di sé.
“Ho intenzione di provare tutto quello che hai ordinato,” gli mormorò Fler in un orecchio.
“Non ho ordinato niente,” gli fece notare Chaku.
Fler rise allegro e già palesemente ubriaco. “Certo, come no.” Lo baciò di nuovo e poi iniziò a sganciarsi i pantaloni, con disinvoltura.
Chakuza rimase ipnotizzato dalle sue mani e dalla cerniera che si abbassava un centimetro alla volta, rivelando cosa nascondeva. Si inumidì le labbra, ma rimase a metà del gesto quando vide che sulle mutande di Fler c'era un fiocchetto. Azzurro, grande più o meno un paio di centimetri, con tanti puntolini bianchi. E sotto di esso una proboscide. O non esattamente.
“Fagli ciao,” lo prese in giro Fler, strusciandoglisi addosso.
“Cosa... sarebbe di preciso?” Chiese.
Fler gli baciò un orecchio in maniera tale che Chakuza perse nozione di dove si trovava per qualche secondo. “Pensavo lo sapessi, ne hai uno anche tu,” commentò Fler, toccando con mano.
“Intendevo l'elefante.”
Fler sorrise. “Non lo so. Un restyling?”
Chakuza lo guardò e poi si mise a ridere forte, trascinandosi dietro Fler che lo abbracciò stretto e gli affondò il viso nel collo. “Potrei farti delle pessime battute sulle banane.”
Fler rise ancora. “Oddio, ti prego falle! Non ti ho mai sentito parlare sporco.”
Chakuza lo morse forte sul collo, strappandogli un mugolio. “Vuoi che mi occupi dell'elefante oppure no?”
Fler annuì.
“Allora scostati e stai zitto.”
Il fiocco era cucito male e si staccò quasi subito, ma nessuno dei due ci fece troppo caso.

*


Chakuza si stese sul letto con uno dei respiri più soddisfatti che avesse esalato nell'ultimo mese e Fler lo guardò con una certa soddisfazione personale giacché gran parte di quella contentezza dipendeva soltanto da lui. “Non so perché, non so come, ma... wow,” commentò.
“Sei sempre così loquace,” Fler lo picchiò con uno dei tre dildo di gomma che erano sparsi per il letto. “Il mio elefante dice che dovresti esprimerti con più riconoscenza.”
“Di' al tuo elefante che non ha voce in capitolo.”
“Oh ma vorrebbe.”
Chaku sospirò. “Vedremo, se farà il bravo.”
“Non trattarlo male, abbiamo anche perso il suo fiocchetto!” Esclamò Fler, recuperando il tanga e sollevandolo all'altezza degli occhi. “Vedi?”
Chaku si limitò a voltare la testa. Dove prima c'era il fiocco, ora c'era solo il pezzettino di filo che era servito per cucirlo. “Sono cose che capitano,” commentò con uno sbadiglio. “Sarà qui da qualche parte.”
“Potevi evitare di strapparlo a morsi,” borbottò Fler.
“Ti stai lamentando?”
Fler lo guardò, ci penso su e poi si strinse nelle spalle. “No, in effetti no,” rispose, sistemandosi più comodo e incrociando le braccia dietro la schiena. “Ma dopo mi aiuti a cercarlo.”
“Non vedo l'ora,” rispose apatico l'austriaco.
Fler lo picchiò di nuovo, ma poi si voltò e si appoggiò al suo petto. “Comunque non me l'aspettavo”
“Che cosa?”
“Questo,” Fler indicò il letto e tutti i gingilli accuratamente disseminati intorno senza nessuna logica. “Insomma, non è da te.”
“Beh, ti eri dato tanta pena che mi sembrava giusto provare,” rispose Chakuza, aggrottando le sopracciglia sulla testa rotonda. “E comunque è stato molto divertente.”
“Sì ma se tu non li avessi ordinati, a me non sarebbe mai venuto in mente di usarli.”
Chakuza scosse la testa. “Io non ho comprato un bel niente, Fler.”
“Ma sono arrivati stamattina dentro una scatola.”
Si guardarono.
“E allora di chi diavolo sono?” Chiese Fler, guardando il dildo con aria perplessa come se contenesse la risposta.
Chakuza si strinse nelle spalle. “Cosa vuoi che ne sappia?”
“Pensa,” mormorò Fler. “Da qualche parte in questa città c'è qualcuno che piange i suoi giocattoli perduti. Non ti fa un po' pena?”
“No.”
“Neanche a me.”

*


“Ne è proprio sicura?” Chiese David Jost, picchiettando la penna sulla sua agenda gigantesca.
Dall'altra parte del telefono la signorina fece di tutto per non lasciar trasparire il proprio fastidio. “Sì, signore. Ho già controllato quattro volte.”
“Faccia un quinto tentativo, vuole?” Tentò David, con la voce più accomodante che gli riuscì di tirare fuori dopo una telefonata di mezz'ora che non aveva risolto niente. Telefonare ai corrieri non serviva mai a nulla, alla fine. Se la tua posta era dispersa, era dispersa e basta.
“Come vuole, signore,” fece lei con un sospiro. “Qui c'è scritto che il suo pacco è stato consegnato ieri mattina.”
David era stato in casa tutta la mattina e quel pacco non s'era visto. “Vuole ripetermi l'indirizzo?”
La signorina eseguì automaticamente e David sgranò gli occhi.
“Questo non è il mio indirizzo.”
“E' quello che ci ha fornito, signore.”
“Non è possibile. Non so nemmeno di chi sia,” replicò subito David.
La signorina sospirò. “Non so cosa dirle, signore.”
David rimase in silenzio così a lungo che la signorina si sentì in dovere di assicurarsi che fosse vivo. “Signor Jost, è ancora lì?”
“Sì, ci sono,” mormorò l'uomo, fissando un punto indefinito di fronte a sé.
“Può fare un reclamo se vuole,” esclamò la ragazza. “Oppure può sperare che il destinatario rispedisca indietro il pacco. Conteneva merce di valore?”
“In un certo senso,” mormorò confusamente il manager. Se un ordine di 500 euro in un sexy shop poteva considerarsi merce preziosa.
“Vuole fare un reclamo?” Chiese ancora la ragazza, che evidentemente preferiva processare una lamentela che non stare lì in silenzio o a consolarlo.
“No, lasci perdere. Arrivederci.”
David riattaccò, sospirando.
Da qualche parte in città qualcuno si stava divertendo con addosso il suo tanga a forma di elefante.
Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor
Avvisi: Slash, pinguini
Rating: PG
Prompt: Vale per la HMS Maouropia Treasure Hunt di Fanfic_Italia
Note: Ah! I pinguini, questi adorabili animaletti. Dunque, se cercate un senso a questa storia, io temo che non ce l'abbia. Mi servivano dei pinguini per completare un altro pezzo della mappa di Fanfic Italia e il Flerkuza si è prestato, gentile come sempre. E basta perché queste note mi stanno drenando. Non c'ho voglia.

Riassunto: "E' stato il pinguino,” esclamo alla fine. “Non è colpa mia."
UNA QUESTIONE DI PINGUINI


Oggi è successa una cosa assurda.
Non che ieri, due giorni fa, o se per questo anche domani, non ne siano successe e non ne succederanno di altrettanto assurde – perché qui la follia è all'ordine del giorno – ma quella di oggi sono certo che, a raccontarla in giro, forse ci si crede perché si tratta pur sempre di me e di Fler, ma di certo la gente scuoterebbe la testa e mi direbbe che sono pazzo, che è pazzo lui e che dovrebbe essere illegale che noi si stia insieme, perché le nostre due pazzie unite in uno spazio ristretto qual è casa mia potrebbero generare danni a noi ma, soprattutto a chi ci sta intorno. Siamo una causa potenziale di catastrofe, come le centrali nucleari vicine alle grandi città; si fonde il nucleo e BAM! Pompei due – versione plutonio.
Il nostro reattore nucleare esplode circa due volte al mese e quasi sempre ciò avviene per un problema di incomunicabilità di qualche tipo che evidentemente ci impedisce di renderci conto di quando la fusione del nocciolo è vicina. In pratica, di punto in bianco, iniziamo a parlare lingue aliene e si svolgono queste scene surreali in cui Fler parla parla ma per me è come se facesse le bolle, tipo, non lo so e quando tento di spiegargli il mio punto di vista, si vede che le sue orecchie percepiscono solo ruggiti o chissà cos'altro. La conclusione è che nessuno preme il bottone di raffreddamento, il reattore scoppia e tanti saluti.
Una delle più grandi esplosioni è avvenuta stamattina e io vi giuro che non so esattamente come sia stato possibile, ma la colpa è senza dubbio del pinguino.
Dunque, innanzi tutto occorre precisare che io non ho un buon rapporto con la tecnologia, nel senso che io la odio e le odia me, e per gran parte del tempo in cui siamo costretti a relazionarci, io impreco e lei non funziona. Non è questione di imparare o meno come si fanno le cose, è che per quanto io possa leggere ed informarmi, non sono naturalmente predisposto verso le nuove tecnologie. Diciamo che non sono compatibile e quindi sono costretto a limitarmi all'uso di oggetti ideati e realizzati nel periodo in cui sono nato o in quello che precede la mia nascita perché quelli funzionano e tutto quanto il resto no.
Gli oggetti tecnologici si ribellano alla mia persona e si rifiutano di asservirsi, sono la nuova generazione, sono la versione adolescente degli oggetti che io amo, che so usare e che collaborano con me.
Prendete ad esempio il videoregistratore. Ricordo che è stato il primo vero oggetto costoso che mio padre mi abbia comprato e io lo amavo. Lo pulivo, lo lucidavo e sapevo come settare qualunque funzione, anche quella più inutile a cui il manuale delle istruzioni dedicava due righe in fondo, giusto per dire che qualcosa di scritto a riguardo c'era. E lui funzionava. Mandava avanti le cassette, le mandava indietro, a volte s'incastrava ma mi bastava aprire lo sportellino, tirare fuori con cura la cassetta, riavvolgere il nastro e tornavamo amici come prima, d'altronde a volte capita che uno s'inceppi, lo posso pure capire. Il videoregistratore era semplice e non aveva pretese. Quando ho avuto a che fare con un lettore DVD per la prima volta è stata una tragedia, perché quello voleva da me cose che non capivo, possedeva bottoni mai visti e faceva tutto da solo, che può sembrare una bella cosa fintanto che le cose funzionano ma poi, quando s'incanta, sono cavoli tuoi perché negli impianti meccanici capisci a logica dove mettere le mani, ma con i circuiti o quelle cose odiose che hanno dentro gli apparecchi nuovi, non puoi fare niente se non riportare tutto al negozio dove l'hai comprato e sperare che non ti chiedano un occhio della testa per ripararlo.
Adesso vi ho fatto un esempio, ma il mio problema si estende a qualunque apparecchio abbia avuto un qualche tipo di miglioria, anche minima, nel corso degli ultimi dieci anni, il che vale a dire più o meno tutti. L'unica cosa che veramente mi è utile e per la quale ringrazio un po' chiunque vi abbia avuto a che fare è la lavastoviglie, ma solo perché mi piace cucinare e sono pigro, due caratteristiche che unite insieme nella stessa persona portano a pile di piatti sporchi che toccano il soffitto senza che nessuno si occupi di loro – ma d'altro canto la lavastoviglie non fa molto testo perché ha solo tre pulsanti e quando l'accendo non mi chiede niente, non si pianta mai e non l'ho mai vista sostenere di aver bisogno di riavviarsi per installare aggiornamenti spegnendosi da sola e distruggendo ore di lavoro non salvato.
Queste sono tutte caratteristiche tipiche del mio nemico naturale: il computer.
Del pc, io avrei fatto volentieri a meno. Dico sul serio, vengo dalle montagne e nonostante io sia nato negli anni ottanta, non ho passato la mia adolescenza attaccato ai videogiochi per cui non sono legato a mouse e tastiere, non m'interessano e comunque tanto non ci capisco niente. Ho vissuto circa vent'anni della mia vita senza vedere lo schermo di un computer al di fuori dalle aule scolastiche e stavo bene.
Poi, finita la scuola, ho avuto quest'alzata d'ingegno di non fare quello per cui avevo studiato e di darmi al rap e per fare quello, al giorno d'oggi ma anche al giorno di ieri, c'è bisogno per lo meno di un mixer e ora sono tutti digitali per cui, niente, studio di registrazione e computer.
Da lì, il mio rapporto con queste macchine infernali è stato tristemente conflittuale e, invece di migliorare come succede sempre con l'uso e con la pratica, è andato peggiorando. Il pc che avevamo in studio smetteva di funzionare quando ci passavo davanti. Io entravo nella stanza e lui si riavviava per protesta. Stickle diceva che si trattava di un problema di sistema elettrico, ma a meno che io non avessi una centralina elettrica impiantata sulla schiena senza saperlo, evidentemente era che quel coso mi odiava perché con lui versi del genere non ne faceva mai.
Poi è arrivato il portatile, e neanche quella è stata una mia scelta. Era il mio compleanno e io e Fler stavamo insieme da, tipo, tre mesi. Mi si presenta con questo trabiccolo e mi dice che è il mio regalo – grazie, proprio quello che volevo! – sorridendo soddisfatto, anche. Io non è che potessi mandarcelo, a quel punto, perché era stato gentile e poi perché, effettivamente, un computer a casa mi serviva così alla fine ho colto la palla al balzo e ho chiesto a Fler se m'insegnava ad usarlo. Lui si è preso benissimo, una roba mai vista. Il giorno dopo me lo sono ritrovato sul divano con un quintali di libri sull'argomento e l'espressione di uno che da lì a qualche ora ti avrà insegnato perfino come fartelo a mano, un computer, con due puntine e un caricabatterie. In realtà, anche solo per capire come impostare la password io ci ho messo tre settimane, ma ce l'ho fatta. Fler è riuscito là dove altri hanno fallito, ha avuto pazienza – tanta pazienza – e si è inventato questo fantastico metodo che prevedeva un premio ogni volta che capivo qualcosa. Il mio cervello lavora meglio con la consapevolezza di ottenere Fler disteso su qualche superficie ogni volta che riesco ad arrivare a qualche conclusione logica.
Qualcosa, insomma, grazie a lui l'ho capita e di questo sono molto felice. O meglio lo ero fino a stamattina.
Quando mi sono svegliato, deciso ad approcciarmi con la mia macchina del demonio in maniera più amichevole e, in questo modo, convincerla ad aiutarmi nelle mie eroiche imprese, io ero ancora molto orgoglioso delle mie piccole conquiste: come scaricare la posta, visitare le pagine dei giornali che leggo, navigare su Youtube e usare quel maledetto programma che mi serve per lavorare e che prima non faceva che chiudersi senza salvare o impiantarsi quando salvavo o chissà che altra diavoleria pur di darmi sui nervi.
Ma, quando ho aperto il computer, Lui era lì e mi guardava pieno di entusiasmo e aspettativa come se qualunque persona sana di mente e convinta di conoscere il proprio portatile potesse essere felice di accenderlo e trovarci lui, là dove prima c'era una foto di Megan Fox come sfondo.
Per lui, naturalmente, intendo il pinguino. Un pinguino-pinguino, di quelli neri e con le zampe gialle, seduto sullo sfondo del mio computer. E prima non c'era, ne sono certo, altrimenti me lo sarei ricordato.
La prima cosa che mi viene in mente di fare è riavviare, perché è la prima cosa che Fler mi ha insegnato e io me la ricordo abbastanza bene perché è facile. Quando qualcosa non quadra, riavvia. E io riavvio perché il pinguino non quadra. Quando il computer si riaccende, però, lui è sempre lì e la sua espressione non è cambiata. Non so cosa voglia da me, ma non m'interessa. Io rivoglio Megan Fox.
A quel punto cerco il pannello di controllo dal quale di solito cambio le immagini di sfondo. Avevo un biglietto da qualche parte, una volta, ma chissà dov'è finito, quindi vado un po' ad occhio. E' una cosa che faccio spesso, per cui dovrei ricordarmi, eppure non c'è. E ora che guardo meglio mi rendo conto che non ci sono molte delle cose che prima c'erano, è tutto diverso. Il pinguino, è lui la causa. Io lo so.
La mattinata la passo a cercare di capire che cosa ci faccia nella mia vita questa bestia e cosa dovrei farmene io di lui, se adottarlo, cercare di ucciderlo con l'anti-virus oppure imballare di nuovo il computer e portarlo al negozio per vedere se riescono a far migrare questo pinguino da qualche altra parte. Poi però, mentre mi sto preparando un caffè, mi prende la rabbia perché quel computer di là è una cosa e non ha un cervello, pertanto io dovrei esserle superiore. Capire come stanno le cose diventa una questione di principio.
Prendo la mia tazza, l'appoggio accanto alla tastiera e comincio a cliccare qualunque cosa mi sembra possa avere un qualche nesso con il pinguino; naturalmente tre ore dopo non ho scoperto niente di quello che mi serviva, però ritrovo cartelle che pensavo fossero sparite. Si sono solo spostate o sono sotto nomi diversi. Dopo un'attenta analisi, otto dei venti libri che Fler mi ha prestato e qualche giro in internet, riesco a capire che quello che ho davanti è un sistema operativo diverso da quello che avevo prima e che il pinguino né è la mascotte, e ha pure un nome. Tux.
Conosci il tuo nemico, dicono. E io lo conosco, si chiama Tux e si è impossessato del mio computer. Sinceramente, in quel momento di odio e di rabbia, non mi passa neanche per l'anticamera del cervello che ieri sera Fler è stato qui e che probabilmente è stato lui ad installare il pinguino mentre io cucinavo. Per quanto mi riguarda, è comparso da solo. Il punto è che non mi serve a niente elaborare teorie complottiste su una rivolta di pinguini che prendono possesso dei pc altrui, perché tanto lui lì rimane e io da solo non so disinstallarlo, per cui... alla fine scendo a compromessi. Dico a Tux che può restare se promette di non dare fastidio, e poi comincio a girovagare per la rete, cercando di recuperare tutti i messaggi, le e-mail e le robe su Facebook che mi sono perso mentre m'informavo sul nemico. Non è che io tenga d'occhio tutto quello che mi arriva, è solo che se non cancello i vari messaggi e le varie notifiche, poi mi ritrovo che ne ho migliaia e mi spuntano avvisi da tutte le parti. Già che ci sono, aggiungo anche un paio di link al mio profilo e cambio alcuni dettagli che mi sono venuti in mente due o tre settimane fa ma di cui non ho mai avuto voglia di occuparmi. E' in quel momento che probabilmente la tragedia si compie, solo che io non me ne rendo conto perché, se anche la scateno, non sono io personalmente a farlo ma la mia incompatibilità con i social network. Sono innocente.

*


Io e Fler ci vediamo quasi tutti i giorni e se non ci vediamo ci sentiamo al telefono, anche se lui al telefono non parla: sta lì con la cornetta in mano e risponde a monosillabi quando gli fai una domanda. Basta. Non gli riesce di esprimersi se non ti guarda in faccia, per questo in generale cerchiamo di vederci perché a me fare i monologhi non è mai piaciuto, e poi mi sento anche scemo a girare per casa e a raccontargli cos'ho fatto e cosa non ho fatto, sentendolo respirare e basta dall'altra parte. Quando ha il raffreddore sembra un maniaco.
Comunque oggi non l'ho sentito, nemmeno un messaggio, quindi aspetto di vedermelo spuntare a casa da un momento all'altro. E difatti verso le cinque eccolo che suona, vado ad aprire con un sorriso che è tutto un programma, ma lui non sembra apprezzare. Entra spingendomi indietro ed è così arrabbiato che comincio a pensare gli abbiano fatto qualcosa di veramente tremendo. “Potevi almeno dirmelo di persona!” Mi abbaia addosso, con gli occhi stretti e le labbra serrate.
“Dirti cosa?”
“E invece lo devo venire a sapere da Facebook!” Continua. E poi inspira, tanto. Quando Fler inspira profondamente è perché si deve calmare. E' perché se non inspira profondamente fin quasi a non aver più aria a disposizione finisce che perde il controllo. “Dio, Chakuza, ma non hai proprio decenza!”
Ci sono molte cose che io faccio senza rendermi conto che non dovrei. A volte dico magari qualcosa e non ne sono nemmeno cosciente, cioè so che sto dicendo quella determinata cosa, ma non capisco che possa essere intesa in un altro modo, o che poteva essere detta in un altro modo, non ci arrivo proprio perché se io non avevo in principio l'intenzione di offendere o far star male qualcuno, mi sembra impossibile che ciò avvenga, perché io non l'ho voluto. Non so se mi seguite. Quindi, quando invece poi magari succede, io rimango sorpreso quanto chi mi sta a sentire perché non avevo preso in considerazione la possibilità nemmeno alla lontana.
Immagino che qui sia successo qualcosa di simile. “Che cos'ho fatto, stavolta?” Chiedo. Forse se faccio domande dirette otterrò risposte dirette e risolveremo il problema molto più velocemente. D'altronde se spero di arrivarci da solo allo sbaglio che ho fatto, possiamo anche prepararci a passare l'inverno in questa stanza.
“Che cos'hai fatto?” Grida lui. “Che cos'hai fatto?” Si aggira per la stanza con aria sconvolta. “Certe volte non so se sei davvero un coglione o se sei uno stronzo talmente stronzo che proprio non te ne frega un cazzo di dire cazzate che fanno male alla gente!"
Io non capisco, e giuro che non capisco sul serio. Fler, generalmente, quando faccio una cazzata me lo dice in faccia, m'insulta e, in linea di massima, si propone di strangolarmi o di schiantarmi forte la testa contro qualche angolo, ma non si agita mai; cioè non è mai capitato che entrasse in casa e prendesse a vagare per il mio salotto, agitando le braccia e guardandomi incredulo come avessi fatto chissà cosa, che poi può anche darsi che io l'abbia fatta, ma non è roteando le braccia in aria e ripetendo "Non ci credo! No, davvero, questo è troppo" che la capirò.
"Okay, potresti calmarti un secondo?" E cerco di dirlo con tono tranquillo, non come uno che pretende da lui qualcosa. Se sono nel torto non posso pretendere, anche se pretendere della calma per capire quello che ho fatto non mi sembra proprio così fuori dal mondo.
"No che non mi calmo!" Sbraita lui, naturalmente. "Non mi calmo perché tu sei stronzo e io non so perché sono ancora qui a dirti che lo sei, perché è evidente che tu sai di esserlo! Se non lo sapessi, vorrebbe dire che sei scemo e io non posso pensare che tu lo sia davvero così tanto!"
"D'accordo," sospiro rassegnato. "Ti ho perso, davvero."
"Oh che tu mi abbia perso è indubbio," sbotta lui, annuendo a se stesso. "Se credi che ti lasci passare questa, stai sognando, austriaco. Con me hai chiuso e sarai fortunato se, incontrandoti per strada, non ti strangolerò con le mie stesse mani per il solo gusto di vederti stramazzare a terra senza fiato e agitare quelle tue gambettine inutilmente!"
Potrei starlo a sentire. Potrei continuare a starmene seduto qui comodo ed aspettare che la tempesta passi, sono sicuro che passerà, perché nessun essere umano può andare avanti a sbraitare girando in tondo in quattro metri quadrati di spazio all'infinito, solo che sento su di me il peso di un qualche tipo di responsabilità, fosse anche il fatto che dovrei cercare di tranquillizzarlo, o di giustificarmi... o di abbatterlo, non so, qualcosa! Visto che comunque lui si sta sfogando un casino e quindi si suppone che io in qualche modo reagisca.
"Ma tu cosa fai?" Chiede lui, fermandosi e indicandomi a braccio teso. "Niente. Tu non fai niente, naturalmente. Ormai hai deciso, senza consultarmi, senza una spiegazione, niente e tanto ti basta. Non pensi che forse avrei bisogno di sentirmi dire qualcosa, vero? No che non ci pensi."
Apro bocca per dire qualcosa, tipo che non ho ancora capito di cosa stia parlando, ma lui mi gela con uno sguardo terrorizzante, una specie di raggio rosso dagli occhi che m'inchioda lì dove sono e mi fa richiudere la bocca.
"E non provare a rifilarmi la storia che non ti sei reso conto di quello che stavi facendo perché non ci credo più! Anzi, io credo che tu capisca perfettamente quello che fai ma che ti faccia molto comodo passare per coglione! Fai, dici, crei danni e poi tutti, ovviamente, ci passano sopra perché tu sei fatto così. Sei fatto così il cazzo! Tu sei fatto male, ecco come sei fatto!"
Si ferma un po' più a lungo di prima, quindi stavolta riesco a recuperare il fiato necessario per parlare. "Ascolta, qualunque cosa io abbia fatto, mi dispiace, d'accordo?" Mormoro. "Solo che non so cos'è."
"Tu non puoi non sapere che cos'è, Chakuza."
Mi stringo nelle spalle.
Lui mi guarda e ansima ancora per lo sforzo che ha fatto a furia di urlarmi contro e mi guarda, dritto negli occhi, come se si aspettasse di vedermi cedere o, non lo so, togliermi la maschera e sorridere beffardo mentre gli dico "E va bene, me l'hai fatta, Fler! Sono io che ho rubato il diamante al museo" come in un qualche film poliziesco o che so io. Solo che non ho rubato niente e il massimo che possiamo ottenere, noi due, stando qui a fissarci è di ipnotizzarci a vicenda.
Alla fine lui cede e lo fa fisicamente. Abbassa le spalle e anche il viso gli si allunga verso il basso, gli angoli degli occhi si piegano nella tristezza sconfinata che li caratterizza sempre quando qualcosa lo fa veramente soffrire e poi si lascia andare seduto sul divano con un sospiro talmente rassegnato che mi si stringe il cuore. Vorrei sapere cosa diavolo ho fatto; solo un tradimento, credo, giustificherebbe un'incazzatura simile ma non l'ho tradito. Giuro. Nemmeno vagamente. Non ci ho proprio pensato, sono felice così.
"Perché non me lo hai detto che non volevi più stare con me?" Chiede. E la domanda arriva talmente inaspettata ed è talmente assurda che lì per lì non ne capisco nemmeno il senso. Quando, esattamente, nel corso degli ultimi minuti, ore, giorni, settimane o mesi, ho mai espresso la volontà, anche remota, anche scherzosa, di mollarlo? Non me lo ricordo e sono certo che, se lo avessi fatto, me lo ricorderei. "Pat," dico allora, rassicurato. E' ovvio che si tratta di un malinteso, a questo punto. "Io non ho mai detto niente di simile."
"No, infatti tu non l'hai detto!" Sbotta di nuovo, ma non si alza. "Ti sei guardato bene dal dirmelo! Ho dovuto saperlo da Facebook, che se per caso oggi non accendevo il computer nemmeno lo scoprivo e magari non lo scoprivo nemmeno domani o dopodomani e finiva che passavo una settimana intera convinto di stare insieme a te e invece tu magari stavi con la lattaia sotto casa!"
"La lattaia sotto cas...Patrick cosa stai dicendo?"
"Questo sto dicendo!" Lui si alza come una furia e, per un istante, ho anche paura che mi salti addosso e me le tiri, ma lui mi sorpassa, apre il computer, ci smanetta un po' e poi indica lo schermo. "Questo! Ora giustificati, cazzo, voglio proprio sentirti!"
Io mi avvicino a lui e devo ammettere che ho anche un po' di paura perché non so cosa contenga esattamente quel computer e non posso garantire che non ci sia del porno là dentro, anche se non credevo che a Fler potesse dare tanto fastidio.
Quello che lui mi sta mostrando sullo schermo è la mia pagina personale di Facebook, dove non noto assolutamente niente di strano. C'è il post che ho fatto qualche ora fa quasi sommerso da quintali di post altrui e dalle foto che non mi riguardano ma sulle quali, nonostante questo, vengo taggato senza pietà. Quindi, direi, è tutto normale. “Che c'è?” Chiedo. Gli appoggio una mano sul polso ma lui si ritrae, nemmeno lo avessi punto.
“Ma come cosa c'è? Non prendermi per il culo, Peter!”
E' a quel punto che mi prende la nuca con quella mano immensa che si ritrova e praticamente mi spalma la faccia sullo schermo del portatile, tanto che per un certo momento vedo solo pallini di vari colori e poco altro. Quando si rende conto che non può pretendere che io veda da così vicino, mi scosta un po' e allora noto anche l'indice che preme sulle mie informazioni personali, soprattutto su situazione sentimentale. Non capisco ancora cosa voglia da me, c'è scritto fidanzato. Solo che non è proprio il caso di prendersela se non ho specificato, non è che il mondo sappia di noi due, o che sia pronto per saperlo. E' una questione di etichette, oltre che di infarti a catena nella mia famiglia e nella sua. Non è che di punto in bianco possiamo far sapere che ci sono dei rapper gay. E poi ne abbiamo già discusso e questa è una soluzione abbastanza accettabile, il mondo può sapere che non siamo più uomini liberi, ma non può sapere perché. Fine. Quindi qual è il problema di aver scritto Situazione sentimentale: … single.
Devo riguardare almeno tre volte per essere sicuro che in effetti ci sia scritto così. E non dovrebbe. Insomma, io so che cos'ho scritto, ieri c'era, non volevo. Io non c'entro, sono innocente.
Quando mi volto verso di lui, Fler ha incrociato le braccia al petto ma credo stia misurando a spanne quanto sono alto per vedere se il mio cadavere potrà essere facilmente arrotolato nel tappeto del soggiorno. La risposta è sì. Adesso immagino che mi strangolerà oppure mi chiuderà la testa nel portatile, quindi mi porterà giù in spalla per due piani di scale, avvolto nel tappeto e mi butterà nel canale di Tempelhof dove il mio cadavere, le mie tracce, la mia vita e quel poco che posseggo e sono si perderanno per sempre. Chissà, magari accompagnerà anche mia madre fino alla mia bara vuota, dicendole che era il mio migliore amico e lei, naturalmente, gli crederà perché come puoi non credere a quegli occhioni azzurri?
“Posso spiegare,” dico. In realtà no, ma è la prima cosa che mi esce sempre di bocca quando combino qualche danno e lui si presenta per terminarmi.
Fler mi guarda in silenzio, come un monolite e questo non mi aiuta perché è come se non mi credesse già in partenza, come se ne stesse lì a dimostrarmi che qualunque cosa io dirò sono destinato a fallire.
Poi mi viene un'illuminazione. E' uno di quei momenti ascetici in cui la luce divina cala dall'alto entrando da un lucernario che tu, in casa tua, non hai mai posseduto e t'illumina dandoti un'aurea di onniscenza. “E' stato il pinguino,” esclamo alla fine. “Non è colpa mia.”
Sono orgoglioso di poter dire – anche se non so esattamente perché ci sia dell'orgoglio in me al riguardo – che Fler perde in un istante tutta la rabbia che lo aveva spinto fin qui e la smorfia che aveva sul volto è sostituita all'istante da un'espressione talmente interrogativa che mi viene quasi da ridere ma non lo faccio perché, se ho avuto la fortuna di farlo passare dall'incazzatura al dubbio, è meglio se non sfido troppo la sorte e ci vado con i piedi di piombo.
“Il pinguino?” Fa lui, poi però si acciglia di nuovo. “Senti, non so cosa ti passi per il cervello, forse niente visto che si parla di te, ma non m'interessa, ok? Tu sei uno stronzo, io voglio solo sentirtelo dire. Poi mi fai la cortesia di prendere uno degli scatoloni che è ancora chiuso col nastro adesivo da quando ti sei trasferito, svuotarlo delle tue cianfrusaglie, metterci dentro gli oggetti che ho lasciato qui pensando erroneamente che avrei voluto passarci più tempo e portarmelo. Io ti aspetto qui sul divano e mi sforzo di non ucciderti.”
“No.”
“No?” E lo dice non come uno che ti sta chiedendo se ha sentito bene, ma come uno che ci tiene a far sapere che è alto un metro e novanta mentre tu no.
“C'è un pinguino nel mio computer,” dico “e lui ha modificato tutto. Non trovo più niente. Deve aver fatto casino fra le mie cose, cioè io devo aver fatto casino ma per colpa sua, del pinguino.”
Fler si passa una mano sul viso. L'arrabbiatura non gli passa davvero, però è stanco e sfiduciato, come quando ha portato a casa mia il suo robot per fare le pulizie, uno di quei cosi tondi che girano e vanno da soli. Dopo meno di due ore che era lì è stato costretto a spegnerlo perché quel coso non faceva che inseguirmi e io non facevo che urlare, cercando di abbatterlo con il bastone della scopa.
“Peter, per favore...” espira alla fine. “Non tirarla per le lunghe, d'accordo? E' solo più imbarazzante.”
“Non sto tirando per le lunghe niente, non l'ho messa io quella parola e se l'ho fatto non volevo,” replico con decisione. Non mi capita spesso di sapere con assoluta certezza di avere ragione per cui, quando capita, insisto con le unghie e con i denti. “Se ti devo mollare, te lo dico in faccia, non certo attraverso un oggetto che non so usare, ti pare? Allora tanto valeva montare su un biplano e cercare di scrivertelo in cielo con la scia dell'aereo!”
Lui a quel punto sorride, anche se non sembra tanto convinto.
“E poi perché dovrei lasciarti? Eri qui ieri! Siamo stati bene!”
Bene nel senso che abbiamo mangiato, visto film, scopato e mangiato di nuovo e poi fatto i piatti, giocato e perfino lavorato un po'. Fler è stato qui come se qui ci vivesse, e a me è piaciuto, quindi non vedo secondo quale logica dovevo prendere e decidere che così non andasse più bene, comunicandogli il tutto tramite internet. Dove sta la logica in tutto questo? Va bene che io ne sono spesso sprovvisto, ma nelle cose pratiche ce l'ho eccome. Ce l'ho un sacco! Sono un cuoco, devo essere pratico. Comunque credo di stare a qui convincermi da solo, in questo momento, il che non è bello.
“Non lo so perché! Il tuo cervello non funziona come quello delle persone normali, Chakuza! Permetti che posso pure andare a pensare cose simili?”
Ecco appunto. “Beh, comunque no. Non ti ho lasciato.”
“Bene.”
“Perfetto.”
Rimaniamo in silenzio molto a lungo, guardando la stanza con un interesse esagerato. Vedo che nell'angolo in alto a destra, proprio sopra la libreria, c'è un ragno così grosso che potrebbe mangiarci entrambi se solo decidesse di farlo e penso che forse, ma forse eh!, sarà il caso di dare una pulita dopo che tutto questo casino sarà finito, se mai finirà.
Alla fine conto le crepe sul muro e le costole dei libri sparsi in salotto, le riviste impilate e i barattoli di spezie che intravedo sulle mensole in cucina. Avevo provato a contare anche tutte le mattonelle del pavimento ma ho perso il conto tre volte e quindi ci ho rinunciato.
“Che poi tu mi devi spiegare che cazzo c'entra il pinguino,” esclama alla fine, senza nemmeno guardarmi. Sta fissando un punto indefinito sul bastone della tenda. Quando si volta ha le sopracciglia piegate una verso l'altra. “Quale pinguino?”
“Questo!” Recupero il portatile, chiudo tutte le finestre ed ecco che lui compare in mezzo allo schermo, tra le mie icone, con la sua aria di beatitudine. Se ne sta in panciolle come se, a causa sua, non avessi appena rischiato un disastro di proporzioni cosmiche. “Si chiama Tux,” dico, che poi è l'unica cosa che io sia veramente riuscito a scoprire di lui e del sistema operativo che si porta dietro.
A quel punto Fler inizia a scuotere la testa con un sospiro rassegnato e affranto, ma sorride anche. E' l'atteggiamento che ha quando sono particolarmente cretino; tipo quando litigo con la lavastoviglie, prendo a randellate il suo robot delle pulizie e me la prendo con il televisore se non mi fa vedere quello che voglio io.
“Come sei riuscito a fare danni con Linux, Peter?”
“Io non ho fatto niente!” Protesto. “Non so nemmeno da dove è saltato fuori! Ieri non c'era! Forse ho preso un virus.”
“Sì, al cervello,” fa lui, smanettando per ripristinare il mio status sentimentale in modo che lo comprenda. “I virus non ti cambiano il sistema operativo con uno più funzionale. Al massimo ti sputtanano quello che hai.”
“Ah. E allora lui come c'è finito lì dentro?”
“Si sarà intrufolato attraverso le prese USB,” dice serio, girando il computer. “Vedi? E' entrato da qui e poi è risalito fino allo schermo.”
“Tu dici?”
Mi guarda storto. “No, coglione, l'ho installato io.”
Io spalanco la bocca, sconvolto. Quest'uomo qui, questo seduto sul mio divano, ieri sera ha preso il mio portatile e ci ha trafficato sopra senza che io me ne accorgessi! La cosa più sorprendente è che non vedo come sia possibile visto che sono sempre stato con lui. Fler deve leggere il mio sguardo con la coda dell'occhio perché, mentre preme tasti e fa Dio solo sa cosa, commenta: “Tu dormivi, sei tipo collassato con la bava alla bocca dopo il secondo film, e io mi annoiavo. Potevo stuprarti nel sonno o cambiarti il sistema operativo e, per qualche strana ragione, sapevo che ti avrei creato più problemi con Linux.”
Lo guardo.
Lo guardo molto più intensamente.
Lo guardo molto più intensamente di quanto lo abbia mai guardato fino a quel momento e, già che ci sono, assottiglio gli occhi per dare un aspetto più laser al mio sguardo infuocato.
Lui a quel punto alza gli occhi e ride, così tanto che quando gli tiro un cuscino in faccia non si prende nemmeno la briga di coprirsi. Si fa prendere in pieno e ride.
“E poi sono io lo stronzo?” Commento.
“Beh io ti ho fatto andare il computer più veloce, tu mi hai lasciato su Facebook,” le sue sopracciglia si fanno un volo sulla fronte prima di tornare a posto. “Le due cose non sono nemmeno paragonabili. La mia vita sociale ne è stata irrimediabilmente compromessa.”
“Cosa?”
“Dovrai espiare, caro mio,” insiste lui.
Non mi piace quella parola. E con quella non mi piace neanche: ripagare, perdonare, penitenza.
Soprattutto quando non è colpa mia se lui installa cose che non dovrebbe installare invece di abusare di me mentre dormo e io poi faccio danni. Lo guardo e ho paura.
Lui mi guarda serio per un po' e poi sul viso gli si apre un ghigno che gli va da un orecchi all'altro. “Forse, se mi va, potrei anche decidere di mettere mano al tuo, di sistema operativo.”
Mi ci vuole un po' per capire, e in quei due o tre minuti le mie rotelle fanno un rumore talmente fastidioso che non riesco nemmeno a sentire quello che sto pensando, poi però ingranano e mentre ghigno, lui ghigna di più. Io devo espiare quello che non sapevo di aver fatto, ma lui ha un pinguino di cui rispondere.
Fler mette a dormire Tux e chiude il computer, io mi dirigo con noncuranza in camera.
Sarà una lunga serata di spiegazioni.
Più o meno.
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido
Genere: Humor, Fantasy
Avvisi: Slash, AU, Lemon, Assurdità varia ed eventuale.
Rating: R
Note: Storia chilometrica scritta per il compleanno di Liz. Trama e sviluppo sono stati scelti (e plottati) da lei medesima. E' una fic on-demand, palesemente. Naturalmente il concetto principale è plagiato dai Gremlins (Steven Spielberg, fammi causa), ma la storia dell'imprinting non è copiato da quella pessima autrice della Meyer. E' un imprinting e basta.
Io lo so che questa storia è assurda, ne sono abbastanza consapevole, però è puccia. Ho voluto bene al Chaku che dice 'Chaku' ma anche a Fler che qui è palesemente piccolissimo.

Riassunto: "Ci sono due regole che devi assolutamente seguire, Patrick,” gli disse. “E quando dico assolutamente, intendo che se per qualsiasi motivo non lo fai, le conseguenze saranno gravissime e irreparabili.


Patrick Losensky era un ragazzino difficile. Questo a detta dei suoi insegnanti, del suo allenatore di calcio e di qualunque altro adulto avesse o avesse mai avuto l'onere di dovergli ficcare in testa qualcosa.
Patrick Losensky era anche un ragazzino intelligente che non si applicava. Questo a scuola, naturalmente. O anche al corso di musica a cui sua madre lo aveva iscritto contro il suo volere, nel tentativo di renderlo una persona migliore. La verità su Patrick Losensky, però, la sapeva solo Patrick Losensky e lui pensava che tutte queste belle persone non avessero capito proprio un cazzo di lui.
Innanzi tutto lui non era un ragazzo difficile, era solo uno a cui non piacevano certe regole. Tutte le regole, per la precisione. Beh, quelle che non aveva deciso lui, per lo meno. Se la gente gli avesse semplicemente lasciato fare quello che voleva, avrebbe scoperto che era un tipo affabile e socievole e che non era affatto complicato trattare con lui.
E non era vero nemmeno che non si applicasse; lui si applicava tantissimo, solo che lo faceva soltanto con le cose che lui riteneva degne dei suoi sforzi. Non era colpa sua se la matematica, l'inglese, la storia e in generale tutte le materie scelte dal ministero per l'istruzione non rientravano nella categoria. Era forse colpa sua se il governo tedesco non simpatizzava con la sua linea di pensiero?
Generalmente Patrick era quel tipo di persona che le cose non te le mandava a dire, il che portava lui e la sua cartella a soggiornare molto spesso nella stanza del preside. Se invece era a casa, allora erano lui e il suo culo a farsi un volo fuori dalla porta sul retro e ad atterrare giusto sul cemento che quello stronzo di suo padre aveva steso quando lui aveva ancora tre anni, senza poi farne più niente; così che ora lui se n'era andato e Patrick e sua madre non avevano nemmeno più un giardino che si potesse chiamare tale.
Patrick non ricordava molto di suo padre. Anche prima di andarsene, non era stato un uomo molto presente e quando era in casa, lui e sua madre non facevano nient'altro che urlare e rinfacciarsi a vicenda la vita di merda che stavano facendo. Poi una sera, Fler lo ricordava a malapena e non era nemmeno troppo sicuro di non essersi inventato tutto, giusto per dare almeno un'uscita epica ad un padre visto che di cose memorabili non ne aveva mai fatte, lui e sua madre avevano litigato per l'ultima volta e suo padre era uscito sbattendo la porta e prendendo l'unica auto che avevano. Non era più tornato, nemmeno una volta. Nemmeno per sapere se erano ancora vivi. Sua madre non si era più risposata e Fler era cresciuto nella convinzione che fosse meglio per tutti così. Se la cavavano bene, loro due insieme, e tanto bastava. Questo, naturalmente, giustificava tutto l'amore spassionato che sua madre provava per lui, ma soprattutto quello che lui provava per sua madre e che non lo faceva allontanare da quelle due strade in rovina anche se magari avrebbe potuto. Lasciarla da sola nel ghetto non era un'opzione, e avrebbe dovuto fare ancora un mucchio di soldi per portarla via con sé. Ma ci stava arrivando. Era un duro lui, un duro che faceva rap. Quando avrebbe sfondato, sarebbe tornato con una macchina lunga un chilometro, avrebbe strappato sua madre dai panni che lavava e stirava per quei due spiccioli che guadagnava e l'avrebbe portata a vivere in una reggia così grande che ci sarebbe voluto il navigatore satellitare per non perdersi tra il bagno e la camera da letto.
Patrick non era come quei ragazzetti pieni di soldi che ascoltavano rap americano e si credevano dei grandi solo perché indossavano pantaloni troppo larghi e avevano orologi così pesanti che dovevano stare seduti per non sbilanciarsi in avanti. Gente come quella non ne sapeva niente del ghetto e non capiva niente di rap. Era la stessa gente che con i soldi di papà finiva a fingere di studiare all'università per poi ereditare la fortuna di famiglia e non fare un cazzo per tutto il resto della loro vita.
Patrick era diverso. Lui faceva sul serio; ma, soprattutto, lui aveva un piano. Aveva capito fin da subito, fin da quando suo padre se n'era andato, che nella vita bisogna essere organizzati, che non puoi pretendere di startene lì seduto nella tua veranda e aspettare che l'occasione giusta ti cada dal cielo. La parola chiave in una situazione del genere era organizzazione. La via più facile era spacciare, naturalmente; ma anche se era la via più facile, non era affatto quella più sicura. Di certo erano pochi quelli che invece di finire strafatti in un vicolo, erano finiti su un palco a ricevere dei premi. Questo Patrick l'aveva capito subito. Così si era organizzato. Aveva fatto la fame come tutti quelli che non volevano spacciare, ma intanto aveva scritto. Si era allenato. Era diventato bravo con le parole e aveva scritto dei pezzi, buona roba, gli mancava solo di farla sentire alla gente giusta. E ora quel momento era arrivato.
Patrick sapeva perfettamente che registrare la propria voce su un cd, infilarlo in una bella custodia e presentarsi tirati a lucido negli uffici di una casa discografica non serviva assolutamente a niente. Il massimo che potevi ottenere era un “Le faremo sapere” che non era neanche lontanamente quello che serviva a lui. Per farsi ascoltare, ci voleva qualcuno che ti spingesse dritto nelle orecchie di chi aveva il potere di farti stampare dischi. E lui lo aveva trovato.
Era stato per caso, un giorno che invece di andare a scuola Patrick aveva deciso di lasciare la sua firma dalle parti del canale. Si era trascinato lungo l'argine, stando ben attento a rimanere nascosto tra i cespugli e poi aveva trovato un bel posto relativamente ancora bianco su cui lasciare il suo nome. Disegnare con la bomboletta lo rilassava e poi gli dava modo di pensare a qualche nuovo testo, il che era sempre meglio che stare a sentire la professoressa mentre gli raccontava la seconda guerra mondiale. Era una guerra vecchia, quella, secondo lui. C'erano un milione di guerre in corso che nessuno si preoccupava di monitorare, tipo quella tra le bande di Berlino, per dirne una. I turchi che ce l'avevano con i greci, i tunisini coi turchi e i tedeschi con tutti quanti. Se avessero studiato queste, di guerre, allora sì che sarebbe rimasto in classe.
Il tipo era spuntato fuori dal nulla, tanto che Fler aveva tirato un mezzo strillo da ragazzina che poi si era affrettato a nascondere con un virile colpo di tosse. Si era anche guardato intorno per vedere da dove diavolo venisse quello, ma lì intorno non c'era niente. Solo un ponte, quattro cartoni e poco altro; ma il tipo non sembrava un barbone, anche se era strano forte.
La prima cosa che aveva fatto, prima di presentarsi o anche solo di salutare, era stata dirgli che secondo lui avrebbe dovuto organizzare lo spazio prima di riempirlo. “Vedi? Quella P è troppo grossa, non ti resta abbastanza muro per scrivere niente,” gli aveva detto, poggiando a terra la tazza di carta di Dunkin' Donuts che teneva in mano e avvicinandosi alla parete.
“Non sai nemmeno cosa voglio scrivere.”
Il tipo aveva sollevato un sopracciglio. “A meno che tu non ti chiami 'Patri”, e spero di no per te, allora non ti resta abbastanza muro per scrivere 'Patrick'.”
Patrick lo aveva guardato storto ma ciò non era bastato perché lo sconosciuto si facesse da parte come la sua occhiataccia voleva intendere. Anzi, aveva insistito. “Non guardi abbastanza lontano. Sei un tipo poco previdente.”
Lui si era sentito offeso nell'intimo, in maniera alquanto stupida per altro, perché era chiaro che il tipo non sapesse niente di lui e comunque non stesse tanto a posto con la testa se se ne andava in giro con addosso solo una maglia e una sciarpa a novembre. “Lasciami stare, so quello che faccio.”
“No che non lo sai,” aveva detto lui, prendendogli la bomboletta di mano e scrivendo in modo tale da ridurre la prima lettera del suo nome e dare spazio a tutte le altre.
“E tu chi saresti?” Lo aveva interrogato Patrick, le mani sui fianchi.
Quello aveva sorriso in un modo che da una parte gli aveva dato sui nervi e dall'altra gli aveva fatto venire in mente uno di quegli eroi in televisione che sono capaci di fare l'impossibile anche in situazioni disperate. Patrick si era convinto così, con quel sorriso. “Sono uno che organizza gli spazi.”

Il tipo si chiamava Anis Mohamed Youssef Ferchichi, ma non contento di avere già quattro nomi, ne aveva aggiunto un altro di sua scelta e si faceva chiamare Bushido. Viveva non lontano dal ponte in cui Patrick lo aveva incontrato la prima volta e la sua casa era così assurda che in un primo momento non aveva creduto che una cosa qualsiasi potesse vivere là dentro, meno che mai un essere umano. Era piccola, tanto per cominciare, e aveva soltanto due finestre che davano una su un muro e l'altra su una stradina così desolata che era più allettante guardare il muro. Bushido aveva liquidato le sue constatazioni sulla tristezza delle finestre dicendo che tanto fuori da casa sua non c'era niente da guardare e Patrick non aveva potuto dargli torto, sotto una certa prospettiva. La casa dell'uomo era come un magazzino, con scatoloni ammassati in ogni angolo visibile e cianfrusaglie che pendevano ovunque. Era come uno di quei dipinti curatissimi, che a guardarli potevi perdere le ore nel tentativo di catalogare ogni singolo dettaglio. Ogni volta che Patrick ci entrava era quasi certo di scoprire cose che erano lì da mesi – la polvere lo testimoniava, senza dubbio – ma che non aveva notato durante la visita precedente.
Dopo quella volta davanti al muro, Bushido era comparso altre volte, sempre dal nulla, come se un attimo prima non esistesse nemmeno e quello dopo l'aria stessa lo avesse sputato fuori proprio accanto a Patrick che non se lo aspettava mai e finiva per urlare. Bushido era alto e magro come un chiodo; a giudicare dai tratti somatici e dal colore, Patrick avrebbe detto che era arabo ma non gliel'aveva mai chiesto, come non gli aveva mai chiesto da dove saltasse fuori o perché si vestisse come se intorno a lui fosse a malapena autunno. E pure un autunno mite. Inizialmente aveva anche pensato che si trattasse di uno di quei pazzi maniaci che inseguono i ragazzini per sbudellarli, ma questa sua tesi iniziale era stata poi scartata per una serie di motivazioni più o meno valide. La prima era che, dopo sei mesi, Patrick non era ancora stato sbudellato e, a meno che Bushido non fosse un cannibale e lo stesse ingrassando in previsione di una qualche festa tribale sconosciuta e sanguinolenta, poteva ragionevolmente pensare che non lo avrebbe fatto mai più. Inoltre, Bushido sembrava più il tipo da spararti in fronte, se proprio doveva, ma si muoveva con una tale flemma e una tale aurea di generale menefreghismo, che Patrick proprio non ci riusciva a sentirsi minacciato. E poi era curioso. Voleva sapere da dove Bushido venisse, che cosa facesse nella vita a parte comparire a caso in quella degli altri e perché lo facesse proprio nella sua.
Alle sue domande Bushido non rispondeva mai se non sorridendo in maniera misteriosa e, per quanto Patrick avrebbe voluto spaccargli la faccia sbattendogliela ripetutamente contro un muro per questo, alla fine non lo faceva mai perché Bushido compariva sempre quando aveva più bisogno di lui e lo tirava fuori da guai, per cui Patrick non se la sentiva proprio di rinfacciargli tutto quel mistero quando magari l'uomo aveva impedito che dei teppisti lo ammazzassero di botte. Non gli sembrava educato, e lui conosceva le buone maniere.
Bushido era strano anche quando lo salvava da morte certa. Non è che si lanciasse sui delinquenti dal tetto dei palazzi o sbucasse fuori in tuta aderente dalle cabine telefoniche. Era più una cosa alla Mr. Crocodile Dundee; all'inizio se ne stava a guardare e poi, come se ad un certo punto ne avesse abbastanza di sentire stronzate, si avvicinava con sguardo sicuro e i teppisti, come il bufalo del film, si facevano prendere dal panico e se la davano a gambe. L'attimo in cui quelli sparivano dalla sua visuale, ecco che Bushido si voltava e gli sorrideva, chiedendogli se gli andava un caffè.
In effetti, a raccontarla, la situazione era un po' inquietante e forse, se il suo istinto di sopravvivenza non fosse andato temporaneamente in vacanza, avrebbe dovuto anche preoccuparsi della presenza di quest'uomo ambiguo e misterioso; il fatto era che, appunto, non si sentiva minacciato – anche quando magari pensava che ci fosse una possibilità di esserlo – e, inoltre, Bushido aveva sentito come cantava e aveva detto di potergli fare incontrare uno che lavorava alla Universal. Bushido lo aveva spacciato per un suo amico, senza specificare altro, il che era strano, ma poco importava. Era una possibilità, una possibilità concreta, e quindi Patrick voleva crederci.
Era per quello che si stava dirigendo a casa dell'uomo, per consegnargli la demo e organizzare i dettagli dell'incontro che avrebbe cambiato la sua vita. Quando ci arrivò, la casa di Bushido era stranamente silenziosa. Di solito si sentivano scricchiolii e strani fischi già ad una ventina di metri di distanza, per non parlare del fumo bianco che usciva dal camino continuamente. Ora, invece, non si sentiva assolutamente niente, nemmeno un fruscio. E le due finestre sfortunate erano sbarrate come se la casa fosse disabitata.
Per un attimo, Patrick pensò anche che l'uomo potesse aver fatto i bagagli e fosse svanito nel nulla, un'idea non così improbabile visto che quello dal nulla ci compariva anche; ma poi vide il filo di luce che filtrava da una crepa del muro e capì che, per quanto silenzioso, qualcuno doveva essere in casa. Bussò alla porta, sempre memore dell'educazione di sua madre, ma non ci fu risposta. Così pensò che se apriva ma si fermava sulla soglia, non sarebbe stato troppo maleducato. “Bushido, sei in casa?” Chiamò. “Sono io, Patrick.”
L'uomo non rispose nemmeno stavolta, ma almeno la casa riprese in qualche modo vita e da qualche parte, in stanze di cui Patrick non sospettava nemmeno l'esistenza, fischiò un bollitore.
“Bushido?”
“Sono qui,” esclamò l'uomo, scivolando fuori da dietro una pila di scatoloni. “Ero di là.”
Qui e là erano due concetti vaghi, ai quali nemmeno lui sembrava dare un peso visto che palesemente in quella casa non c'erano altre stanze e, fino a due minuti prima, lui non era stato nell'unica che c'era.
“Di là dove?” Gli chiese Patrick, ma l'altro era già passato oltre.
“Vuoi un tè?” Offrì, dimostrando di sapere perfettamente dove stesse fischiando la teiera.
Patrick annuì e lo osservò riempire due tazze di peltro nero. “Senti...”
“Per quella tua demo, non c'è nessun problema,” lo anticipò Bushido e poi sorrise compiaciuto quando fu chiaro che era esattamente quello che il ragazzino voleva chiedergli.
“Mi leggi nel pensiero, adesso?”
“Non adesso,” fu l'enigmatica risposta. “Il tè è buono. Bevilo.”
Patrick bevve e dovette ammettere che era buono, più buono di qualsiasi altro tè avesse mai bevuto in precedenza. Dopo il primo sorso, la stanza perse un po' di sostanza, nel senso che parte delle cose che c'erano dentro sembrò farsi meno solida, così vide attraverso gli scatoloni come se fossero trasparenti. C'erano delle porte, forse. Ma durò un attimo, come quando per la stanchezza, la sera, gli si appannavano gli occhi e tornavano normali solo quando li stropicciava. Sbatté le palpebre e guardò Bushido con aria interrogativa ma questa volta lui non dette segno di aver capito cosa gli passasse per la testa.
“Non hai visto?” Chiese.
“Visto cosa?” Fece lui, sedendosi comodo fra i cuscini sul pavimento che utilizzava come sedie e appoggiando la sua tazza di tè sul tavolino basso.
Patrick scosse la testa e guardò di nuovo la stanza, che però aveva riacquistato la sua solidità e ora sembrava che le cianfrusaglie sparse ovunque ostruissero di nuovo la visuale. Doveva essere più stanco di quel che pensava.
“La demo?” Chiese l'uomo.
Patrick scosse la testa per levarsi di dosso quella sensazione di rintontimento e si frugò nelle tasche alla ricerca del cd masterizzato con tanta cura, per poi passarlo a Bushido.
L'uomo osservò il cd con attenzione, quasi potesse sentirlo semplicemente guardandolo, quindi lo annusò e in fine lo fece sparire all'interno della felpa leggerissima che come al solito indossava. “Bene,” esclamò, diventando improvvisamente serio come Patrick non l'aveva mai visto. “Ora ho bisogno che tu mi faccia un favore.”
Patrick sentì un brivido lungo la schiena, una sorta di serpe che gli risalì la spina dorsale fino a piantargli i denti alla base del collo. “Sarebbe?” Sibilò, poco convinto.
“Si tratta del mio lavoro.”
In tutti quei mesi che lo aveva frequentato e che era stato a casa sua più o meno ogni giorno, Patrick non era ancora riuscito a scoprire che lavoro facesse. A giudicare dagli scatoloni, poteva essere un mercante o un corriere di qualche tipo, ma non gli aveva mai visto né spedire né ricevere niente. C'erano dei quadri in un angolo e anche un cavalletto, ma non c'erano colori, né pennelli quindi era improbabile che dipingesse. Né che scolpisse, nonostante le statue che erano sparse tra gli scatoloni. La cosa che incuriosiva Patrick più delle altre, in realtà, era una tenda verde pistacchio, una di quelle tende fatte di perline che si trovano sempre a nascondere il retrobottega di un salumiere o di un panettiere, per dire, e si era sempre chiesto cosa ci fosse dietro dal momento che quando Bushido varcava quella soglia, in entrata o in uscita che fosse, succedeva sempre qualcosa di strano. O lui era strano. Più strano del solito, almeno. E di certo non faceva il panettiere.
“Ecco, parliamone,” esclamò, forse un po' più scortese di quanto volesse ma d'altronde era giustificato ad essere sospettoso se questo favore da fare saltava fuori soltanto ora che Bushido aveva in mano il suo cd e si era accollato il compito di farlo avere a chi di dovere. “Che lavoro fai, esattamente?”
Bushido gli sorrise, senza smettere di masticare uno stecchino che era comparso chissà quando nel corso degli ultimi minuti. Iniziava a trovare destabilizzante che le cose cambiassero, o si aggiungessero o scomparissero davanti ai suoi occhi senza che lui in effetti se ne accorgesse. “E' difficile da spiegare, faccio un mucchio di cose.”
“Dimmene una.”
“Diciamo che mi occupo di oggetti particolari.”
Patrick segnò un punto virtuale nella sua tabella mentale delle ipotesi. “Quindi sei un mercante!”
“Non esattamente. Diciamo un estimatore.”
Patrick faticava a trovare un significato a quella parola, quindi preferì non insistere. Anche per non fare la figura dell'analfabeta. Tossicchiò per darsi un tono e appoggiò la gamba destra sulla sinistra, in quella che a suo dire doveva essere una posa seria e appropriata a parlare d'affari. “E che cosa dovrei fare?”
“Niente di troppo complicato, non preoccuparti.” Bushido si alzò, quindi scomparve dietro la misteriosa tendina di perline che a quel punto divenne ancora più misteriosa. Patrick si aspettò di vederlo rispuntare subito dopo – d'altronde, qualunque stanza fosse quella che si nascondeva là dietro, non poteva essere né troppo distante né troppo grande – e invece si ritrovò da solo per venti minuti buoni, durante i quali non riuscì a trovare il coraggio nemmeno di alzarsi e curiosare in giro. Anzi, c'era una sensazione strana oltre alla paura di essere colto in flagrante a mettere il naso dove non doveva; era la consapevolezza che se anche si fosse alzato a frugare, non avrebbe trovato nient'altro che polvere, pertanto avrebbe fatto meglio a rimanere seduto. Alla fine, Bushido si ripresentò con in mano una scatola non troppo grossa e assolutamente anonima, ben chiusa su tutti i lati con doppio nastro da pacchi. “Il contenuto di questa scatola è molto prezioso,” esordì, appoggiando il carico sul tavolo e guardandolo dritto negli occhi. “Io ho un impegno molto importante e ho bisogno che qualcuno lo tenga d'occhio per me, questa notte.”
Patrick annuì, ascoltando con attenzione. “Certo, nessun problema.”
“Dev'essere trattato con molta cura,” continuò Bushido, ammonendolo con un dito per la troppa velocità con la quale aveva risposto. “Vale più di quanto tu possa immaginare.”
Patrick contemplò per un po' la scatola, che appariva normalissima e anche un po' rovinata. La prima cosa che pensò fu che se davvero il carico era così prezioso, allora forse non era una grande idea infilarlo in una scatola di cartone, ma non lo disse. “Non preoccuparti,” annuì. “Di me puoi fidarti.” Avrebbe voluto prendere la scatola ed andarsene, perché per qualche motivo l'aria si stava facendo pesante e anche un pelo sacrale, come quando sua madre lo aveva preso da parte e, con sguardo serio gli aveva spiegato delle api e dei fiori, senza per altro rendere affatto comprensibile la questione della riproduzione, ma sembrava che Bushido non avesse ancora finito.
“Ci sono due regole che devi assolutamente seguire, Patrick,” gli disse. “E quando dico assolutamente, intendo che se per qualsiasi motivo non lo fai, le conseguenze saranno gravissime e irreparabili.”
Patrick deglutì e desiderò ardentemente poter prendere appunti. Non si fidava della sua memoria e aveva l'inquietante sensazione che non sarebbe durata al di fuori della porta di quella casa. Ad ogni modo non poteva tirarsi indietro adesso, aveva dato la sua parola. Quindi, non aveva alternative.
“Regola numero uno: non guardare dentro la scatola. Né per un minuto, né per un secondo. Qualsiasi sia il motivo tieni chiuso il coperchio e non sbirciare.”
Patrick annuì. Poteva farcela, anche se bisognava dire che come regola era un po' ingenua. Lo sapevano tutti che la prima cosa da non fare quando si voleva tener nascosto il contenuto di qualcosa era vietare espressamente di sbirciare. Ora come poteva resistere alla tentazione di darci un'occhiata?
“Regola numero due: qualunque cosa tu veda, senta o anche solo annusi, non fare niente.”
Patrick sollevò un sopracciglio. “Annuso?”
“Non fare niente,” ripeté Bushido, impassibile. “Sono due regole, Patrick. Non devi dimenticarle. Ripetile.”
“Non guardare e non fare niente.” Era piuttosto facile, alla fine. E per altro erano le stesse regole che lui aveva stabilito nei confronti del sacchetto dell'umido. Occhieggiò comunque la scatola con fare molto perplesso. C'erano due ipotesi che si stavano facendo strada nella sua testa: o Bushido era pazzo e magari la scatola era anche vuota e lui avrebbe dovuto fare la guardia al suo amico immaginario, oppure la scatola conteneva qualcosa di molto illegale e si stava infilando in uno di quei casini in cui aveva promesso a sua madre di non infilarsi mai.
“D'accordo, credo che mi fiderò di te e in cambio porterò la tua demo alla Universal.”
Patrick sorrise. “Puoi stare tranquillo.”
Bushido gli consegnò la scatola di cartone. “Verrò a prenderla io stesso a casa tua domani mattina. Ricorda: non guardare e non fare niente.”
Patrick annuì ancora una volta, mentre lasciava la casa. La scatola era leggerissima, il che avvallava l'ipotesi dell'amico immaginario e della pazzia di Bushido. Non sarebbe stato poi tanto difficile occuparsene, dopotutto.

Una volta tornato a casa, la scatola era stata presto dimenticata.
Non che se ne fosse completamente disinteressato, ovvio, ma non dovendo né aprirla né fare niente, aveva pensato che fosse meglio metterla subito in un angolo giusto per non avere la tentazione di saperne di più. L'aveva incastrata tra il comodino e il muro, piazzandoci sopra un po' dei vestiti che si accumulavano ovunque in camera sua, così, se anche sua madre fosse entrata senza bussare, non l'avrebbe nemmeno notata con tutto il casino che c'era. Poi si era messo a fare i compiti, quindi a guardare la televisione e ora stava violando consapevolmente il coprifuoco di sua madre giocando alla playstation con le luci spente e l'audio basso, dopo aver spergiurato di andare a dormire non più tardi delle dieci. Erano le due di notte.
Era nel mezzo del livello più difficile che gli fosse mai capitato di affrontare nella storia di tutti i videogiochi che aveva provato quando sentì il primo tonfo. Fu ovattato e nemmeno troppo preoccupate. Mise in pausa giusto il tempo di tendere l'orecchio, non sentire nient'altro e poi concludere che il gatto, nell'altra stanza, dovesse aver fatto cadere qualcosa.
Il secondo tonfo però fu più violento e fu seguito subito da un terzo tonfo, accompagnato da un borbottio contrariato. Patrick mise di nuovo in pausa il gioco e, deglutì, vagamente preoccupato. Il gatto non borbottava. E comunque il rumore era molto vicino, non certo nell'altra stanza.
Al quarto tonfo fu chiaro che il rumore provenisse dalla sua camera da letto e più precisamente dalla scatola, visto che i vestiti erano rovinati in terra.
Rimase in attesa di ulteriori sviluppi, in fondo era notte fonda, magari era stanco e forse pure addormentato. Era probabile che stesse sognando di essere ancora sveglio e che mentre giocava alla playstation, la scatola misteriosa si fosse messa a borbottare. O a muoversi.
Deglutì di nuovo quando ci fu l'ennesimo tonfo e la scatola prese a ribaltarsi una volta e un'altra ancora, emettendo grugniti e sbuffi infastiditi.
“Ma che diavolo...?”
Quando pronunciò le parole, la scatola smise immediatamente di muoversi, come se l'avesse sentito. Quindi, dopo un attimo di indecisione, qualunque cosa ci fosse dentro – e a questo punto l'ipotesi dell'amico immaginario andava a farsi benedire, ma anche quello della droga che per certi versi poteva essere rassicurante – tirò un colpo da dentro e sul lato alto della scatola comparve una gobbetta, piccola e rotonda.
Patrick si ricordò le due regole: non guardare dentro e non fare niente.
“Facile non fare niente quando la scatola va in giro per la stanza!” Si lamentò a voce alta, mentre la scatola si avviava tonfo dopo tonfo verso la porta, borbottando spazientita.
“Ehi! No! Non puoi andare da quella parte!” Patrick le si piazzò davanti, impedendole di rotolare oltre la soglia. Chiuse la porta con cura e poi sospirò. “Senti, io non posso tirarti fuori di lì, qualunque cosa tu sia.”
Gobbetta.
“E non posso nemmeno vedere che cosa sei. E' la regola numero uno.”
Gobbetta. Gobbetta.
“Non fare così, non è colpa mia.”
La scatola si offese e rotolò dalla parte opposta, cercando un'altra via d'uscita, facendo per altro un rumore d'inferno mentre andava a sbattere contro qualsiasi cosa. Patrick si mise le mani sulla testa, disperato. Sua madre si sarebbe svegliata, avrebbe visto la scatola, avrebbe chiesto da dove proveniva, le avrebbe dovuto raccontare di Bushido, della sua casa assurda, della demo, della Universal e di chissà quante altre cose. Sarebbe finita in tragedia. Doveva fermare la scatola. E al diavolo la regola numero uno, tra sua madre e un probabile trafficante di chissà cosa, sua madre era più pericolosa.
“Okay! Okay! Va bene! Ti apro!”
La scatola si fermò all'istante e, se non fosse stata una cosa assolutamente folle, Patrick avrebbe giurato che avesse incrociato le braccia e lo stesse guardando contrariata. Quindi prese coraggio e si avvicinò, cercando il verso giusto. Nel rotolare era finita sotto sopra, così la ribaltò, scatenando una serie di borbottii infastiditi. “Scusa, ma la tua scatola ha un verso,” si giustificò. Fece un grosso sospiro, pregò che le conseguenze gravissime e irreparabili non fossero anche mortali e strappò il nastro adesivo che teneva chiusa la scatola. Per un secondo non successe niente, poi qualcosa spinse via le alette di cartone e una manina strinse forte i bordi, issandosi fuori. Patrick si era aspettato di tutto: gatti, cani, iguane, pappagalli rari, paguri e cuccioli di dinosauro. Ma non questo.
Questo, per altro, non era nemmeno possibile.


Accanto alla scatola, tutto nudo e chiaramente molto contrariato, c'era un essere umano in miniatura. Non un bambino e non una persona molto bassa, ma un vero e proprio essere umano in scala ridotta.
Se ne stava lì in piedi, le mani cicciottelle sui fianchi e lo guardava malissimo.
Patrick sussultò e fece anche tre o quattro passi indietro, tanto per stare tranquillo. “E tu che cosa saresti, esattamente?” Squittì, troppo preoccupato per vergognarsene.
La creatura non gli rispose e, a dirla tutta, smise proprio di considerarlo, come se lo sguardo rabbioso fosse stato sufficiente. Una volta preso atto della situazione, si avviò ad ispezionare la stanza, nudo com'era e senza nessun apparente problema al riguardo. Patrick lo osservò partire in quarta, un passetto svelto dopo l'altro, verso la sua scrivania, con i gomiti in fuori e il sedere rotondo in bella vista. Rimase in silenzio mentre l'atletico esserino spiccava un salto e si aggrappava alla seduta della sedia, per poi issarsi su con la forza delle braccia. Una volta arrivato in cima si guardò di nuovo intorno, ma la visuale non sembrò soddisfarlo, per tanto si voltò ad occhieggiare la scrivania.
Un secondo e poi si piegò un pochino, ondeggiò i fianchi e quindi saltò in alto, aggrappandosi all'ultimo al bordo del tavolo. Per qualche istante rimase lì appeso, con le gambette che scalciavano e la lingua di fuori, ma alla fine riuscì a sollevarsi e ad atterrare illeso tra gli appunti di scuola di Patrick. Come se fosse il padrone, si mise ad ispezionare la scrivania, usando le gomme da cancellare come scalini e i righelli come piattaforme aeree tra un libro e l'altro. Annusava tutto con aria critica e poi passava oltre, gettandosi alle spalle ogni cosa che sollevava. Qualsiasi cosa sembrava interessarlo meno di niente.
“Che cosa stai cercando?” Chiese Patrick, vedendolo chiaramente molto impegnato.
La creatura gli sollevò addosso un'occhiata un po' presuntuosa e un po' frustrata e Patrick si sentì inadeguato, come se avesse dovuto sapere la risposta a quella domanda per scienza infusa. Quell'esserino aveva un sacco di pretese per essere alto venti centimetri. Alla fine rimase lì ad osservarlo, mentre lanciava in aria oggetti e si arrabbiava. Anzi, più tempo passava, più oggetti scartava e più le guance gli diventavano rosse mentre borbottava e grugniva. Non sembrava parlare, quanto più masticare un certo tipo di suoni. L'unica cosa che Patrick riusciva a capire con chiarezza era che fosse molto infastidito.
Quando lo gnomo ebbe devastato la sua scrivania, il cestino dei rifiuti e tutti i cassetti del suo comodino, si piantò a gambe large in mezzo alla stanza apparentemente indeciso sul da farsi. Per un attimo Patrick aveva anche creduto che il suo obbiettivo fossero i giornaletti porno perché si era fermato a guardarli con un discreto interesse, ma poi aveva ripreso a frugare tra le sue cose con ancora più furore di prima.
“Seriamente, se mi fai capire quello che ti serve,” tentò ancora “magari posso darti una mano.”
La creatura borbottò nella sua direzione, staccando quelle che dovevano essere parole ma ovviamente lui non capì niente.
“Non ti capisco.”
Lo gnomo ci riprovò, ma la confusa accozzaglia di suoni che gli usciva di bocca non somigliava a niente che Patrick avesse mai sentito. “Vestiti?” Tentò, visto che il tipo era nudo.
Lo gnomo agitò le braccia davanti a sé in segno di stizza, quindi riprese a fare per conto suo, dirigendosi verso la porta.
“Perché mai volere dei vestiti quando si è nudi,” replicò Patrick, altrettanto stizzito. “Cercavo solo di essere gentile. Scusa se non capisco quando parli ruttando.”
L'ometto si limitò ad indicargli la porta chiusa con il braccio e l'indice cicciottello ben teso.
“Non posso farti uscire dalla stanza. A dirla tutta non potevi nemmeno uscire dalla scat–Ehi!” Si precipitò verso lo gnomo che aveva tirato un calcio alla sua playstation, per ripicca. “Non ti azzardare!”
Lo gnomo indicò di nuovo la porta.
“Non posso!”
E tirò un altro calcio alla playstation.
“La vuoi piantare?”
Calcio, calcio, calcio. Era talmente tondo che se non fosse stato impegnato a disperarsi per la console in pericolo, Patrick lo avrebbe immaginato emettere assurdi suoni bitonali. Come i personaggi dei videogiochi quando colpivano gli oggetti lungo la strada per guadagnare punti. “Va bene! Okay! D'accordo!” Cedette alla fine, spalancando la porta. “E aperta, contento?”
Lo gnomo tirò un ultimo calcio, col piede di traverso, quindi si avviò tutto tronfio e a passetti veloci fuori dalla stanza e nel corridoio, seguito a ruota da Patrick.
La casa era buia, ma la creatura non sembrava avere alcun problema e correva spedita, a differenza di lui che stava avendo qualche difficoltà a percorrere i due metri del corridoio di casa sua. Di accendere la luce, naturalmente, non se ne parlava neanche. Come poteva spiegare a sua madre che c'era uno gnomo che si aggirava per casa col pirillo di fuori? Tra l'altro, lui stesso avrebbe dovuto porsi delle domande: ad esempio, com'era possibile che esistessero davvero gli gnomi? Perché Bushido ne teneva uno in una scatola? E com'era sopravvissuto per più di sei ore senza ossigeno, visto che lo scatolone non aveva buchi?
Alla fine del corridoio, lo gnomo imboccò la porta della cucina a testa bassa, aumentando la velocità e annusando l'aria come un animale. Quando Patrick lo raggiunse, lo trovò seduto in mezzo alle arance nel cesto della frutta, con in mano una mela quasi più grossa di lui.
“Cibo! Volevi mangiare!”
Lo gnomo annuì con grande soddisfazione, senza preoccuparsi di smettere di mangiare mentre lo faceva. La mela sparì nel giro di due minuti e lui ne attaccò subito un'altra, abbracciandola per tenerla meglio. Patrick si sedette, osservandolo meglio ora che era tranquillo e, a quanto pare, molto felice.
Dopo le mele, tutte le arance, un'intera confezione di cracker e dopo aver costretto Patrick a fargli due uova col prosciutto perché crudi non sembrava mangiare né le une né l'altro, il piccolo gnomo sembrò infine sazio, la casa era di nuovo quieta e sua madre non si era svegliata, nonostante il cigolio continuo delle sue piccole mascelle. Fuori la luna era appena scomparsa, in previsione del sole che doveva sorgere fra qualche ora. Patrick non aveva dormito un secondo ma si sentiva stranamente tranquillo, come se il pericolo più grosso fosse stato non sapere che cosa volesse questo esserino e si sentisse al sicuro ora che lo aveva capito.
Si sbagliava.

Era intento a far sparire le stoviglie nel lavandino il più silenziosamente possibile quando lo gnomo aveva emesso quello strano verso. Patrick si era girato perché somigliava tanto al conato del gatto quando aveva inghiottito una palla di pelo e si metteva sul divano buono a cercare di vomitarla.
Si era voltato di scatto e l'ometto non era più sul tavolo, ma se ne stava disteso in terra, piegato in posizione fetale, con gli occhietti chiusi e i pugni stretti vicino al petto. “Oddio, l'ho ucciso!” Fu la prima cosa che gli venne in mente, vedendolo lì così. Lo scenario apocalittico che ne sarebbe conseguito gli fu immediatamente chiaro: Bushido sarebbe arrivato a recuperare la sua scatola, l'avrebbe trovata aperta, lo avrebbe rimproverato per averla aperta.... e quindi ucciso quando avrebbe scoperto che il suo nano era morto. Forse gli avrebbe sparato o peggio! Per quel che ne sapeva, Bushido era abbastanza assurdo da decidere di farlo fuori con una pala da neve. Quello gli avrebbe spaccato la faccia a badilate perché uno gnomo aveva mangiato troppe mele. O troppe arance. O forse erano state le uova. Forse lo gnomo era allergico alle uova, ma ne era goloso, così lo aveva convinto a cucinargliele senza sapere che questo lo avrebbe ucciso! E adesso? Poteva nascondere il cadavere, ma non per questo evitare le badilate. E se avesse chiesto aiuto a sua madre, avrebbe dovuto spiegargli che quello era uno gnomo e che lo aveva ucciso. Chissà se uccidere gnomi rientrava nei comportamenti disdicevoli contro cui lei lo metteva sempre in guardia? Probabilmente sì.
Era così preso a piangere la sua imminente morte che non si rese conto della luce azzurrognola che adesso avvolgeva lo gnomo. Non se ne accorse finché questa non divenne impossibile da ignorare e immerse l'intera cucina in un bagliore lattiginoso da astronave aliena. Ci mancava solo che un raggio traente entrasse dalla finestra per recuperare il corpicino esanime. Forse non era uno gnomo, dopotutto.
Naturalmente non successe niente del genere, perché non si trattava di alieni. E non si trattava nemmeno di morti, se il borbottio che si sentiva era un qualche segno di vitalità da parte della creatura.
Forse non era tutto perduto! Patrick tese l'orecchio e tentò di aguzzare la vista, in mezzo a tutta quella luce non riusciva a scorgere nemmeno il presunto cadavere. Avanzò a tentoni, toccando il pavimento con le dita, ma lo gnomo sembrava scomparso. Lo chiamò un paio di volte – Gnomo? Ehi, coso? – ma quello non rispondeva. E lui ancora non sapeva se non rispondeva perché era morto o solo perché era stronzo. Quando ormai aveva perso le speranze di risolvere la situazione in un modo che non coinvolgesse sua madre, la pala da neve di Bushido e lo gnomo, vivo o morto che fosse, ecco che la luce si spense, lasciando la cucina ancora più buia di prima.
La prima cosa che Patrick vide dopo che i suoi occhi si furono abituati, fu che lo gnomo non c'era, ma la cosa non gli procurò il panico che avrebbe dovuto, perché si rese immediatamente conto di avere un problema molto più grosso, che di certo non avrebbe potuto risolvere semplicemente infilandolo in una scatola. Sul pavimento della cucina, infatti, c'era ora un uomo adulto e dal momento che si trovava nello stesso punto dove s'era trovato il nano, ed era per altro altrettanto nudo, era presumibile pensare che si trattasse del nano stesso. “Okay, adesso la cosa si sta facendo un tantino inquietante,” mormorò, senza riuscire a togliersi dalla faccia l'espressione di uno che ha appena visto un nano diventare un essere umano di fronte ai suoi occhi. E a ben pensarci era anche giustificato a non riuscirci. Arretrò di qualche passo terrorizzato, andando a sbattere contro qualcosa senza trovare il coraggio di voltarsi e guardare che cosa fosse.
L'uomo, che gli dava le spalle, si voltò nel sentire il suono della sua voce e poi lo guardò dritto negli occhi non appena lo ebbe individuato, incastrato com'era tra il frigorifero e il forno. Patrick si schiarì la voce e cercò di stare ben dritto, giusto per darsi un tono, perché accartocciarsi in maniera pietosa sui fornelli non gli sembrava un buon modo per comunicare sicurezza di sé a chi gli stava di fronte.
“Che cosa diavolo sei, tu?” Chiese. L'uomo annusò l'aria e poi sorrise, una cosa che non aveva mai fatto prima di quel momento. Patrick la trovò una cosa piacevole ma stranamente inquietante che lo portò a deglutire e ad incassarsi ancora di più tra gli elettrodomestici quando quello gli venne incontro. “Okay, non importa se non vuoi rispondere. Rimani lì, però.”
“Chaku,” esclamò l'uomo, con molta convinzione per altro.
“Chaku?”
“Chaku!” Quindi l'uomo fece gli ultimi due passi che lo separavano da lui, appoggiando le mani accanto al suo corpo e incastrandolo lì dov'era. Il suo naso era solo a qualche centimetro da quello di Patrick quando ripeté quella parola, molto più dolcemente. “Chaku.”
Disagio. Patrick era molto a disagio. A disagio come quella volta che Nicole gli si era seduta in grembo durante la lezione di ginnastica e lui avrebbe voluto sotterrarsi quando lei si era accorta che non aveva nessun mazzo di chiavi in tasca. “Chaku anche a te,” esclamò, deglutendo.
“Chaku,” lo annusò quello che prima era un nano e ora era un uomo, anche se non proprio altissimo, visto che poteva ben guardarlo negli occhi. “Chaku. Chaku.”
Dal momento che il naso della creatura si era trovato un posto comodo contro il suo collo e questo, in modo e tempistiche che Patrick non voleva analizzare, riportava alla luce la questione del mazzo di chiavi invisibile, si costrinse a pensare a qualcosa di razionale. A qualcosa di utile. A qualcosa che lo tirasse fuori dalla cucina e trovasse una soluzione sensata all'uomo nudo che ora gli annusava il collo. “Senti gnomo... No, ci serve un nome,” esclamò, faticando a trovare il coraggio di appoggiargli le mani addosso e spingerlo delicatamente indietro. “Non posso chiamarti più gnomo.”
“Chaku,” fece l'uomo.
“Non sai dire altro?” Sbottò Patrick. Lo stava infastidendo.
L'uomo piegò la testa di lato e gonfiò le guance perplesso. “Chaku?”
Patrick sapeva che ad avere uno specchio davanti avrebbe visto se stesso abbassare le spalle e guardare dritto davanti a sé con aria stanca e frustrata. “E Chaku sia, se proprio non hai altri suggerimenti.”
Chaku sorrise.

“Ora, il nostro nuovo problema è che tu non hai dei vestiti.” Patrick pensò che se si occupava delle questioni pratiche, forse sarebbe stato più facile ignorare il formicolio che sentiva alla base della schiena, come se avesse la coda, ogni volta che Chaku gli si avvicinava, il che era spesso e volentieri giacché sembrava avere una particolare fissazione per il suo collo, le sue orecchie e in generale qualunque cosa gli appartenesse e non fosse coperto da un pezzo di stoffa. “Vestiti? Capisci?”
Chaku lo osservò mentre si strattonava la maglia e pensò bene di strattonargliela un po' anche lui, contento quando, nel farlo, scoprì un ombelico bianchissimo e perfettamente rotondo. “No!” Patrick gli scostò una mano. “Giù le mani. Troverò qualcosa anche per te.”
Chaku non capì molto bene, ma lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e lo seguì docile lungo il corridoio e nello sgabuzzino dall'altra parte della casa, dove sua madre teneva tutto ciò che non aveva spazio altrove. “Dev'esserci ancora qualche vecchio vestito di mio padre, da queste parti,” ragionò Patrick, frugando alla cieca fra quel quintale e mezzo di scatoloni che c'erano stipati. “Mia madre non butta mai via niente, e quand'ero piccolo, ricordo che lei si addormentava stringendo una delle sue maglie.”
Chaku ascoltava attento, o abbastanza attento per alzare la testa nei momenti esatti in cui lui faceva una pausa mentre gli raccontava del padre; per tutto il resto del tempo, però, gli stava molto vicino, seguendo ogni suo movimento.
“Ah! Ecco qua.” C'erano una vecchia felpa grigia e un paio di pantaloni. Forse gli sarebbero stati troppo grandi, ma avrebbero dovuto farglieli andare ben lo stesso. Coprirlo era una priorità, e il fatto che lo fosse – cioè il fatto che gli desse fastidio, più che alto – irritava Patrick in maniera indicibile. Non era la prima volta che vedeva un altro maschio nudo, ma nessun batacchio altrui gli aveva mai dato tanto fastidio. “Forza, vieni.”
Tornarono in camera sempre molto silenziosamente. Ancora si stupiva di come sua madre non si fosse svegliata al minimo sospiro un po' più forte degli altri. Era un miracolo, con l'udito di pipistrello che si ritrovava. “Ora tu ti metti questi, e poi decidiamo cosa fare di te.”
Gli occhi di Chaku divennero molto rotondi e sconvolti.
“Cosa c'è che non va? Non ti piace il colore?” Disse ironico.
Chaku era permaloso. Avrebbe dovuto capirlo subito, tipo quando gli aveva preso a calci la playstation, ma fu immediatamente chiaro quando gli strappò maglia e pantaloni di mano per lanciarli con stizza in terra. “Chaku,” puntualizzò.
“Sì, Chaku, mettiti i pantaloni. Non è il momento di mostrarlo in giro.”
Chaku non sembrava molto convinto di quello che gli veniva detto e neanche di come si mettessero dei pantaloni, così Patrick tentò di spiegargli cosa dovesse fare e questo sembrò confondere la creatura ancora di più. Ogni volta che gli passava i pantaloni, Chaku glieli restituiva con un sorriso felice, come a dire “Hai visto, bravo? Sono tuoi, te li ridò” e se provava a metterglieli lui personalmente, Chaku si agitava contrariato e finiva per tentare di levarli a lui. Sembrava pensare che se quello che Patrick voleva era che si trovassero nella stessa situazione, allora quel risultato potevano ottenerlo anche spogliando lui. Il ragionamento, alla fine, non faceva una piega.
“Basta, ci rinuncio,” esclamò alla fine il ragazzino, sedendosi sul pavimento e lasciando i pantaloni al loro triste destino di indumenti inutili. “Stai nudo, allora! Tanto non farà alcuna differenza. Se mia madre non mi uccide, lo farà Bushido.”
In realtà lui avrebbe dovuto chiamare Bushido, sperare di trovarlo al cellulare – cosa che capitava di frequente quanto le eclissi solari – e poi arrabbiarsi pure, perché passi fargli un favore perché Bushido ne faceva uno a lui, passi tenergli uno scatolone sospetto, passi pure di non aprirlo, ma delle spiegazioni sui nani gli erano dovute, per la miseria! Soprattutto se questi nani poi crescevano, si rifiutavano di vestirsi e, come adesso, invadevano gli spazi personali altrui.
“Ascolta,” sospirò Patrick, dopo essersi scostato le sue mani di dosso per l'ennesima volta. “Io non ho idea del perché tu faccia così, forse perché eri molto piccolo e molto frustrato e ora sei grande e... e attrezzato, ma non puoi farlo, d'accordo?”
L'errore, lo capì in seguito, quando qualcuno si degnò di dargli delle informazioni e quando lui stesso ebbe acquisito una certa esperienza, fu alzare la testa e guardarlo negli occhi. E dire che avrebbe dovuto saperlo anche in quel preciso momento perché, se pur pochi, i precedenti c'erano. Gli era bastato che lo guardasse, perché Patrick si sentisse a disagio e ora che gli era così vicino, vicino come in cucina, così vicino da sentire il suo fiato sulle labbra, non era più sicuro di riuscire a dirgli di allontanarsi e questo era molto, molto male. Anche quel poco di cervello che non navigava ancora nella melassa lo capiva.
“Chaku, cosa mi stai facendo?” Chiese, mentre si rilassava senza aver mai pensato di farlo. Era un po' come essere brilli. Sentiva e vedeva ogni cosa, e da qualche parte nella sua testa sapeva ancora che c'erano questioni urgenti da risolvere, solo che non gli importava. L'aria si era fatta calda e c'era un buon odore, quindi non vedeva alcun motivo valido per riprendere piena coscienza di sé. Qualunque problema ci fosse, poteva aspettare.
“Chaku,” rispose l'uomo, che era lentamente scivolato su di lui senza che se ne accorgesse.
E quella sembrò in qualche modo una risposta appropriata.

C'era stato un momento di buio.
Fler ne era quasi convinto. Anzi no, ne era convinto al cento per cento perché non aveva la minima idea del perché adesso fosse nudo anche lui ma, soprattutto, del perché la cosa non gli creasse il minimo problema. Aveva già provato questa sensazione la prima volta che aveva bevuto un po' troppo. Tra la prima birra e l'ultima c'erano state ore di vuoto che non aveva mai saputo ricostruire. Anche la generale sensazione di benessere era la stessa, con l'unica differenza che allora si era trattato soltanto di allegria, adesso era qualcosa di più. Lo stesso qualcosa che si era tutto concentrato alla base del bacino e sembrava scaldarsi man mano che passava il tempo; anche se quello non passava normalmente, ma si allunga lento e appiccicoso come gomma da masticare.
Chaku aveva un buon profumo; dolciastro, sicuramente pungente, ma buono. Patrick era sicuro di averlo già sentito da qualche parte, né aveva il chiaro ricordo ma non riusciva ad afferrarlo e per riuscire a scoprirlo gli affondava di più il naso nel collo, inspirando di più e perdendosi un altro po' in quella specie di bolla ovattata in cui era finito, incurante del mondo che c'era al di fuori dei loro corpi.
Non ricordava neanche quando le dita di Chaku si fossero fatte più audaci. Quando si fosse insinuato fra le sue gambe o la sua bocca fosse diventata una presenza così naturale sulla sua da non ricordarsi un tempo in cui non c'era stata. Una parte di lui immaginava che tutto questo non avesse alcun senso: Chaku non era umano, lui non era gay e, anche se lo fosse stato, forse non avrebbe esattamente scelto un nano pelato per rotolarsi sul pavimento di camera sua. Quindi perché stava accadendo?
Si vide scrollare mentalmente le spalle. Questo doveva essere un qualche tipo di risarcimento da parte del destino per la sua infanzia tormentata, per lo stato di indigenza continuo in cui lui e sua madre avevano vissuto nel corso degli ultimi sedici anni e perché aveva passato una nottataccia. Certo magari lui avrebbe preferito Jessica Alba, ma forse il destino non faceva distinzione fra maschi e femmine, e visto che generalmente era un bastardo e ti scaricava tanta di quella merda addosso da soffocarti, se per una volta ti graziava con qualcuno capace di fare quello che Chaku stava facendo con le mani, non gli si poteva certo sputare in faccia.
Patrick inarcò la schiena e spinse con più forza contro il corpo di Chaku, riconoscendo il bisogno che gli premeva addosso per quello che era. La creatura gli lasciò un bacio tenero appena sotto l'orecchio mentre insinuava le dita tra le sue gambe, lo sguardo sempre dolce ma molto, molto concentrato. Oltre il velo di piacere che gli appannava la vista, Patrick vide che lo guardava con un'intensità tale da rendere improvvisamente quella situazione più importante di quanto non l'avesse percepita fino a quel momento. Voleva dire qualcosa, anche solo per dimostrare di non essere così dannatamente abbandonato, ma lo era e ci volle un attimo perché perdesse completamente la voglia – se mai l'avesse avuta – di fare qualsiasi cosa che non fosse starsene lì, chiudere gli occhi e lasciarsi toccare.
Una voce debole dentro di lui gli fece presente che avrebbe provato dolore, forse; ma era difficile darle retta quando l'unica cosa che percepiva erano le carezze e i baci e i piccoli morsi appena più in basso della pancia. Non si preoccupò minimamente di cosa potesse succedere perché tutto quello che importava stava accadendo lì in quel preciso momento e non sembrava possibile che ci sarebbero stati altri momenti in assoluto, né migliori né peggiori di quello. Così, quando Chaku si abbassò su di lui con delicatezza, in modo che schiudesse leggermente di più le gambe ed entrò, la scarica elettrica del dolore fu immediatamente sommersa e inghiottita da quella più forte e corposa del piacere che aveva provato fino a quel momento. Non sentì che un fastidio lontanissimo, come il riflesso di qualcosa che stava avvenendo ad una distanza troppo lontana per potersene preoccupare, il dimenticabile incresparsi di un'onda quando è già arrivata a riva. Da quel momento in poi, ogni sensazione si accavallò all'altra e vi si intrecciò in maniera così stretta che Patrick non avrebbe saputo dire in che ordine le avesse percepite. Se Chaku era stato una presenza costante fino a quel momento, adesso sembrava essere, toccarlo, baciarlo ovunque e lui vi si aggrappava disperatamente, che fossero le braccia sulle sue spalle o le gambe intorno ai suoi fianchi, perché ogni volta che Chaku spingeva, lui si sentiva cadere. Aveva bisogno di affondare le unghie e mordergli la spalla perché il piacere, la voglia o il dolore, qualunque cosa fosse ciò che lo aveva travolto tutto insieme quando Chaku aveva iniziato a spingersi forte, erano troppo violenti eppure non voleva che smettessero. Patrick ebbe la chiara sensazione di venir tirato in due direzioni diverse e di volere seguire entrambe con la stessa intensità, tanto che pensò si sarebbe spezzato. E non gli importò comunque. Poteva morirci così, era un bel modo di morire. Ora capiva le disperate richieste del proprio corpo negli ultimi tempi. Era questo che voleva, e lui adesso non poteva che dargli ragione.
Il momento in cui avrebbe perso il controllo del proprio corpo lo sentì montare dal fondo dei piedi. Le dita gli si arricciarono, scatenando una serie di contrazioni lungo le gambe. Affondò le dita, stringendo Chaku alla nuca, mentre Chaku stringeva lui quasi a proteggerlo. Patrick si lasciò andare in quell'abbraccio, convinto che niente di male potesse succedergli, sapendo che ci sarebbe stato qualcuno a prenderlo quando non avrebbe avuto più la forza di reggersi. Forse cacciò uno strillo, forse la voce non uscì nemmeno, o non la sentì perché perse l'udito per quei pochi secondi in cui si riversava contro il corpo dell'uomo.
Strinse forte, fortissimo. Era troppo intenso.
Chaku lo accompagnò fino alla fine, per poi riadagiarlo delicatamente, accarezzandogli la schiena, il collo e le spalle, finché non si addormentò.

Patrick si risvegliò molto prima del suo cervello.
Aprì gli occhi, vide il soffitto della propria stanza e il sole che ci disegnava sopra filtrando dalle finestre, ma non capì né dove si trovasse né cosa fosse successo. L'unica cosa di cui era estremamente sicuro era che si sentiva rilassato, che non aveva mai dormito così bene in vita sua e che il mondo poteva anche iniziare a scuotersi e sbriciolarsi, essere avvolto dalle fiamme o venir ricoperto dai ghiacci eterni, lui non aveva alcuna voglia di muoversi. Poi, lentamente, le rotelline nella sua testa ripresero a girare, con un cigolio disperato e agonizzante; il ragazzino fece così tanta fatica a metterle in moto che riuscì quasi ad immaginarsele ricoperte di ruggine, che rischiavano di spezzarsi una dopo l'altra nel movimento.
A restituirgli un quadro chiaro e immediato della situazione fu il russare pacifico di Chaku al suo fianco e, quasi immediatamente dopo, la voce di sua madre che lo chiamava per la colazione. Il suo primo istinto fu quello di raggomitolarsi e fingersi morto, ma sua madre avrebbe capito che qualcosa non quadrava visto che era nudo – era nudo! – e non era solo, quindi doveva trovare un'altra soluzione e in fretta, perché sentiva i passi avvicinarsi e non era troppo sicuro di voler affrontare e la questione dello gnomo che non era più uno gnomo e la questione del sesso nello stesso momento.
La creatura era distesa su un fianco, un braccio sotto la testa e il viso rilassato, era anche discretamente carino da guardare, ma non c'era proprio tempo. Davvero. Lo scosse di forza e quando quello aprì gli occhi gli sibilò di filare sotto al letto e rimanere nascosto fino a nuovo ordine. Abbastanza straordinariamente, Chaku obbedì senza fare una piega e, anzi, tirò un po' giù le coperte dal letto per crearsi una specie di nascondiglio. Patrick s'infilò al volo un paio di pantaloni un attimo prima che sua madre entrasse spalancando la porta; per altro violando la regola non scritta che non si entra in camera di un adolescente senza aver prima bussato. “Come mai già in piedi?”
“A volte capita,” Patrick sorrise nervosamente, cercando una maglietta, lo zaino, i vestiti. Il cervello.
Sua madre sembrava perplessa. “Uhm. Meglio così,” commentò, squadrandolo dalla testa ai piedi.
Per un secondo gli venne il pensiero assurdo che lei potesse vedere cos'era successo, come se ce lo avesse scritto in fronte ma sua madre sembrò più preoccupata dalla scelta dei vestiti che non da altro. “Hai davvero intenzione di uscire conciato così?”
“Così come?” Chiese, mentre infilava in cartella libri a caso.
Sua madre scosse la testa, decidendo di lasciar perdere. Aveva da tempo rinunciato a far vestire il figlio a modo. Era stata una guerra lunghissima quella fra lei e le magliette XL, ma l'aveva persa e aveva accettato quella sconfitta. “Ti ho lasciato la colazione in cucina. Io scappo a lavoro.”
Patrick mugolò un saluto a caso e poi continuò a riempire la cartella con qualunque cosa si trovasse sotto mano finché non sentì partire l'auto di sua madre. Solo allora si permise di respirare e si lasciò andare seduto in terra. Il brontolio interrogativo del Chaku arrivò qualche secondo dopo. “Puoi venire fuori, adesso.”
La creatura si accoccolò di fianco a lui e lo baciò piano su una tempia.
Patrick fu attraversato da un brivido e sospirò. Si scostò, badando di farlo piano, però, per non offenderlo. “Chaku, senti...”
Ma fu interrotto dal suono del campanello. Lo sguardo gli corse alla sveglia che segnava le otto: Bushido era in anticipo. Non che gli avesse mai dato un orario, naturalmente, ma una persona è sempre in anticipo sul “ti prego non venire mai.” Si alzò in piedi e tentò di riordinarsi e darsi di nuovo l'aria di uno che sa il fatto suo e oltre a questo ha anche passato una normalissima nottata a farsi i fatti suoi, del tutto ignaro del contenuto di una scatola che gli era stata affidata con l'ordine esplicito di non guardarci dentro. Quindi, mentre il campanello veniva suonato di nuovo, si voltò verso Chaku per chiedergli di vestirsi sperando che lo facesse, ma la creatura aveva già addosso i pantaloni e si stava accuratamente sistemando la maglietta, come se avesse capito che farlo era una cosa di estrema importanza. Patrick non aveva il tempo di chiedersi perché adesso obbedisse e prima no, tanto bastava che lo facesse al momento. “Ora tu te ne stai qui buono, mentre io parlo con lui” gli disse, indicando la stanza con le dita. “E incrocia le dita.”
Chaku lo prese alla lettera.

Bushido era in infradito.
Nella situazione contingente notare un particolare del genere era sicuro indice di pazzia, ma Patrick davvero non riusciva a farne a meno. Non quando lui, solo per aprire la porta, s'era dovuto infilare un altro maglione. C'era la neve fuori, per la miseria!, e quello si presentava con una maglietta a maniche corte, i bermuda e le infradito come fosse venuto lì diretto da una piscina. “Ma non ti fa freddo?” Esclamò sconvolto.
Bushido si indicò il collo. “Ho la sciarpa,” rispose. La sciarpa come rimedio alle gelide temperature invernali, perché nessuno ci aveva mai pensato prima? Avrebbero potuto dotare tutti i senzatetto di quintali di sciarpe per risolvere il problema. “Posso entrare?”
Patrick si fece da parte e lasciò che Bushido facesse qualche passo in casa, guardandosi intorno. “Non ti aspettavo così presto,” deglutì, cercando di attirare la sua attenzione. Aveva il terrore che il momento di ubbidienza di Chaku terminasse all'improvviso così com'era iniziato e lui spuntasse fuori dal nulla rendendo vano il suo piano di introdurre la situazione a Bushido in un certo modo. Modo che doveva ancora inventarsi, per altro.
“Devo incontrare il mio cliente tra un'ora,” rispose l'uomo. “Dov'è la scatola?”
Dov'è la scatola. Non pensava che una domanda del genere gli avrebbe mai creato tanti problemi. Batteva perfino la tremenda interrogazione di geografia di quarta elementare, quella che si era conclusa con una crisi isterica della maestra, che aveva dato di matto a sentirgli rispondere “Non lo so” anche quando gli aveva chiesto la capitale della Germania. Una volta a casa sua madre gliene aveva date così tante che ancora gli faceva male il sedere, se ci pensava. “La scatola...” iniziò, per poi schiarirsi la gola. “Ecco, la scatola.”
Bushido non disse niente, lo guardò e basta. Invitandolo a proseguire e dargli una ragione per ammazzarlo prima di farlo, immaginò.
“Sta bene,” proseguì il ragazzino. “Voglio dire, la scatola. E' intatta.”
“Bene, allora portala qui, così posso andare.”
Patrick serrò gli occhi, incassò le spalle e si pentì di non essere andato in chiesa tutte le domeniche. “E' aperta, però.”
“L'hai aperta?” Tuonò Bushido.
“No!” Patrick spalancò gli occhi e sollevò le mani. “Non l'ho aperta.”
“Che cosa vorresti dire, che si è aperta da sola?” All'uomo bastò fare due passi avanti e inchiodarlo al muro per non sembrare più improvvisamente così ridicolo con quelle infradito.
“No,” mormorò Patrick nel panico.
“E allora cosa?” Gli chiese l'uomo, guardandolo dritto negli occhi.
“Ehm...”
“Spiegati,” ringhiò.
“Sarebbe molto più facile spiegartelo se tu non minacciassi di strangolarmi,” deglutì il ragazzino, indicando la mano scura dell'uomo che gli stringeva il collo.
Bushido rimase immobile a fissarlo per qualche istante e poi lo lasciò andare, senza però tornare ad essere il simpatico, apparentemente innocuo uomo di sempre. Ora, finalmente, Patrick si sentiva minacciato. “Spiegati,” ringhiò di nuovo.
Patrick controllò prima di poter ancora respirare, quindi si grattò nervosamente la nuca. “Stavo giocando con la playstation e mi ero anche dimenticato dell'esistenza della scatola. Poi però lui si è messo a fare casino.”
“Lui chi?”
“Lo gnomo!” Specificò Patrick. “Ha cominciato a tirare pugni, a borbottare e a far rotolare la scatola in giro per la stanza. Tu non mi hai detto che c'era uno gnomo là dentro! E, tanto per la cronaca, forse si è agitato perché non c'erano i buchi per l'ossigeno! Come pretendevi che rimanesse tutta la notte chiuso nella scatola senza respirare? Non è colpa mia! E' colpa tua che non sai tenere i tuoi gnomi!”
“Quello non è uno gnomo,” sospirò Bushido, pinzandosi la radice del naso. “E' un Chakuza.”
Dal momento che l'uomo sembrava aver perso la voglia di ucciderlo, Patrick si arrischiò a fare due passi verso di lui. “Un cosa?”
“Adesso dov'è?” Chiese Bushido. “Dimmi che lo hai solo tirato fuori dalla scatola. Non è un danno gravissimo, possiamo rimediare.”
“L'ho tirato fuori dalla scatola,” esclamò il ragazzino.
“E basta?”
Patrick si preparò alle badilate che a quel punto sarebbero arrivate per forza. “E poi lui ha cominciato a prendere a calci la mia playstation così l'ho fatto uscire dalla stanza! Ho dovuto farlo! L'avrebbe rotta e poi ha mangiato … un sacco di roba. E non so, deve avergli fatto male perché adesso è grande, beh non troppo grande, comunque più alto.”
“Merda!” Bushido imprecò, agitando il pugno nell'aria in un gesto di stizza.
“E grave?”
“No, non è grave,” si girò di scatto Bushido. “E' molto più che grave. E'...”
“Gravissimo?”
Bushido gli puntò addosso due occhi scuri e infuocati di rabbia. “Tu non ti rendi conto di quello che hai fatto.”
Patrick iniziava a stufarsi. D'accordo che aveva disobbedito agli ordini, ma era altrettanto vero che non era stato appropriatamente avvertito delle conseguenze. E non si parlava di conseguenze qualsiasi, intendiamoci! Perché lui non sapeva esattamente quale fosse il problema di Bushido – che comprasse una scatola più grande dove infilare Chaku, se la sua crescita lo disturbava tanto! – Che cosa doveva dire, invece, lui? Chakuza aveva fatto... robe, quella notte. Era lui quello che doveva arrabbiarsi di più. Credeva.
“Non puoi consegnarlo così com'è? Potresti dire che ora lo fanno in una taglia più grossa.”
Bushido si passò una mano sulla testa. “Non esistono altre taglie, Patrick. Si consegnano piccoli e si trasformano. Dopo la trasformazione è impossibile fargli cambiare padrone.”
“Padrone? Aspetta, vuoi dire che sono schiavi?”
“Seh.”
“Ma è una cosa orrenda!” Esclamò il ragazzino oltraggiato.
Bushido si limitò a guardarlo impassibile, ma dritto negli occhi. Aveva lo sguardo di uno che si aspetta qualcosa da te, che tu raggiunga la consapevolezza di qualcosa, magari. Patrick si sentì inspiegabilmente a disagio di fronte a quello sguardo. Provò a guardare altrove, ma le pupille dell'uomo sembravano magnetiche e finivano sempre per attirarlo.
“Che.... che tipo di schiavo, esattamente?” Deglutì alla fine.
“Se mi poni la domanda, conosci già la risposta,” fu la secca risposta dell'uomo. “E' venuto a letto con te?”
“No.”
Bushido lo guardò e i suoi occhi dicevano chiaramente: evidentemente non hai ben capito quello che ti ho chiesto, ora ti rifarò la domanda e tu naturalmente mi dirai la verità.
“Sì,” sospirò Patrick, con due guance rosse da far invidia ad un pomodoro. “E giuro che non so come sia potuto succedere! Io non sono nemmeno gay! A me piacciono le ragazze e lui non è una ragazza!”
“No è un Chakuza,” commentò Bushido, frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualcosa che sembrava un telefono ma di certo non lo era visto che brillava di luce propria come se fosse uscito da uno di quei cartoni animati giapponesi. Patrick non si sarebbe stupito se avesse scoperto che poteva fluttuare. “E i Chakuza non fanno differenza fra maschi e femmine.”
“Loro no, ma io sì!” Protestò Patrick, punto sul vivo.
Bushido si rigirò distrattamente fra le mani la pietra brillante come se stesse pensando. “I Chakuza sono una specie particolare,” spiegava intanto. “Sono inesorabilmente destinati a dare piacere al loro padrone. Non che questo non gli piaccia, ben inteso. Prima che ti scandalizzi...”
“Ma io non sono il suo padrone!” Esclamò trionfante il ragazzino, che per altro aveva deciso di rimandare la questione della moralità della schiavitù ad un secondo momento, visto il problema più impellente che avevano entrambi al momento. “Basterà rimpacchettarlo, mettergli un bel fiocco sulla testa e poi consegnarlo a chi dovevi consegnarlo. Gli dirai: Chaku, questo è il tuo nuovo padrone” aggiunse, imitando la voce bassa e impostata di Bushido. “E il gioco è fatto.”
Bushido si lasciò andare seduto su una poltrona nell'ingresso, che sua madre teneva lì per far sedere le vicine quando venivano a trovarla. “Non è così che funziona,” rispose. “Una volta che il Chakuza si trasforma, riconosce come padrone la prima persona che vede. Per questo è importantissimo che la scatola venga aperta solo dal destinatario della creatura.”
“Oh.”
Bushido sospirò. “Adesso lui non prenderà ordini da nessuno a parte te.”
Patrick sapeva che la situazione era sempre grave quanto prima, ma non poté fare a meno di sentirsi un po' importante e quest'importanza si tradusse con un'espressione tronfia e le sopracciglia sollevate.
“Non credere che sia una cosa semplice,” lo ammonì subito Bushido. “Quella creatura ora dipende da te. E' un rapporto simbiotico quello tra padrone e Chakuza. Non puoi pensare di andarci a letto e poi riporlo sulla mensola come un peluche.”
“Ma lui non fa affatto quello che gli dico,” si ricordò il ragazzino. “Se lo avesse fatto, non saremmo in questa situazione. Io gli avevo detto di stare in camera.”
“Questo prima della trasformazione,” spiegò Bushido. “Poi c'è stato l'imprinting, è come se posando gli occhi su di te la prima volta, adesso non riuscisse a vedere nient'altro.”
Patrick ci pensò su qualche istante. “In effetti prima gli ho detto di aspettarmi, e lo ha fatto.”
“Prova a farlo venire qui” lo invitò Bushido. “Ti basterà semplicemente volerlo vedere. Prova!”
Se c'era una cosa a cui Patrick non credeva, quella era la forza del desiderio. La magia era una cosa plausibile – poteva essere un tipo di energia sconosciuta – e perfino i nani che crescevano per diventare piccoli dei del sesso personale erano più plausibili. Ma desiderare qualcosa ed averla? Questo no. Erano quattordici anni che sognava di veder tornare suo padre e non era mai successo.
Quando però immaginò di avere il Chaku lì a fianco, un attimo dopo lui era lì. Non che fosse apparso dal nulla, ovviamente, ma si era precipitato lì. Lui e Bushido avevano sentito la porta di camera aprirsi e poi i suoi passi nudi e veloci nel corridoio. Ora Chaku lo guardava sbattendo le palpebre, aspettandosi chissà cosa da lui. “Wow,” fu l'unica cosa che Patrick riuscì a dire.
“Wow non rende abbastanza l'idea,” commentò Bushido, mentre Chakuza li osservava con fare interrogativo. Allungò una mano a stringere quella di Fler, tanto per sicurezza, e il ragazzino si ritrovò a stringere a propria volta, senza rendersene conto. Bushido sospirò. “Immagino che dovrò chiamare il mio cliente e dirgli che la consegna non è più possibile.”
“E di lui cosa ne farai?” Chiese Fler, improvvisamente preoccupato.
Bushido lo guardò come se gli avesse appena detto che l'acqua bagna e il fuoco brucia. “Lo lascerò a te, mi sembra ovvio.”
“Aspetta, ma io non ho assolutamente intenzione di tenerlo!” Esclamò Patrick. Chaku strinse la presa sulle sue dita, così forte che Patrick fu costretto a girarsi ma quando lo fece, la creatura aveva già mollato la presa e lo stava guardando esattamente come prima, con gli occhi rotondi, in attesa di sapere cosa dovesse fare.
Bushido rise. “Non è che tu abbia molta scelta. Lui non vorrà andare da nessun altra parte.”
“Io non posso tenerlo!” Patrick provò a cambiare tattica. “Dove lo metto? Che cosa dico a mia madre?”
Bushido si alzò scuotendo la testa. Si fece saltare la pietra brillante in mano un paio di volte e poi la tirò a Patrick che la prese al volo. “Questo è un tuo problema,” si strinse nelle spalle. “Comunque fossi in te, io non mi preoccuperei di questo al momento. Hai problemi ben più grossi.”
“Del tipo?”
“Del tipo che quel Chakuza costa e io ho perso un cliente.”
Patrick sgranò gli occhi. “Non vorrai dei soldi, spero!”
Bushido mise su un'aria affranta ed inspirò. “La vita al giorno d'oggi costa cara. Dovrò pur campare anch'io, no? Non vivo mica d'aria.”
“Non lo so!” La voce di Patrick schizzò di un'ottava. “A questo punto mi pare ovvio che tu non sia più umano di Chaku.”
Bushido sorrise. “Sono talmente tante le cose che non sai, Pat...” Sì zittì all'improvviso e poi la meraviglia gli riempì gli occhi e lo guardò in maniera tanto inquietante che lui, e di conseguenza il Chaku, fecero un passo indietro.
“Che c'è?” Chiese.
“Ci sono!”
“Ci sono cosa? Non mi piace quello sguardo. Quando hai quello sguardo dici cose assurde.”
Bushido lo indicò con un indice ben teso. “Mi farai da assistente, così mi ripagherai la vendita persa e...” spiegò, girandogli intorno valutandolo come se dovesse prendergli le misure per un vestito. O per una bara, anche. “...Dal momento che Chaku non può stare da te, lo terrò io in custodia. Nel tempo che ci metterai a ripagarmelo, avrai una casa tua in cui ospitarlo senza che tua madre faccia domande.”
Patrick era sicuro di essere sbiancato nel giro di mezzo secondo. “Ma quanto diavolo costa?”
“Tanto. Molto. Troppo,” rispose Bushido, riprendendogli la pietra luminosa di mano, osservandola un istante e poi rimettendosela in testa. “Una spesa decisamente eccessiva per le tue tasche, sei fortunato che io sono buono e caritatevole. E poi mi serve un assistente. Sarai un ottimo assistente, sei sveglio.”
Fler valutò l'offerta e si rese conto di non avere molta scelta. “Immagino di dover accettare per forza,” sospirò.
Bushido gli batté una mano sulla spalla. “Ti assicuro che c'erano opzioni peggiori. E poi ti piacerà, io faccio un lavoro bellissimo.”
“Ho i miei dubbi,” esclamò con poco entusiasmo.
“Questo perché non credi, ma dovrai imparare a farlo o per te sarà molto dura.“ Bushido si voltò a guardarlo, con un ghigno che era tutto un programma. “Fidati, sarà divertente! Imparerai così tante cose nuove che ti esploderà il cervello!”
Fler sospirò rassegnato. Quale fosse la parte divertente nel farsi esplodere il cervello non lo sapeva, sperò solo che si trattasse di una metafora e non di un qualche strano rituale di iniziazione pseudo-jedi per diventare l'assistente di un trafficante di nani. Con Bushido era una probabilità anche questa, dopotutto.
Si voltò a guardare Chaku che subito gli sorrise contento; avrebbe scodinzolato, forse, se avesse avuto la coda.
Patrick ricambiò il sorriso e intrecciò le dita con le sue. Se la testa gli era esplosa, a quanto pareva, l'aveva già fatto.
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido, Bill
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash, Metafore animali
Rating: PG 13
Note: Io voglio bene a questa storia, anzi si può dire quasi che la amo. Ci ho messo un po' a finirla (l'ho iniziata, tipo, ad aprile) e c'è stato un momento in cui ho seriamente creduto non si sarebbe mai conclusa, e un po' mi dispiaceva perché c'erano delle battute carine e perché ci avevo messo tanto di quell'impegno che buttare via tutto mi sembrava una cosa triste. Come sia nata, io non lo so. Ricordo che è tutto partito dalla twit-list ma cosa, di grazia, non parte da lì al giorno d'oggi? E poi il resto lo ha fatto l'insana fissazione che mi è venuta per questi Mondiali, che hanno permesso anche lo studio della formazione tedesca senza che mi venisse l'orticaria. Il titolo, naturalmente viene da Fackeln im Wind, canzone che Bushido e Kay One hanno scritto per incitare la nazionale teutonica, ed è un suggerimento di Liz. Spero che vi piaccia :)

Riassunto: Io mi sono rassegnato ad imparare ricette nuove mentre il mio uomo urla e strepita dichiarando le madri di tutti quanti delle donne di malaffare. Quello che non avevo calcolato era che questa routine ormai consolidata di lui che si trasforma in un cavernicolo per qualche ora e poi forse torna quello che era, sarebbe andata a farsi benedire in favore di un processo perfino più primitivo all'arrivo dei mondiali.


In tutta la mia vita sono stato accusato di avere una quantità di difetti non indifferente, molti dei quali veri. Non posso certo dare torto a Klaudia quando mi diceva che avevo un solo pensiero in testa e che non pensavo ad altro che a soddisfarlo – verissimo, per carità, anche se lei non ha mai capito che non era un pensiero generico slegato dalla sua persona – e mi trovo nella posizione di non poter negare che Julia avesse altrettanta ragione quando sosteneva che non mi so esprimere e qualunque cosa dico mi esce di bocca come una slavina, incurante di ciò che travolgerà. Sono fatto così e non mi nascondo dietro un dito, anzi – come Fler mi dice sempre quando non sa cos'altro dirmi ed è ancora così arrabbiato da voler comunque dire qualcosa – me ne vado in giro tronfio portandomi dietro questo carico di insensatezza senza fare niente per occultarlo in qualche maniera. Perché farlo, mi chiedo io? Durerei sì e no un paio d'ore, poi tornerei quello di sempre e allora addio bell'impressione. Sarei una frode, invece così sono più onesto.
Fra tutte le accuse che mi si possono fare, però, non c'è quella che sono il tipico uomo ossessionato dal calcio; che di per sé può sembrare una cosa da niente per uno che invece viene accusato di ninfomania e di insensibilità, ma in realtà è un'accusa che può avere un certo peso alla fine della giornata e vi spiego anche perché, mica sono qui a sputare sentenze a caso.
Il più grande desiderio di una donna – esclusi i gioielli che costano come macchine – è essere il centro costante delle tue attenzioni – cosa che poi effettivamente comprende anche i gioielli molto costosi. Qualunque cosa tu faccia – brutta, pessima, o inqualificabile che sia – verrà sempre, e dico sempre, superata in tragicità dal tuo non prestarle attenzione. E io questo non lo faccio mai perché il mio pensiero primario, nonché il mio difetto più grosso, è voler scopare con la mia ragazza, per cui il mio livello di attenzione nei suoi confronti non cala mai, ma proprio mai; anche perché io sono uno che se vuole venire a letto con te è perché mi piaci, indipendentemente dal fatto che poi ho bisogno di scopare molto più di quanto faccia un essere umano normale. Quindi quando vengo a letto con te, voglio proprio te, e tu non puoi non notarlo. Ergo, anche se ho un trilione di difetti tremendi, tutti vengono cancellati dal mio essere totalmente, completamente, indiscutibilmente rivolto a chi mi sta a fianco.
Questo sarebbe incredibilmente utile se poi alla fine io stessi con una donna, ma non ci sto. Sto con un uomo – ebbene sì – e quindi il mio totale disinteresse per le questioni calcistiche non è più un pregio ma un difetto gigantesco, che non riesco a cancellare nemmeno con la totale dedizione. Anzi, la totale dedizione non fa che peggiorare le cose, soprattutto durante le partite dove niente più esiste tranne che i ventidue uomini in calzoncini che corrono lungo il campo. Mentre em>questo uomo in calzoncini, magari lì di fianco, magari propenso a dispensare coccole, viene ignorato, per dire.
Per Fler, il calcio è una malattia. Una sorta di infezione che deve aver preso da piccolo e che nessuno ha mai curato, per cui adesso se la porta dietro come una febbriciattola perenne che si alza di botto anche due o tre volte la settimana a seconda di quante partite decidono di giocare. E quando ha la febbre, delira.
Naturalmente lui non è il primo che vedo affetto da questo morbo tremendo, ma sicuramente è quello che sta messo peggio di tutti e che forse, se esiste, è allo stadio terminale. Quello che succedeva alla Villa Gialla durante il campionato, e che già era una valida ragione per richiedere il ricovero coatto di una decina di uomini, non era niente in confronto a quello che succede nel mio salotto per opera di Fler.
Anche se è da solo. Anzi, soprattutto se è da solo perché, se privato del sostegno di altri esseri umani di fronte ai quali, forse, vorrebbe mantenere una parvenza di compostezza, comincia a retrocedere sulla scala evolutiva fino a diventare un primate – un gorilla, vista la stazza.
In linea generale Fler è un ragazzo molto vanesio e ci sono momenti della giornata in cui bisogna fisicamente staccarlo dallo specchio del corridoio se si vuole andare da qualche parte, perché lui non esce di casa se prima non si è assicurato di essere uguale ad uno dei manichini del suo negozio. Quando c'è la partita, ciò a cui assomiglia è quello stesso manichino fatto a brandelli da un branco di procioni affamati.
Io non tengo a mente mai niente, figurarsi il calendario della Bundesliga, ma mi accorgo subito quando è giornata di partita se Fler si presenta in cucina senza essersi fatto nemmeno la barba e ha addosso questa sorta di residuato bellico che dovrebbe essere una tuta ma che a conti fatti è solo ciò che ne è rimasto dopo non so quali tragici eventi. La tuta non c'è sempre, per questo la sua presenza mi da anche la misura dell'importanza della partita. Se poi ha la barba, la tuta e i calzettoni a righe che furono testimoni di una storica doppia vittoria ai quarti sul Manchester allora so che si tratta di una questione di vita o di morte, che Fler non emetterà che grugniti fino alla fine della partita e che la sua umanità tornerà in tempi brevi soltanto in caso di vittoria. Quei calzini, per altro, non sono mai stati lavati dalla finale di Champions' League del 2000-2001 e per questo sto cercando di farli dichiarare arma batteriologica.
Le prime volte mi arrabbiavo perché non era possibile che una domenica sì e una no quello che soltanto la sera prima era stato un uomo appetibile emergesse la mattina dopo trasformato in un orso sbavante e che io, per altro, dovessi stargli a debita distanza perché a mettersi tra lui e la squadra c'era da perderci un arto. Poi ho capito che non c'era soluzione, che era una di quelle situazioni estreme per cui devi decidere se per tutte le cose buone che una persona può darti vale la pena sopportare quell'unica problematica davvero insostenibile e io ho pensato che c'è tanto calcio durante l'anno ma che sono sempre di più i momenti in cui non c'è, quindi ho alzato le braccia in segno di resa e mi sono rassegnato ad imparare ricette nuove mentre il mio uomo urla e strepita dichiarando le madri di tutti quanti delle donne di malaffare.
Quello che non avevo calcolato era che questa routine ormai consolidata di lui che si trasforma in un cavernicolo per qualche ora e poi forse torna quello che era, sarebbe andata a farsi benedire in favore di un processo perfino più primitivo all'arrivo dei mondiali. E non potevo saperlo per il semplice fatto che io e Fler stiamo insieme da poco più di un anno e in questi quattordici-barra-quindici mesi appena trascorsi, dei mondiali non c'è stata traccia; o meglio, forse lui sapeva che sarebbero arrivati – cioè, lui lo sapeva di sicuro perché è lui – ma io non ci pensavo minimamente: gli ultimi mondiali di cui ho memoria non ricordo nemmeno quali siano, figurarsi!
Per me i mondiali, come le olimpiadi del resto, sono una di quelle cose che ritornano per caso, tipo che mi sveglio la mattina e tutti non parlano d'altro e allora io so che sono trascorsi altri quattro anni dall'ultima volta, quale che sia, che tutti sono impazziti per lo stesso motivo. E basta, il mio coinvolgimento nella faccenda, in genere, si ferma qui. Con Fler questo non è stato possibile, naturalmente.
Patrick ha iniziato a dare in escandescenze a dicembre dell'anno scorso quando hanno fatto i sorteggi. Quando si è svegliato quella mattina era già isterico e in casa si respirava aria di tragedia potenziale, come durante il fine settimana delle elezioni quando sai che ci sono buone probabilità che il partito che meno vorresti al governo possa vincere. Fler si aggirava per casa con aria preoccupata e mesta insieme, e si dava cose da fare per tenersi impegnato senza poi farle davvero – tipo che si offriva di pelarmi le patate per l'insalata ma poi ne pelava solo mezza e la lasciava lì per tornare ad aggirarsi per casa senza rendersi conto di averlo fatto – e poi si scambiava telefonate con altri uomini ugualmente preoccupati per le sorti della Germania, come se stessimo per andare in guerra; il tutto con il sottofondo costante di una decina di programmi sportivi tutti in onda contemporaneamente sullo schermo del televisore.
Poi verso l'ora di pranzo, quando ormai io mi ero rassegnato a nutrirmi e lui invece si struggeva su pronostici che sarebbero stati smentiti nel giro di dieci minuti, finalmente qualcuno mi ha fatto la cortesia di rendere noti i gironi. Fler si è teso, allungandosi sul tavolo fin quasi a finire con i gomiti nel vitello tonnato, il tutto per poter essere più vicino al televisore, quasi dentro, nell'illusione credo di essere il primo a sentire la rivelazione su scala nazionale semplicemente avvicinando l'orecchio il più possibile. Io ho continuato a mangiare, incurante dell'orca spiaggiata fra la mia insalata di polipo e l'arrosto di carne in crosta. Non ho nemmeno alzato la testa mentre l'aria si faceva elettrica per via della sua tensione che dopo aver saturato il suo corpo per tutto il metro e novanta disponibile si è riversata fuori in grosse ondate che ci avrebbero spettinati se avessimo avuto dei capelli. E poi Fler è esploso, o questa è stata la mia percezione iniziale, perché un attimo prima io stavo mangiando la mia pasta e l'attimo dopo avevo del polipo in testa, c'era vitello tonnato sulle antine dei pensili e Fler era sparito. Soltanto dopo, quando ormai avevo contato fino a dieci evitando di ribaltare il tavolo con le stoviglie di porcellana comprate in un guizzo di finezza che mai più mi ricapiterà nella vita – come le tende di lino per il salotto che devo, per altro, ancora montare – ho capito che quell'eco lontana che sentivo provenire a tratti dalla camera e a tratti dal salotto per l'effetto doppler, era Fler che urlava la propria contentezza perché “E' un girone del cazzo, questi li battiamo ad occhi chiusi” e poi, voltandosi verso di me “Voglio dire, l'Australia, Chaku!”
“Eh già, l'Australia,” ho detto io, che mica sapevo che era solo l'inizio.
Da quella tremenda rivelazione, neanche gliele avesse fatta il Cielo tramite l'immagine di Padre Pio nella chiazza dell'umido in bagno, sono seguiti mesi di grande agitazione che non hanno coinvolto soltanto lui ma anche tutti gli altri pazzi come lui, così che la pazzia intorno alla mia persona è andata aumentando esponenzialmente fino a raggiungere livelli che mi avrebbero giustificato in caso di omicidio plurimo.
All'improvviso, ovunque mi girassi, c'era qualcuno che parlava dei mondiali di calcio 2010: dove si sarebbero svolti, quali sarebbero stati gli stadi, i giorni delle partite, i convocati e via discorrendo fino – io credo – anche al colore delle mutande dei giocatori sotto i calzoncini della tenuta in nazionale. Un incubo, ma un incubo di cui in qualche modo vedevo la fine. Fler aveva infatti deciso di prendere un aereo e portare la sua pazzia direttamente in Sud Africa, in un ambiente più adatto a lui, dove avrebbe incontrato i suoi simili e avrebbe imparato di nuovo a vivere allo stato brado nutrendosi dell'erba intorno al dischetto e battendosi il petto con i gorilla delle altre squadre. In un certo senso ero felice di lasciarlo andare perché mi ero reso conto che tenerlo in cattività non era più possibile e sarebbe stato egoista da parte mia sostenere il contrario. Così, mentre lui preparava le valige, io mi preparavo a passare questo tempo per conto mio, che non è che fossi felice – perché io da solo divento emotivamente instabile, mi abbatto e, siccome mi abbatto cucino più di quanto mi serva e finisco per dover distribuire linguine al pesto a tutto il quartiere – però la vedevo un po' come una sorta di liberazione temporanea dal peso di quest'uomo che aveva dimenticato il mio nome per ricordarsi quello di molti perfetti sconosciuti pagati per rincorrere un pallone.
E poi, naturalmente è successo.
Parlo dell'imprevisto, naturalmente. Di quel piccolo particolare che se anche ti fossi messo a tavolino per individuarlo e aggirarlo, non lo avresti visto perché lui è subdolo e quando lo cerchi non si fa vedere, non c'è. Ti guardi intorno e pensi che tra te e il tuo obbiettivo non ci siano ostacoli, che hai la strada spianata e puoi ragionevolmente sederti e attendere il momento in cui hai programmato di alzarti e fare quello che devi fare. Ed è lì che lui si stende ai tuoi piedi così che, una volta preso lo slancio, non puoi fare nient'altro che cadere.
Il dettaglio che a Fler è sfuggito, naturalmente, era Bill. Quando lui ha deciso di partire, non è che s'immaginasse di farlo da solo, ci mancherebbe, perché tutti i grandi animali si muovono in branco, e non si era nemmeno sforzato a trovare chi salisse sull'arca con lui perché naturalmente c'era il suo compare, Bushido, che il giorno dopo la notizia dei gironi, era già pronto con la sciarpa rossa, gialla e nera e tutta una serie di trombette con le quali devastare i timpani altrui. Non si erano nemmeno telefonati, già lo sapevano che sarebbero corsi insieme in ciabatte di plastica e pantaloncini corti a veder giocare la Germania direttamente in mezzo alle zebre.
Il punto è che se io di certo non mi sarei opposto alla partenza di Fler, perché sono pazzo ma ancora abbastanza lucido da rendermi conto che è meglio fare a meno di lui per un mese piuttosto che averlo qui anche solo una settimana a guardare tutte le partite e rischiare di ucciderlo, di certo Bill non avrebbe seguito questo ragionamento perché nella sua testa l'opzione che a Bushido possa interessare qualcosa oltre a lui non esiste nemmeno. Quindi per lui è diventata una questione di principio, del tipo: o me o il calcio. Immagino che Bushido, con la valigia già pronta e già invaso dal sacro furore calcistico, avrebbe tanto voluto rispondergli la seconda, ma poi deve essersi reso conto che i mondiali durano soltanto un mese e che se in quel momento gli sembravano la cosa più importante di tutta la sua intera esistenza, di certo avrebbe rimpianto le forme della sua principessa il giorno che fosse tornato dal Sud Africa scurito dal sole e segnato da mille battaglie e avesse trovato la casa vuota, con magari l'ultimo messaggio di Bill inciso col tacco degli stivali sui mobili da migliaia di euro. Così, che fosse per salvare il comodino in noce della camera da letto o per assicurarsi che la principessa non facesse le valigie e tornasse da sua madre sbattendo la porta, ha rinunciato a correre libero nella savana.
Questo è stato ovviamente l'inizio della tragedia. Fler, che solo il giorno prima girava per casa avvolto nella bandiera della Germania, cantando l'inno nazionale e snocciolando la formazione come fossero i grani del rosario, quando Bushido gli ha telefonato per comunicargli la notizia, si è accasciato sul tappeto come un cinghiale abbattuto durante la stagione della caccia ed è lì che l'ho trovato io, due ore dopo, quando sono tornato dal supermercato con venti borse e nessuno che rispondesse al citofono per farmi aiutare a portarle in casa. Quando finalmente l'ho raggiunto, era tutto avvolto nella bandiera come in un bozzolo e, benché sarebbe stato alquanto interessante vedere in che razza di farfalla si sarebbe trasformato, mi sono imposto di liberarlo e di chiedergli chi o cosa fosse morto. Lui ha risposto “I miei sogni” e poi “Lasciami solo”, quindi si è riavvolto nella bandiera ignorando l'universo mondo per le successive tre ore.
All'ora di cena la cosa si è fatta preoccupante perché, ovunque si trovi, Fler arriva sempre se scuoti un po' il barattolo dei wurstel e invece quella volta niente. Io scuoto e in casa il silenzio. Provo a far tintinnare le bottiglie di birra, e niente. La mia ultima speranza è la scatola della pasta, perché lui mangia volentieri italiano, ma non ottengo niente neanche così e a quel punto comincio a credere che si tratti davvero di qualcosa di grave. Vado a cercarlo, ma la sua carcassa non è più in salotto, così seguo le tracce del suo strisciare nella polvere sul pavimento, le quali mi portano fino in camera dove si è trascinato per poi arenarsi sul letto, con la bandiera in mano come una coperta.
Dopo un interrogatorio che dura un'ora e mezzo, durante il quale lui risponde a monosillabi, mugugnando con la faccia dentro il cuscino come se avesse tre anni e la signora Losensky si fosse semplicemente rifiutata di comprargli il gelato, riesco a scoprire cos'è successo e, vista la considerazione che ho per il calcio in ogni sua forma, non trovo nessuna parola sensata per consolarlo. Mi limito a dirgli che sono cose che capitano, credo che vada bene più o meno in tutte le situazioni. D'altronde tutte le cose succedono.
Lui, naturalmente, non è d'accordo ed emette un grugnito da animale ferito e quando, in preda al panico, io tento di rimediare suggerendogli di risolvere la questione chiedendo anche a Bill di andare con loro, da disteso che è Fler salta seduto sul letto e mi guarda con gli occhi sgranati, come se gli avessi detto che me la faccio con la figlia della vicina, per dire, che è una cosa assolutamente non vera ma che di certo avrebbe giustificato quegli occhi lì. “Non vuole venire!” Esclama indignato, spalancando le braccia e sfoggiando la sua notevole apertura alare. “Io e Anis abbiamo provato a convincerlo ma non ne vuole sapere.”
Non fatico a crederlo, in effetti. In Sud Africa c'è molto sole e tanta sabbia, due cose che non si sposano affatto bene con la necessità di Bill di non sudare e di vestirsi in un certo modo. Senza contare la sua generale indisposizione verso il calcio. Mentre sono qui a fare considerazioni non richieste sulla principessa, non mi accorgo della consapevolezza che è appena sorta negli occhi di Fler, sono così concentrato nel trovare una soluzione a questa tragedia che si è abbattuta sulla nostra famiglia che non mi rendo conto che Fler ha smesso di fare quell'espressione imbronciata e ora mi guarda e mi sorride, come se non mangiasse da giorni e la mia tesa fosse diventata improvvisamente un enorme pomodoro. “Pat?” Chiedo preoccupato, perché forse una parte di me ha già capito, ma la mia preoccupazione principale in questo momento è che non si avventi su di me con le zanne snudate. “Potresti venire tu,” mi dice.
Ma neanche per idea.

*


Ho detto chiaramente no, me lo ricordo. L'ho detto anche forte.
L'ho detto allontanandomi dalla camera da letto mentre lui mi inseguiva. L'ho detto mentre mi faceva la valigia, per altro riempiendola di cose assolutamente inutili. L'ho detto anche mentre Bushido veniva a consegnarci piangendo i suoi biglietti aerei con Bill che gli accarezzava piano una spalla e lo tirava via dolcemente, sussurrandogli che ci sarebbero state altre occasioni, altri mondiali, come se fosse davvero possibile che da qui ad un qualsiasi futuro probabile che lo comprende, quel ragazzino gli permetterà mai di stare via un mese lontano da lui.
Ho detto no in tutte queste situazioni, e l'ho detto convinto, quindi adesso vorrei capire com'è possibile che io sia comunque qui seduto in attesa di imbarcarmi su un volo di tredici ore filate per il Sud Africa, ma non posso perché Fler sta camminando in cerchio da circa venti minuti, ha fatto un solco di due metri e gli altri passeggeri lo guardano male, così sono costretto ad alzarmi, prenderlo per un polso e farlo sedere accanto a me. “Non posso farcela,” mi dice voltandosi verso di me con aria sconvolta. A sentirci, uno potrebbe pensare che stia salendo con addosso una cintura di dinamite per farsi saltare in aria e che all'ultimo momento stia avendo un ripensamento. In realtà ha solo paura di volare, e io dovrei davvero chiedergli allora perché diavolo ha deciso di andare in Sud Africa, dove prenderemo almeno venti aerei per andare da uno stadio all'altro, ma non lo faccio perché ho paura che dia seriamente di matto e nessuno in questa stanza – io meno di tutti – vuole vedere un gorilla di quasi due metri in preda ad una crisi di panico.
“Andrà tutto bene,” dico. “Non te ne accorgerai nemmeno.”
Lui mi guarda e il suo sguardo dice chiaramente: tredici ore.
“Potresti dormire,” butto lì, con un sorrisetto nervoso.
Credo che a questo punto voglia aprire bocca e sbranarmi ma iniziano ad imbarcarci, così io prendo la palla al balzo e lo trascino per un polso prima che possa protestare, o impuntarsi come un mulo. Consegno alla hostess la mia carta d'imbarco e la sua mentre lui stringe il pugno tentando di liberare il braccio e non ci riesce pertanto, dopo tre o quattro tentativi, desiste e riprende a mugolare affranto fino a quando non riesco ad infilarlo nell'aereo. “Vuoi stare vicino al finestrino?”
“No!” Sbraita lui, come se gli avessi proposto di buttarcelo di sotto.
Sospiro ed entro prima io, così lui può sistemarsi tra me e uno sconosciuto e poi fissare il sedile davanti al suo con una patetica imitazione di tranquillità. Con le dita della mano sinistra tamburella fastidiosamente sul bracciolo mentre con l'altra mi stringe la mano col chiaro intento di spezzarmi le ossa, credo.
Quasi comincio a rimpiangere il viaggio in macchina fino all'aeroporto dove non ha fatto altro che lamentarsi delle prima giornata di Mondiale che ci siamo persi perché coincideva con la presentazione del suo disco e della seconda che ci perderemo oggi perché passeremo gran parte del tempo in aereo.
La partenza è il momento più critico, quello in cui Fler esclama distintamente e a favore di tutti i presenti “Esploderemo”, ma superato questo primo impatto traumatico che scatena un po' di panico fra un gruppo di bambini poco distanti, si quieta permettendomi di distrarlo con i film in programma sull'aereo.
Intanto cerco di ricordarmi come esattamente Fler mi abbia convinto a fare la valigia, a salire su questo aereo e ad accettare l'idea di sessantaquattro partite quasi una dietro l'altra senza soluzione di continuità.
Ovviamente lui non poteva convincermi sfruttando la carta del nazionalismo, perché io – in termini sportivi – non provo per la mia nazione un trasporto tale da prendere un aereo e andare a sgolarmi oltre l'equatore e, anche quando ce l'avessi, io non sono tedesco, sono austriaco. E l'Austria non si è qualificata, quindi non avevo proprio alcun motivo per muovermi da casa mia.
Lui però mi conosce fin troppo bene e sapeva che dove non arriva lo sport, arriva la cucina. Quindi se n'è uscito fuori con un libro che Dio solo sa dove ha trovato, contenente le ricette tradizionali del Sud Africa. “Non puoi mica farti scappare l'occasione,” mi ha detto, con gli occhi che gli brillavano, ondeggiando un po' la testa nel tentativo di ipnotizzarmi come un cobra. “Ci saranno decine di centinaia di migliaia di cuoche sudafricane pronte a insegnarti tutti i segreti della loro cucina esotica!”
E mentre io mi immaginavo quest'esercito di donne col sedere enorme, vestite di colori sgargianti che mi offrivano teglie su teglie di carne fatta in modi mai visti prima, lui ha continuato. “Ma lo sai,” ha detto, passandomi un braccio dietro le spalle ed illustrandomi meraviglie che per la forza della follia che ci accomuna vedevamo entrambi lì in mezzo al salotto, “che la cucina sudafricana è un mix multietnico? Lo sai che le ricette autoctone si fondono con quelle olandesi, portoghesi, inglesi, francesi e asiatiche, soprattutto quella indiana e malese?”
E io non lo sapevo, ma era tempo che lo scoprissi, naturalmente.
Era tempo che imparassi a cucinare sudafricano. Non potevo certo continuare a vivere cucinando solo come mi avevano insegnato mia madre, mia nonna e sei anni di alberghiero più qualche corso di cucina asiatica fatto in età adulta, in un momento in cui ero molto, molto annoiato. Ne andava della mia abilità di cuoco!
E per farlo, naturalmente, non c'era altra via che prendere questo maledetto aereo, con Fler che si agitava come un salmone fuori dall'acqua per tutte le 13 ore di volo e un hostess che ogni tanto veniva a controllare che non gli prendesse un crampo, o un infarto, o una crisi epilettica da quanto forte stringeva la mia mano e quella dello sconosciuto che sfortunatamente gli sedeva accanto. Mi ha fregato mostrandomi un libro di cucina, che per altro era mio, e io nemmeno me ne sono accorto. Maledizione.

*


Quando atterriamo a Durban, la prima cosa di cui ci rendiamo conto è che né io né lui sappiamo la geografia. Difatti, io avevo quattro, lui cinque e in Sud Africa adesso è inverno, per cui ci sono nove gradi e possiamo anche scordarci di usare le ciabatte infradito in un frangente qualsiasi che non sia la doccia in albergo. Ovviamente l'unica cosa sana di mente da fare non appena recuperati i bagagli sarebbe trovare un negozio e comprare degli abiti per sopravvivere al freddo inverno in cui ci siamo infilati. Siamo gli unici animali al mondo ad essere migrati verso un posto più freddo; ma siamo atterrati giusto in tempo per vedere la partita serale e per quanto io tiri e strattoni, non riuscirò mai a convincere Fler che una felpa gli serve più di un televisore, così finisce che i negozi chiudono, noi ci dirigiamo in albergo e lui quasi non dà tempo al portiere di capire chi siamo che gli ha già sfilato le chiavi di mano e sta correndo in camera.
Dal momento che l'albergo lo aveva prenotato Bushido, la stanza non è una stanza, ma una sorta di mini-prefabbricato in cui potrebbero vivere altre quindici famiglie oltre a noi due; il televisore è un 55 pollici, in bagno c'è una sorta di piccola piscina idromassaggio, abbiamo un frigo vero più pieno di quello di casa mia e credo che i divani siano in pelle umana. Se non sapessi che Bushido, quando si parla di calcio, è tipo un invasato che non vede, sente, parla, respira nient'altro e che Patrick è esattamente il suo clone sbiancato in candeggina, forse mi preoccuperei del fatto che questi due meditavano di passare un mese all'equatore dentro una casa accessoriata con ogni comfort dalla quale potevano anche non uscire mai. Ma Bushido non c'è e fa un freddo becco, quindi qualsiasi terzo grado volessi fare a Fler sull'argomento, devo rimandarlo a più tardi, anche perché lui ha già acceso il televisore e le sue pupille sono così incollate allo schermo che temo non attirerei la sua attenzione nemmeno ballando nudo qui dove sono, uno spettacolo a cui non voglio costringere né lui né me stesso, per altro. Così lo lascio al suo destino e mi organizzo per trovare qualcosa con cui evitare l'ipotermia almeno per stanotte.
“L'Argentina ha vinto uno a zero contro la Nigeria,” m'informa intanto lui, seduto a gambe incrociate sul letto e totalmente impermeabile alla temperatura esterna. Ha su una maglietta a maniche corte e non ha nemmeno la pelle d'oca. “E la Corea del Sud, due a zero con la Grecia.”
“Mi fa piacere,” commento, aprendo cassetti e antine. “Ci sarà una coperta in più? Com'è sistemato il letto?”
“C'è,” fa lui.
Grazie, Patrick, non l'avrei mai detto. “Sì ma ci sono abbastanza coperte?”
“Sì,” fa subito lui, senza nemmeno voltarsi. Poi, evidentemente, sente il peso del mio disappunto anche senza che io lo espliciti a parole, perché si arrischia a staccare gli occhi per mezzo secondo dalla partita per guardare il letto. “Cioè boh. Ce n'è una, non lo so.” Torna a guardare lo schermo, convinto di essere stato esauriente e se la prende con un qualche giocatore. “No! Dovevi passarla, idiota!”
Supero la sua valigia, visto che lui l'ha lasciata all'ingresso, un centimetro dopo la porta, e alla fine mi rassegno all'evidenza che non solo non ci sono altre coperte ma che in questa stanza super-lusso non c'è un termostato, per cui devo tenermi la temperatura che c'è, a meno di non telefonare al portiere e spiegargli in africano oppure in inglese – che magari è pure peggio – che potrei morire assiderato sul loro materasso in vera piuma di airone imperiale.
“Chi sta giocando?” Chiedo alla fine, quando mi rendo conto che Fler non risponderà a nessuno stimolo esterno che non abbia a che fare con ventidue giocatori e una palla.
Lui si volta a guardarmi e mi trova avvolto nella bandiera della Germania che si è portato da casa. E grande quanto due lenzuola matrimoniali, forse di più, quindi io posso ben avvolgermela addosso tipo sei volte, creando uno strato abbastanza alto da isolarmi dal freddo. “Stati Uniti e Inghilterra,” risponde, ma rimane perplesso solo qualche istante perché poi il cronista esplode in una descrizione concitata e in una lista di nomi sconosciuti e lui torna a guardare subito in campo ma finisce per imprecare avvilito mentre gli uomini inquadrati intorno alla porta sono tutti molto tristi.
“Niente gol?” Chiedo.
“C'è andato vicino.”
“Ah.” Guardo lo schermo e cerco di capire perché stiamo seguendo questa partita. Cosa ce ne frega a noi dell'Inghilterra e degli Stati Uniti? Fler mi ha fatto una testa così con il nostro girone, quindi so per certo che né l'una né l'altra squadra ne fanno parte. Vorrei chiederlo, apro anche bocca per farlo ma Fler apre di scatto le braccia e urla come un muflone imbizzarrito.
“Ma lo hai visto?” Chiede. “Lo hai visto?”
“Cosa?”
“L'auto-gol dell'Inghilterra!”
Questo è tutto ciò che mi dice prima di iniziare a ridere e rotolare sul materasso, ed è tutto ciò che mi dice in generale finché la partita non finisce, anche perché io un po' mi stanco di chiedergli cose e un po' mi annoio a seguire il gioco, proprio. Così finisco a trastullarmi con i volantini che trovo sparsi in giro per la stanza e che mi descrivono con grande dovizia di particolari tutti i dettagli del posto in cui mi trovo. Mi chiedo se tra quelle mille-duemila partite che mi toccherà vedere, non ci sarà spazio per fare anche il turista. Magari sì.

*


Magari no, ovviamente.
Di solito, quando è in vacanza, Fler non si sveglia mai prima delle due del pomeriggio, e solo se lo tiro giù dal letto suonando la Marsigliese con la mia batterie di pentole direttamente sulla sua testa. Stamattina, invece, nonostante le sfiancanti tredici ore di aereo e altre due tra partita e dopo-partita, il giro su internet e la telefonata a sua madre che già lo pensava disperso fra leoni, zebre e giraffe, si sveglia alle otto e mezzo del mattino. Dopo solo sei ore di sonno. E lo fa felice, pieno di ottimismo e, soprattutto, intenzionato a condividere con me tutto l'amore che inspiegabilmente oggi prova per l'Universo, come se il solo fatto che la Germania gioca possa essere motivo di giubilo internazionale.
In realtà lui non mi sveglia volontariamente, nel senso che non viene lì a scuotermi dal mio torpore, ma fa tanto di quel casino aggirandosi per la camera che non posso fare a meno di notarlo. All'inizio provo ad ignorarlo ma non mi è possibile, così alla fine apro gli occhi e quello che vedo non lo capisco subito. Anzi, non lo capisco neanche adesso che sto bevendo il caffè, ma in quel momento, quando mi sveglio, è anche peggio. Fler non c'è, e al suo posto è comparsa un'enorme bandiera della Germania con le gambe. “Sei sveglio!” Mi dice la bandiera umana, aggirandosi intorno al letto in un turbinio di giallo, rosso e nero.
“Che cos'hai addosso?” Chiedo, giustamente.
“Sto facendo le prove per stasera!” Risponde lui estatico, mentre mi tira fuori dal letto e mi trascina in giro a fare cose di cui non sono ancora consapevole, tipo lavarmi e vestirmi. Ha addosso la maglia della nazionale, la sciarpa a strisce e il viso ricoperto col cerone dei colori della squadra.
“Ma mancano più di quindici ore!”
Lui non discute e qualche minuto dopo sono in corridoio e non so perché. Sono nell'ascensore dell'albergo e non so perché. Ma soprattutto, mi ritrovo ad una tavolata di trentacinque persone e non so perché.
A quanto pare Fler si è svegliato molto prima di quanto pensassi, anche se non riesco a capire bene quando, perché è svagato e confuso e qualsiasi domanda gli faccio mi risponde vago, ridendo felice come un bambino e tornando ad ignorarmi l'attimo successivo. Dopo essersi conciato in questo modo tremendo, ha avuto il coraggio di scendere al ristorante dell'albergo e, invece di essere accolto da gente pronta a chiamare un istituto di igiene mentale per farlo portare via e rinchiudere come ci si aspetterebbe in una situazione ragionevole, ha incontrato altri esemplari della sua specie che lo hanno invitato ad unirsi al branco e ad abbeverarsi al loro stagno. Io non avrei niente in contrario a questo avvenimento, se tutti i presenti, nessuno escluso, non fossero in realtà i miei nemici naturali. Difatti questi che ho di fronte non sono solo uomini a cui piace il calcio, ma sono uomini tedeschi. Uomini tedeschi a cui piace il calcio, mentre io sono Austriaco, l'Austria a questi Mondiali non c'è e, nonostante questo, mi rifiuto di tifare Germania. Mi seguite?
E Fler, in tutto questo, non è che migliori proprio le cose, anche se non credo che lo faccia per cattiveria; è solo troppo agitato per la partita che si terrà fra sole quindici ore. Diciamo che per non ammazzarlo, penso che è come se fosse ubriaco. Fler quando è ubriaco non ha alcun controllo sulle proprie facoltà, quindi non lo si può mai davvero accusare di nulla.
Insomma, quando alla fine raggiungiamo questo tavolo di tedeschi già ampiamente alticci come si conviene al loro popolo – e anche al mio, a dire la verità - , Fler mi presenta dicendo che sono un suo amico, e già per questo dovrei fare le valige e andarmene visto che è lui quello del “diciamolo a tutti, perché il mondo deve sapere”, ma ho già capito che il calcio lo riporta ad una dimensione primitiva in cui valgono solo i concetti uomo-donna, cibo-carne, palla-in-porta, per cui non mi arrabbio come dovrei e sorrido, stringendo mani e accettando pacche sulle spalle. Questo finché Fler non annuncia che “però io sono Austriaco”. Con il però, proprio. E allora tutti allontanano le mani e se le mettono in tasca. Qualcuno scuote anche la testa, come se essere austriaci fosse una malattia incurabile o chissà cosa.
“L'Austria non si è nemmeno qualificata!” Mi fa uno, sgranando gli occhi. Immagino che dovrei sentirmi molto in colpa per questo, come se fossi stato io in persona ad impedire che la squadra della mia nazione si presentasse in Sud Africa. E quando non lo faccio – voglio dire, che me ne frega? – il loro sguardo si fa ancora più disapprovante.
Fler, che a questo punto dovrebbe non dico difendermi, visto che non è una vera accusa, ma per lo meno evitare di mettere ancora più in luce la totale estraneità ai Mondiali della mia nazione, così come la mia, giusto per evitare che trentacinque persone mi prendano per il culo, ecco, mica per altro, coglie la palla al balzo e ride. “Ecco perché non capisci niente di calcio,” mi dice. “ Voi fate schifo, a giocare. Qual è il vostro sport nazionale? Le bocce?”
“Ma ce l'avete una squadra, almeno?” Insiste un altro.
Io ignoro quest'uomo ignorante, conciato in maniera opinabile e mi volto verso il mio uomo parzialmente ignorante e conciato in maniera altrettanto opinabile. “Vuoi che ti lasci con i tuoi nuovi amici della giungla e vada a farmi un giro?” Che non è una minaccia, è una richiesta. Del tipo, Fler liberami dal male. Fai un favore ad entrambi. Lui però è preso dall'entusiasmo, quindi non coglie. Niente. Né io che lo imploro, né questi trentacinque sconosciuti che si prendono libertà che nessuno gli ha mai dato con il sottoscritto, e mi sorride. “No, anzi, per oggi pomeriggio ho organizzato già tutto quanto!”
E proprio quando mi chiedo quante possibilità ci sono che adesso mi dica “Scherzo, Peter! Torniamo a casa!”, mi informa con una gioia mai vista – nemmeno avesse vinto dei soldi – che guarderemo tutti insieme le due partite del pomeriggio e poi, forse, migreremo in massa verso lo stadio per vedere la partita d'esordio della Germania. “Non è stupendo?” Esclama. “Così saremo in tanti!”
Sono così felice che preferirei farmi strappare le unghie.

*


Il problema di guardare partite di calcio con qualcuno che se ne intende mentre tu non lo fai, è che se sei fortunato, forse ti viene spiegato qualcosa di vago e di elementare che in sostanza non ti serve a molto, se sei sfortunato, non ti viene spiegato niente e, mentre gli altri urlano, imprecano e si agitano, tu magari sei ancora lì a cercare di capire in che porta dovrebbero tirare i giocatori. Il mio, naturalmente, è il secondo caso. Dopo pranzo, ci siamo spostati in questa sala comune con il maxischermo che l'albergo ha adibito alla visione delle partite e ci siamo sistemati da una parte come un sacco di altri tifosi.
Prima di entrare, Patrick mi ha fornito di una specie di volantino con su la lista delle partite che si terranno da qui fino a metà giugno, mi ha dato due pacche sulle spalle e quindi si è messo a guardare la partita con tutti gli altri, a posto con la coscienza e convinto di aver fatto abbastanza per il sottoscritto.
Le due partite che si sono susseguite quasi ininterrottamente dall'una e mezzo del pomeriggio fino a quasi le sei sono state Algeria – Slovenia e Serbia – Ghana, e io sono fiero di me per essere arrivato alla fine senza aver mai tentato il suicidio né essermi alzato all'improvviso avventandomi sui presenti con un coltello preso al volo dal tavolo del buffet ammazzando dieci persone a caso, in preda alla follia omicida. Sono stato bravissimo e per questo, credo, dovrebbe esserci un premio istituito da qualche parte. Un riconoscimento per la sopportazione di tifo non condiviso, o qualcosa del genere. Ma forse, dopotutto, me lo daranno alla fine di questa giornata, dopo che avrò dimostrato di poter sopportare anche la partita della Germania dopo averne già viste due. Io comunque non ho capito quasi assolutamente nulla, a cominciare dalle maglie. Parliamone.
Dopo aver visto l'Algeria in bianco e la Slovenia in verde, quando la bandiera dell'Algeria è verde e quella della Slovenia bianca, e dopo aver visto il Ghana in bianco quando la sua bandiera è gialla, rossa, verde e nera, sono arrivato alla conclusione che i tifosi di calcio sono daltonici. Il che, fra le altre cose, spiegherebbe anche certi azzardati accostamenti di colore con cui ogni tanto Fler si presenta la mattina e il fatto che Bushido abbia trovato legale fare le mie magliette nere con le scritte arancioni fosforescenti o il mio sito nero con le scritte fucsia e azzurre. Non distinguono i colori, mi sembra chiaro. Prima di arrivare a questa conclusione, però, ho fatto in tempo a confondere i risultati, tant'è che non capivo per quale motivo gli Algerini fossero tanto abbattuti alla fine del primo tempo, questo finché Fler non mi ha rivelato la malattia cromatica che affligge il calcio internazionale.
Ma questo è stato oggi pomeriggio e, per quanto io l'abbia trovata una tortura, ora rimpiango la piccola stanza comune comoda e calda – soprattutto calda – perché siamo allo stadio, fa freddo, credo di aver bisogno di una visita oculistica perché distinguo a malapena i giocatori e, soprattutto, c'è un frastuono infernale. D'accordo, io e Fler non veniamo esattamente da un posto tranquillo e non siamo due monaci benedettini dediti alla regola del silenzio, gli studi dell'EGJ sono tutto tranne che luoghi adatti alla concentrazione e alla composizione di musica e vicino a casa mia c'è lo stadio per cui, quando gioca il Bayern, mi tremano le finestre ma questa è un'altra cosa. Qui ci sono le vuvuzela.
Immaginate di varcare le soglie di questo stadio e di essere letteralmente spettinati dall'onda d'urto di centinaia di migliaia di trombette di plastica suonate contemporaneamente da altrettanti esseri umani che poi, credo, cadranno a terra morti per la mancanza di ossigeno e saranno sostituiti da altrettante centinaia di migliaia di trombettisti della domenica in un ciclo infinito generato dal demonio per distruggere la razza umana. Ecco, una cosa del genere. Io riesco ad immaginarlo anche se il suono non può spettinarmi, quindi di certo riuscirete a farlo voi.
Dal momento in cui abbiamo messo piede sugli spalti e abbiamo preso posto, io non sono più riuscito a sentire quello che Fler mi diceva, se mai mi ha detto qualcosa che non fosse legato al possesso di palla di Schweinsteiger. Mi ha piazzato in mano una trombetta e mi ha informato “Quando facciamo gol, suona. Siamo bianchi e neri, eh, mi raccomando.” E quando ho chiesto “Non ti sembra che ci siano già abbastanza trombette?” Lui mi ha risposto: “Non si strombazza mai abbastanza per la Germania”, con aria seria, come se stesse parlando di cose veramente importanti. Tipo la fame nel mondo. Ma anche il rincaro del pane, per dire. Sarebbe comunque un argomento più serio. Ecco, io ci strombazzerei volentieri per il rincaro dei generi di prima necessità, altro che Podolski che va in porta all'ottavo. Tra l'altro, quando ciò avviene, Fler, i suoi trentacinque nuovi amichetti e più o meno altre cinquemila persone si alzano tutte in piedi contemporaneamente e iniziano a sventolare bandiere, inneggiando alla Germania e strombazzando come non ci fosse un domani. Così facendo mi coprono la visuale, per cui quando io suono la mia trombetta, con poca convinzione devo dire, lo faccio perché lo fanno loro e non perché io sappia, effettivamente, che qualcuno ha segnato. Meno che mai che lo ha fatto Podolski, che non ho il piacere di conoscere nemmeno in fotografia, figuriamoci se lo riconosco tra altri dieci giocatori da questa distanza. Quando mi volto per chiedere delucidazioni a Patrick, giusto perché per lo meno ho un argomento di conversazione, voglio dire, so che qualcuno ha fatto gol almeno, quindi magari possiamo discuterne, lo trovo in piedi che sventola una bandiera gigantesca che peserà si e no quanto lui, con una convinzione tale che se tu non sapessi che si trova allo stadio, penseresti che stia guidando una rivoluzione o qualcosa del genere. Sarà che gli altri tifosi del branco lo guardano con occhi ammirati e pieni di solidale cameratismo, non so. E' una cosa epica.
Al primo gol ne segue un secondo di Klose e, per la meraviglia non solo mia ma anche di Fler e degli altri, un terzo di Mueller che fa letteralmente esplodere la tifoseria tedesca. Prima che io me ne accorga, come al solito, sono tutti in piedi e l'unico suono che si sente è il fischio assordante delle trombe. Nell'impeto generale, uno degli amici di Fler si dimentica che sono austriaco e mi avvolge in un abbraccio da orso in cui mi convinco di soffocare nell'indifferenza generale di un'intera nazione. D'altronde, Fler stesso sembra essersi dimenticato che sono lì, almeno fino a quando non mi recupera dalle braccia di qualcun altro, per stritolarmi anche lui ed urlarmi frasi sconnesse delle quali non capisco assolutamente niente; ma è così felice che mi lascio sballottare a destra e a sinistra come un giocattolo. D'altronde, penso, visto che proprio non mi riesce di impazzire di gioia per questa cosa, posso dimostrare il mio supporto almeno così.
A questo punto io penso che sia finita; voglio dire, sono ben consapevole che manchino più o meno trenta minuti, ma l'Australia non può evidentemente competere, questo lo capisco anch'io. E poi è una questione di logica: a meno che i nostri giocatori non cadano tutti a terra morti per cause sconosciute o che l'Australia diventi improvvisamente una squadra fortissima per cause altrettanto ignote, direi che abbiamo vinto. Certo potrebbero rimontare, ma non lo vedo statisticamente possibile, anche se so che è successo in certi casi.
Credo che nemmeno Fler si aspettasse molto altro, perché quando poi invece Cacau fa il quarto, l'urlo che gli esce di bocca è così assurdamente sorpreso che mi viene quasi da ridere. Lo guardo e mi sembra un po' di vederlo quando aveva quattordici anni, anche se io non l'ho mai conosciuto a quell'età, ovviamente; ma immagino che fosse esattamente così. Si mette a saltare, urla, strepita e non se ne accorge quando mi trascina addosso a lui tirandomi per la maglietta e mi bacia sulla bocca come se fosse normale per tutti quanti, non solo per noi. Mi viene da ridere e sto quasi per perdonarlo per avermi trascinato in questo delirio. Quasi, però, perché dopo avermi lasciato andare, la prima cosa che fa è prendere il telefono e chiamare Bushido e, visto che trova occupato, è palese che il tunisino stesse chiamando lui nello stesso momento. Infatti, quando poi Fler ci riprova, Bushido risponde istantaneamente, non passa nemmeno uno squillo, segno che stava aspettando la chiamata. E io vorrei ammazzarli tutti e due.
Quando è al telefono con Bushido, Patrick non solo si dimentica della mia esistenza, ma anche di avere ventotto anni e, probabilmente, di essere un duro rapper del ghetto e non una ragazzina adolescente in piena tempesta ormonale. La prima cosa che fanno è urlarsi a vicenda il risultato della partita e poi, a seguire, i nomi dei quattro giocatori che hanno fatto gol. Lo so perché non sento soltanto Patrick, ma anche Bushido che dall'altra parte si sta agitando come un pazzo, urlando almeno quanto lui. Già di per sé la cosa sarebbe piuttosto irritante – io e Patrick abbiamo già ampiamente discusso di quanto sia invadente, pesante e inappropriata la presenza di Bushido perfino quando siamo al cesso, quasi – ma lo diventa immensamente di più quando Fler esplode in un emozionato “Ma hai visto che forza sono stati? Avrei voluto tu fossi qui a vederli allo stadio con me!” Ha quasi gli occhi lucidi, che probabilmente è colpa della birra, ma mi fa comunque incazzare perché, a differenza di Bill, io non l'ho fatto lo stronzo e con lui ci sono venuto quindi potrebbe anche mostrare un po' di gratitudine. Avrei potuto battere i piedi e, non solo rimanere a casa, ma anche impedire a lui di andare; sebbene questo tipo di scenate sono molto più sensate se le fa Bill. Io, in generale, sono un po' ridicolo. Prima che si possano giurare eterno amore, lo stacco da quel telefono quasi di forza, e ci riesco solo perché gli faccio notare che una vittoria così va festeggiata e giacché posso immaginare in che modo la festeggerà Bushido – d'altronde Bill dovrà pur espiare il fatto che non lo ha lasciato venire in Sud Africa – posso ben pensare di imitarlo.
Dunque, la partita è finita quattro a zero per noi e alla fine della serata, quando finalmente riesco a farlo uscire dallo stadio e abbiamo fatto il giro di tutti i bar di Durban, Fler è così ubriaco che se lo strizzassi, con la birra che ha in corpo ci riempirei una damigiana.
“Hai visto, Peter?” Mi dice, mentre lo infilo nell'ascensore dell'albergo, a fatica visto quant'è alto e quanto pesa. Lo faccio appoggiare contro lo specchio interno perché non si regge in piedi e lui ride quando tento di tenerlo su e premere il bottone del nostro piano contemporaneamente. “Sei birre e non le sento nemmeno.”
“Lo vedo, sì,” gli rispondo, mentre decido di pressarmi contro di lui, così non cade, e poi successivamente di allungare un braccio verso la pulsantiera. Mentre le porte si chiudono, lui pensa bene di infilarmi una mano sotto la maglietta e di canticchiare mentre lo fa.
“Sei tutto accaldato,” nota ridendo e cercando il mio ombelico.
Io, per la prima volta nella mia vita credo, cerco di non prestargli attenzione mentre allunga le mani perché in questo momento ho bisogno di riportarlo in camera e non posso farlo se mi perdo nelle sue dita che giocano dentro il mio ombelico. Quando siamo entrambi alticci, va bene pure farlo dove capita, ma in questo momento lui non è in grado di occuparsi di se stesso, quindi devo farlo io per lui. E non sono tanto bravo a ragionare quando fiuto la possibilità di scopare. Quindi al momento la sto ignorando, anche se c'è. E c'è perché Fler tocca, e lui sa che non deve farlo per scherzo, con me. Io prendo i preliminari molto sul serio.
Riesco ad aprire la porta della camera e a spingercelo dentro. Lui fa giusto i passi che gli servono per arrivare al letto e poi si lascia cadere di faccia, ridendo, per poi girarsi e osservami mentre richiudo la porta e poi sospiro quasi di sollievo perché è stato il rientro più faticoso della mia vita.
Lui si sta togliendo la maglietta, ma siccome la coordinazione l'ha lasciata sullo sgabello dell'ultimo locale in cui siamo entrati, più che svestirsi, si sta agitando come una tartaruga cappottata. Io rimango un po' a guardarlo perché è divertente, poi ho pietà di lui e lo salvo da se stesso. Gli tolgo le scarpe e lui si immobilizza istantaneamente, come se non corresse più il pericolo di rimanere vestito ora che ci sono qui io. Il che un po' è vero. “Alza il sedere,” lo istruisco e lui esegue, così posso togliergli i pantaloni che gli rimangono incastrati nelle caviglie, finché non scalcia un po'.
“Non è la prima volta che lo fai, vero?” La sua è una constatazione e la fa aggrottando le sopracciglia e guardando un angolo indefinito del soffitto, come se fosse improvvisamente sobrio e stessimo avendo una discussione profonda. Fler ce l'ha di questi momenti quando è ubriaco.
Rido. “No, affatto.”
“Sei bravo a spogliarmi, tu,” ragiona ancora, serissimo, mentre alza le braccia così posso togliergli anche la maglia. “Forse dovrei preoccuparmi.”
Sospiro e mi siedo lì accanto. “Mi sembra un po' tardi, tu che dici?”
Lui sembra valutare la situazione e poi torna a ridere in maniera stupida come ha fatto per tutto il tempo dallo stadio fino a qui. “Vero!” Esclama. Mi tira giù e mi da un bacio sfigatissimo perché non riesce neanche bene a centrare la mia bocca, tanto che mi viene il dubbio non volesse baciarmi affatto ma mi abbia tirato giù troppo in fretta. Mi viene da ridere, però, perché fa tenerezza. “Alla seconda ci riesco,” mi tranquillizza, riprovandoci.
Il secondo bacio funziona e ingrana, anche se è costretto a stringermi forte per la maglia per tenermi fermo sul posto. Non è che io mi stia muovendo o cose simili, ma probabilmente a lui gira un po' la testa. Patrick sa di birra, ma so che anch'io devo più o meno avere lo stesso sapore, e credo che questo sia l'ultimo pensiero davvero coerente che ho prima di spostarmi su di lui e decidere che, ora che è disteso e in mutande, posso pure dare retta a quella possibilità che si era già palesata in ascensore.
Lui mi mugola sulla lingua quando scendo a stringerlo per i fianchi. “Sai come sta festeggiando quello là?” Mi dice, mentre mi sistemo meglio e lui mi fa spazio e lascia che mi appoggi.
Quello là, ovviamente, è Bushido. “Posso immaginare,” mugugno, mordendogli il collo. Lo faccio con più convinzione del necessario, così magari capisce che non è proprio l'argomento da affrontare.
Solo che lui è ubriaco e comunque non era una domanda a cui aspettasse una risposta perché qualunque sia il mio grado di interesse, lui vuole raccontarmela lo stesso questa cosa. “Ha deciso di farsi il ragazzino tante volte quanti sono i gol della Germania.”
“Tanto piacere,” commento, premendo il bacino verso il basso nel tentativo di distrarlo in maniera più convincente. Onestamente, al momento, delle abitudini sessuali del tunisino non m'interessa e dubito, per altro, mi sia mai interessato da che lo conosco.
Lui inarca la schiena, seguendo i miei movimenti, ma non ha ancora finito. “Anche noi, sì?” Chiede. Mi fermo, mi sollevo sulle braccia e lo guardo dritto negli occhi e lui lo sa che gli sto chiedendo se si rende conto di quello che ha detto, perché ha detto una cosa ben precisa e io non vorrei che in due avessimo frainteso quello che è appena uscito dalla sua bocca. Una volta per ogni gol è un concetto molto semplice, ma trattandosi di un numero piuttosto alto, è meglio chiarire. Lui però s'imbroncia, come se si fosse aspettato un'altra reazione. “La Germania è stata grandiosa, ha fatto quattro gol” esclama serio.
“Lo so,” annuisco.
“E io sono tedesco,” continua, allungando malamente le mani a slacciarmi la cintura dei pantaloni. Non ci riesce, così mi tocca aiutarlo anche lì.
“So anche questo,” sospiro.
“E allora me lo merito,” conclude, con una logica spiazzante.
Io lo guardo mentre litiga con i miei boxer, accusandoli di essere trappole mortali. “Sei anche molto ubriaco, Fler”, gli faccio notare, finendo di spogliarmi da solo.
“Io non sono affatto ubriaco,” commenta lui e manca due volte la presa per farmi tornare giù disteso dov'ero prima. “Ora stai zitto e datti da fare.”
Io il mio dovere l'ho fatto. Messo a letto, l'ho messo a letto. Avvertito che era ubriaco, l'ho avvertito. Quindi direi che non mi si può rinfacciare nulla se alla fine cedo e decido che possiamo anche festeggiarla questa vittoria della patria, anche se non è la mia patria. Diciamo che festeggerò la vittoria della mia nazione di adozione. Devo tenere a mente che da piccolo andavo sempre in vacanza in Svizzera, così magari se vincono festeggio pure loro. Riprendo a baciare Patrick sul collo, intanto che scendo ad accarezzarlo. “Guarda che ora che mi hai dato l'idea,” gli dico scherzando “non puoi più rimangiartela, eh.”
Sono preso benissimo, naturalmente. Sono ottimista e ben disposto verso il mondo, com'era lui stamattina quando s'è svegliato e avrebbe baciato in bocca cani e porci. Quattro gol. Non ci posso credere, non dormiremo mezzo secondo.
Ed è lì che Fler russa.
E non qualcosa di discreto, tipo un fischio ovattato dal naso, no. Una vuvuzela naturale, proprio.
Mi sollevo di nuovo e lui è praticamente disteso a quattro di bastoni sotto di me, privo di sensi, il collo voltato e il braccio molle sopra la testa. Sembra morto. Meno male che fa rumore col naso, almeno. Se non altro non m'impressiono.
Sospiro e lo guardo con rassegnazione; di essere eccitato non se ne parla più perché in questo momento, così messo e con questo rumore di sottofondo, Fler è tante cose ma di certo non appetibile. Mi scappa una risata mentre lo copro con il piumone e lui ci si avvolge dentro come in un bozzolo, borbottando “Quattro gol, mica spiccioli”, poi recupero i pantaloni del pigiama, cercando di non pensare a cosa poteva essere questa serata e invece non è. Mi consolo ricordando che questa era solo la prima partita e che ho tempo almeno tre settimane per riprendere da dove abbiamo interrotto. Sempre che non si arrivi in finale, naturalmente, in quel caso staremo qui fino a metà luglio e avremo così tante cose per cui festeggiare che, alla fine, varrà ben la pena guardarsi qualche partita. Fossero anche tutte e sessantaquattro.
Personaggi: Fler, Chakuza
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash, Linguaggio
Rating: R
Note: Pant.. pant... puf.. puf! Ce l'ho fatta, nonostante le previsioni. Questo mese sarà un inferno. Correzione, questo mese è già un inferno, ma niente al mondo mi avrebbe impedito di scrivere una storia per il compleanno del mio gemello virtuale. TANTI AUGURI ARMADIO A DUE ANTE! Ora, giacchè quello stronzo del tuo fidanzato collega, Chakuza, non mi regalerà un duetto con te per l'uscita del suo nuovo cd (2 giorni dopo il mio compleanno), regalami tu un duetto con lui nel tuo prossimo album, chiaro? Quasi dimenticavo una cosa importantissima. Avete presente quando parlo delle cose piccole che hanno sempre bisogno di fare qualcosa? E' una citazione di Liz, che l'aveva già scritto in una delle shot del Ghettodrama (e forse nemmeno una sola) o forse in una delle shot già scritte che deve ancora postare. Insomma, è roba sua. E ce ne sono anche un altro paio di citazioni, che però non mi ricordo quali diavolo siano. Comunque poi le capirete, perché quando lei posterà le sue robe voi penserete "Ah, guarda, come quella di Tab" e invece no! E' questa mia che copia spudoratamente la sua. Sappiatelo. Tanto per chiarire.

Riassunto: Io non volevo raccontarvi questa storia.


Ora, io non volevo raccontarvi questa storia.
Ritengo che almeno per il giorno del proprio compleanno una persona dovrebbe essere esonerata dal rendere pubbliche le proprie figure di merda, le proprie disgrazie, o le croci che il cielo gli ha amorevolmente consegnato in un pratico formato di un metro e quaranta.
E sono ancora convinto di questo. Il compleanno andrebbe festeggiato, anzi andrebbe festeggiato chi compie gli anni e questa persona – nel caso specifico io – non dovrebbe fare assolutamente niente e godersi il giorno a lui dedicato come meglio crede, ma senza faticare, lasciando passare le ore una dietro l'altra beate e senza rotture di cazzo.
Quando però ho esposto questo mio pensiero perfettamente logico a Chakuza, lui non è stato d'accordo; forse perché lui non ha nessuna familiarità con i concetti logici o con la logica in generale – essendo un individuo generato nel caos primordiale e in esso allevato fino all'età della ragione mai realmente raggiunta – oppure, molto più probabilmente, non ha capito un cazzo di quello che gli stavo dicendo perché, a meno che la tua frase non contenga il concetto facciamo sesso ora e subito in qualsiasi forma lo si possa esprimere, lui non ti ascolta veramente. Il suo cervello, che occupa un volume ben minore di quello che potrebbe sembrare a vedere quella testa tonda come un'enorme lampadina lucida, non funziona sempre, come quello di qualsiasi essere umano. Per qualche errore al momento dell'assemblaggio, gli arriva meno corrente del dovuto, quindi ha sviluppato una sorta di sistema di protezione naturale – un tratto evolutivo istantaneo, per così dire – che gli permette di conservare la poca energia che gli arriva e di incamerarla per quando effettivamente gli serve. Ne consegue che il suo cervello entra in ibernazione come un portatile ogni volta che non c'è un effettivo bisogno di lui, che nel suo caso significa: preparare da mangiare e recepire la richiesta di qualcuno di fare sesso. In tutti gli altri casi il suo cervello si chiude – se lo ascolti bene si sente proprio il rumore di meccanico di qualcosa che si ripiega su se stesso – ed entra in funzione una specie di segreteria automatica che dovrebbe registrare i tuoi messaggi perché poi lui, una volta attivo, li legga ma che, di fatto, non lo fa forse per colpa di un nastro smagnetizzato o perché non ha la spina nella presa.
Ad ogni modo, Chakuza non era d'accordo perché, come ha tenuto a farmi notare in maniera pedante, per il suo compleanno è stato lui a raccontare la sua storia, quindi adesso toccherebbe a me raccontare la mia, visto che il compleanno di cui sopra sarebbe il mio.
Io alla fine ho ceduto perché la piantasse di insistere e, soprattutto, per evitargli di morire giovane – perché sono buono e lo amo ma, se ad un certo punto non cedo, finisce che pure io ho voglia di ammazzarlo e mia madre dice sempre che non sta bene.
Il problema, con Chakuza, e lo capisci solo dopo un po' che per un motivo o per un altro ti ritrovi a girargli intorno come fosse una boa, è che lui non molla mai. E quando dico mai, intendo quel tipo di mai quantificabile con l'eternità o con un film d'essai bielorusso con i sottotitoli in guatemalteco. Se non ottiene nessun risultato concreto, qualsiasi essere umano sulla Terra – per quanto sia ostinato – ad un certo punto capisce che una certa linea di comportamento non lo porterà da nessuna parte. Magari non subito, magari dopo tanto tempo, ma prima o poi giocoforza lo capisce. Per Chakuza è diverso. Lui si rende conto che il suo atteggiamento non sta sortendo alcun effetto, ma dà la colpa di questa mancanza di risultati non alla natura del suo agire, bensì alla durata delle sue azioni. In parole povere, e non so cosa mi sia preso a parlare così, dal momento che io per contratto devo apparire un povero spiantato del ghetto, di buon cuore ma praticamente un gradino sopra l'analfabetismo, Chakuza non pensa mai di sbagliare atteggiamento, ma di non aver perseverato abbastanza. Per lui è sempre una questione di tempo. E siccome lui ha molta più pazienza di te, chiunque tu sia – non lo so se la capacità di romperti i coglioni in eterno l'ha acquisita col tempo o se non sia, invece, una sorta di abilità ascetica zen derivatagli dal nascere sulle montagne – finisce che ha ragione lui.
Per dire, qualche tempo fa si era convinto che il più grande investimento che potesse fare in quel preciso momento della sua vita era comprare un camper. Vai tu a sapere perché, visto che da uno che passa metà della sua esistenza su un tourbus, tutto ti aspetti tranne che voglia passare le vacanze su una casa mobile, ma ho smesso da tempo di chiedermi secondo quale legge fisica girino gli ingranaggi nella sua testa e, anzi, mi sono convinto che in realtà l'intero, arrugginito meccanismo sia azionato da un branco di gerbilli ubriachi che a stento riescono a fare due giri di ruota senza cappottarsi. Insomma, si era fissato tantissimo e voleva a tutti i costi comprarne uno il prima possibile, ma siccome oltre ad essere pazzo è anche uno preciso – che non ci si crede vedendo casa sua, la sua testa o anche solo il contenuto delle sue tasche – quando deve comprare qualcosa, s'informa prima su tutti i dettagli. Ha comprato quintali di riviste di settore, ha consultato milioni di siti internet e poi, e qui viene il bello, ha deciso che fosse tempo di andare a toccare con mano la mercanzia. Per settimane non ha fatto altro che chiedermi se lo avrei accompagnato alla mostra di caravan che si teneva a Stoccarda. La mia prima risposta, chiara come un fiume di montagna – che lui dovrebbe ben conoscere essendo nato tra i caprioli – è stata “Ma anche no” bello scandito, così che il concetto gli arrivasse chiaro anche in presenza di disturbi sulla linea.
Lui però non si è lasciato abbattere e non ha nemmeno protestato, come ci si potrebbe immaginare. Questo perché Chaku non ti chiede spiegazioni dei tuoi rifiuti, lui semplicemente li ignora come se tu in realtà non avessi mai risposto, che per lui è più pratico e per te è dieci volte più frustrante. Il giorno dopo è tornato all'attacco e mi ha fatto la stessa domanda, candido come se la discussione del giorno prima non fosse mai avvenuta, nemmeno in un universo parallelo di ubicazione incalcolabile e raggiungibile solo attraverso distorsioni spazio temporali generate dalla Delorian. E io, pur sapendo com'è fatto quest'uomo, pur conoscendone i più oscuri segreti e pur avendo visto cosa si nasconde nel suo cassetto dei calzini, l'ho guardato con gli occhi spalancati dalla sorpresa perché davvero tu non puoi, ho pensato, tu non puoi venirtene qui candido e fingere che io non ti abbia già chiaramente risposto di no. E invece lui può. Ho scoperto che Chakuza può tutto e in effetti avrei dovuto aspettarmelo da un uomo che è riuscito ad arrivare illeso ai ventinove anni nonostante le condizioni mentali in cui vive.
Questa scena si è ripetuta per settimane: lui che viene da me e chiede, io che gli dico di no e lascio il salotto, sperando che il mio trasferirmi in uno spazio che non lo comprende possa essere in qualche modo un concetto più semplice da afferrare rispetto alle parole “No, non voglio venire a scegliere un camper con te” che probabilmente in Austria devono significare “Non sapevo che volessi andare a vedere camper, ci penserò. Richiedimelo domani” e lasciano quindi spazio a fraintendimenti più che legittimi. Forse è una questione di lingua.
Chakuza però non ha mai mollato, sono stato io a cedere per farlo smettere. Un giorno, prima che lui aprisse la boccuccia di rosa e mi chiedesse di questi cazzo di camper a Stoccarda gli ho detto: “Andiamo a vedere i camper a Stoccarda?” nella speranza, lo ammetto, che essere colto di sorpresa gli provocasse un infarto. Già mi immaginavo che si sarebbe accasciato, magari tentando di aggrapparsi al punto interrogativo che chiudeva la frase, per poi stramazzare al suolo sul tappeto macchiato del salotto, con gli occhi aperti e le dita della mano destra contratte negli ultimi scatti di vita. Lui invece non ha avuto nemmeno la decenza di crepare. Ha sorriso e ha detto: “Vedrai, sarà divertente.” E se n'è andato a preparare la cena.
Così sono andato con lui fino a Stoccarda a vedere centinaia di camper senza intendermi di camper e senza il minimo interesse per niente che anche solo li riguardi da lontano. E questo era solo un lunghissimo esempio. Potrei farvene altri cento milioni e ne avrei ancora un po' da raccontarvi se poi avanzasse del tempo. Così, per concludere, Chakuza mi ha costretto per sfinimento a raccontarvi questa storia, che è iniziata per colpa sua, come tutto ciò che non ha né capo né coda.

*


Il bello di questa storia, e anche il motivo per cui è assolutamente ridicola, è che è una storia per il mio compleanno ma non era esattamente il mio compleanno quand'è cominciata e forse non lo era nemmeno quand'è finita. Diciamo che è avvenuta a cavallo fra il giorno prima del mio compleanno e il giorno del compleanno stesso, ma siccome non avevamo un orologio sotto mano, forse è finita prima che il giorno scattasse. Non lo so. Sarà che non sono convinto perché ho visto la faccia di Chakuza quando mi ha detto che avrei dovuto raccontarvela io perché era il mio compleanno. Era la stessa faccia che fa quando giochiamo a poker con le patatine al formaggio e sembra che lui abbia una buona mano e invece poi scopri che non ha una carta in fila con l'altra. Le prime volte ti spilla interi sacchetti di patatine, poi lo capisci – io l'ho capito perché le sue facce ormai le so tutte – e allora lo fai tornare a casa in mutande. Mi ha chiesto di raccontarvi questa storia con quella faccia lì, quindi presumo che in mano non avesse niente e non fosse affatto il mio compleanno, ma ormai ve la racconto perché a questo punto diventa una questione di principio mostrarvi un altro aspetto di quell'uomo che vi porterà a chiedervi perché abbia il permesso di entrarmi nel letto e nelle mutande. Potrei rispondervi, naturalmente, ma so che vi crogiolereste nella risposta, quindi vi attaccate.
Voi sapete, ormai, che nel nostro lavoro ci sono dei tempi morti non indifferenti, seguiti da periodi di stress lavorativo che può portarti alla pazzia, seguiti da ulteriori tempi morti che prima agogni come ossigeno e poi ti pesano addosso nemmeno non lavorassi più da vent'anni, questo ve l'ha già detto Chakuza. Quello che l'austriaco non vi ha detto è che durante questi periodi di pausa lui è la più grande piaga sfrangia-coglioni che sia mai esistita nella storia del Terra e, con ogni probabilità, anche in quella di tutti gli altri pianeti del Sistema Solare e oltre. Io non lo sapevo prima di conoscerlo e non l'ho saputo subito nemmeno quando l'ho conosciuto le prime volte. Non l'ho saputo nemmeno dopo che siamo andati a letto la prima volta – che nel caso di Chakuza significa molte volte a distanza di niente in un solo giorno, per recuperare tutto il tempo che fino a quel momento non avevamo scopato e rimetterci in pari con le tempistiche del mondo, credo – perché in quel periodo stavamo lavorando e lui non si annoiava. E non è che gli altri ragazzi dell'etichetta mi hanno preso da parte e mi hanno detto: Guarda Patrick, stai attento, perché è tutto rosa e fiori finché quello ha qualcosa da fare, ma poi! Così, proprio, con il punto esclamativo alla fine. Avrebbero dovuto avvertirmi e invece no. Lo hanno protetto. C'è dell'omertà in quell'etichetta e io, ovviamente, ne ho fatto le spese. Anzi, credo che mi abbiano atteso con ansia e quando ho varcato la porta degli studi quel giorno che Bushido ha deciso che non ci dovevamo più mandare a quel paese di giorno, di notte e anche nelle ore intermedie e devono aver pensato: ecco che arriva il fesso che ci libererà dal mostro. E io sono arrivato.
Come tutte le persone piccole, Chakuza ha sempre bisogno di muoversi e fare qualcosa. Dal momento che la strada dalla testa alle estremità nel suo caso è molto breve, il suo sistema ci mette niente a portare le informazioni da una parte all'altra e nel suo corpo è tutto un avanti e indietro di informazioni, continuamente. Per questo dorme poco e quando è sveglio deve trafficare. Generalmente la prima cosa che fa è cucinare. Anzi, la prima cosa che fa è aprire il frigo, farne uscire i pipistrelli che ci hanno fatto il nido nelle settimane di inattività precedente e constatare che contiene un limone, due yogurt scaduti e qualcosa che sua madre gli ha fatto sei mesi prima e che giace ormai irriconoscibile e pieno di muffa in un contenitore col tappo blu. A quel punto si precipita al primo supermercato, compra quintali di generi alimentari come da un momento all'altro dovessimo subire un attacco con armi chimiche e quando torna a casa cucina. Di tutto. A qualsiasi ora lo chiami, lui sta cucinando e quando poi vai lì finisce che ti da tre o quattro teglie di cibo perché oggettivamente non può mangiarsi tutto da solo e noi e le nostre famiglie mangiamo per settimane e settimane dopo che lui ha avuto questi scatti. Mia madre a volte piange di gioia quando l'avverto che ho una cosa per lei da parte di Peter. E quando entro in casa, prima abbraccia le lasagne e poi me e dice “Grazie! Ma che belle!” come se io fossi una ricetrasmittente umana e Chakuza, dall'altra parte della città, potesse sentire le parole che lei sta dicendo a me. Lo adora, lei, il suo Peter. Non sono sicuro che abbia capito che il suo Peter è l'unica vera ragione al mondo per cui non avrà dei nipoti, forse dovrei dirglielo così poi non adorerebbe così tanto una teglia di lasagne.
La seconda cosa che Chakuza fa quando si annoia e ha già cucinato per un esercito è scopare. Anche se le due soluzioni si invertono se in casa ha qualcuno che renda possibile l'inversione, tipo me, ma io faccio sempre in modo di non essere nei paraggi quando so che si avvicinano i momenti di noia, perché i suoi momenti di noi scatenano i miei momenti di stanchezza e se non voglio ammazzarlo – sempre per far piacere a mia madre che non vuole che uccida gente – devo difendermi in qualche modo. Quando Chakuza ha già fatto o è impossibilitato a fare queste due cose, allora è un uomo perso. Non so se avete familiarità con il concetto, ma in pratica si tratta di un uomo adulto che vaga per casa senza niente da fare, con lo sguardo vacuo e prossimo a spegnersi del tutto. Alle volte mi è capitato di vederlo, magari perché lui credeva dormissi e non se l'è sentita di infilare le dita senza permesso – una cosa che capita estremamente di rado perché Chakuza è convinto di aver acquisito ogni permesso immaginabile quando quella sera, forse ubriaco, gli ho detto prego, entri pure – e quindi nell'attesa che mi svegliassi non sapeva che cazzo fare della sua vita. Ed è qui che cominciano i guai.
Quando questa storia è cominciata – e tre, mi rendo conto, ma prima o poi comincia – io ero a casa mia e lui era a casa sua, c'era fra di noi una distanza appropriata che mi avrebbe permesso di riprendermi da non mi ricordo più nemmeno quanti mesi di lavoro serratissimo, tra il tour con Bushido e la campagna pubblicitaria per la Psalm 23. Ed ero di buonumore.
Così ho aperto il computer e ho visto quello che stava avvenendo a qualche decina di chilometri da casa mia, in una palazzina fatiscente, in un appartamento disordinato, nello studio di un uomo ormai perso che sarebbe venuto da me a chiedere conto e ragione della sua noia. E ho quasi avuto il desiderio di fare le valige e fuggire.
Peter non ha un buon rapporto con la tecnologia, anzi a dirla tutta non ha un buon rapporto con niente in cui lui non possa infilare una teglia e cuocere qualcosa. E anche in quel caso fa delle distinzioni, perché, per dire, sa usare benissimo una cucina professionale ad otto fuochi, ma dagli un piano in vetroceramica a due bruciatori e va nel panico perché invece di avere le manopole per regolare il gas ha un display touchscreen. La stessa cosa si può dire dei computer, dei cellulari e di qualunque cosa, credo, non si accenda con una chiave da girare o una manovella. E' totalmente negato, come se la zona di apprendimento del suo cervello avesse smesso di funzionare quando aveva vent'anni e ora si stia lentamente atrofizzando, rifiutandosi di assimilare qualunque concetto abbia meno di dieci anni. Il problema è che se anche può organizzarsi per cucinare con un forno a legna – o su uno spiedo in salotto – e possa guardare film in DVD – sì, al DVD ci siamo arrivati, con il blue ray fa ancora fatica – su un televisore che non abbia troppe funzioni, di certo non può più promuoversi come si faceva una volta con i volantini e il passaparola e non so cos'altro. Ha bisogno di internet ed è abbastanza intelligente per rendersene conto, così ci prova. E siccome noi tutti lo aiutiamo, qualcosa magari funziona anche, cioè le notizie su di lui in giro ci sono, quando fa un video noialtri lo pubblicizziamo così in qualche modo, a qualunque fanpage, forum o blog uno è scritto lo vede. Ma lui non ha voglia di star dietro a queste cose, non è uno che va a pisciare, si fa fare una foto e la mette sul twitter come Bushido. O non avverte nessuno se è andato da quella parte o da un'altra come me. E' proprio che non gli passa per il cervello di farle, queste robe. Lui è più il tipo che magari ti telefona e ti dice di andare a farti una birra con lui, cosa che non è che possa fare con tutti i suoi fan – e comunque lui i suoi fan non li conosce, quindi non vuole averci niente a che fare, intimamente parlando. E' molto riservato. Ed è molto tradizionalista. Ed è impedito. Le uniche volte che posta su Facebook è quando si annoia.
Questa è una di quelle volte. E non è nemmeno troppo difficile capirlo giacché ha scritto proprio “Noiaaaaaaaaaaaaaaaa”, così, con un sacco di A. E qualche ora dopo: “Mi annoio e ho il mal di testa” che indica non solo che la noia precedente non è affatto passata ma che è peggiorata da uno stato fisico che già di per se lo mette in condizione di nuocere. Facendo un rapido riassunto di quello che ho appena appreso: a qualche decina di chilometri da casa mia, in una palazzina fatiscente, in un appartamento disordinato c'è un Chaku annoiato che ha il mal di testa. Sto per alzarmi e fare le valige, quando lui mi inchioda con la chat – e mi maledico perché sono stato io ad insegnargli ad usarla, faccine e tutto, cazzo. La finestra salta fuori all'improvviso ed è un po' come lui, piccola e isterica, e penso che se lui, fisicamente, potesse saltare fuori dal mio schermo farebbe proprio così. Plop!
“Che stai facendo?” Mi dice subito. Neanche mi saluta. Io medito di allontanarmi dallo schermo e fingere di non esserci già più; magari ho aperto la pagina per controllare gli ultimi messaggi ma poi non sono rimasto. Non ci sono.
“Patrick?”
Io osservo lo schermo in silenzio e lo vedo riempirsi, a distanza di mezzo secondo, di “Ci sei?” “Ma mi leggi?” “Non capisco mai se funziona questo cazzo di affare.” “Ma sto parlando?” che è come sentirlo borbottare dal vivo, perché fa così. Riesco perfino ad intuirne il tono e alla fine non riesco proprio ad allontanarmi, perché se lui fosse qui fisicamente non cambierei stanza ma lo farei smettere in qualche modo, fosse anche a badilante in testa. “Sì, ti vedo. Ero al bagno,” mento.
“Che stai facendo?” Ripete.
Sospiro perché questa è la tipica domanda che ti fa quando lui non sta facendo niente ed implica, in maniera molto velata, che qualunque cosa tu stia facendo devi smettere di farla per dedicargli attenzione o, al massimo, che devi fare qualcosa che lui possa fare con te, così almeno non si annoia più. “Niente, mi sono appena svegliato,” dico. “Ora faccio colazione.”
“Aspetta, ho fatto una torta ieri sera. Te la porto così mangi quella.”
Vorrei dirgli che no, se ne stia a casa sua, che magari mi va di fare colazione con la pizza al salame piccante avanzata da ieri sera o con del cibo cinese che tengo in frigo da tre giorni e poi se no va a male, o magari ho una zuppa di pasta e fagioli giusto per iniziare leggero. Solo che non glielo dico perché sennò poi ci rimane male, che non significa che metta il broncio ma che me lo rinfaccerà a vita quando poi, per dire, farà una cazzata, io gli dirò che ha fatto una cazzata e allora lui mi farà notare che le cazzate le fa sempre perché tanto io non sono buono a rallegrarmi nemmeno quando per una volta cerca di essere carino – tipo ora – e che non mi va mai bene niente. Quindi sospiro e accetto di fare colazione con la torta. “D'accordo, ma muoviti che ho fame.”
Lui non saluta e la prossima volta che lo vedo è quando mi suona il campanello.

*


Specifico che quando lui suona il campanello sono esattamente due minuti dopo che io mi sono alzato dalla sedia di fronte al pc, quindi inizialmente io non collego le due cose. Penso che la signora del piano di sotto sarà venuta di nuovo a lamentarsi perché tengo la musica troppo alta e lei ha un bambino di due mesi posseduto dal demonio che non dorme mai e urla come se andasse a fuoco notte e giorno senza però finire in cenere mai. Io adoro i bambini, ben inteso, e sono pure bravo a trattarci, ma questo secondo me ha dei problemi oggettivi e forse andrebbe fatto visitare. Io comunque ieri sera a casa non c'ero, quindi se qualcuno ha svegliato il pargolo in uno dei suoi rari momenti di sonno, quello non ero io e mi premurò di farglielo notare nel modo più gentile che conosco prima di aver fatto colazione.
Invece quando apro la porta c'è Chakuza.
Non me ne accorgo subito perché sono troppo impegnato a cercare di capire perché la signora del piano di sotto – tutto sommato una bella donna di quarant'anni con i capelli lunghi e castani – sia diventata notte tempo un uomo pelato e tracagnotto, con in mano un vassoio porta-torte. Visto che Chakuza parlava con me al computer nemmeno due minuti fa, mi sembra di stare guardando un'immagine impossibile, come quelle figure che ogni tanto vedi in giro, che non si capisce bene la prospettiva o la profondità. Io guardo Chakuza e penso che non può essere davvero lui, che dev'essere la signora del piano di sotto, eppure non può essere nemmeno lei perché non era pelata ieri. E non era nemmeno un uomo. “Ciao,” fa lui. Ed è indubbiamente la voce del Chaku, quella non si confonde, quindi dovrò ammettere la mia sconfitta nei confronti della realtà possibile.
“Che ci fai qui?” Chiedo, mentre lui entra in casa mia come fosse la nostra, o qualcosa di simile. Insomma, senza permesso. E a me non resta che chiudere la porta.
“Non ti avevo detto di aspettarmi che ti portavo la torta?”
“Sì, due minuti fa! Come diavolo hai fatto? Casa tua sta a mezz'ora da qui,” protesto. E poi mi rendo conto che c'è la possibilità che ciò non sia vero. “Non avrai cambiato casa?” mormoro sconvolto. Ed è un'ipotesi improbabile – ieri lui abitava ancora dove ha sempre abitato da che lo conosco – ma non impossibile – magari ha comprato casa da queste parti mesi fa e io non lo sapevo e ora ci si è trasferito e io non avrò più un momento di pace. Il panico.
Lui ride, e lo fa in modo fastidioso e cioè come uno che sa cose che tu non sai e ti guarda con aria di superiorità, cosa che lui non dovrebbe mai fare perché se ci sono cose che io non so, la probabilità che non le sappia nemmeno lui è molto alta. “No, scemo, ero già qui.” E mi mostra un telefono di ultima generazione, uno di quei modelli di cui lui non dovrebbe nemmeno intuire l'esistenza. Qualcosa di paragonabile allo scarico automatico del gabinetto per un uomo del medioevo.
“Quello è un BlackBerry,” dico molto stupidamente.
“Sì così mi hanno detto,” fa lui, rigirandoselo tra le dita come una forma di vita aliena.
“Tu non sai usare niente che funzioni con un sistema operativo,” gli faccio notare. “Chi stava parlando con me su Facebook se tu eri fuori dalla porta di casa mia a-Che poi cosa ci facevi là fuori, Cristo Santo, sei inquietante!” Sono sconvolto, mi aggiro per il salotto intorno a lui e mi passo le mani sopra la testa. Magari è anche pericoloso.
“Infatti non l'ho nemmeno acceso. E' stata la commessa del negozio qui sotto a fare tutto, lo ha programmato, ci ha fatto robe, non so,” mi dice lui, continuando a sorridere a questo telefono che scintilla da quanto è nuovo. “Così le ho chiesto se potevo anche andarci su internet e lei ha detto sì certo. E così io le ho detto: anche su Facebook? E lei: tutti i siti. Così mi ha fatto vedere e tu eri lì, così ho scritto, anche se questa tastiera è piccola e premo un sacco di tasti insieme.”
Sono sempre più sconvolto. E' come uno scimpanzé in un laboratorio. Sono certo che quelli del negozio gli abbiano dato quel telefono per studiare le reazioni di un uomo allo stadio primordiale di fronte alla tecnologia. Dev'essere uno studio sociologico. “Hai comprato un telefono di quella portata perché poteva andare su internet?”
“No, perché la commessa era carina,” fa lui, con una scrollata di spalle mentre si infila il prezioso oggetto in tasca. “E perché mi annoiavo.”
Mentalmente ringrazio che quest'uomo qui non abbia a disposizione cifre da capogiro, o ci ritroveremmo con un secondo Bushido. Anis è stato capace di comprarsi due moto ad acqua e tre appartamenti perché si annoiava (e probabilmente anche perché chi glieli ha venduti era carino). Non so neanche perché ringrazio, visto che i soldi sono suoi, ma insomma. Forse ho paura che un giorno si presenti qui e mi dica: Vieni a vedere con me la mostra dei camper a Stoccarda? L'ho comprata! Con le braccia alzate e la testa pelata in mezzo, come quando scrivi sul twitter.
“Comunque quest'affare è scomodissimo, quindi credo che lo regalerò a mia sorella,” conclude, mentre si appropria anche della mia cucina come fosse la sua e mi mostra la sua creazione, che è una roba allucinante con la panna, la cioccolata e la base di pan di Spagna, qualcosa che deve aver impiegato ore e ore a fare, mica che ha aperto una scatola, ha versato in una tortiera e via.
“Faccio un po' di caffè?” Chiedo, guardando la torta che non è una torta da colazione, è qualcosa da dopo pranzo, ma visto che ci siamo quasi tanto vale...
“Sì bravo, ci sta bene,” approva lui e tira fuori piattini e tazzine e tovagliette e forchette minuscole che non so dove abbia trovato.
“E quelle cosa sono?”
“Forchettine da dolce,” risponde lui, disponendo i tovaglioli a forma di uccello del paradiso, tipo, non lo so ma li sta piegando in maniere che non credevo possibili e di cui non vedo l'utilità visto che stiamo per mangiare, io e lui, una fetta di torta mica è una cena elegante con mille invitati.
“D'accordo, ho sbagliato domanda: a chi hai rubato quelle forchettine da dolce?” Chiedo. Perché non ho mai posseduto niente del genere.
Lui le sistema col calibro e ci manca solo che si allontani dalla tavola per vedere la prospettiva della brocca del latte. “A nessuno, Fler,” mdi dice sistemando un uccello del paradiso sulla tazzina. “Sono tue, te le ho comprate io due mesi fa perché il tuo servizio di posate era incompleto.”
Il mio servizio di posate era... cosa? Ma dico, quest'uomo ha in bagno un boiler che perde acqua da quasi due anni e viene a dire a me che sono manchevole di forchette lunghe dieci centimetri per mangiare un accidenti di dolce? “Me le hai comprate? Mi hai comprato delle posate?”
“Sì e tu non te ne sei nemmeno accorto,” mi dice intanto che mi serve la torta. “Com'è?”
“Buona,” ammetto. “Meglio di quella della settimana scorsa.”
“Eh lo so, ho capito dove sta il trucco,” commenta annuendo. Gli unici dialoghi che il suo cervello è in grado di sostenere con una certa chiarezza sono quelli sul cibo. A tavola Chakuza ritorna ad essere un essere umano senziente. “E insomma?”
Io inghiotto un altro pezzo di torta e mi lecco la panna dalle labbra. “E insomma cosa?” Chiedo.
Lui mi guarda e non ha nessuna espressione. O meglio, ha quell'espressione che significa, più o meno: Mi pare che quello che voglio dirti sia chiaro, non lo leggi sul mio viso? Là, proprio in mezzo ai miei occhi verdi e rotondi.

*


E insomma, non si scopa?
Questa era la domanda che aleggiava nel vuoto del suo cervello. Là dentro, fra gli ingranaggi messi in moto dai gerbilli, doveva essere una sequenza piuttosto logica: aveva cucinato, aveva mangiato, si era un po' annoiato e ora doveva espletare quest'altra funzione primaria, come se i suoi lombi perdessero elasticità se privati della loro ginnastica quotidiana. E io, nella mia persona di compagno di letto fisso, dovevo occuparmi di tale incombenza, naturalmente.
E fin qui mi va anche bene, perché non è che sto con lui e poi lui mi va a scopare in giro solo perché ha delle necessità superiori a qualsiasi altro essere umano io abbia mai incontrato. Insomma, visto che lui non si adatta – ci ha provato ma è davvero infattibile, poi magari un giorno vi dirò – mi adatto io e prendo un sacco di integratori e faccio palestra per reggere il suo ritmo. Ma ho un limite. E quel limite lo superiamo quando sono le ventitré – un due e un tre sulla mia cazzo di sveglia – e noi non ci siamo mossi da questo letto mai, tranne una volta che lui si è alzato e ha corso – ha corso nudo e felice, e il solo ricordo del suo sedere che si avvia gioioso verso la cucina mi provoca stati d'animo da terapia pluriennale – per recuperare la torta alla panna e ricominciare a scopare con l'ausilio della sua creazione culinaria, che è poi il suo sogno erotico definitivo: sesso e cibo. Olè.
Dopo che ha sospirato soddisfatto per l'ennesima volta, approfitto del momento in cui si stende e si stira per tirare il fiato e appoggiarmi al braccio che tiene sul mio cuscino, un po' perché mi piace questa specie di coccola e un po' perché se magari gli impedisco l'uso di una mano, l'altra non sarà sufficiente a ricominciare di nuovo. Le palle, naturalmente.
“Spero ti sia passata la noia,” commento, ridendo.
Lui sorride, guardando il soffitto e io osservo come gli si stringono gli occhi quando lo fa. “Quasi. Credo di avere ancora un po' di noia da smaltire.”
“Non guardare me,” commento. Mi fa male tutto, non solo le parti più ovvie.
Lui si gira verso di me e mi striscia addosso approfittando del fatto che lui ha la capacità di ricaricarsi in dieci minuti mentre a me ci vogliono le ore e anche delle dormite e in generale del riposo fisico e mentale. Ha una mano tra le mie gambe l'attimo dopo ma credo che anche lui, lì, sia troppo stanco per dargli retta.
“Posso provare a darti delle buone motivazioni?” Mi chiede, mordendomi il collo.
E io penso che quest'uomo non è veramente umano e non è veramente neanche una scimmia, non so cosa sia. Forse è semplicemente ancora un adolescente, perché anche io ero così da ragazzino, ed era un casino con Anis che mi prendeva sempre per il culo perché mi bastava vedere un paio di cosce per dovermi sistemare tra le mutande, a ripetizione. E lui che c'era già passato si sentiva abbastanza sicuro del proprio corpo da poter ridere del mio. Chakuza di questo stadio disastroso della crescita ha fatto uno stile di vita. Indossa la sua erezione quasi-permanente con disinvoltura e la moda dei pantaloni larghi lo aiuta a non essere arrestato per atti osceni in luogo pubblico. La moda lo spalleggia e gli dà un alibi. Ora forse capisco perché alla fine a scelto di fare il rapper e non il cuoco: il grembiule bianco non lo avrebbe coperto abbastanza.
“Peter, dico sul serio...” piagnucolo, mentre mi allarga le gambe con un ginocchio e le sue mani tentano di rianimare ciò che è morto da due ore, credo. “ ...non c'è più speranza, per oggi.”
Lo sento ridacchiare mentre mi morde sotto il lobo dell'orecchio, ora che ha la mappa delle mie zone calde non ce n'è più per nessuno, e difatti sento l'interruttore in fondo allo stomaco che scatta di nuovo. Mugolo e gli dico che è uno stronzo.
“Lo so,” fa lui e mi accarezza così piano che sono io, ad un certo punto, a muovermi contro di lui e giuro che lo ammazzerei se in questo preciso momento ammazzarlo non fosse l'ultimo dei miei problemi. So che domattina odierò la mia vita perché sarò così a terra da non voler nemmeno alzarmi per fare la doccia, eppure dovrò farla. Ne dovrò fare due, anzi, perché probabilmente lui domattina sarà ancora qui – dove vuoi che vada a quest'ora e tutto nudo, poi – quindi mi seguirà nella doccia e lì si sentirà abbastanza fresco come una rosa da salutare il nuovo giorno nello stesso modo con cui ha salutato quello vecchio. Ma in questo momento, naturalmente, non m'importa di nulla perché si è già sistemato dove deve e i suoi baci sanno ancora di panna e cioccolato, quindi mi ci sono perso alla grande. Penso distrattamente che la sensazione fantastica di sentirlo spingere dentro di me è ancora dieci volte più forte dell'indolenzimento generale, quindi forse il mio limite di sopportazione non l'ho ancora superato. Stringo le ginocchia intorno ai suoi fianchi e m'inarco un po' perché lui non perde di forza, ad un certo punto, ma perde un pelo di precisione per cui se non mi sistemo finisce che domattina la torsione della mia schiena sarà una roba incresciosa. Quando mi sposto lui si risente, perché aveva preso il suo ritmo, così mi afferra per un fianco e stringe, tenendomi lì dove sono mentre pianta bene l'altra mano fra quel disastro di lenzuola che è ora il mio letto, come a dirmi di non prendere iniziative, che poi sennò gli scombino i piani. E' un sacco esigente quest'uomo qui, e ci sarebbe anche da rimetterlo in riga con due urla a volte, ma sono così stanco che la prendo anche un po' sul tenero. Va bene, Chakuza, mi va bene anche così, sistemami un po' come vuoi ma non ti fermare perché è stupendo e non so come abbiamo fatto a riuscirci visto che sono troppe ore che siamo qui e non sarebbe umanamente possibile.
In lontananza sento suonare delle campane. Ovviamente non conto i rintocchi ma mi viene da guardare la sveglia. E' mezzanotte, mi sembra. Non faccio in tempo perché sento di nuovo la panna, la cioccolata ma, soprattutto, questa volta sento Peter. Ovunque. Sulla lingua, dentro e addosso. Mentre lo penso, lui lo dice: “Buon compleanno”, in un soffio sulle mie labbra. Quando apro gli occhi ci trovo i suoi e per qualche motivo che forse ha a che fare con l'incredibile quantità di tempo che il suo corpo ha toccato il mio senza che ci irritassimo a vicenda, mi sembra che quelle due parole stiano anche per qualcos'altro. Su quel pensiero, però, metto appena le dita e poi mi sfugge di nuovo e non so più chi di noi due stia espirando in maniera così liquida. Molto probabilmente entrambi.

*


Il giorno del mio ventottesimo compleanno mi sveglio senza sapere chi sono e senza ricordarmi che è il mio compleanno, per giunta. La prima cosa che vedo è il bianco del cuscino e solo dopo, molto lentamente, ritorno consapevole del mio corpo un pezzo alla volta, quando i muscoli ricominciano a fare male. Maledico Chakuza anche senza sapere che lui è effettivamente in questa casa, da qualche parte, perché so per esperienza personale che nel novanta percento dei casi se mi sveglio in questo stato è colpa sua. Ho la bocca impastata e la gola riarsa e con ogni probabilità non sono nemmeno un bello spettacolo in generale. Voglio morire.
Forse mi riaddormento, però, perché quando riapro gli occhi sul mio cuscino e su di me c'è un'ombra scura che quando mugolo qualcosa ride e allora capisco che si tratta di Peter, il quale è probabilmente in piedi da una mezza eternità perché lui dorme due ore e già gli basta. Penso che forse è anche pomeriggio e che lui ha avuto la possibilità di fare chissà quali danni stando in casa da solo ad annoiarsi. Quasi piango al pensiero che in cucina ci sarà già pronta una cena da venti portate. Dovremo invitare gente a cena, non ce la posso fare. “Dimmi che almeno non hai fatto l'arrosto,” è la prima cosa che dico. L'arrosto cuoce per ore e siamo in aprile. Fa caldo per l'arrosto.
“No, niente arrosto. Li apri gli occhi, sì?”
E io li apro sostanzialmente perché me lo dice lui e so che, se non lo faccio, lui me lo chiederà ancora e ancora e ancora finché estenuato o morto non farò come dice lui. Lo metto a fuoco solo dopo due minuti e lui è vestito di tutto punto, ha su perfino il cappellino e sorride. “Buon compleanno,” mi dice e quando lo fa a me viene in mente quando l'ha fatto stanotte, così mi copro il viso con una mano e faccio finta di stropicciarmi gli occhi.
“Che ore sono?”
“Le undici,” e mi passa un vassoio con tanta di quella colazione che potrebbe bastarmi per tutta la settimana. Chakuza mi nutre più di mia madre, ecco perché lei lo adora. Perché sa che non mi farà mai morire di fame, cascasse il mondo. “Potevo lasciarti dormire ma-”
“Come perdere l'occasione di scassare le palle?” Dico.
Lui mi tira uno scappellotto che però poi si trasforma in una carezza e io sono confuso da quest'uomo, stamattina. “No, ma è il tuo compleanno, quindi forse non ti andava di perderlo dormendo.”
Io alzo lo sguardo e lui mi sorride di nuovo: non più annoiato, ha già cucinato, ha pure scopato ed è tipo... a posto. Ha la faccia di uno che è lì per te. E io ce lo voglio, Dio Mio. E' questo che mi spaventa, credo. Si è anche ricordato che odio perdere le mattine, soprattutto quelle del mio compleanno. “Facciamo quello che vuoi, che ne dici?” Esclama. “Sono ai tuoi ordini. Dimmi che devo fare.”
Io lo guardo, guardo la casa e guardo il vassoio di legno a cui nessuno aveva mai dato un senso se non lui, come anche a tutto quanto il resto: il grembiule, la cucina, la casa. Me.
E penso: resta, ecco che devi fare.
Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Note: Il 23 febbraio 2010, Fler è stato colto da uno dei suoi attacchi di voglia di comunicare al mondo cose di cui al mondo non frega niente e su Twitter ci ha segnalato il ristorante “La Cantina” come uno dei più buoni ristoranti del mondo (qui le prove). Con Fedy abbiamo subito intuito che c'era una trama dietro tutto ciò, quale che fosse, e così è stato. Non so se mia figlia volesse mandare Fler all'ospedale, ma tant'è ci è finito. Vorrei concludere queste note sottolineando il fato che Patrick non si è sentito male per il cibo ingerito, ma per il freddo. Sia mai che il signor Pascarella passi di qua e, con l'aiuto del fido Raf, pensi che ho usato la fic per infamargli il ristorante! D: Anzi, sono convinta che sia un ottimo locale e abbiamo già deciso di svenarci e andare a mangiarci quando saremo a Berlino ^O^

Riassunto: Per qualche istante rimango a guardare il vicolo buio aldilà del parabrezza: gli ultimi cinque minuti sono stati un delirio e non riesco a capacitarmi di come un attimo fa fossimo su una strada principale e adesso siamo incastrati in questo buco di merda dal quale non so come uscire. O forse mi sembra tutto assurdo perché sono ubriaco.
LA CANTINA


“La Cantina” è un ristorante italiano di Charlottenburg che frequentiamo più o meno assiduamente da quando conosciamo Raf Camora, vale a dire da sempre.
Raf non ha soltanto origini italiane, ma è così italiano di natura che non sembra neanche tedesco e, come tutti gli italiani in terra straniera – e non lo sto dicendo con cattiveria, anzi – è in grado di fraternizzare con chiunque provenga dal suo paese a tal punto da diventare parte di famiglie che magari non conosceva fino al giorno prima e con le quali non ha neanche il più lontano legame di parentela. Quindi, in sostanza, noi “La Cantina” non è che la frequentiamo come si potrebbe dire di qualsiasi altro locale, bensì il padrone del ristorante ci ha adottati tutti e adesso siamo i suoi figli e ci tratta come se effettivamente ci avesse cresciuti lui.
Il proprietario de “La Cantina” si chiama Giuliano Pascarella e ha la tipica faccia da italiano e lo dico come direi che io ho la tipica faccia da austriaco, col naso un po' tondo e i capelli neri tutti ben pettinati con la riga laterale, che sembra uscito da “Il Padrino”, con lo stesso accento però senza la mafia.
Quando entriamo, non importa in che parte del ristorante si trovi, lui ci saluta a gran voce in italiano e intanto chiama la moglie e spiega ai presenti chi siamo e cosa facciamo, tutto contemporaneamente.
La moglie Annunziata è una signora convinta che nessuno di noi mangi abbastanza e che per questo serve tre o quattro volte anche personalità del calibro del sottoscritto, che peso due volte in più di quanto dovrei vista la mia altezza. Io non faccio in tempo a finire la prima porzione di pasta – un totale di circa mezzo chilo di spaghetti con altrettanto condimento – che lei è già lì con la pentola in mano direttamente dalla cucina e mi chiede, sorridendo “Peter, un altro poco di spaghetti con le vongole, li mangi sì?” Il suo tedesco è buono, anche se ha un forte accento, ma spesso non lo usa perché tanto sa che se si avvicina con la pentola capisco cosa sta dicendo anche se parlasse siciliano stretto, cosa che credo faccia per altro.
Io di solito cerco di rifiutare gentilmente, scuoto la testa e agito anche le mani, ma lei continua a sorridere e mi serve un altro mezzo chilo di spaghetti. “Peter, non farai i complimenti, vero?”
E io, “No, signora, si figuri. Sono buonissime.”
“Allora prendine un altro poco,” dice lei e me ne mette nel piatto più di quanto fossero prima per poi aggiungere la temutissima frase: “Che non hai mangiato niente e sei tutto sciupato.”
Dopo tre o quattro anni che frequenti il ristorante, capisci che saresti sciupato anche se fossi appena uscito da una settimana in cui non hai fatto altro che mangiare e questo perché in quella settimana non avrebbe cucinato lei. Il concetto di sciupato, per la signora Annunziata, coincide con pessima cucina che coincide con qualsiasi altra cucina che non sia la sua. E in un certo senso ha anche ragione, perché le sue scaloppine sono una roba paradisiaca che rasenta quasi l'orgasmo (ho detto quasi) ma, in tutta onestà, io non lo so se il mio fegato sopravviverebbe ad una settimana di cucina casalinga della signora Annunziata. E vivo in Germania, voglio dire, mangio crauti e wurstel e arrosti di carne grossi come bambini di sei anni, mica due foglie di lattuga e tre chicchi di riso; eppure ogni volta che usciamo dopo antipasti, due primi, tre secondi, formaggi, dolce, caffè e ammazza-caffè mi sento morire e giuro che non entrerò mai più in questo ristorante, salvo poi farlo a distanza di massimo tre settimane.
Come stiamo facendo adesso, ad esempio, che siamo qui a festeggiare l'uscita del nuovo album di Raf e, già che ci siamo, anche il mio compleanno visto che più o meno cadono nello stesso periodo.
Per questo motivo, mi sono tirato dietro Fler che non poteva certo rimanere a casa il giorno del mio compleanno. Lui generalmente non è uno che si fa problemi anche se lo trascini in un posto nuovo, in mezzo a gente che non conosce bene ma essere qui, stasera, lo mette un po' a disagio forse perché nessuno dei presenti ha la minima idea che andiamo a letto insieme e noi non siamo un cazzo bravi a nasconderlo.
Raf ha telefonato due giorni fa per prenotare e il signor Giuliano ci fa trovare il tavolo già preparato. In realtà i tavoli del ristorante sono tutti da due, così lui ne ha composti sei insieme per fare un tavolo molto più grosso, sul quale già troviamo tre vassoi di antipasti. “Questi li offre la casa!” Esclama il padrone del ristorante e Raf ringrazia per tutti in italiano. Fler si accomoda vicino a me e si stupisce un po' dell'atteggiamento del nostro ospite che in realtà non ci chiede niente, neanche cosa vogliamo da bere e decide lui per tutti, continuando ad inframezzare lunghe frasi nella sua lingua madre alle poche spiegazioni che ci dà.
Raf ci chiarisce brevemente che il signor Giuliano vuole assolutamente farci assaggiare un Chianti che gli è appena arrivato. Questo indipendentemente dal fatto che il vino stia o meno bene con quello che poi mangeremo ma, dal momento che prevedibilmente sceglierà lui pure quello, diciamo che possiamo adattarci.
“Il menù è in italiano,” mi fa notare Fler, indicandomi col dito le pagine aperte.
“Sì, lo so,” annuisco. “Quando riusciamo, facciamo ordinare Raf ma il più delle volte è il proprietario che sceglie.”
“Come sarebbe a dire?”
“Fidati.” Chiaramente non posso sapere quanto quell'imperativo si trasformerà, di lì a breve, in una delle più grosse catastrofi che gli potessero mai capitare. D'altronde già di base non sono proprio intuitivo, figuriamoci quanto posso prevedere di situazioni sulle quali, oggettivamente, non ho il minimo controllo.
Il Signor Giuliano torna dalla cantina con una bottiglia di vino rosso come il sangue che stappa davanti ai nostri occhi e si premura di versare nel bicchiere di Raf, al quale tocca fare da sommelier più perché capisce cosa ci sia scritto sull'etichetta della bottiglia che non per le sue doti effettive. Lui però si dà un sacco di importanza, rimescola il vino nel bicchiere, lo annusa e poi, dopo averlo assaggiato con aria competente, schiocca le labbra ed esclama “Delizioso, versane a tutti!”
Non importa se siamo tedeschi, il vino italiano è pesante. E anche se fosse leggero, alla fine farebbe peso la quantità che ogni volta ne ingurgitiamo perché è tanto buono. Così l'esclamazione di Raf si trasforma molto presto in sei uomini vagamente brilli con davanti del cibo che non hanno esattamente ordinato, quanto scelto in base a quanto somigliassero o meno certe parole italiane a delle parolacce.
Due ore dopo, senza aver mai effettivamente smesso né di mangiare, grazie alla signora Annunziata e alla sua fedele pentola dell'esercito, né di bere, grazie al buon signore Giuliano e al suo fedele apri-bottiglie-di-buon-Chianti, ci ritroviamo fuori dal locale e veniamo travolti dalla folata di vento più gelida degli ultimi trent'anni. E credo che sia lei in collaborazione con uno dei sei piatti di carne con i peperoni, che ci portano al vicolo buio, all'ospedale e poi a tutto il resto, ma andiamo con ordine.
Usciamo dal locale costatando che fa un freddo porco e la prima cosa che ci viene in mente è che potremmo anche andare in qualche locale al caldo invece di tornare a casa. Giusto perché siamo persone serie. Fler però mi tira da parte e mi dice “Non credo di sentirmi bene” e riesce ad essere estremamente convincente mentre lo dice perché un attimo dopo mi vomita quasi sui piedi la Pastiera Napoletana e i cannoli siciliani praticamente interi. Bene, penso, partiamo dal fondo.
“Scusa,” fa lui.
Io mi controllo la scarpa alla luce di un lampione. “Fa niente, meglio qui che in macchina,” commento, “Meglio se andiamo a casa. Ce la fai?”
Lui non segue proprio una linea dritta ma in qualche modo riesce a barcollare fino alla mia auto e a lasciarsi andare sul sedile del passeggero, appoggiando la fronte al finestrino quasi congelato. “Non so nemmeno se sono più ubriaco o più nauseato. E mi fa male lo stomaco.”
“Qualunque cosa sia,” gli dico lanciandogli un'occhiata e finendo di allacciarmi la cintura. “Sarà meglio che togli la testa di lì, il freddo non ti fa bene.”
Lui mugola durante tutto il processo che lo porta a staccare la fronte dal vetro, spostare la testa e poi appoggiarla di nuovo all'indietro sul sedile. E' una sola nota molto bassa.
“Adesso andiamo a casa,” cerco di rassicurarlo, vagamente consapevole di che marcia sto mettendo e di che direzione ho preso. Sono ubriaco, vorrei ricordarlo.
Lui non dice niente e rimane abbandonato sul sedile per un quarto d'ora prima di tirarsi su di scatto e mettersi ad urlare, tipo. “Fermati!” Mi fa, tenendosi lo stomaco e la fronte. “Chaku, ferma la macchina!”
“Che ti prende?”
“Ferma la cazzo di macchina,” urla, voltandosi verso di me.
“Non posso fermare la cazzo di macchina in mezzo alla strada,” replico stizzito perché sono buono e caro finché non mi rompo le palle. “Fammi almeno accostare!”
“Allora fallo in fretta perché sto per vomitarti in macchina.”
Io svolto a destra senza nemmeno guardare, a caso proprio. I sedili di questa macchina costano un occhio della testa, sono una di quelle cazzate che fai con i primi soldi veri che ti ritrovi in mano dopo un cd. C'è chi compra la casa, chi l'impianto stereo. Ecco io ho comprato la macchina e ho preso il modello che aveva i sedili più esagerati, comodi ed eccessivi che ci fossero in commercio. Peccato che per farli lavare dovrei vendere, tipo, mia sorella e anche in quel caso forse riuscirei a smacchiare solo quelli anteriori. Quindi svolto, m'infilo in un vicolo che la macchina ci passa appena e prego tutti i santi che conosco di averlo imboccato per il verso giusto, altrimenti per non dover lavare i sedili, dovrò rifare tutta la macchina. Non appena mi fermo Fler rotola letteralmente fuori dall'auto, vomitando a nastro nemmeno dieci centimetri più in là della portiera che si è aperta per culo senza incastrarsi nel muro.
Per qualche istante rimango a guardare il vicolo buio aldilà del parabrezza: gli ultimi cinque minuti sono stati un delirio e non riesco a capacitarmi di come un attimo fa fossimo su una strada principale e adesso siamo incastrati in questo buco di merda dal quale non so come uscire. O forse mi sembra tutto assurdo perché sono ubriaco.
Alla fine mi ricordo di Fler e lancio un'occhiata fuori dalla portiera. Lui è in terra carponi e continua a vomitare come se non ci fosse un domani. “Tutto bene?” Chiedo.
“Secondo te?” E poi riprende a vomitare.
Faccio una smorfia perché anche il suono mi da fastidio. “Serve una mano?”
Per un po' non risponde e credo che a questo punto sia anche arrivato ai primi, poi lo sento sputare e grugnire qualcosa. “Perché, vuoi venire a vomitare tu al posto mio?”
Sospiro e poi mi sposto sul suo sedile, per raggiungerlo. Fuori dall'auto non si vede una sega perché l'unico lampione del vicolo è stato sfasciato. Riesco ad intuire il suo profilo e lo trovo seduto in terra, con la schiena appoggiata al muro. Volta la testa verso di me, ansimando. “Sto uno schifo.”
“Lo vedo.”
“Dove cazzo mi hai portato a mangiare?”
“Non credo sia stato-”
Ma lui non mi ascolta. Si piega di lato e riprende da dove aveva interrotto. E quando il suo stomaco gli concede altri due minuti di pausa li usa per cercare di guardarmi con aria sconvolta. “Non smetterò mai più,” mormora. “Cazzo...”
Si tiene di nuovo lo stomaco mentre prova ad alzarsi e non ci riesce. Per una volta ringrazio di essere piccolo ed esco comodamente dal lato del passeggero, nonostante la portiera impedisca in parte il passaggio. Lo aiuto a sollevarsi, ma barcolla e ha i sudori freddi.
“Portami a casa,” mi fa, deglutendo quello che presumo potesse essere un nuovo conato. “Ho un mal di testa da paura e non mi reggo in piedi.”
Ha le mani freddissime, però, e gli occhi quasi febbrili.
“Credo sia congestione, Pat.”
“No, che congestione...” fa lui e poi inciampa o non si regge in piedi.
“Forse è meglio se ti porto al pronto soccorso.”
“No, ma che pronto-” Non fa in tempo a dirlo che mi si accascia praticamente addosso. Non ha perso i sensi ma quasi. Annuisce. “Okay, andiamo.”

*


Nella sala d'attesa del pronto soccorso ci sono decine di persone, come se mezza Berlino avesse deciso di sentirsi male proprio stanotte. Al banco dell'accettazione faccio presente all'infermiere di turno che Patrick non sta semplicemente male ma credo che abbia una congestione. Quello mi guarda senza scomporsi di una virgola da dietro il bancone, alza lo sguardo su Fler che se ne sta piegato in due su una seggiolina e mi chiede: “E' sicuro?”
“No, se fossi sicuro sarei medico e invece si dà il caso che sia un rapper,” rispondo. “Però abbiamo mangiato parecchio stasera e quando siamo usciti dal ristorante abbiamo preso un colpo di freddo. Il mio amico ha le vertigini, i sudori freddi e non si regge in piedi!”
“E' sicuro che non faccia uso di droghe?”
“Sono sicuro che abbia mangiato un chilo e mezzo di arrosto d'asino e almeno mezzo chilo di pasta con le vongole. E che fuori ci sono meno dodici gradi,” sibilo. “Ha mal di stomaco, non una crisi d'astinenza.”
“Vomita?”
“Sì, vomita,” replico. E come se fosse telecomandato, Fler si volta sulla sua seggiolina e ridipinge il pavimento con le lasagne. Io quasi sorrido trionfante. “Le va bene così, o ne vuole di più?”
A quel punto l'infermiere decide che può occuparsi di Patrick che si sta dispiacendo per il danno fatto sul pavimento. Lo portano in una stanza e lo fanno stendere su un letto, avvertendolo che il medico arriverà subito.
Il medico è una signora di mezz'età alta poco meno di me, il che la rende a tutti gli effetti uno gnomo da giardino e si aggira intorno al letto di Fler muovendo due piedini minuscoli infilati in due scarpe comode da farmacia. “Il suo nome?”
“Patrick,” risponde lui con una vocina dall'oltretomba, seguita da un suono che credo sia l'avanguardia dell'ennesimo conato.
“Mangiato pesante? Preso freddo? Bevuto ghiacciato?” Spara lei a raffica, piantandogli una mano sulla fronte in maniera spiccia. “Di certo non è stato troppo sotto il sole con questo tempo, eh?”
Fler la guarda vago, forse non capisce nemmeno bene cosa gli sta dicendo. La donna apre l'armadio vicino al letto e tira fuori due cuscini, voltandosi verso di me. “Lei che mi dice? Mi aiuti a tirargli su le gambe.” Io obbedisco e insieme sistemiamo i cuscini sotto le sue ginocchia.
“Ha preso freddo mentre uscivamo dal ristorante,” ripeto. Lei intanto annuisce e poi chiede ad una delle infermiere di portare delle coperte e una borsa dell'acqua calda. “Poi ha iniziato a vomitare e non ha più smesso. Dice di avere mal di testa.”
“E i crampi...” fa lui, debole.
“E' una congestione in piena regola,” decreta lei con il sospiro di chi ha attaccato da due ore e ne ha davanti ancora sei. “Lo teniamo qui in osservazione, ma direi che per domattina potremo restituirglielo.”
L'infermiera torna con la coperta e la borsa dell'acqua calda e gliele sistema tutte e due sulla pancia. Fler si lamenta un po' ma poi sembra calmarsi.
“Gli facciamo una flebo tanto per stare tranquilli.”
Io annuisco e visto che Fler ha allungato una mano verso di me, io gli stringo le dita senza pensarci due volte. Lo sguardo della donna cade sulle nostre mani e lei fa una specie di sorrisetto di traverso, con solo metà della bocca. “Se vuole restare le faccio portare una coperta,” mi dice. “Ma guardi che non è niente di grave.”
Io mi sento improvvisamente in imbarazzo perché alla fine lo tengono qui per la nausea e siamo due uomini adulti e tutto il resto. In più non ho mai fatto la notte nemmeno a mio padre quando lo hanno operato al cuore e mi sembra surreale rimanere qui adesso, visto che Patrick non ha praticamente quasi più niente. Solo che non me ne voglio andare e poi ormai non ho più sonno. “Non saprei,” prendo tempo.
“Resta,” dice subito Patrick. “Gli dia la coperta.”
La donna alza gli occhi al cielo. “Immaginavo,” dice con una risatina e poi mi strizza l'occhio. “Ma dovrà dormire sulla sedia perché non abbiamo letti,” mi dice mentre esce dalla stanza.
Io aspetto che la mia coperta arrivi e intanto sposto la poltroncina vicino al letto di Fler che segue tutti i miei movimenti molto lentamente ma ha una faccia molto più rilassata e già meno verde.
“Ti senti un po' meglio?” Chiedo.
Lui annuisce. Poi ride e la fatica di farlo lo costringe ad un colpo di tosse. “T'immagini se ci vedesse qualcuno?”
“Sarebbe la cosa meno imbarazzante che abbiamo fatto.”
“Vero.” Sospira, poi si guarda intorno, nascondendosi di più sotto la sua copertina. “Non mi piacciono gli ospedali.”
“Non piacciono a nessuno.”
“A me meno che agli altri,” s'impunta lui. “Mi mettono il nervoso, non riuscirò a dormire. Stai sveglio con me tutta la notte?”
Io sollevo un sopracciglio. “Ti addormenterai fra meno di dieci minuti.”
“Non è vero,” sbadiglia. E poi chiude gli occhi con cinque minuti di anticipo sulle previsioni.

*


Sono le undici e mezza del mattino e io mi trovo nel bagno di un ospedale a cercare di darmi una sistemata con un sapone che puzza di disinfettante e degli asciugamani numerati che sono di uno squallido che la metà basta. Mi guardo allo specchio e penso che ho visto giorni migliori, il che detto da me significa che si tratta senza dubbio di una situazione ai limiti della catastrofe psico-fisica, ma d'altronde dopo la notte che ho passato non posso certo sperare di essere fresco come una rosa quando a stento riesco ad esserlo dopo una settimana di riposo.
Torno in camera e Fler ha appena finito di vestirsi. La dottoressa lo ha visitato e lo ha trovato a posto: niente giramenti di testa, niente mancamenti e soprattutto niente nausea. Alla fine è bastato stenderlo e re-idratarlo. Niente di più. Già che c'erano gli hanno fatto gli esami del sangue e quelli delle urine, stamattina, così ora me lo riconsegnano meglio di quando ce l'ho portato: ha fatto il tagliando.
“Andiamo, sei pronto?”
Lui annuisce e si sistema meglio il giubbotto di pelle, per il quale prova dell'amore maniacale. Ogni volta che se lo toglie e se lo mette deve cadergli perfetto e finché il riflesso che vede nello specchio non lo soddisfa, non si muove di casa. Ieri ci ha quasi vomitato sopra più di una volta, è una fortuna che non fosse in sé per rendersene conto.
“Devo andare in ufficio, stamattina,” mi comunica mentre saliamo in macchina. “Ma devo prima passare da casa, ti dispiace darmi uno strappo?”
“Nessun problema.”
Intanto lo vedo che tira fuori il telefono e ci digita sopra come un forsennato, il che può voler dire soltanto una cosa: twitter. Da quando ha scoperto quello strumento del demonio, non passa minuto che non comunichi al mondo quello che sto facendo.
Sto andando allo studio.
Sto giocando ai videogiochi.
E' una bella giornata.
Ho fatto la cacca.
A volte mi chiedo se non dovrei farlo disintossicare o robe simili. Sono certo che da qualche parte nel mondo c'è un Anonima Utenti di Twitter a cui potrei rivolgermi perché lo aiutino. “Stai avvertendo i tuoi innumerevoli fan che stanotte hai sofferto le pene dell'inferno?”
“Non posso,” fa lui. E si rimette il telefono in tasca. “Ho una certa immagine, sai.”
“Ah certo,” commento ridendo. “Beh, non mi dici cos'hai scritto?”
Fler sorride. “Ho fatto pubblicità alla Cantina,” risponde, come se fosse la cosa più normale da fare quando il tuo ricordo più recente legato a quel ristorante è il menù che hai rimesso per almeno dodici volte. “Abbiamo mangiato da Dio. Peccato aver lasciato tutto per strada da Charlottenburg fino a qui. Quando ci torniamo?”
Tra massimo tre settimane, naturalmente. Come sempre.
Personaggi: Chakuza, Fler
Genere: Humor, Romantico
Avvisi: Slash
Rating: R
Note: Dunque, la sola rilettura di queste quindici pagine mi ha fatto perdere un'ora e temo il momento in cui dovrò postarla, a parte questo mi chiedo come ci sia arrivata, io, a quindici pagine ma suppongo che sia tutto merito di Chakuza che quando attacca a parlare bisogna sparargli per spegnerlo. A tal proposito, questa storia è stata scritta appositamente per il compleanno di Chakuza, al secolo Peter Pangerl, anche se non so come potrebbe mai fargli piacere un regalo di compleanno in cui Patrick “Fler” Losensky lo porta in un centro benessere per copulare felici. La coppia in questione è dedicata a Fedy che la voleva disperatamente: dovevo accontentarla visto che negli ultimi tempi l'ho devastata con il Bikuza in ogni sua forma e colore. Figlia, spero che la storia ti piaccia (lo chiedo a te perché non vorrei mai trovarmi nella condizione di chiedere a Chakuza la stessa cosa o.ò). E basta, credo. Buon compleanno, patato tondo!

Riassunto: Per il tuo compleanno ti porto in un posto speciale.
SPA IS FOR PORN


Il mio non è una lavoro di routine. Non mi alzo sempre alla stessa ora per andare sempre nello stesso posto e passarci sempre lo stesso quantitativo di tempo e questa è una cosa di cui sono felice. Non credo che avrei mai davvero potuto sopportare un vero lavoro di ufficio, perché io me la cavo con le scadenze, ma voglio gestirmele come mi pare. Se per dire mi sveglio una mattina e Stickle mi fa girare i coglioni, voglio potermi alzare dalla poltrona, mandarlo a cagare e farmi un giro in centro finché la voglia di spaccargli la testa contro un angolo del tavolo non mi è passata, senza per questo sentirmi dire che quel giorno lì non ho fatto un cazzo. Voglio poter lavorare tutta la notte ad un progetto e dormire di giorno invece di fare il contrario, per dire. Robe così.
Il lato negativo di un lavoro come il mio è che non hai un flusso costante di impegni, ci sono periodi in cui ti devi occupare di mille cose e periodi in cui non hai veramente un cazzo da fare e se non ti organizzi per bene, finisce che da una parte ti rompi i coglioni a farti quindici giorni di lavoro serrato per venti ore al giorno e dall'altra passi le ore in casa a guardare il soffitto perché tendenzialmente se non lavori non hai niente da fare. A me ci sono voluti quattro anni per capire come far funzionare la cosa, perché che fosse il mio modello ideale di vita l'avevo intuito subito ma entrare nel meccanismo non è stato per niente facile.
Mi ricordo che all'inizio sono arrivato da Bushido, dopo un concerto che aveva fatto in Austria, con un cd che conteneva le cinque migliori canzoni che io e Stickle avevamo composto nei due anni precedenti. Lui l'ha preso, se lo è messo in tasca e per tre mesi non l'ho più sentito. Stavo già meditando di vendere la mia attrezzatura di missaggio e tentare di aprire il ristorante che mia madre mi chiedeva dal giorno che avevo ottenuto il diploma – come se quel pezzo di carta bastasse da solo ad aprirne un'intera catena – quando alla fine lui mi ha telefonato, con tutta la calma del mondo, naturalmente, e mi ha detto che la mia roba spaccava e che voleva vedermi.
Da lì a qualche settimana abbiamo iniziato a lavorarci sopra: beat, testi, promozione, foto, video, insomma tutto. Questo per, diciamo, due mesi, poi all'improvviso niente.
Una mattina, come un coglione, mi sono svegliato all'alba come avevo fatto fino al giorno prima e mi sono ricordato che Suchen & Zerstören era uscito e a noi non restava altro che vedere se eravamo tipi da scalare le classifiche o se facevamo schifo all'universo mondo.
Dopo un attimo di esitazione ho pensato che fosse una cosa grandiosa, voglio dire, dopo mesi di lavoro serrato – perché quando Bushido si prende bene a fare una cosa, non vuole essere interrotto, quindi è già tanto se ti dà il permesso di alzarti per mangiare o andare in bagno – avevo davanti lunghe giornate di libertà assoluta. Centinaia di ore fino a data da destinarsi in cui potevo fare tutto quello che mi girava.
Sembrava un sogno ma, naturalmente, dopo due giorni mi ero già rotto il cazzo.
Il punto è che se hai un lavoro normale, gli orari del lavoro impongono un ritmo alla tua giornata, sai che per un certo quantitativo di ore non potrai fare nient'altro che startene seduto dietro la tua scrivania e organizzi tutto il resto di conseguenza. Anche gli svaghi. Quando invece hai tempo di fare tutto, sostanzialmente non fai nulla perché sapendo di avere tempo rimandi all'infinito.
E così passavo le ore a guardarmi intorno nel salotto minuscolo che avevo allora senza la più pallida idea di come passare la montagna di tempo che mi si parava davanti. Sembrava per altro, che tutte le cose urgenti che dovevo fare per forza – documenti, pagamenti, visite mediche obbligatorie – si fossero presentate in tutta la loro urgenza soltanto nei mesi precedenti, costringendomi a litigare con Bushido per andare in posta, tipo, e adesso il postino non aveva da darmi nemmeno le bollette. In più in quel periodo, era il 2006 se non sbaglio, non conoscevo nessuno a Berlino a parte Bushido e Stickle e, per quanto mi annoiassi, non avevo voglia di vederli anche nei giorni liberi dopo aver passato mesi con loro chiuso giorno e notte in una stanza. E neanche loro volevano. Stickle era addirittura tornato in Austria a trovare i parenti mentre io evitavo meticolosamente le telefonate dei miei, perché non ero ancora disperato al punto da dover tornare da mia madre a sentirla raccontare di come zia Gertrude si fosse rotta il femore per la quarta volta in un anno.
La cosa è andata avanti finché non abbiamo dovuto muoverci per cantare le canzoni e mi ricordo che attendevo l'inizio del tour come l'arrivo del Messia. Mi sembrava una cosa meravigliosa e la preparazione delle valige mi prese una settimana solo perché era la prima cosa che avevo da fare dopo eoni passati a dormire e mangiare. A due giorni dalla fine del tour volevo morire, perché non ce la facevo più e non vedevo l'ora di stare a casa da solo, a non fare un cazzo, senza vedere nessuno perché ne avevo abbastanza. Così il cerchio ricominciava.
Per trovare un equilibrio tra la frenesia lavorativa e il vuoto cosmico che ne consegue ho dovuto faticare parecchio perché io so organizzare le cose se mi ci metto, il problema è che quando ho troppe cose da fare o troppo poche o il problema comprende entrambe le situazioni, prima di vedere che la soluzione è organizzarmi, vedo solo che ho un problema e do di matto.
Quando alla fine ci sono riuscito e mi sono creato i miei spazi e i miei tempi, ogni cosa è andata a posto e non avrei potuto chiedere di meglio. Per dire, ho capito che durante i periodi di vuoto potevo fare in casa tutti quei miglioramenti che ti vengono in mente di fare quando non hai tempo. Avete presente, no, quando state per uscire, alzate lo sguardo e vi rendete conto che vivete in quella casa da quasi sei mesi e non avete ancora i lampadari? Magari mancano le tende in bagno, oppure il pulsante del gabinetto fa i capricci da mesi e bisogna tirarlo dopo averlo spinto perché sennò rimane incastrato. Cose del genere. Io dal 2006 ho lavorato tantissimo, ho fatto uscire due album da solista, più una serie di collaborazioni, concerti, interviste e apparizioni e nei tempi morti fra gli uni e le altre ho ridipinto casa, ho tirato su due muri per farci una stanza degli ospiti, ho cambiato la cucina e tutto il resto dell'arredamento tre volte e adesso in garage c'è spazio per due auto con tutta la roba che ho buttato.
In questo preciso momento, sto passando un periodo di relativa calma che dovrebbe concludersi sabato quando io e Stickle ci metteremo a lavoro e, probabilmente, ci chiuderemo in studio per le successive due settimane, che poi diventeranno tre e poi quattro fino a che, dopo un mese, o ne usciremo con qualcosa di nuovo da produrre, oppure uno dei due avrà ammazzato l'altro e, come ogni volta, spero di essere io quello che uscirà da quella porta con le mani insanguinate che reggono la testa recisa di Stickle per i capelli che nel frattempo gli sarebbero cresciuti. Anche perché, oggettivamente, lui non potrebbe fare il contrario.
Fino ad allora, però, ho cinque giorni liberi e non ho ancora deciso come passarli, anche se ho qualche idea. Intanto comincio dormendo, per dire, che è sempre un buon inizio. Io non sono il tipo che deve necessariamente dormire dieci ore per notte sennò non si regge in piedi, ma se invece di alzarmi la mattina all'alba posso dormire fino ad un'ora più umana non mi lamento; che poi non sto proprio dormendo, mi sono quasi svegliato mezz'ora fa e ora sono immobile con gli occhi chiusi a godermi il fatto che anche se la mia vicina ha già quasi finito di pulire casa e probabilmente tra poco inizierà a preparare il pranzo, io posso rimanere a letto. E' una bella sensazione. Dopo, se mi gira, posso anche alzarmi e prepararmi dei waffle, visto che mia madre mi ha mandato da Linz cinque barattoli di marmellata di fragole fatta dalla nonna, che nel corso degli anni ha preso a prepararne in quantità industriali perché, per qualche strano motivo, è convinta me ne servano di più di quando stavo lì. Come se potesse colmare la distanza con i barattoli di vetro. Mia madre mi manda scatoloni di cibo fatto in casa una volta al mese per via della sovrabbondanza alimentare generata dall'ansia di sua madre. Quando li apro ci trovo sempre una di quelle enormi ceste in vimini che si usano durante le feste: in casa mia è sempre Natale.
Felice di questa mia decisione, mi sistemo ancora meglio tra le coperte e penso che a preparare la colazione mi ci vorranno dieci minuti, quindici se ho voglia di fare le cose con calma, quindi posso aspettare un altro po'.
A questo punto sento la porta di casa che si apre. Non che faccia un rumore particolare, tipo cigolii o che, è più che altro una specie di sbuffo, come se la mia casa fosse sottovuoto e quando qualcuno apre la porta, l'aria da fuori riuscisse finalmente ad entrare. E' una specie di puff! Appena percettibile, una di quelle cose che registri solo se la senti più o meno tutti i giorni. Fa parte dell'ambiente in cui vivi, come il ronzio del frigorifero quando tutto il resto è spento o il rumore dell'acqua nei tubi dei caloriferi.
Un'altra cosa che da più di un anno ormai fa parte dell'ambiente in cui vivo, sono i suoni che Fler fa quando rientra a casa: il tintinnio delle chiavi quando le lascia sul piattino della consolle, il fruscio di quando si leva il cappotto e quindi il bussare del ferro contro il muro quando lo appende all'appendiabiti che non è fissato bene. Lungo il corridoio le sue scarpe da ginnastica cigolano un po' perché hanno la suola di gomma ma il suono sparisce non appena entra in salotto, dove c'è il tappeto. In genere, se non si è dimenticato qualcosa nel cappotto – e quindi lo sento tornare indietro – dopo il tappeto mette i piedi sul parquet del corridoio, che è nuovo quindi non fa attrito e non cigola e i suoi passi sono molto ovattati. Eccolo infatti: piastrelle, tappeto, legno. E a me viene da ridere perché potrei tranquillamente localizzarlo in qualsiasi punto della casa si trovasse solo dal rumore che fanno le sue scarpe.
Fler non vive davvero qui, ha ancora una casa sua nella quale di tanto in tanto passa, credo, a dare l'acqua alle piante, ma ormai passa così tanto tempo qui che gli manca soltanto il nome sul campanello. Ho in bagno il suo spazzolino e nell'ultimo carico di lavatrici c'erano più calzini suoi che miei. In generale, ha qui da me anche tutti quegli oggetti che finisci per lasciarti dietro quando vivi in un posto a lungo anche se non è casa tua. Per dire, se esce di casa a fare la spesa e tornando compra l'ultimo numero di una rivista che colleziona e magari torna e si mette a leggerlo in poltrona, poi quello rimane sul mio tavolo, visto che il giorno che torna a casa sua – magari dopo una settimana che sta lì con me – non è che si ricorda di portarlo via. Ormai fa parte del mio arredamento. E le riviste sono la parte minore. Ho qui i suoi cd, le magliette e un mucchio di peluche avvolti nei reggiseni che le ragazze delle prime file gli hanno fatto piovere addosso durante l'ultimo concerto.
Se vi state chiedendo per quale motivo Patrick Losensky abbia le chiavi di casa mia e in pratica ci viva, forse devo tornare un po' in dietro. A quando, circa un anno fa, Bushido è apparso nel mio ufficio alla Beatlefield presentandomelo come se fino al giorno prima non gli avesse offeso perfino la cugina di terzo grado. Non starò qui a raccontarvi come l'odio del ghetto si sia trasformato di nuovo in fraterno amore perché non sono la fatina dei denti e, sinceramente, sono stanco di raccontarvelo sempre. Wikipedia saprà darvi tutte le informazioni che cercate. Vi dirò però che io e quest'uomo qui una sera eravamo troppo ubriachi per ricordarci di essere etero e adesso, a distanza di un anno, probabilmente sventoleremo bandiere arcobaleno al prossimo gay pride. D'accordo, forse non lo faremo, perché la nostra visione dell'omosessualità fa a pugni pure con quella degli omosessuali e probabilmente l'intero corteo finirebbe per malmenarci, ma quello che voglio dire è che siamo passati con molta scioltezza dallo scrivere testi vagamente omofobici ad invitarci vicendevolmente a cena. La fase di rifiuto c'è stata, ma non è durata neanche una settimana e c'è stata, io credo, solo perché coincideva con un periodo in cui Fler aveva del lavoro da fare. E' molto facile sostenere che una persona non t'interessa, quando quella non c'è. Ti guardi allo specchio è sei convinto di avere in mano la situazione, che quello che è successo quella sera non ha niente a che vedere con quello che sei – tu non sei gay, d'altronde –, è stato solo qualche bicchiere di troppo. Non lo chiamerai, lui non ti chiamerà. Nessuno saprà mai niente. Poi capita che per caso v'incrociate in un posto dove non ti aspettavi proprio di vederlo e la prima cosa che gli chiedi è se gli va un caffè. Quando il caffè diventa un pranzo, poi una cena e infine il tuo letto, non ti resta che arrenderti. Anche perché ormai è già tardi.
Fingo di dormire anche quando Fler entra in camera e lo sento aggirarsi intorno al mio letto per qualche minuto. “Lo so che sei sveglio,” commenta lui ridendo. “Il tuo respiro è diverso mentre dormi.”
“Il mio respiro è...” esco da sotto le coperte e gli tiro un cuscino. “Ma quanto era gay questa!”
Lui me lo ritira, prendendomi in faccia. “Zitto e non fare lo stronzo.” Subito dopo si siede sul letto e mi sventola sotto il naso una bustina. “O la prossima volta te li avveleno.”
Dentro la bustina ci sono dei waffle e io mi domando se non mi legga anche nel cervello oltre a sapere come respiro e quando. “Grazie,” mormoro.
Fler scrolla le spalle, come fa sempre quando si sente in imbarazzo. “Mettici su la marmellata di tua nonna,” mi dice, passandomi anche quella.
Io mi siedo per bene e stendo il lenzuolo, quindi apro la busta di carta per avere un piano su cui lavorare e preparo i due waffle che mi ha portato. “A cosa devo questo trattamento di favore, a parte che sono un uomo meraviglioso?” Scherzo.
Lui mi tira uno scappellotto e infila il dito nel barattolo della marmellata, una cosa che odio e che lui fa solo per il gusto di vedermi dare di matto. Difatti, quando mi volto a guardarlo male lo trovo che mi fa quel mezzo sorrisino a presa di culo che gli farei cose, se poi non sollevasse il dito e non si lasciasse cadere la marmellata direttamente sulla lingua.
Torno di corsa ai waffle e lui ride. “Dio, quanto sei facile,” commenta, schioccando le labbra.
“Vaffanculo.”
“Vedremo,” commenta lui, infilando di nuovo il dito nel barattolo come nulla fosse. Fler non si fa mai dire cosa può e cosa non può fare. “Hai progetti per la giornata?”
Scrollo le spalle . “Nessuno in particolare. “ Gli passo il suo dolce e lui sembra pensieroso e col primo morso si ricopre il naso di zucchero a velo. Vorrei davvero riuscire a concentrarmi su qualcosa che non siano i dettagli, stamattina.
“Bene, perché io ne ho,” esclama. Appoggia il waffle sull'improvvisato piatto di carta e si pulisce le mani sui pantaloni.
Lo seguo con lo sguardo mentre fruga in giro e apre tutte le ante dell'armadio una dopo l'altra, lasciandole aperte. “Pat, che stai facendo?”
“Cerco uno zaino.”
“Uno zaino per cosa?”
Lui si volta con un certo auto-compiacimento sul viso. “Per il tuo compleanno ti porto in un posto speciale.”

*


Siamo in macchina da due ore e io ancora non so dove stiamo andando.
“Come puoi esserti dimenticato che domani è il tuo compleanno?” Ride Fler. “Nessuno si dimentica il proprio compleanno.”
“Ho avuto da fare,” mi giustifico. “Tu, piuttosto, come hai fatto a ricordartelo?”
“E' perché ti amo,” risponde subito e Io divento di marmo, cristallizzandomi nella posizione in cui mi trovo. Se mi fingo morto forse mi lascerà in pace. E lui scoppia a ridere. “Smettila di fare il morto, cretino,” commenta. “Stavo scherzando, l'ho visto su Facebook.”
Tiro un sospiro di sollievo evidente e lui ride di nuovo. Non sono pronto perché mi dica cose simili: il suo spazzolino nel mio bagno non le giustifica ancora. La sua igiene orale non dovrebbe avere niente a che fare con l'amore. Almeno non nel senso più alto. Insomma, no.
“Comunque guarda che sei una merda,” mi dice mentre usciamo dall'autostrada. “Io sono qui che ti apro il mio tenero cuoricino e tu usi la tecnica dell'orso.”
“La smetti con questi vezzeggiativi? Mi fai venire i brividi.”
Lui ride. “E' questo il bello,” commenta. “Comunque ti salvi solo perché è il tuo compleanno, altrimenti stanotte staresti sotto per lo stronzo che sei. Non si risponde così.”
Tossisco e cambio argomento. “Dov'è che mi stai portando?”
“Sorpresa, nano. Sorpresa,” esclama e io non ho neanche il tempo di offendermi perché mi poggia la mano dietro il collo e preme tre punti che sa mi rilassano all'istante, tipo bambola di pezza. Il bastardo è talmente bravo in queste cose, che è capace di neutralizzarmi solo con due dita. “Ora stai tranquillo e rilassati,” mi dice, massaggiando. “Ti divertirai.”
Queste sono le ultime parole che mi ricordo, poi credo di essere caduto in un sonno profondo. Questa cosa mi ricorda un film dell'orrore, uno di quelli splatter dove la gente viene torturata e fatta a pezzi mentre è ancora viva. Tra qualche ora mi sveglierò in una stanza buia e lurida, magari legato ad una sedia, e un tizio con in faccia una maschera mi dirà che per andarmene devo aprire la pancia di Patrick e recuperare una chiave. E sarà allora che mi accorgerò della forma inerte di Patrick disteso a terra. O forse Patrick non ci sarà e per liberarmi dovrò tagliarmi i un piede, o scavarmi in un occhio con un bisturi perché la chiave è dentro di me, che poi mi sono sempre chiesto come può il pazzo di turno operare la gente in maniera così perfetta che quella si sveglia con una chiave dietro un occhio. Non lo so, comunque che schifo.
Quando mi sveglio, però, non c'è nessuno psicopatico mascherato che mi parla da un vecchio televisore catodico appeso al muro e non c'è nemmeno la stanza buia.
Sono ancora seduto sul sedile dell'Escalade di Fler e, per quanto la cosa non mi faccia apparire appetibile, mi sto pure un po' sbavando sulla spalla.
“Ehi, bell'addormentato,” mi chiama Patrick, mentre apre il baule dell'auto per tirare fuori le nostre due valigie. “Sorgi e brilla, siamo arrivati.”
Sono lì che sbatto gli occhi e cerco di recuperare le coordinate della mia esistenza quando vedo una giapponese in kimono che si avvicina alla macchina. Mi guardo intorno e vedo che siamo circondati da laghetti, piccole fontane in legno – di quelle per la meditazione, avete presente? Con il bambù che si riempie d'acqua, batte sulla roccia e torna su – e poi ovunque ponti in legno, ciliegi e alberi che sembrano bonsai ma non lo sono.
“Ma quanto ho dormito? Ma dove siamo?” Esclamo sconvolto. E già ci vedo attraversare la Russia in auto per arrivare fino a qui. Qui è, tipo, un paese vicino Tokyo, per me.
“Kremmen,” risponde lui, chiudendo il baule. “Ridente paesino a circa due ore da Berlino.”
“Mai sentito,” borbotto, recuperando la mia valigia.
“Figurati, tu solo l'asse Berlino-Linz,” mi dice ridendo. “Altro non conosci.”
La giapponese ci raggiunge facendo passi minuscoli su quei suoi sandali di legno che sembrano scomodissimi e ci sorride senza mai mostrare i denti. “Prego, signor Losensky, da questa parte.”
Il signor Losensky annuisce con un sorriso dei suoi e mi fa un cenno con la testa per dirmi di seguirlo. “Che posto è?” Chiedo sussurrando, mentre camminiamo tre passi dietro la signorina che fa un suono buffo e preciso quando, con i sandali, calpesta il curatissimo vialetto d'entrata fatto di piastrelle minuscole.
Patrick ride. “Quante domande,” dice. “E' un bel posto.”
Oltre ad essere oggettivamente un bell'ambiente, è però anche un ambiente in cui io sono molto fuori posto e me ne accorgo immediatamente quando arriviamo in fondo al sentiero e c'è un enorme costruzione bianca con le porte a vetri e il nome di un qualche centro benessere scritto sopra in caratteri azzurri. La nostra giapponese si ferma sotto l'enorme kanji che sovrasta l'entrata e tende il braccio, invitandoci ad entrare. “Prego,” dice.
Fler sembra perfettamente a suo agio e la cosa un po' mi fa girare le palle perché lui è esattamente il tipo di persona in compagnia della quale non vuoi farti vedere a disagio. Esattamente come Bushido, Fler intuisce al volo i tuoi punti deboli e se può li usa per prenderti per il culo. E dal momento che io guardo la gigantesca entrata di questo posto e non so bene che cosa ci si aspetti che io faccia o come ci si aspetti che io mi comporti – si fa il check in come in albergo? Ma dormiamo qui? E devo sottopormi a tutti i trattamenti o posso scegliere? Ma poi cosa fanno esattamente qui? – vorrei evitare che tutta questa mia inadeguatezza mi si ritorcesse contro. Non voglio passare il giorno del mio compleanno a sopportare Patrick che ride qualsiasi cosa faccio.
Potrei rimanere per sempre lì impalato a guardare il lucernario che si trova almeno sei metri sopra di noi, senza per altro potermi togliere dalla testa il fatto che sembra quello di Jurassic Park e che forse prima o poi sentirò tremare la terra e vedrò l'occhione del T-Rex che ci guarda famelico – ma una voce interrompe il mio ennesimo filmino mentale e lo fa in maniera traumatica.
“I signori Losensky?”
Io mi guardo intorno, giuro che lo faccio, e mi aspetto di vedere una coppia di anziani signori – lui con la barba bianca, magari, e lei magra con uno di quei cappellini trapezoidali che non sarebbero belli in nessun caso, figurarsi se sono giallo catarro e a fiori. E mi aspetto che questa coppia di cariatidi sia anche omonima del mio Patrick. I signori Losensky. Già ci vedo fra qualche ora a ridere del malinteso. “Anche lei un Losensky?” Direbbe Patrick. “Ma guarda a volte i casi!”
E invece non ci sono anziani signori alle nostre spalle né di fianco, né da nessuna parte. E quando finalmente capisco che i signori Losensky siamo noi – io e lui insieme – Fler ha già raggiunto la signorina con un sorriso che gli prende tutta la faccia. Appena siamo soli io lo sfiguro.
La ragazza in questione ci consegna una chiave magnetica, quindi dormiamo davvero qui, e l'equivalente del mio peso in dépliant di ogni tipo. Più una cartina della struttura – e a questo punto mi chiedo quanto sia grande questo posto se abbiamo bisogno di una cartina per girarlo. Io lo so che adesso infileremo le porte dei giardini e scopriremo che tra le fresche frasche dei cachi giapponesi ci sono gabbie elettrificate con dentro lucertole che avrebbero dovuto essere morte centinaia di migliaia di anni fa. Intanto la signorina sta spiegando a Patrick i benefici della cristalloterapia al secondo piano e lui annuisce come se sapesse tutto di cristalloterapia e potesse pure insegnarla, per dire, a quelli che lavorano al secondo piano. Alla fine veniamo rilasciati e siamo liberi di raggiungere la nostra stanza che, a quanto ho capito da questa cartina, si trova all'ultimo piano dove sono situate le camere per gli ospiti del centro benessere. Come mettiamo piede in questo ascensore super-fantascientifico con un trilione di bottoni azzurri e gli altoparlanti che mandano in loop il canto delle balene della Papuasia in amore, Fler m'impedisce di fare le mie giuste rimostranze. “Se apri bocca e mi fai anche solo un'altra domanda penserò personalmente ad affogarti nella piscina di acqua solforosa che c'è al primo piano. E' chiaro?”
Borbotto qualcosa ma le mie parole vengono coperte dallo squittio bitonale del Pangolino del Borneo durante la stagione dell'accoppiamento.
“Certo che sei una piaga,” commenta Fler, mentre le porte dell'ascensore si aprono e lui comincia uscire trascinandosi dietro me e la valigia.
La nostra stanza è una roba esagerata. Voglio dire, sia a me che a lui capita spesso di dormire in albergo e generalmente sono dei signori alberghi, mica bettole, ma questa è tipo la cabina di una nave spaziale arredata da uno dei creativi dell'IKEA. Potrei stare qui a cercare di mettere insieme una trama che coinvolga gli alieni, i dinosauri e Spock, ma non ne ho il tempo perché la prima cosa da fare quando entri in una stanza d'albergo è mollare le valigie sulla porta e gettarti sul letto. E' una regola non scritta, va fatto. Così io e lui ci guardiamo e cominciamo a correre. Quando atterriamo, il materasso è talmente morbido che il nostro peso congiunto ci sbalza entrambi fuori e cadiamo a terra, sul tappeto in pelo-di-non-so cosa.
Io sto ancora ridendo quando Fler mi chiama dalla stanza attigua, quasi urlando. Quando lo raggiungo lo trovo seduto a gambe incrociate di fronte ad un televisore grande quanto me che sta giocando a qualche gioco di automobili che piacciono a lui, di quelli che se non prendi bene le curve ti vai a schiantare a bordo pista e ti compare la crepa del casco rotto sullo schermo del televisore. “Potrei chiudermi qui dentro e passarci due giorni.”
“Il tuo regalo di compleanno sarebbe portarmi in un albergo dove potrò guardarti mentre batti il tuo record personale con le macchinine?” Gli chiedo. “Wow! Sono eccitato alla sola idea.”
“Non ne dubito,” fa lui senza scomporsi. “Tu sei sempre eccitato.”
“Beh, allora potresti provvedere,” commento, decidendo di sistemare la valigia in un posto più appropriato che non sia praticamente in mezzo al corridoio. Non facciamoci subito riconoscere.
“Vedremo, se farai il bravo,” dice lui. “E poi non ti ho portato qui per passare il tempo a scopare. Ci sono un sacco di cose interessanti da fare.”
“Ad esempio?”
“Le terme, i massaggi,” enumera lui, recuperando al volo un opuscolo e leggendolo con il tono della presentatrice bionda sul secondo canale. “La terapia con le pietre, quella con gli oli essenziali, la cristalloterapia del secondo piano e la cromoterapia. E poi ci sono insegnanti di tutto, yoga, ginnastica, pilates...”
“Non so neanche che cos'è il pilates,” protesto. “E in ogni caso non promette niente di buono con quel nome lì.”
Fler mi tira dietro il volantino che non fa un volo molto lungo essendo di carta e poi plana morbidamente in terra fra di noi. “Chaku non essere il solito rompicazzo,” protesta lui. “Adesso disfiamo la valigia, ci mettiamo il nostro bell'accappatoio e andiamo a farci cosparge d'olio di jojoba da qualche bella massaggiatrice tailandese.”
Sospiro. “Non so nemmeno se dovrei, tipo, incazzarmi perché vuoi farti massaggiare da una tailandese,” ragiono, mentre spiego l'accappatoio che il centro benessere ci ha dato in dotazione. Mi sorprende che sia della mia misura.
“Dipende, che tipo di relazione abbiamo? Una di quelle aperte?” Mi chiede.
“Una di quelle che se tocchi la tailandese più del dovuto, vedi per cosa lo uso l'olio di jojoba,” ribatto.
“Bravo! Così ti voglio, rude!” Fler si morde un labbro, fingendosi molto preso. “ E ora muoviti! Ho una tailandese da palpeggiare.

*


In questa struttura bianca e vagamente paradisiaca – non nel senso di esageratamente bella, proprio nel senso che sembra un po' il paradiso con i muri bianchi, la gente vestita di bianco, le luci lattiginose e tu ti aggiri per i corridoio chiedendoti se ti reincarnerai mai per tornare sulla Terra – i massaggi con l'olio di jojoba te li fanno in una saletta con due lettini, una pianta di ficus e la solita filodiffusione con animali di ogni tipo che fanno sconcezze. Non ho ancora capito se sia un velato suggerimento o cosa, perché a me sinceramente non rilassano nemmeno un po' quindi per forza dev'essere un modo come un altro per spingerti a copulare con un altro essere vivente, anche se non vedo a che pro. Cioè, voglio dire, a loro cosa gliene viene?
Comunque sia, siamo stati accompagnati fino a qui da una donna con il camicie bianco e ci è stato detto di distenderci e rilassarci. Già partiamo male perché fra la serenata dei bonobi e il fatto devo stare a culo all'aria, io non sono rilassato per niente; che un potrebbe anche chiedermi com'è che, vista la mia attuale situazione, io abbia dei problemi a stare a culo all'aria. Li ho perché sebbene io mi sia piegato a certe dinamiche necessarie, non è che ne sia felice. Non è lo stato naturale delle cose – non delle cose in generale, intendo, ma delle mie cose, della mia persona – quindi non mi piace starmene lì disteso sulla pancia ad attendere cose che non so.
Fler, dal canto suo, è tranquillissimo. Ha incrociato le braccia sul materasso e sorride con gli occhi chiusi. “Non ti senti già più rilassato?” Mi fa, come se attraverso le palpebre chiuse mi avesse visto, teso e rigido come un tocco di marmo. Emetto un mugolio che non vuol dire niente e lui ride un po'. “Ne deduco di no.”
“Non l'ho detto.”
“Questo è il suono che fai quando ti si tocca male,” commenta lui. Quindi apre gli occhi e mi guarda mentre allunga una mano e mi preme ancora sul collo e io faccio tipo le fusa istantaneamente.
“Non potremmo tornare in camera e continuare su questa linea?”
“No, ora taci,” mi dà due colpetti sulla nuca. “Guarda che non pensavo che avrei dovuto faticare tanto per farti mettere le mani addosso da una donna. Mi sembrava che tu fossi abituato, un tempo. Oh, come sei cambiato, Peter, non ti riconosco più!”
Vorrei tirargli qualcosa ma non ho niente in mano e comunque non avrei il tempo di farlo perché le massaggiatrici sono appena entrate. Mi colpisce il fatto che spogliata di ogni contesto questa scena sembra l'inizio di un film porno con un ottimo scenografo.
“Cosa fa signor Losensky, fa il lavoro al posto mio?” Chiede una delle due.
Fler ride e allontana la mano dal mio collo. “No, assolutamente,” risponde. “E' solo che a volte non riesco a togliergli le mani di dosso.”
Io vorrei poter aprire il pavimento di questa stanzetta con le unghie e tuffarmici di testa per poi sparire in un mare di cemento e terra, finché di me non resterà più niente. Mi volto a guardarlo e lo trovo che non sa come trattenere le risate. Cioè lo vedo proprio, le guance gonfie e rosse e l'occhio che brilla. Muovo la bocca per avvertirlo che lo ucciderò in maniere dolorose e che non potrà salvarsi nemmeno implorando perdono.
“Ma che bella cosa,” cinguetta la massaggiatrice che, per altro, non è affatto tailandese.
Ora, io sono relativamente pronto a due ore di strazio perché i massaggi non mi hanno mai attirato e l'olio di jojoba mi sa di unto, inoltre la presenza delle due donne che fanno il loro lavoro m'impedisce di alzarmi e prendere il mio a-quanto-pare fidanzato insaziabile a sberle. Però niente va come me l'aspetto: cioè il massaggio è effettivamente odioso e l'olio è unto, ma la cosa assume tutto un altro tono se mi volto e guardo Fler.
Dopo dieci minuti che siamo lì, io non mi rendo più conto di quello che viene fatto a me, ma mi perdo completamente in quello che viene fatto a lui che ha richiuso gli occhi l'attimo dopo che la massaggiatrice ha posato i polpastrelli sulle sue spalle.
Fler sembra completamente rilassato, ha le labbra appena leggermente piegate in un sorriso e anche solo il modo in cui ha appoggiato la testa agli avambracci piegati ti dà l'idea che non esista posto migliore di quello in cui si trova ora. Io mi ritrovo a seguire con gli occhi il profilo del suo corpo che nonostante sia massiccio riesce ad essere morbido, la linea della sua schiena che dalla spalla rilassata scende lungo la sua spina dorsale fino a sparire sotto il telo di spugna che gli copre il sedere. Deglutisco perché posso immaginare ciò che non vedo e so che la linea non si spezza, gira soltanto intorno alle sue natiche per proseguire altrove. Quando finalmente mi sforzo di racimolare quel poco di forza di volontà che possiedo e staccare gli occhi dal suo culo, mi accorgo che siamo all'olio di jojoba e che la sua pelle chiarissima adesso brilla appena. Sembra umida. E m'ipnotizzo da solo, seguendo la vaga pressione delle mani della donna che dalle spalle scendono fin quasi al limitare dell'asciugamano. Non ho idea di cosa stia avvenendo sulla mia schiena, in questo momento, vorrei solo mettere le mani su quella di Fler, adesso. E su tutto il resto di lui.
Proprio mentre mi sto chiedendo per quanto ancora dovrò starmene disteso senza poter far nulla ecco che queste due donne tremende smettono all'improvviso. “Come va?” Mi chiede una voce femminile alle mie spalle.
“Bene,” ammetto incerto e non mi muovo. Va un po' meno bene quando capisco che dovremmo alzarci e io non sono in condizione di farlo senza che sia palese a cosa stavo pensando, o per lo meno senza che sia facile scambiarmi per un ninfomane. Cosa che forse sono, ma sarà meglio che io non analizzi il problema in questo momento. Sento le due donne salutare e uscire dalla stanza, lasciandoci tutto il tempo di alzarci e coprirci le pudenda, anche quelle che fanno di testa loro, come le mie. Nascondo la faccia contro il lettino e desidero ardentemente la morte.
“Ehi, tutto bene?” Domanda Fler, in tono preoccupato.
“Sì,” mugugno, senza sollevare il viso.
Segue qualche secondo di silenzio in cui posso figurarmi le rotelline che girano dietro quei suoi occhi azzurrissimi e lo so che sta per arrivare quel momento in cui vorrò scomparire dalla faccia della terra dopo che lui avrà detto qualcosa.
“Oh, ho capito,” esclama in fatti, con una tonalità di voce solo apparentemente neutra. Quindi mi cammina sulla schiena con due dita della mano. “Posso vederlo?”
“No, che non puoi vederlo!” Sbraito. “Patrick vattene.”
L'attimo dopo mi bacia su una guancia e sento il suo fiato caldo contro l'orecchio. “Sicuro? Potrei avere delle idee.”
Sollevo un sopracciglio e anche il viso. Non si sa mai.
Fler si allontana. “Eccolo che s'interessa subito,” ride e poi mi dà due pacche sul sedere. “E' ancora presto, comunque. Siamo arrivati da due ore. Fatti passare tutto, da bravo, pensa alla nonna. Ci vediamo tra i cristalli.”
Mugolo, perché con questo qui non mi è rimasto altro da fare.

*


Recuperare il controllo di me stesso non mi è facile. Voglio dire, non è che io sia una bestia che una volta accecata dai fumi della libido non capisce più niente e va avanti per la sua strada. Sono pur sempre un essere umano e nemmeno uno di quelli peggiori! Solo che io mi innervosisco parecchio se per qualche motivo mi ritrovo in questo stato e poi finisco con un nulla di fatto. Per quanto mi riguarda, o si inizia e finisce o non si inizia affatto. Quindi, dal momento che avevo già i miei problemi, Fler avrebbe dovuto risparmiarsi di ansimarmi in un orecchio per poi mollarmi qui come un cretino. Quando finalmente il sangue mi torna al cervello e riesco ad alzarmi senza per questo dover dare delle giustificazioni imbarazzanti a chicchessia, Fler è scomparso; cioè, da qualche parte sarà anche andato, ma non so dove. Il secondo piano – dove in effetti si fa cristalloterapia – è enorme, ci sono miliardi di stanze e ognuna di esse è chiusa. Non è che posso provarle tutte.
“Sta cercando il signor Losensky?” Mi volto all'improvviso e figurarsi se non trovo un'altra di quelle ragazze in camice bianco che mi sorride. Mi chiedo se sia sempre la stessa che mi insegue o se siano tutte uguali. Magari tutto questo massaggiarti con l'olio di colza e tirarti le sassate per curarti in maniera alternativa le malattie, non sono altro che biechi trucchi per sottrarre il tuo DNA e creare signorine come questa qui. Magari c'è anche qui un tredicesimo piano inaccessibile in cui uno scienziato pazzo sta giocando a fare Dio. E io sto davvero perdendo il senso della misura con queste ipotesi campate in aria. Passare troppo tempo con Eko non mi fa tanto bene, i processi mentali di quell'uomo finiscono per contagiare i tuoi. Presto non ci sarà più speranza per nessuno di noi. Comunque.... “Sì, cerco il signor Losensky,” dico finalmente a lei che è rimasta immobile da che mi ha fatto la domanda, sempre col suo sorriso un po' di plastica. E' inquietante. Forse non è un clone, è un Terminator: sotto la copertura in gomma c'è una macchina mortale.
“Venga, da questa parte,” mi fa lei, indicando il corridoio ed invitandomi a seguirla. “E' già dentro, mi ha chiesto di avvisarla.”
Posso immaginare come mi abbia descritto per farle capire chi ero. L'ultima volta che l'ho perso al supermercato – no, aspettate, questa va raccontata. Dunque, io e Fler andiamo di rado al supermercato insieme perché lui non è capace di fare la spesa. E' uno di quelli che prende il carrello, tira fuori il braccio nelle corsie dei dolci e butta dentro tutto quello che gli gira in quel momento, poi ci aggiunge del pane in cassetta e qualche cibo in scatola. Dopodiché si considera soddisfatto anche se è uscito dal supermercato con ingredienti insufficienti anche per un piatto di pasta. Ecco, a me uno che fa così mette il nervoso, per cui se entriamo insieme al supermercato è sicuro che finiamo per litigare. Le poche volte che questo non succede e io mi sento in vena di fidarmi di un buon senso che in certe altre occasioni di fatto ha, gli affido metà della lista e lo mando da solo tra le corsie, fiducioso che mi riporti almeno la metà di ciò che gli ho chiesto. Il problema in questi casi è rappresentato dal fatto che dopo mezz'ora che cerca i fagioli borlotti ovunque e non li trova, pensa bene di telefonarmi per chiedermi dove sono perché ci siamo persi di vista. Ed è lì che si accorge che una volta di più si è dimenticato il telefono nello zaino che sta sul carrello che io mi sto portando in giro da solo mentre lui è col cestino. Cosa fa allora lui? Va alle casse, come un bambino di quattro anni e si fa cercare la mamma, che poi sarei io. Così si torna a quello che vi stavo dicendo prima. L'ultima volta che questo carnevale è successo, ha detto alla responsabile che doveva cercare un ometto pelato con le lentiggini. Una specie di Brontolo, ha specificato, ma senza la barba e i capelli. E quella mi ha trovato, ovviamente. Non è che le bastava chiamare Peter Pangerl al microfono, no. Quasi mi aspettavo che lo prendesse per mano, gli desse una caramella e gli dicesse di non preoccuparsi che la mamma arrivava subito.
Comunque sia, la signorina mi porta in fondo al corridoio, apre per me la porta di una stanza e dentro c'è Fler, ricoperto dalla testa ai piedi di cristalli di quarzo grandi come il mio pugno. Lui è, tipo, completamente nudo a parte questo straccetto di stoffa che lo copre davanti. Mi chiedo se sarebbe considerato scortese anche in questo universo alternativo in cui dinosauri, alieni e Terminatori convivono insieme, probabilmente con l'obbiettivo di sterminare come si deve la razza umana, prendere di peso la signorina che mi ha portato qui e quella che sta sotterrando Fler con dei sassi rosa e spedirle a zappare gli orti mentre io faccio a Fler cose mai viste.
“Vuole accomodarsi?” Mi dice la signorina.
“Volentieri,” rispondo. Anche se parliamo palesemente di due cose del tutto diverse. Durante tutto il processo per il quale questa donna sconosciuta mi fa distendere, mi da il mio minuscolo asciugamano da bidet per coprirmi e lentamente inizia a tumularmi sotto le pietre iridescenti, io guardo Fler che sembra una bella statua sotto queste luci morbide. Non si muove, è rilassatissimo e se c'è una cosa che mi fa venir voglia di mettergli le mani addosso è proprio quando è abbandonato in quel modo. Per dire, ci sono volte in cui è disteso sul divano e sta guardando un film, che io sono costretto a mettermi a cucinare per un reggimento per evitare di ribaltarlo lì dove sta. E' una cosa più forte di me, perché nel momento esatto in cui Fler smette di imporsi un certo atteggiamento e si rilassa, diventa, tipo, bellissimo. Non che di solito non lo sia, ovviamente, ma è tutta un'altra roba. E' come capita a volte con le ragazze che senza quintali di trucco, sono più dolci e ti sembrano più sensate che non con quattro chili di fondotinta che, se ti va bene, ti rimane tutto addosso per secoli. Ecco, lui uguale. Quando si atteggia a gran duro è okay, voglio dire, è ovvio che mi piaccia sennò non sarei qui, ma quando sta per addormentarsi la sera e l'unica cosa a cui pensa è che la giornata è finita e non ha più niente da fare fino al mattino dopo, ha quella faccia lì. E a me piace da morire.
La cristalloterapia inizia e finisce molto velocemente. Non parliamo nemmeno perché le signorine ci hanno detto che la risonanza dei cristalli, che dovrebbe aprici i chakra, non dev'essere disturbata. Non ci sono nemmeno i cd con i suoni della natura e io sto bene.
Quando finalmente ci alziamo, io mi sento esattamente uguale a prima, con l'unica differenza che ho un bollo rosso in fronte per via dei sassi.
“Possiamo andare in camera, adesso?” Chiedo.
La risposta è no. Anzi, la risposta somiglia più che altro ad un: no, Chaku, adesso entri qui in questa vasca e muori di desiderio guardandomi mentre mi bagno dalla testa ai piedi.
Penso distintamente che voglio affogarmi nelle acque solforose di questa vasca all'aperto modello giapponese. Voglio dire, seguitemi, okay? Lo so che a volte entro nei labirinti tortuosi della mia testa e quando alla fine mi accorgo che vi ho persi, io sono già al centro mentre voi chissà dove siete e mi tocca tornare indietro a riprendervi – a tal proposito posso dirvi che, a quanto sembra, per uscire dai labirinti bisogna sempre tenere la mano sinistra incollata alla parete. In questo senso, il mio lato sinistro è che, anche se non sembra, io un punto di arrivo ce l'ho. Se tenete bene in mente questo dettaglio e avete fiducia, allora prima o poi la conclusione arriva – dicevo, lo so che sono una persona complessa, ma in questo caso mi pare non ci siano dubbi su quale sia il mio problema e sul fatto che mi si stia ampiamente istigando a fare cose delle quali poi mi pentirei, a seconda che Patrick sia consenziente oppure no. E deve esserlo se per scendere quattro fottuti gradini ci sta mettendo quella vita e mezzo che mi serve per osservare l'acqua che gli lambisce la vita man manco che entra. Io non ce la posso fare. Io sono un uomo provato.
Le terme sono una tortura per due motivi: il primo è che io odio stare in ammollo come le verdure per il bollito. Non è che odio l'acqua in generale, solo non mi piace starci dentro fermo senza far niente. Io non sono un tipo che si rilassa in generale, figurarsi se mi rilasso guardando le stelle. Mi annoio se non faccio niente e stare lì a guardare i vapori che salgono verso il cielo non è fare qualcosa, per cui mi irrito già a priori. Il secondo motivo è che in questa vasca enorme siamo soli. Io e lui. Con solo un costume e Fler finge di non vedere quanta predisposizione al sesso ci sia nella vasca – ma soprattutto in me – in questo momento. Decido che posso avvicinarmi e lui non si muove, buon segno, resta appoggiato al bordo di sassi rotondi e sorride. “Non vuoi farlo davvero,” mi dice.
“Sto per farlo,” rispondo. “Quindi se vuoi fermarmi ti conviene farlo ora.”
Lui non mi ferma, continua a sorridere mentre lo bacio piano. All'inizio è un bacio leggero, quasi potrebbe benissimo scostarsi subito ma poi schiude le labbra e sento la sua lingua cercare languida la mia. Mentre è distratto dal bacio, ne approfitto per trovarmi un posto tra le sue gambe e penso che stare a mollo così potrebbe anche andarmi a genio.
Scivola più un basso verso il fondo della vasca naturale e appoggi il collo sui ciottoli dietro di lui, stendendosi tutto per quanto è lungo. Appoggio le braccia ai lati della sua testa e mi spingo in basso, con l'acqua di mezzo l'effetto non è lo stesso, ma rende comunque l'idea e lui mugola sulle mie labbra. Baciare Fler, a volte, equivale ad ipnotizzarlo. Per dire, con me questo trucco non funziona. Se mi baci sono felice, ma non stacco il cervello. Lui sì. Chiude gli occhi, ti abbraccia al collo e tanti saluti. Libero accesso alla sua bocca, significa più o meno avere libero accesso a qualsiasi cosa. E' per questo che quando gli infilo una mano sotto ai boxer, tutto il movimento lo coglie di sorpresa. Mi spalanca gli occhi blu addosso e mi guarda come se fossi comparso in mezzo alle sue gambe dal nulla. “Chakuza, siamo all'aperto...” geme, mentre le sue ginocchia mi stringono ai fianchi di scatto.
“Non è la prima volta,” commento e gli mordo il collo mentre reclina la testa. Lo sento distintamente tirare giù dei santi.
“Non...” inspira ed espira. Un sospiro gigantesco, di quelli che prendi per calmarti o per darti coraggio, insomma, uno che mi dice che sta facendo di tutto per non dirmi di continuare. E non ne vedo il motivo. “Non sarebbe meglio uscire prima?”
“Fa freddo, fuori.”
Lui si divincola, o meglio sfrutta l'acqua intorno a lui per spingermi indietro e uscire dall'acqua. Quando io ho finito di sputare acqua termale, lui ha già su l'accappatoio e ha le guance rosse per i vapori e un qualche tipo di pudore che non ha mai avuto. E quando dico che non lo ha mai avuto, intendo proprio mai. Fler a volte fa vergognare anche me perché è capace di toccarti e dire cose in pubblico che tu vorresti sotterrarti. I miei vicini di casa pensano di lui, di me – di noi! - cose tremende che occasionalmente sono anche vere. Tipo che lo si fa ovunque, per dire. E che lo si è fatto nel locale delle lavatrici del mio palazzo; quando lo ha saputo, la signora del secondo piano ha pagato di tasca sua la disinfestazione. Le è andata bene che non è venuta da me a chiedermi i danni, perché sennò le avrei detto che cosa ci fa sua figlia su quelle lavatrici. Ero lì, quindi lo so.
“Si può sapere che ti prende?” Gli chiedo quando finalmente riesco a raggiungerlo a bordo vasca e ad avvolgermi nel mio accappatoio, che è calato il sole tre ore fa e comunque siamo a febbraio quindi fa un freddo porco. Soprattutto quando esci da una vasca termale.
“Niente,” fa lui, stringendosi nelle spalle. “Dico solo che-”
“Niente? Cazzo mi spingi in acqua in quel modo?”
Lui chiude la bocca, tipo, subito perché non litiga mai. Cioè, litiga, ma per arrivare ad urlarti addosso devi proprio averlo tirato fuori dalla grazia di Dio. La sua prima reazione quando urli è irrigidirsi. “Magari non è il momento di farlo nella vasca,” mi dice.
“Magari se non mi tiravi scemo tutto il pomeriggio era anche meglio.”
“Non era mia intenzione.”
“Non era tua intenzione il cazzo!” Sbraito, infilandomi queste stupide ciabattine di plastica che ci hanno consegnato al nostro arrivo.
Patrick alza gli occhi al cielo e sbuffa. “Dove stai andando?”
“In camera!” Replico. “Tu continua pure con le tue assurde terapie alternative! Fatti fare i fanghi, le sabbiature, fatti seppellire vivo fra le alghe Nori dell'Himalaya! Io me ne vado!”
“Le alghe Nori del... Chaku ma che stai dicendo? Vieni qua?”
“No!” E imbocco il corridoio, con lui dietro che di quattro passi miei ne fa uno e mezzo.
“Chaku, dai, fermati un secondo!” Mi grida dietro lui. Io ho una voce molto potente, per questo tento di bisbigliare. Lui che ha una voce molto più alta, generalmente urla, così lo sentono bene. Ora per dire, nel corridoio si sono girati tutti e quando passo loro davanti, mi guardano come se sperassero di ricevere una spiegazione. Io tiro dritto, con Fler che intanto mi segue senza aumentare il passo, perché io non lo aumento. E così, in pratica, stiamo qui a fare la maratona di New York in un corridoio.
“Peter, dico davvero. Aspetta!”
“A che piano è la camera?” Mi volto per chiederglielo di fronte all'ascensore. Non ho un cazzo di senso dell'orientamento e ho poca memoria. A momenti non mi ricordo nemmeno il numero. Tra l'altro la chiave ce l'ha lui. “E dammi la chiave!” Tendo la mano.
Lui si infila la destra in tasca, con fare protettivo. “No. Ora ti fermi e mi ascolti.”
“Dammi la chiave,” ripeto.
“Peter...”
“La chiave!” Sbotto proprio mentre si aprono le porte dell'ascensore. Lui alla fine sbuffa e rotea gli occhi, per poi darmi la carta magnetica ed entrare con me nell'ascensore.
Fler lascia passare due-secondi-due di silenzio e poi ci riprova. “Ascolta...”
“Stai zitto.”
“Almeno fammi spiegare, no?”
“No.”
“Eh, no.”
Le porte si riaprono con un suono fastidioso e io ne esco prima ancora che siano del tutto aperte. Tanto io ci passo e lui no, infatti lo sento che sbatte, tira giù i santi e poi mi segue. “Quando fai così,” mi apostrofa raggiungendomi mentre faccio scattare la serratura, “giuro che non so cosa mi trattiene dal mandarti a fanculo.”
“Quello dovrei essere io.”
Aspetta di aver chiuso – anzi sbattuto, per questo mi giro con un sopracciglio sollevato – la porta, per esclamare: “Ti stavo tirando scemo di proposito.”
“Ah beh, grazie, ora si che è tutto a posto.”
Lui sbuffa frustrato e le sue dita si piegano come volesse strangolarmi. “Intendo dire che era tutto calcolato, okay?” Replica. “Fa parte del regalo.”
“Ecco parliamo del regalo,” lo interrompo. “Questo posto è-”
“Non ti azzardare nemmeno a dirlo!” Sbraita, facendo due passi avanti. Io istintivamente ne faccio due indietro perché noi ci siamo menati soltanto una volta e non è facile sopravvivere ai suoi novanta e passa chili di peso se decide di essere incazzato. Ho una cicatrice sulla testa che lo dimostra.
“Fler...”
“Tu non l'hai ancora avuto il tuo regalo, cazzo!”
Rimango sorpreso da questo scatto d'ira che, come ho già detto, è piuttosto insolito da parte sua. “Cosa stai dicendo? Non mi hai portato qui?”
“Sì, ti ho portato qui ma non è questo il punto!” Ricomincia lui, piegato verso di me ed è così minaccioso che, per sicurezza, faccio altri due passi indietro. “Il punto è che tu se non ti lamenti costantemente non ti senti realizzato. Devi sbuffare per ogni minima cosa con quelle guance tonde che ti ritrovi e se, per disgrazia, è tutto perfetto, t'inventi qualcosa per poter sbuffare!”
“Io non ho le guance tonde,” mi ritrovo a dire.
“Tu sei tutto tondo, Chaku! Dalla testa ai piedi, che è molto poco, ma quel poco che c'è è tondo!” Fler sta letteralmente agitando le braccia in aria. “E comunque, per la cronaca, se ti ho tirato scemo è perché volevo giocare un po'! Ma tu no, non stai al gioco, tu ti imbizzarrisci come un puledro senza la cavalla il giorno della monta e allora ciao, non vedi più una sega!” Mi spinge, finché non cado sul letto che rimbalza un po' sotto di me mentre lui si avvicina con la stessa espressione amichevole di un muflone con le palle girate. “Non vedi una sega e per altro non la capisci neppure! Ti avrei portato qui e avrei giocato un po'. Tu, in un mondo normale in cui sei una persona ragionevole, saresti stato al gioco e poi, stasera saremmo venuti qui e avremmo fatto sesso senza mai muoverci dal letto finché non sarebbe stato più umanamente possibile continuare a farlo, il che, trattandosi di te, significa parecchio tempo suppongo. Ma questo non è un mondo normale e tu non sei una persona ragionevole, quindi dovevi per forza dare di matto solo perché mi sei saltato addosso prima del tempo e dandotelo subito avrei un po' rovinato l'idea del farlo all'infinito, a meno che tu non pensi che lo staff del centro ci avrebbe lasciato scopare liberamente per quarantotto ore filate dentro le vasche termali. Tu che dici?”
“Oh.”
“Eh,” commenta. “Quindi, visto che abbiamo appurato che sei un coglione, ora ti levi quell'accappatoio e mi scopi finché non imploro pietà. E' chiaro?”
Sono sconvolto e anche un tantino spaventato, per cui annuisco velocemente e mi sto già slacciando la cintura.

*


Mi sono spogliato perché temevo che lo facesse lui con i denti e perché così deciso, sinceramente, non lo aveva ancora mai visto e la cosa mi piace parecchio. Fler è uno che ha un sacco di iniziativa, intendiamoci, non è che se ne sta lì a farsi girare e rigirare come una bambola gonfiabile. Anzi, il più delle volte si sveglia un giorno e decide che vuole provare cose e non è che mi avverte prima, le prova e amen, tanto più o meno sa che mi piaceranno per cui va sul sicuro. Il punto è che generalmente è convinto nei suoi desideri e nella sua volontà di sperimentazione, ma non è che ti ribalta o ti costringe, semplicemente ti dà buone ragioni per fargli fare quello che vuole. Decisioni autoritarie abbaiate come un generale dell'esercito, ecco, non le aveva mai prese. Ma per tutto c'è una prima volta e io sono ben contento di ricevere un ordine se quell'ordine è di scoparlo. Mi ha dato carta bianca, per così dire, e io sono un grafomane in questo senso.
Lo tiro giù sul letto, spogliandolo del poco che ha addosso e lui ha ancora la faccia incazzata, così riprendo da dove mi sono interrotto alle terme, cercando di baciarlo. Lui fa resistenza soltanto un po', giusto per ribadire il punto, immagino e poi schiude le labbra e posso sentire il suo sapore sulla lingua. Ad abituarmi a questo sapore ci ho messo un po' perché era forte e diverso da qualsiasi cosa avessi mai assaggiato prima. Ora quasi mi sembra che non ci sia stato nient'altro prima della sua bocca e del suo profumo. Sbandate così, io credo, sono destinate a cambiarti la vita se sono così forti da cancellare tutto quello che è stato prima del loro arrivo.
Mi faccio spazio tra le sue gambe e lui si sistema contro di me, solleva il bacino per strusciarsi e stringe le ginocchia in modo che non posso scappare e non posso neanche decidere il ritmo da tenere. Mi sorride sulle labbra perché lo sa che è stronzo, per questo gli inchiodo le mani al materasso e mi spingo in basso con più forza, la mia lingua ignora la sua per esplorargli la bocca con forza e per lasciarlo lì un secondo dopo, con le labbra aperte ad attendere un secondo bacio che non arriva affatto.
Il collo di Fler è un posto meraviglioso e io non lo sapevo quando ci siamo conosciuti. Ero abituato al collo delle donne, ero abituato al loro corpo, così pensavo che tra noi due niente più dell'atto stesso potesse essere interessante. Poi ho preso l'abitudine di restare disteso su di lui dopo che avevamo finito e, in quei momenti in cui prendevo fiato, ho iniziato a notare come il tendine del collo scendesse giù dritto quando piegava la testa e formava un triangolo vuoto, in cui non potevo che infilare la lingua. E lì ho scoperto che la sua pelle era salata, ma buona. Aveva il suo sapore. E quando risalivi lungo il collo e verso il lobo dell'orecchio, la sua pelle si riempiva di brividi quando anche solo lo sfioravi. I primi tempi il corpo di Fler è stato un gioco di cui scoprire le istruzioni e siccome non avevo il libretto, accarezzavo a caso per vedere la reazione.
Patrick, non si arrende sotto le mie mani, ma si stringe al mio corpo, serra le ginocchia intorno ai miei fianchi quasi cercando di spingermi dentro perché io ancora mi soffermo a toccarlo senza di fatto fare nient'altro. “Peter, per favore,” mi chiama, spingendo la testa così tanto all'indietro che il suo collo si piega ad arco sotto le mie labbra ed è una cosa che proprio non ti aspetti da uno grosso come lui. Voglio dire, tutta quest'armonia che gli piega il corpo non ce l'ha lontano da me – e con questo non voglio dire che sia la mia persona a conferirgliela ma che la tira fuori solo con me e questa è una cosa bella che mi far venire voglia di averlo sempre vicino. “Peter, da-”
Lo zittisco tornando a baciarlo e sto combattendo una lotta molto dura con me stesso per non entrare in lui e godermi il suo corpo in ogni modo possibile solo per il gusto di stare a guardarlo mentre perde l'ultima briciola di controllo che gli è rimasta. I suoi occhi si chiudono mostrando appena il bianco e le sue espressioni cambiano mentre le mie mani lo accarezzano tra le gambe e le mie dita esplorano, piegandosi al piegarsi delle sue labbra in quella specie di smorfia che precede i suoi gemiti migliori.
Potrei parlare di punti precisi, ma dei suoi non ho mai avuto la mappa, per cui è anche vero che vado un po' a caso. Non troppo, ma un po' sì. Così quando lo prendo, il punto, dico, lui mi si stringe addosso ancora di più e fra un grugnito e l'altro m'infila i polpastrelli praticamente tra i nervi del collo, tirandomi giù per mordermi meglio le labbra.
“Ora,” ordina. “O giuro che ti faccio del male.”
Rido e mentre affondo in lui, Patrick segue tutto il mio scivolare respirandomi addosso. E i suoi respiri seguono le mie spinte e si fanno incerti ed interrotti finché anch'io mi dimentico com'è che si respira e un po' prendo la sua aria, un po' deglutisco così forte che quasi mi fa male la gola.
Quando veniamo ci stiamo baciando e io so per certo di aver cercato quel bacio perché ne avevo bisogno mentre venivo dentro di lui e sentivo lui seguirmi a ruota tra i nostri corpi. Così quando gli collasso addosso scosso dai brividi – ed è meraviglioso non dover pensare a rotolare di fianco, perché lui è abbastanza forte da reggermi subito dopo, che io voglio solo morire finché non riprendo conoscenza – le nostre bocche sono ancora incollate e sorridiamo nello stesso momento prima che mi appoggi alla sua spalla. “Dovresti arrabbiarti più spesso,” commento quando le particelle di ossigeno e quelle del sangue tornano a migrare verso nord e verso il mio cervello che ne ha incredibilmente bisogno. “E' interessante.”
Lui fa una specie di risatina sconclusionata, come se fosse partito per ridere bene ma non avesse ancora abbastanza forza o fiato per farlo, così si mette comodo mentre io mi sistemo meglio. “Guarda che se vuoi che ti urli addosso, posso anche farlo per finta.”
“Non voglio che mi urli,” protesto. Ci manca solo che gli venga in mente di tornare a casa con tanga di pelle e frustino a nove code. “Solo che è stato... Boh, cioè, non lo so spiegare. Oh, insomma, vaffanculo!”
E lui stavolta l'aria per ridere ce l'ha, prima di darmi un bacio sulla testa, una roba che per una serie di traumi esistenziali io considero l'umiliazione più grossa che possa esistere sulla faccia della terra. Tranne che se lo fa lui. “Buon compleanno, stronzo.”

*


Il mio regalo di compleanno è durato ben più del mio compleanno, in effetti. Almeno quarantotto ore, non ininterrotte ma quasi. Fler detiene al momento il ragguardevole primato di avermi fatto il regalo più lungo, nonché più bello, della mia esistenza; una cosa che se la raccontiamo in giro così come ve l'ho detta, senza i dettagli che voi sapete, la gente pensa un'altra cosa. Non che pensandolo si discosterebbe di molto dal vero, comunque sia... siamo partiti di venerdì e oggi è domenica, non abbiamo praticamente mai disfatto le valige e il gentilissimo personale clonato del centro benessere non ci ha più visti nemmeno per sbaglio. Quando arriviamo alla reception la signorina molto gentile – o una che le assomiglia – si dice molto dispiaciuta di non averci visti alla lezione di tai chi la sera prima. Impedisco fisicamente a Fler di dirle che mentre loro facevano la posizione dell'arco e della freccia, io stavo posizionando lui come un origami e lo trascino verso il parcheggio mentre ride come il coglione che è.
“Avresti dovuto lasciarmi parlare, immagina la faccia!” Dice e quasi penso che si metterà a saltellare come un bambino di dodici anni, cosa che in effetti fa spesso quando è particolarmente ubriaco o particolarmente euforico.
“Tu dovresti smetterla di mettere in imbarazzo la gente!”
“Non è colpa mia se la gente s'imbarazza per delle cose normali,” protesta mentre apriamo il bagagliaio e ci infiliamo dentro le borse così come vanno. “Ma forse sei tu che ti vergogni di me!” Esclama, con il suo falso tono da diva tragica degli anni venti.
Salgo in macchina e lo guardo storto dal finestrino. “Certo, mi vergogno così tanto che vivi a casa mia,” commento. “Ora muovi quel culo e riportaci a casa.”
In quel momento sta passando la giapponese che ci ha accolti all'arrivo – che suppongo sia morta e sia in realtà il fantasma di se stessa che si aggira fra i ciliegi dopo essere uscita da un pozzo come in quel film dell'orrore – e allora lui non trova niente di meglio da fare che piegarsi a novanta sul mio finestrino, agitare il culo fasciato nei pantaloni e sorridermi. “Va bene così, austriaco?”
“Fler!”
“Cinquanta mi sembra un po' poco, non credi?” Continua lui, alzando la voce, in modo da farsi sentire dalla ragazza dietro di lui. “Non per il servizio completo!”
Voglio morire. “Fler!” Sibilo.
E lui si gira verso la giapponese. “Signorina, diglielo un po' anche tu che per scoparmi, minimo minimo sono duecento. Sono roba di classe io,” infila di nuovo la testa nella sua auto, “mica come quelle sciacquette a cui sei abituato.”
Io appoggi la testa al cruscotto e mi arrendo. “Fleeeeeeer....”
Mi appoggia un bacio sulla tempia, ridendo. “Okay, basta. Tranquillo, ho finito,” commenta, recuperando finalmente le chiavi e facendo il giro dell'auto. “E' che sei troppo uno spettacolo quando t'imbarazzi.”
“Io non mi imbarazzo!”
Lui mette in moto con un sopracciglio alzato. “Devo uscire di nuovo a roteare la mia ipotetica borsetta sul viale?”
“No!”
“Appunto, come dicevo io.” Sorride, quindi fa manovra e si lascia alle spalle un centro benessere le cui mura avrebbero molto da dire su di noi e una signorina giapponese che ci osserva con un'espressione che non riesco a decifrare e, francamente, forse non voglio perché è spaventosamente concupiscente.
Personaggi: Fler, Chakuza, Bill, Bushido
Genere: Commedia
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Prompt: Storia scritta per la maritombola di Mari di Challenge (prompt nr. 66: "Perché dovrei farlo io al posto tuo?").
Note: Io che scrivo di un Chakuza così poco carino nei confronti di Bill è credibile come la neve in pieno agosto, ma ci stava perché il fulcro della narrazione (senti come parlo difficile, nemmeno le scrivessi con un minimo di senso, queste storie!) erano Chakuza e Fler e la loro incredibile frustrazione di fronte ad una principessa tanto fastidiosa.

Riassunto: Fler annuì, lentamente. “Posso chiedere perché dovrei farlo io al posto tuo?”
PRINCESS BABYSITTING


C'erano volte in cui Fler si era chiesto per quale motivo lui e Bushido avessero litigato.
Durante le lunghe notti Berlinesi, col solo conforto di una birra tremenda nella bettola più sconosciuta del ghetto, si era domandato perché avessero litigato - cioè, non il vero motivo, quello lo sapeva, più che altro il motivo per il quale avevano deciso che quel motivo era valido per continuare a litigare. In fondo, non era poi successo un granché: Eko aveva messo le mani in un barattolo di marmellata non suo e lui aveva trovato giusto offenderlo pesantemente per questo. Bushido la pensava diversamente, d'accordo, ma erano cose che si potevano risolvere, giusto? Lo aveva pensato spesso e poi, ubriaco come un tacchino, non aveva saputo trovare la risposta e si era addormentato scomposto sul divano di casa sua.
Adesso, dopo molti anni di faida e qualche mese di riappacificazione sotto i riflettori, Fler si chiedeva esattamente il contrario: perché mai non avevano continuato a litigare, offendendosi a turno per qualsiasi stronzata e, possibilmente, cercando di prendersi vicendevolmente per il culo ogni volta che facevano uscire una canzone?
La birra non aveva una risposta neanche stavolta, anche se era costosa e servita in un bicchiere di vetro finissimo, nella hall di un albergo a troppe stelle nel centro di Los Angeles.
Il problema era che, come al solito, a decidere tutto era stato Bushido. Il tunisino era un uomo che non ti chiedeva se volevi fare qualcosa o, al massimo, come volevi farla. Ti diceva come, quando e perché l'avresti fatta, qualche minuto prima che succedesse, quindi Fler era passato dall'una all'altra domanda tempo zero. In più si erano aggiunte al problema altre questioni che inizialmente non aveva previsto, e che al momento complicavano la sua vita in maniera non indifferente.
Una delle due, la più alta, era attualmente nel suddetto albergo, a fare Dio-solo-sapeva cosa. L'altra, la più bassa, gli sedeva davanti, su una poltrona in pelle bianca, con un broncio da manuale e una birra austriaca.
Fler sospirò e bevve un altro sorso di birra, nel tentativo d far passare altri due o tre secondi, giusto per ridurre il tempo d'attesa. Chakuza, dal canto suo, si appoggiò allo schienale della poltrona, sbuffò come una vecchia zitella inacidita e gettò uno sguardo annoiato fuori dalle porte scorrevoli dell'albergo.
Fler sospirò di nuovo a quell'ennesimo tentativo di farsi notare e quindi decise che, se doveva aspettare, tanto valeva passare il tempo dandogli ascolto. "Che cosa-"
"C'è che mi sono rotto le palle," rispose Chakuza, prima ancora che potesse finire di fare la domanda.
"Di cos-"
"Di Bushido e della Principessa. Che poi devi spiegarmi perché continuiamo a chiamarlo con questo nome del cazzo. E' un ragazzo, Cristo Santo."
Chakuza bevve un altro sorso della sua birra austriaca e poi riappoggiò la bottiglia sul tavolo, ignorando del tutto il suo bicchiere di vetro finissimo. Si sistemò il cappello e Fler attese che si calmasse prima di aprire bocca di nuovo. "Non sei stato tu a chiamarlo co-"
"Era un'offesa!" Sbraitò Chakuza, agitandosi tutto.
"Vuoi farmela finire una domanda o no?" Commentò Fler, guardandolo torvo. Chakuza sostenne lo sguardo dei suoi occhi azzurrissimi ancora un po', poi espirò come fanno i veri uomini duri e quindi gli fece cenno di proseguire.
Fler si appoggiò alle proprie gambe con gli avambracci e addolcì lo sguardo. "Sono solo le dieci del mattino. Lo recuperiamo, lo portiamo dove dobbiamo portarlo, ce lo lasciamo e a quel punto siamo assolutamente liberi di fare quello che avevamo deciso di fare."
"Che era rimanere a letto per le prossime 48 ore. Direi che siamo già fuori programma," borbottò Chakuza.
"Ok.. ok.." Fler decise per la via dell'accondiscendenza. "Non proprio come lo avevamo deciso, ma nessuno ci vieta di tornare in camera."
Fler aveva scoperto di essere bisessuale e che gli piacevano gli uomini muscolosi e calvi tutto nello stesso momento, il che era stato un grande shock da dover superare. Senza contare poi che la più grande rivelazione della sua vita dopo il fatto che le fragole gli facevano venire le bolle, era avvenuta subito dopo la riconciliazione con Bushido e la conseguente campagna pubblicitaria per il CCN2. Gestire Bushido in pieno fervore mistico da fratellanza del ghetto, la propria consapevolezza di voler effettivamente scopare con Chakuza e trattenere l'austriaco dal farlo ad ogni angolo di strada era stata un'impresa titanica, dalla quale era uscito spossato e senza più forze. E quando pensava di essere ormai salvo - con Bushido distratto dalle riprese per il film - aveva organizzato quella piccola vacanza per calmare anche Chakuza, il quale, abituato ad una discreta media era un uomo estremamente sacrificato al momento.
Peccato che a Los Angeles, il luogo che aveva scelto per chiudersi dentro un albergo e dare sfogo alla sua nuova omosessualità, fosse venuto anche Bushido per assecondare i capricci della sua Principessa e peccato che il suddetto Bushido si fosse trovato a dover affrontare certi impegni telefonici improrogabili per cui Bill ora era nelle loro mani. E per quanto centinaia di ragazzine trovassero la cosa assolutamente idilliaca sui forum di mezzo mondo, loro due erano molto, molto seccati.
“Ma quanto ci sta mettendo?” Chakuza guardò l’orologio che non gli comunicava un’ora granché differente da due minuti prima, quindi gettò un’occhiata molto infastidita alle scale da dove, presumibilmente, Bill sarebbe sceso, avvolto in una nuvola di profumo e in uno scintillare di lustrini. “Perché si restaura ogni volta che deve uscire? Fosse carino, poi.”
Fler sbuffò una risata, badando di non farsi vedere. Ricordava perfettamente la faccia di Chakuza, la settimana prima, quando Bill si era presentato in tutta la sua principesca figura, con un nuovo taglio di capelli, un nuovo trucco e l’intero guardaroba di Kelly Rowland. Per una gloriosa frazione di secondo l’intera Ersguterjunge aveva creduto di avere finalmente di fronte una donna vera, poi Bill aveva aperto bocca e – nel recuperare la borsa – aveva mostrato due braccia da spaccalegna del Canada, e la magia si era infranta.
Fler aveva ancora ben chiara in testa l’espressione estasiata di Peter Pangerl un attimo prima che le sue illusioni paradisiache venissero fracassate sotto l’impietoso tacco dodici di un ragazzino alto quasi due metri capace di ancheggiare come una diva del cinema. Aveva provato della pietà per quell’uomo. Davvero. Doveva esserci un limite al dolore che gli veniva inflitto ogni volta che, per colpa di una memoria labile, si dimenticava sia che la donna del suo capo era un uomo, sia che lui stesso scopava con un uomo. Chakuza era una persona difficile.
Quando ormai Fler si era già rassegnato a vedere la bocca di Chakuza aprirsi di nuovo e riversare nell'aria un'altra sequenza di sproloqui infastiditi, la porta dell'ascensore si aprì per mostrare al mondo l'esile figura della principessa, inguainata in un paio di pantaloni di pelle e nascosta dietro un paio di occhiali enormi. “Siete qui,” esclamò senza naturalmente scusarsi per l'increscioso ritardo, per poi frugare nella borsa e tirarne fuori un foglietto che passò a Fler. “Questa è la lista.”
Fler scorse velocemente la ventina, forse più, di negozi segnati sul piccolo pezzo di carta. “In quale dobbiamo...”
“In tutti, naturalmente,” Bill si guardò intorno. “Dov'è la macchina?”
“Sul retro,” rispose Chakuza, tanto per darsi qualcosa da fare in alternativa all'omicidio. “Qua davanti c'è già un gruppo di ragazzine scalmanate che smaniano per vederti.”
Bill si avviò alla macchina senza una parola di più e i due lo seguirono sospirando.
“Quanti negozi ci sono là sopra? Venti? Trenta?” Sbottò Chakuza sibilando, certo che la sua voce sarebbe stata coperta dal furioso ticchettio dei tacchi di Bill. “Ci metteremo tutta la giornata.”
“Vedrai che si stancherà prima.”
“Non gli darò il tempo di stancarsi,” sbottò Chakuza. “Io prendo l'autostrada e lo lascio al primo autogrill come un cucciolo di cocker, con il collarino brillantinato!”
Fler nascose a stento una risata, che finì per uscirgli dal naso come un borbottio confuso.

*


Mentre Bill si provava il centoventiseiesimo paio di pantaloni, che poi puntualmente non avrebbe comprato perché troppo stretto, troppo fuori moda, troppo rosso oppure troppo giallo, tanto che ti veniva da chiederti perché avesse in primo luogo scelto proprio quel modello, Fler ripensò a come e perché lui e Chakuza erano finiti in quella situazione.
Ripensò a come Bushido si fosse presentato da lui in tutto lo splendore dei suoi trentuno anni appena compiuti e con un sorriso da pubblicità del dentifricio avesse esclamato: “Patrick, ho un compito per te,” che in lingua corrente suonava più o meno come: Qualunque fossero i tuoi piani per la giornata, li ho appena cambiati e a te non resta che annuire.
Fler, naturalmente, aveva annuito, perché lo faceva da dieci anni e perché tanto sapeva che ad iniziare una discussione con il re dei re non se ne cavava mai niente di buono e, generalmente, si perdeva più tempo che a dargli retta subito.
“Bill vuole andare a fare shopping oggi ma non posso accompagnarlo,” aveva spiegato il sovrano, mentre guardava fuori dalla finestra scostando leggermente le tende. Un'abitudine che difficilmente si sarebbe tolto, anche se era difficile che in pieno centro a Los Angeles sarebbe arrivato qualcuno a sparargli da una finestra.
“Che cosa incresciosa,” aveva commentato Fler, ironico.
“Già, gli avevo promesso che sarei stato con lui tutto il tempo e invece ho delle questioni di lavoro da risolvere,” aveva sospirato Bushido con aria affranta e, per altro, senza rendersi conto dell'ironia dell'amico.
“Insomma, che devo fare?” Aveva chiesto Fler, tanto per accelerare i tempi, dal momento che Bushido tendeva ad essere eccessivamente drammatico in queste situazioni.
“Prendi Chakuza e insieme accompagnate Bill ovunque voglia andare.”
Fler annuì, lentamente. “Posso chiedere perché dovrei farlo io al posto tuo?”
“Prego?”
Fler non si lasciò intimorire dal sopracciglio piegato del tunisino, che era chiaramente sorpreso di non vederlo reagire con cieca obbedienza. “Voglio dire, siamo approdati in America con un esercito di guardie del corpo pronte a smontare ogni ipotetico aggressore della tua bella principessa come un tavolino dell'IKEA. A cosa serviremmo io e Chakuza?”
Bushido sospirò. “Siamo in vacanza, Fler,” spiegò con calma. “E a Bill non piace essere circondato da guardie del corpo anche quando sta comprando vestiti. Anzi, soprattutto quando sta comprando vestiti. Solo che non può veramente uscire da solo senza che lo infastidiscano. Voi dovete proteggerlo, senza stargli troppo addosso.”
“Capisco.”
Fler aveva capito, sostanzialmente, che Bill voleva fare shopping senza guardie del corpo, ma anche senza che nessuno gli rompesse le palle. Una cosa pressoché impossibile se eri una star del suo calibro che, per l'appunto, aveva anche sfondato in America proprio di recente. Solo che nessuno poteva far notare al ragazzino la sua incoerenza intrinseca e meno che mai la si poteva far notare a Bushido, per il quale Bill era una creatura perfetta e loro una manica di stronzi, incapaci di sostenerne la bellezza e la smisurata meraviglia.
Chakuza cominciò di nuovo ad agitarsi sul pouf sul quale era seduto, di fronte ai camerini. Non disse niente di particolare, ma a Fler bastava il modo in cui muoveva gambe e braccia per rendersi conto che, se gli fosse stata data la possibilità, avrebbe probabilmente buttato giù la boutique a suon di bestemmie. “Se non altro stiamo a sedere,” provò a fargli notare.
“Non me ne frega un cazzo di stare a sedere,” sputò l'austriaco.
“Lo so.”
“E poi devi spiegarmi perché io sono qui. Lo ha chiesto a te, no?”
“No, lo ha detto a me ma lo ha chiesto ad entrambi,” precisò Fler. “E comunque non posso farlo da solo.”
“Che cosa? Stare qui seduto di fronte ad un camerino a dire ad una checca isterica se un paio di pantaloni gli fanno o meno il culo grosso? Certo è un lavoro da almeno due persone.”
“Il punto è-”
“Questi pantaloni mi ingrossano il sedere, secondo voi?” Chiese Bill, uscendo dal camerino di prova con un tempismo notevole e sbattendo in faccia ad entrambi il sedere rotondo come un mandolino.
Chakuza smise per qualche istante di inveire contro l'universo tutto e si dimenticò chi avesse di fronte e, cosa ancora più importante, chi avesse di fianco. Rimase a fissare il sedere di Bill con un'espressione mista tra l'ebetismo e la concupiscenza, finché Fler non gli tirò uno spintone che lo ribaltò sul pavimento. “No, Bill. Ti stanno bene,” commentò il tedesco alto due metri, con tono professionale e la voce che non tradiva affatto la presenza di un austriaco accartocciato lì di fianco.
Bill guardò Fler attraverso lo specchio, ignorando del tutto Chakuza che si rialzava. “Non lo so sai? Mi sembra che abbiano un po' troppe tasche.”
“Quelli di prima ne avevano troppo poche,” sospirò Fler.
“Perché non trovo mai quello che cerco?” Si lamentò Bill, piagnucolando e tornando dentro il camerino con altre quattro paia di pantaloni.
Chakuza si arrampicò di nuovo sul pouf. “E questo per che cos'era?”
“Oh non lo so,” sibilò Fler, guardandolo storto. “Per il fatto che sbavavi dietro al culo di Bill?”
“Io non stavo...”
“Sì che stavi.”
Il ghigno che si aprì sulle labbra di Chakuza gli arrivò da orecchio ad orecchio. “Ti stai arrabbiando per Bushido o per te stesso, fammi capire?”
“Taci, cretino.”
Bill finì per non comprare nessuna delle trecento paia di pantaloni che si era provato e uscì dal negozio con due maglie completamente nere e anonime ma di marca, del costo complessivo di seicento euro, accreditati sulla carta di Anis-tesoro, come lo chiamava Bill.
Fler doveva ancora capire perché dovesse pagare Bushido, dal momento che Bill guadagnava ben più di lui, ma poi ne concluse che doveva avere qualcosa a che fare con le incredibili abilità di Bill a letto di cui Bushido parlava sempre e di cui loro non avrebbero voluto sapere mai.
“E adesso?” Chiese Fler.
“Ho fame,” commentò Bill, seduto sul sedile del passeggero.
“Ha fame,” gli fece eco, Chakuza, da dietro. Le braccia incrociate al petto e gli occhi ridotti a due fessure che guardavano infastiditi fuori dal finestrino.
Fler lanciò a Chakuza un'occhiata di traverso, quindi si rivolse a Bill mentre svoltava. “E dove vorresti andare a mangiare?”
“Al MacDonald.”
“Chiaro, figuriamoci se per una volta evitiamo di farci del male al fegato,” sibilò Chakuza.
Fortunatamente, il locale non era pieno come si aspettavano di trovarlo, il che permise loro di trovarsi un angolo in cui nascondere la pertica agghindata perché non venisse travolta dalla folla di ammiratrici adoranti, le quali, comunque, lo avevano già adocchiato non appena messo piede nel locale e ora se ne stavano lì in un gruppetto indeciso e squittente a chiedersi se potessero riversarsi in massa accanto a lui oppure no.
Bill posò la borsa su una sedia vuota, si tolse il cappellino ma tenne gli occhiali, quindi sorrise amabile in direzione di Fler e gli sciorinò un'ordinazione lunga quattro minuti. “Tutto chiaro?”
Fler annuì. “Certo. Chakuza, vai per favore?”
“Perché devo andarci io?” Chiese Chakuza.
“Perché io devo fare altro,” commentò Fler, cercando di sorridergli, invece che spaccargli la testa tonda contro l'angolo del tavolino.
“Cosa di grazia?” S'informò l'austriaco.
“Le vedi quelle?” Fler indicò le ragazzine. “Non appena uno di noi due si allontanerà dal tavolo, lo prenderanno d'assalto.”
“Una ragione in più per restare.”
“Qualcuno deve pur prendermi da mangiare,” commentò Bill, con la boccuccia aperta ed indignata. “Non vorrete mica che faccia la fila!”
“Chakuza?” Lo invitò Fler, con un'occhiataccia che, fra tutte le cose, lo avvisava che gli conveniva fare come gli era stato ordinato se voleva vedere il suo culo, quella sera.
“Mi spieghi perché dovrei farlo io al posto tuo?”
“Perché sei basso e se quelle assalgono il tavolo, io posso tenerle a bada e tu no. Ora muoviti, per cortesia.”
Chakuza si allontanò verso le casse borbottando qualcosa sul fatto che forse sull'autostrada avrebbe lasciato anche Fler, ma senza il collarino brillantinato.
Come previsto, non appena si allontanò di un passo, il branco di sciacalli circondò il tavolino e una di loro, alta e slanciata, esclamò sicura: “Sei tu, vero?” in direzione di Bill.
Bill sorrise magnanimo, allungò una mano ungulata e disse: “A chi devo mettere?”

*


Quella di Bill non era un'ordinazione, era la lista dei generi alimentari spediti in Kosovo durante la guerra se fosse stata scritta da un vegetariano, con un'ossessione quasi maniacale per il McFlurry.
A parte la fila di venti minuti, Chakuza aveva poi avuto un colloquio di altri venti minuti con l'operatrice perché Bill voleva determinati panini, ma li voleva senza la carne, alcuni anche senza le cipolle e quelli che voleva con le cipolle li voleva senza i cetrioli. Senza contare le due insalate che aveva chiesto e i dolci e il benedetto McFlurry che doveva essere con i pezzi di cioccolata ma non mescolato e fatto dopo e non prima delle patatine, cosa che l'operatrice alla cassa lo aveva quasi rispedito al suo posto a calci nel culo.
Al momento, Chakuza aveva due vassoi – uno per mano – e stava faticosamente cercando di tornare al loro tavolo che era sparito. Dopo aver girato a vuoto almeno due volte, si rese conto che nell'angolo in cui pensava dove esserci il tavolo, c'era effettivamente il tavolo – con buona pace del suo senso di orientamento, affilato in anni di allenamenti tra i monti – ma era sommerso di ragazzine urlanti.
“Permesso!” Gridò, cercando di non rovesciare l'ordinazione della principessa e di oltrepassare il muro di scalmanate che stavano porgendo a Bill ogni genere di fotografia, foglio e quant'altro da firmare. “Ti sposti un po' più in là? Grazie!”
Dall'altra parte del tavolo, Fler era in piedi come un Bronzo di Riace accanto a Bill e osservava che nessuna delle ragazzine, allungasse le mani più del dovuto. Quando si accorse di Chakuza, piccolo e affaticato, fra le adolescenti in tempesta ormonale – ed era già strano che non si fosse accorto di tutto il ben di Dio che volente o nolente gli veniva agitato davanti – lo recuperò praticamente con una mano sola. “Ce l'hai fatta?”
“Sì,” sibilò l'austriaco, rimettendosi il cappellino. “Chi è tutta questa gente?”
“Fan,” fu la risposta.
“Fan.” Chakuza rimase in silenzio, facendo appello a quel poco di pazienza che possedeva per sopportare il cicaleccio di sei ragazzine estasiate di fronte al loro cantante preferito, ma la cosa non funzionò molto a lungo. “Okay!” Sbottò alla fine, alzandosi in piedi senza che nessuna notasse in lui alcun cambiamento. “Signorine, il vostro scarabocchio lo avete avuto. Ora per cortesia, se poteste andare ad agitare le tette da un'altra parte, ve ne saremmo grati. Tanto a lui non interessano, mi pare sia chiaro, ormai. E per noi siete troppo minorenni.”
“Chakuza!” Fler gli tirò uno spintone, mentre sorrideva amabile alle ragazzine e le invitava più gentilmente ad allontanarsi. “Bill deve mangiare, adesso. E' stata una giornata faticosa, grazie a tutte.”
Aspettarono tutti e tre che il branco fosse passato, non senza girarsi tre o quattro volte a salutare con la mano, poi Bill si appropriò del suo cibo e Fler si avventò su Chakuza con i denti quasi snudati. “Sei scemo o cosa?”
Chakuza si voltò a guardarlo con un sopracciglio rossiccio sollevato e la cannuccia della sua coca in bocca. “Perché?”
“Quelle erano fan,” ripeté il ragazzo. “Tu non puoi dire roba simile a ragazzine che vengono qui a farsi fare un autografo.”
“Ce le siamo tolte di torno, o no?” Commentò il ragazzo, addentando una patatina mentre Bill, dall'altro lato del tavolo, decideva di finire la sua insalata mangiandone una foglia per volta.
Fler rimase per almeno due minuti buoni in piedi immobile di fianco a lui, con la bocca aperta, come se davvero non capisse come l'austriaco potesse starsene lì a mangiare tranquillo dopo aver probabilmente creato il più grosso incidente diplomatico transoceanico della storia dei Tokio Hotel. Anche se, bisognava ammetterlo, nemmeno Bill si stava strappando i capelli, ma Bill non si sarebbe strappato i capelli in nessun caso – visto quant'erano preziosi – e, ora che Fler ci pensava, Chaku stesso non se li poteva strappare neanche se avesse voluto. Comunque, non era quello il punto.
“Ce le siamo tolte di torno?” Sbraitò il rapper più alto, facendo il giro del tavolo per guardare l'altro dritto negli occhi. “Tu la cortesia non sai nemmeno dove sta di casa, vero?”
“La cortesia?” Chakuza poggiò il panino e si pulì le mani sui pantaloni. “Parla quello che nelle sue canzoni usa solo parole approvate dall'oratorio!”
“Le canzoni sono un altro paio di maniche!”
“Beh, sai dove te le puoi mettere le tue maniche?” Replicò Chakuza, alzandosi e cercando vagamente di apparire minaccioso. Ci riuscì, in parte, solo fino a quando Fler non decise di sfruttare tutta l'altezza di cui Madre Natura lo aveva così generosamente dotato.
“Se non stai attento, finisce male Peter,” replicò.
“Oh voglio proprio vederla questa.”
L'intero locale si girò ad osservarli, tranne Bill che stava mandando sms a suo fratello ed era molto impegnato a masticare la stessa foglia di insalata da almeno cinque minuti.
“Io vorrei solo capire che cos'hai nel cervello!” Sbraitò Fler, incrociando le braccia al petto e facendogli così tanta ombra che Chakuza era praticamente al buio. “Siamo qui con un compito ben preciso e ci si aspetta da te una certa professionalità se proprio non riesci a dare fondo agli insegnamenti di tua madre e a comportarti come un essere umano!”
“Io sono qui perché tu non sai dire di no a quel coglione che spacci per il tuo migliore amico!” Sbottò Chakuza, osando perfino battergli un dito rotondo sul petto.
“Quel coglione è anche il tuo capo se non ricordo male.”
“Non è il mio capo, è un collega!”
“Che possiede metà della tua etichetta!” Replicò Fler, inclinando la testa di lato.
“E si può sapere questo cosa c'entra col fatto che dobbiamo portargli in giro la fidanzata, come fossimo due guardie del corpo, cosa che non siamo e anche se fossimo non ci pagherebbe?!”
Senza voltarsi, Fler indicò Bill che stava sempre mangiando insalata e non li degnava della minima attenzione, mentre scriveva messaggi. “E' un maschio!”
“Quello che è!” Sbottò Chakuza, lanciando le braccia in aria.
Ne seguì un momento di silenzio e fu solo per quello che sentirono il cellulare di Fler squillare.
Fler indicò all'altro di stare zitto un minuto e Chakuza borbottò qualcosa di vago, tornando ad infilare patatine nella maionese.
“Dove cazzo siete?” Fu la prima cosa che arrivò quando Fler accettò la chiamata.
“Al McDonald's,” rispose il rapper e poi, subito dopo. “Sì, certo che è qui.”
“E' tardi, cosa ci fate ancora in giro a quest'ora?”
Fler pensò che le sei del pomeriggio non fossero poi un'ora così tremenda per portare a spasso le principesse, ma si guardò bene dal dirlo, anche perché Bushido si alterava irrazionalmente quando c'era di mezzo Bill, come se senza la sua regale persona quel ragazzino potesse sempre essere in pericolo di vita.
“Voleva mangiare al fast food e ce lo abbiamo portato,” spiegò con calma, mentre quasi mezzo metro più in basso Chakuza ricominciava con la tiritera che se al re premeva tanto sapere dov'era il suo ragazzino, che ci stesse lui in giro a servirlo e riverirlo. Fler gli tirò un calcio.
“Beh, vedete di riportarlo a casa. E subito, anche.”
“E' Anis?” Cinguettò Bill, probabilmente percependo il tono sostenuto che usciva impunemente dalla cornetta. “E' Anis, vero? Me lo passi?”
Fler gli porse il telefono e Bill si mise letteralmente a saltellare. “Amore, ciao! Ho comprato un sacco di cose stupende!”
“Dobbiamo andare,” annunciò Fler a Chakuza mentre, alle sue spalle, Bill si perdeva nel raccontare che cosa avesse comprato di preciso e anche cosa pensava di comprare e poi invece aveva lasciato in negozio.
“Non ho ancora finito di mangiare,” gli fece presente Chakuza, indicando il panino morso solo a metà.
Fler inspirò ed espirò per ritrovare la calma, quindi si chinò verso quella piaga austriaca così soddisfacente a livello sessuale eppure così esasperante in tutti gli altri campi della sua esistenza e gli parlò all'orecchio. “Prima riportiamo il prezioso culo della principessa al suo legittimo, snervante e prepotente proprietario, prima possiamo dedicarci a quello che volevamo fare oggi.”
Chakuza smise di masticare e mandò giù il panino per intero, quindi si alzò e in meno di tre secondi era già praticamente pronto. A tutto.
“...E poi ho comprato un paio di stivali argentati con le perline che-tesoro ma mi stai ascoltando?” diceva intanto Bill. “No, tu non mi stavi a sentire. Che cos'ho detto?”
Mentre Bill si faceva giurare e spergiurare da Bushido che era stato attentissimo e non si era perso nemmeno la descrizione del più minuscolo dei bottoni, Fler sospirò e lo aiutò ad entrare nel giubbotto, infilandogli lui stesso prima un braccio e poi l'altro come con i bambini.
Chakuza aveva già le chiavi in mano. “Preparo la macchina.”

*


Fler non ricordava già più che cosa avesse detto Bushido quando avevano bussato alla porta della sua camera da letto e vi avevano lasciato scivolare all'interno Bill sano e salvo. Era certo che si trattava di qualcosa di molto epico ma che non comprendeva nessun ringraziamento. Poteva anche giurare, senza sbagliarsi di troppo, che Bill aveva squittito, per poi saltellare, per poi gettarsi fra le braccia del tunisino, strusciandosi e mugolando indegnamente. Da lì in poi tutto si faceva confuso. Chakuza lo aveva certamente preso per un polso, trascinato per tutto l'albergo e infilato nella sua camera ma Fler non si ricordava precisamente come ciò fosse avvenuto. Un attimo prima stava dicendo a Bushido che Bill era sano e salvo e l'attimo dopo era schiacciato contro il materasso e Chakuza lo stava baciando. Ora, a meno che non si volesse attribuire all'austriaco un potere di teletrasporto di qualche tipo, evidentemente dovevano aver camminato.
Fler si chiese se avessero iniziato a limonare già dopo aver chiuso la porta di Bushido e se qualcuno li avesse visti, ma fu solo un lampo di lucidità nella piena oscurità della sua libido e, soprattutto, di quella di Chakuza che, da sola, li aveva già avvolti entrambi.
Il fatto che nemmeno mezz'ora prima avessero litigato furiosamente di fronte a Dio solo sapeva quante persone e che, per altro, lo avessero fatto come due checche isteriche, non sembrava avere nessuna importanza per l'austriaco, al momento. E, a dirla tutta, nemmeno per lui. Il fatto era che non gli veniva tanto bene rimanere arrabbiato quando finalmente riusciva a portare a termine il suo unico piano per la giornata – farsi scopare – e quando le mani di Peter erano nel posto in cui dovevano stare – nelle sue mutande.
Mugolò qualcosa, mentre Chakuza gli tirava la maglia. Ci fu un momento in cui rischiò di venir soffocato ma fortunatamente ne uscì abbastanza vivo da poter mettere mano ai pantaloni dell'altro e spogliare anche lui. Mentre Peter lo appoggiava di nuovo tra i cuscini, quasi fin troppo dolcemente per i suoi standard, Fler notò quanto fosse morbido il letto e profumate le lenzuola, quanto fossero pesanti le sue braccia e le sue gambe, e quanto fosse difficile tenere gli occhi aperti mentre Chakuza lo baciava.
Sentì vagamente i baci di Chakuza scivolare dalle labbra al mento, dal mento al collo, fino a posarsi su una spalla e lì restare, con Chakuza in una posizione scandalosamente indecente e ridicola.
“Stai dormendo?” Chiese Fler.
“No,” mugolò Chakuza, senza muoversi. Poi gli strusciò il naso addosso, fino a piantarglielo nel collo e sospirò, mugolando qualcosa di incomprensibile.
“No, infatti, nemmeno io.”
Accompagnare sua maestà a fare spese era un lavoro da uomini duri e ben allenati. Magari potevano dormire un paio d'ore e ricominciare alla grande subito dopo. Fler gli strinse un braccio intorno alle spalle e Chakuza si sistemò meglio.
Un attimo dopo, dormivano entrambi.
Personaggi: Fler, Bushido, Bill, Chakuza
Genere: Introspettivo
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: NC-17
Prompt: #63 ("No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no.") della Criticombola.
Note: La genesi di questa storia è molto complicata e anche totalmente assurda. Tutto inizia da un cavallo, che però non c'è. E dalla mano di Chakuza, che in sostanza c'è, ma non come inizialmente era stata pensata. Il tutto doveva poi proseguire con Chakuza che picchiava Bill, e questo c'è. Quindi mi è stato chiesto che finisse in Flerkuza. E questo è quanto. Il nesso logico che sta dietro a tutte queste cose non lo so quale sia, ma tant'è...
Un grazie a Liz per il titolo e per aver aiutato Chakuza ad avere delle motivazioni. Un grazie a Fedy perché si è sopportata la piaga, cioè io.

Riassunto: In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.
UNINTENDED


Nella mia vita ho sempre avuto pochi punti fermi. Quando vieni al mondo senza un padre e tu e tua madre avete così pochi soldi che non sapete mai se il giorno dopo arriveranno con le ruspe a portarvi via la casa, lo capisci subito che niente rimane mai del tutto certo e che da un momento all'altro potrebbe ribaltartisi il terreno sotto i piedi. Per questo impari a non fidarti di nessuno perché tanto sai che bene o male, così i fatti della tua vita, anche le persone prima o poi ti gireranno il culo e se ne andranno per la loro strada.
Io ho imparato a fidarmi solo di me stesso a cinque anni, il giorno che mia madre mi lasciò come un cretino davanti al portone della scuola quando invece avrebbe dovuto venirmi a prendere. Io esco e vedo tutti i miei compagni di classe che si gettano tra le braccia delle loro madri e della mia neanche l'ombra. Così mi siedo, aspetto, ma lei non viene. Aspetto fino a quando la bidella non si rende conto che io sono lì da chissà quanto e allora cerca di rintracciare mia madre. Quando sono cresciuto ho capito che quel giorno lei era solo troppo presa dai suoi debiti e si era dimenticata per quello, mica perché non mi volesse bene – io non ce l'ho con mia madre – ma certe cose ti segnano e in qualche modo non te le levi di dosso più.
Io però non sono un pessimista. Io non penso che le cose andranno sempre male, metto solo in conto che potrebbero farlo, così mi preparo psicologicamente alla colata di merda che poi viene giù. Una parte di me, però, ci spera che tutto vada bene. E' per questo che alla fine, nel corso dei miei ventisette anni, un po' di costanti le ho messe da parte. La costante più grossa, quella che proprio non posso ignorare è Anis. E non tanto lui in quanto lui, che voglio dire sì potrebbe anche costituire una variabile costante della mia vita di per sé, ma in particolar modo quello che intorno ad Anis si crea, si distrugge e gravita.
Anis non è una persona normale. Voglio dire, un ragazzo che a diciassette anni è già uno degli spacciatori più noti del quartiere è uno che si avvia a passare più tempo in galera che a casa, o a diventare un rapper di fama mondiale, o magari a crepare giovane. Una delle tre cose, ma di certo non è normale. Questo tipo di persone generalmente sono dotate o di armi estremamente pericolose o di molto fascino. Anis aveva solo una Heckler risalente con ogni probabilità all'anno di fondazione della fabbrica e un coltellino a serramanico che, sì, poteva farti l'appendicite ma per stenderti dovevi proprio mirare alla giugulare e non è che Templehof fosse una giungla dove la gente combatteva corpo a corpo. Più che altro si sparava, quindi il coltello serviva a tagliare la roba e a dimostrarsi molto cazzuti. In quanto alla pistola, Anis l'ho visto sparare due volte e vorrebbe dimenticarle entrambe anche lui perché ci ha perso più di quanto ci ha guadagnato. Insomma, questo per dire che il signor Ferchichi aveva molto carisma.
Il problema delle persone come Anis, che spargono fascino intorno a sé come fosse colonia e chiunque lo annusi anche solo di striscio finisce poi per corrergli dietro come un cagnolino, è che generano caos. Voglio dire, Anis non è una persona cattiva. Ha rubato, spacciato, ha anche ammazzato, okay, ma di base non è uno cattivo. Quello che ha fatto, lo ha fatto perché era l'unico modo che conoscesse di sopravvivere nell'ambiente in cui il buon Dio aveva deciso di farlo crescere. Non è che lui un giorno si è svegliato e ha deciso che avrebbe fatto il delinquente. Lui, se lo conosco bene – e sì, lo conosco bene – si è svegliato una mattina e ha deciso che avrebbe governato la Germania, perché è egocentrico e megalomane, ma visto che di studiare, fare carriera e magari candidarsi in politica non aveva possibilità, ha percorso l'unica altra strada possibile e si è messo a spacciare per diventare un boss di quartiere. C'è da dire che ha avuto il culo di diventare famoso cantando, così adesso non ha bisogno di contrattare per l'eroina e ha i soldi e la faccia sufficienti per candidarsi. Vedete? Obbiettivo raggiunto. Ma in tutta questa strada, lui non ha mai pensato di rovinare la vita delle persone o di generare meccanismi di distruzione. Lui ha fatto solo quello che voleva, sono gli altri – siamo noi, tutti – che gravitandogli intorno come satelliti abbiamo finito per cozzare e farci del male. Non incolpi il sole perché attira i pianeti, in fondo con la sua forza li tiene anche insieme, no?
E io non incolpo Bushido se è successo quello che è successo – perché davvero non ne ha colpa, non era nemmeno presente il più delle volte – però so che è lui il motore scatenate di questa tragedia. E' stato lui a mettere per primo il dito sulla tessera del domino che poi si è portata dietro tutte le altre. Quindi è da lui che devo iniziare a raccontare.

*


Otto settimane fa, l'Aggro Berlino ha iniziato a chiudere.
Un'etichetta è un'attività come qualsiasi altra, per cui per chiuderla non impieghi né più né meno del tempo che impiegheresti a chiudere la bottega di un salumiere. Innanzi tutto bisogna decidere di chiudere e poi inizia la lunga trafila burocratica che è sostanzialmente composta da troppi fogli in doppia copia con altrettante firme. Ora, generalmente chi lavora per una certa etichetta, sa che questa chiude dopo che l'ultima firma è già stata messa, a meno che non ci sia la volontà di aprire un'altra etichetta e di trasbordare un po' degli artisti in questa nuova attività. Sido non voleva niente del genere. Sido voleva semplicemente chiudere bottega, sedersi sul suo divano e contare il mazzetto di soldi che gli avrebbero dato come conseguenza, dopodiché alzarsi, cambiare look, genere e atteggiamento e rivendersi da solo sul mercato come l'uomo che si è ravveduto, ha fatto pace con la sua ex e ora porta il bambino a spasso, un po' infastidito dall'attenzione mediatica, anche. Una cosa ben più disgustosa di ciò che ha fatto Anis, che per lo meno è sempre stato una testa di cazzo con manie di grandezza, non è che passando alla Universal ha agito fuori dal suo personaggio. Ha tradito me, ma non è questo il punto.
Sido ha l'accortezza di invitarmi fuori a pranzo per dirmi che ha intenzione di chiudere l'etichetta, questo otto settimane prima che ciò avvenga. Lo fa, mi dice, perché è anche grazie a me che l'etichetta è andata avanti dopo la defezione del tunisino – come lo chiama lui – e che così posso guardarmi un po' in giro e vedere se ci sono altre direzioni da prendere. Grazie, penso, meno male che me lo hai detto, stronzo. Ci mancava solo che arrivassi un giorno, mentre io qui sto già preparando roba per il prossimo album, e con il tuo bel sorriso tirato da ragioniere mi avvertissi che la baracca chiudeva, così di punto in bianco. Ovviamente io non posso avvisare nessuno, quindi passo tutto il tempo che mi resta in tensione e mi sento anche un traditore perché io già mi sto muovendo per pararmi il culo ma nessuno qui ha idea di cosa li aspetta.
Anis a quel punto deve subodorare qualcosa. Non so se è lui che annusa l'occasione come un cane da tartufo o io che mi muovo un po' troppo goffamente tra i nuovi produttori, fatto sta che a tre giorni esatti dalla chiusura lui mi telefona e m'invita a cena a casa sua.
Casa di Anis è un vergognoso spreco di spazio. Lui ci vive da solo e anche volendo credere alle voci che lo dipingono mentre si intrattiene con un numero elevato di procaci signorine tutte quante assieme, il numero dev'essere per forza minore delle stanze che possiede o gli verrà un infarto prima dei quarant'anni. Questo è quello che penso quando ci metto piede per la prima volta e una volta in salotto mi sembra di stare in mezzo ad una reggia. Diciamo che è stato abbastanza stronzo da incontrarmi dopo quasi sei anni in un terreno famigliare soltanto a lui e, soprattutto, uno che mi facesse sentire estremamente inadeguato. Ma casca male, perché è stato lui ad insegnarmi che anche se vieni dalla merda questo non vuol dire che non vali niente, quindi io lo saluto con una scrollata di capo e dei suoi pavimenti in marmo me ne infischio totalmente.
E questo è tutto ciò che succede, facciamo pace così. Due settimane dopo decide che è arrivato il momento per un altro Carlo Coxx Nutten e quello è il vero inizio della fine.
Imparo fin da subito che Sonny Black non ha abbandonato l'idea di un regno diventando Bushido e quindi la prima cosa che mi tocca fare, dopo aver conosciuto il re, è conoscere la sua corte. Io non so perché mi tocchi quest'onere. Suppongo sia perché questa corte non è composta da un gruppo di persone che lavorano per lui, ma da un gruppo di persone che è legato a lui per le motivazioni più svariate e lui non solo vuole farmele conoscere perché è orgoglioso e tronfio di avere una corte ma perché da qui in avanti ne farò parte anch'io – come ogni altra persona che intorno a lui gravita – e non posso non conoscere i miei compagni di sventura. Alla trappola di Anis non c'è mai veramente scampo – gli vendi l'anima, è come stare appresso al demonio – ma se avessi voluto scappare, allora forse non avrei risposto alla sua telefonata.
L'impatto iniziale non è negativo. Voglio dire, quando faccio la mia comparsa sulla porta dell'Ersguterjunge ne seguono due minuti di insulti ma, in generale, poi tutti si placano e la scelta del sovrano è unanimemente accettata senza un fiato. La cosa, devo dire, un po' m'inquieta perché è come osservare un gruppo di ipnotizzati pronti a saltare come conigli al primo schiocco di dita. Mi vengono in mente le riunioni all'Aggro Berlin dove qualunque decisione doveva essere presa al vaglio urlando e poi finiva che Sido decideva per tutti, mandandoci ripetutamente a zappare l'orto in maniera molto meno fine. E la cosa, per quanto poco professionale, mi sembrava molto più sana. La riverenza che si respira in questo posto mi ricorda la riverenza che avevo io per lui a quattordici anni, mentre sul muretto di fronte alla stazione mi raccontava com'è che bisognava contrattare con i nigeriani.
Ricordo all'improvviso che il mio rapporto con Bushido non è mai stato neanche lontanamente vicino all'amicizia. Era qualcosa che l'amicizia la superava e poi se ne allontanava così tanto che a guardarci da fuori non lo so esattamente cosa si vedesse. Lui mi ha fatto da padre quando ne avevo bisogno, ma quando poi ho imparato a farne a meno lui si è trasformato in qualcos'altro. E allora abbiamo smesso di dare un nome a quello che rappresentava. Mi chiedo come ci abbia visto questa gente che lo ha conosciuto dopo che abbiamo litigato, cosa sappiano di me. Niente, immagino, perché Anis non poteva dirgli quello che siamo, visto che quello che siamo non ce lo siamo mai detti neanche tra di noi.
Quel primo incontro tra me e loro, come dicevo, non va poi così male ma nel gruppo di persone presenti quel giorno mancano le due più importanti e le conoscerò qualche tempo dopo, per caso – o forse perché Bushido ha deciso che il caso facesse come voleva lui – a casa di Anis.
Tutti sanno che Bushido un giorno ha deciso che si sarebbe seduto sul divanetto di uno studio televisivo, avrebbe guardato in camera e avrebbe chiesto a Bill Kaulitz del sesso orale. Questo per due ragioni fondamentali: la prima, è che questo avrebbe aumentato l'immagine da stronzo strafottente che si era creato con tanta cura. La seconda è che Bill è famoso, molto famoso, e chiedere un pompino ad una principessa come Bill in diretta televisiva avrebbe fruttato un sacco di soldi, ascolti, e fan aldilà di una frontiera che mai e poi mai si deciderà a valicare. Quello che tutti non sanno è che questi due sono amici. Ma amici veramente, intendo. Anis ha preso questo ragazzino travolto da un successo più grande di lui e lo ha praticamente preso sotto la sua ala – lo ha strapazzato un po' nel processo, d'accordo, ma questo è un atteggiamento molto da lui. La sua è una tenerezza molto ruvida.
Quando incontro Bill, inizialmente mi chiedo cosa ci stia a fare lui in casa di Bushido e perché, fra tutte le cose possibili, sia seduto in pigiama sul suo divano a mangiare waffle freschi appena sfornati. Lo guardo e lui mi sorride. “E' da tanto che volevo conoscerti,” mi fa, dopo essersi presentato educatamente, senza dare per scontato che io conosca il suo musino truccato solo perché è stampato su qualsiasi superficie disponibile. “Ma Bu non voleva... fino ad oggi.”
Bu? So che in questo momento mi passa per il cervello ogni genere di possibilità, ma poi mi dico che qualunque sia il motivo che spinge Anis ad accettare questo nomignolo deve aver a che fare con qualcosa che davvero non voglio sapere. Voglio dire, io entro in questa casa e Bill Kaulitz – non propriamente un modello di mascolinità – ha tutta l'aria di averci passato la notte e di averlo fatto spesso, anche! E poi il nomignolo.
Io sapevo che Bushido era molto etero, ma so anche che è molto fisico. E molto disposto a superare certe barriere se in quel momento lo ritiene necessario. E poi questo ragazzino sembra una ragazza, non lo so. Quindi due più due...
E invece no. No nella maniera più assoluta. Questo lo scopro ovviamente una sera a caso nei mesi successivi, quando alla fine non ce la faccio più e l'ennesima volta che trovo il ragazzino che dorme nel suo letto gli faccio notare che poteva anche dirmelo che aveva passato la sponda. La butto lì così, un po' sul ridere, ma in realtà sono nervoso come non mai perché non chiedi mai veramente una cosa del genere ad un altro uomo con leggerezza. Non quando ha effettivamente un ragazzo nel letto. Ricordo che Anis ha riso e ha detto: “Bill non è una principessa che spetta a me.” Ora lo so cosa voleva dire e mi piacerebbe poter tornare indietro nel tempo, dare due sberle a Bushido per la leggerezza con la quale ha affrontato la questione, poi prendere Bill in braccio e portarlo via. Ma in quel momento io non so proprio niente, quindi sollevo solo un sopracciglio e dico: “Quindi tu e lui, non...”
“No, Patrick,” quindi si alza e mi passa una birra, cambiando discorso.
Da quel momento, parlare con lui di Bill in questi termini è assolutamente fuori questione. Non è che si arrabbi, ma fa sempre in modo di cambiare argomento. E allora lo osservo trattare questo ragazzino assurdo come se fosse uno dei suoi, ma un po' più speciale degli altri. E vedo gli altri che si adeguano ai voleri del re e gli fanno spazio perché sia adeguatamente protetto, da chi e da cosa non importa. La protezione di Bushido non implica necessariamente che ci sia qualcuno che ti voglia male adesso. E' come un rifugio. Proteggerti è il suo modo di esserti amico e siccome non è in grado di relazionarsi con le persone senza possederle in un modo o nell'altro, Bill è diventato una cosa sua. Una cosa che lui sta curando.
Il giorno che lo trovo a mangiare i waffle sul divano di Anis, è anche il giorno che scopro Chakuza, anche se scoprire forse non è la parola più giusta. Non è che io non conoscessi Peter Pangerl, voglio dire, non vivevo sotto una roccia e poi Sido lo aveva inserito nel suo grande elenco di gente a cui tirare della merda, per cui lo sapevo chi era. Non mi aspettavo di trovarlo nella cucina di Anis, però. Ricordo perfettamente che ad un certo punto mi sono anche chiesto cos'altro nascondesse quella villa, dal momento che non era poi così vuota. Comunque sia, il nodo centrale della mia scoperta è che Chakuza è colui che prepara i waffle. Immaginatevi la scena: Bill mi saluta e poi trotterella scalzo verso la cucina. Io lo seguo con lo sguardo e trovo quest'uomo alto un barattolo che prepara dolci in una cucina non sua. Grazie a Dio, penso, almeno non è in pigiama.
Il ruolo di Chakuza in questa faccenda mi è inizialmente molto chiaro, nel senso che l'austriaco è comproprietario della Beatlefield e la Beatlefield è finanziata dall'EGJ, di conseguenza quest'uomo lavora per Bushido. Non solo, ma a giudicare dal ciarpame che quest'etichetta produce, lui è anche uno che ci sa fare e Anis ci tiene molto. Pare che Chakuza lo abbia proprio inseguito, Anis, per farsi ascoltare e la sua testardaggine lo ha premiato perché adesso Anis non fa un passo senza di lui. Ma non è questo che mi sconvolge in quel momento e non è neanche il fatto che stia cucinando e fischiettando mentre lo fa. Quello che mi sconvolge è che quando sente entrare Bill si gira e incrocia il mio sguardo. Per un istante lunghissimo, tipo, non lo so, mille ore, io rimango lì così a guardarlo e non so nemmeno perché visto che lui è oggettivamente bruttino, e lui fissa me e dallo sguardo che ha penso invece che io non sia tanto bruttino per lui. Se ci penso, immagino che avrei dovuto chiedermi di lui come mi ero chiesto di Anis, ma per qualche motivo non mi è venuto di farlo. Forse perché lui ce l'aveva scritto in faccia che mi si sarebbe saltato addosso anche subito, che ne so?
Comunque, dicevo, che inizialmente il suo ruolo in questa casa – che poi è il centro dell'Universo di Bushido, perché c'è sempre gente che entra, che esce, che resta a dormire, cucina, fa i piatti e gioca ai videogiochi. Tutto qui, come se fosse una specie di casa comune – mi era apparso quasi cristallino, ma in effetti sarebbe stato troppo semplice che questo austriaco fosse qui a cantare in rima e a fare dolcetti. Cioè, forse non cristallino ma sensato o forse nemmeno quello. In ogni caso il punto è che quando ho messo piede in quella casa, seguendo i malefici piani del tunisino, io non lo sapevo che avremmo istantaneamente smesso tutti quanti di cantare per entrare in un vergognoso ginepraio di storie d'amore.

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Nel corso delle settimane successive mi rendo conto di due cose: Bill è perdutamente innamorato di Chakuza e Chakuza vuole disperatamente entrarmi nelle mutande. Ovviamente le due cose creano un incidente diplomatico che non ha bisogno di nessuna spiegazione. Io qui dovrei aprire bocca, magari parlare con Bill, o con Anis, ma non lo faccio. L'unica cosa che mi permetto e continuare a rifiutare con insistenza gli insistenti tentativi di schienarmi di Chakuza.
Volendo analizzare entrambe le situazioni non credo di essere in grado di trovarne le cause o le motivazioni. Voglio dire, Bill è una creatura estremamente delicata e non è sfuggito a nessuno, nel mondo, che è molto carino e che ha un certo senso estetico. Come questo senso estetico gli abbia permesso di trovare Chakuza appetibile, io non lo so. E non voglio nemmeno saperlo, perché se ripenso al modo in cui Chakuza mi ha guardato la prima volta che l'ho visto, forse una motivazione la trovo e non credo che sia sano per me farlo.
Ad ogni modo, accorgersi che Bill è innamorato non è difficile. Il ragazzino è piccolo, nella testa, ma soprattutto nel cuore, quindi la sua attrazione per quell'uomo lo coinvolge a tutti i livelli e fa sì che in sostanza non veda praticamente nient'altro, nemmeno il fatto che Chakuza non è dello stesso avviso. Quando siamo da Bushido o alla sede dell'Ersguterjunge, Bill non fa che trotterellargli intorno e cercare il suo sguardo in continuazione. E' di una tenerezza disarmante, perché lo vedi che evidentemente è la prima sbandata che si prende e fa i salti mortali per anche solo sederglisi accanto. Tutto questo suo gran frullare di ciglia, però, non serve a molto perché Chakuza non sembra affatto interessato. Gli dedica poca attenzione, anche quando Bill praticamente gli muore davanti, addosso e lo ascolta come se dalle sue labbra uscisse la verità del mondo. Inizialmente penso che lo faccia perché non vuole incoraggiarlo, poi mi trovo schienato nel gabinetto dell'Ersguterjunge e, improvvisamente, la questione mi appare più chiara.
Ora, io sono piuttosto alto, sfioro quasi i due metri, e sono grosso di costituzione. Perfino da piccolo ero alto e largo il doppio di tutti i miei compagni. Ero uno di quei ragazzini, per intenderci, che quando li vedi accanto ai loro coetanei pensi che siano di due o anche tre anni più grandi. E adesso che sono passati anni e che con la palestra ho perso un po' di goffaggine e ho guadagnato dei pettorali, sono un discreto armadio, so di esserlo e quindi non sono abituato ad essere sbattuto contro una superficie. Non da un uomo che all'età di nove anni deve aver smesso di crescere. Chakuza mi arriva allo sterno, capite? Eppure riesce a prendermi e spostarmi di peso contro la porta di un gabinetto. Non voglio nemmeno giustificarmi dicendo che mi ha colto di sorpresa, perché non lo ha fatto. Io stavo camminando lungo il corridoio e lui mi veniva incontro dalla parte opposta. L'ho visto arrivare! Eppure non è servito.
“Che cosa vuoi?” Chiedo.
“Non pensavo di doverlo spiegare,” fa lui, tenendomi schiacciato contro la porta con il bacino. Credo che sia il suo modo di consegnarti il biglietto da visita, o una cosa del genere. Mi permetto di notare che ha della motivazione con sé e poi mi permetto anche di dimenticarmi istantaneamente di averlo pensato anche solo per un secondo. Non so cosa mi prende, ma è sicuramente colpa di Bushido.
“Chiedere non si usa più?” Vorrei che la domanda suonasse molto più, tipo, non so, minacciosa ma è la domanda stessa a non permettermi un certo atteggiamento. E ad ogni modo ho una mano del nano nei pantaloni. “Okay, senti, molto lusingato, ma no.”
“Non ho ancora fatto niente.”
“Ed è già no,” insisto. “Immagina cosa sarebbe se facessi qualcosa.”
Un attimo dopo, lui ci riprova e quello subito successivo sono io che lo stampo contro i lavandini del gabinetto ed esco. Mi aspetto che ciò non avvenga mai più, ma capita nemmeno ventiquattro ore dopo. Quell'uomo è sfiancante ed insistente. In tutta la concentrazione del suo scarso metro e quaranta non demorde nemmeno quando gli dico chiaro e tondo che non scoperò con lui né ora né mai. Sinceramente io potrei dire a Bushido che uno dei suoi collaboratori è un ninfomane e che, dal momento che lavoro qui, si potrebbe ben parlare di molestie sessuali ma nonostante tutto ho ancora dell'amor proprio e in ogni caso credo che Anis mi guarderebbe con un'espressione perfettamente scettica e mi farebbe notare che, nel caso, sono fisicamente in grado di difendermi. E non potrei che dargli ragione. Così proseguo la mia vita, nella costante oscillazione tra il lavoro e il tentativo di fermare questa trottola impazzita delle Alpi. Il tutto mentre mi chiedo cosa ne penserebbe il ragazzino se sapesse come stanno le cose.
Bill parla di Chakuza come se fosse la cosa più bella del mondo e io davvero non lo so da dove gli venga tutto questo amore. Chakuza non ci tenta neanche ad essere carino con lui. Voglio dire, non è un essere umano carino in generale: è disarmonico, ha una voce totalmente sbagliata per il corpo che ha e quando ride è sguaiato, ma non fa neanche niente – ma proprio niente – per far vedere a quel ragazzino che almeno lo ha notato. Eppure Bill lo adora.
Quando mi viene da fare questo ragionamento, penso che a quattordici anni io ero convinto che uno che iniziava metà delle frasi che mi rivolgeva con “Fler, coglione, vieni qua!” fosse un grand'uomo, quindi forse dovrei stare zitto. E' che ci sono delle persone che quando ti stanno intorno, senti lo stomaco che si ribalta. E' una specie di potere che hanno su di te e tu non puoi farci niente. Quelli se ne stanno lì, occupano tutto lo spazio anche senza muovere un dito e tu senti quest'ondata in fondo allo stomaco che si porta via tutto. Io stavo così con Anis. Era una roba tremenda. Quando sapevo che dovevamo uscire mi si chiudeva la gola e mi prendeva l'ansia perché volevo essere perfetto – mica poteva pensare fossi un cretino! - e controllavo ogni parola che stavo per dire e il modo in cui muovevo le mani, perché lui non faceva mai un movimento fuori posto e invece io non sapevo bene come gestire braccia e gambe. Stargli vicino era un lavoro, perché vivevo nella speranza di diventare come lui o almeno guadagnarmi il suo rispetto. E non ce l'avrei mai fatta se continuavo a parlare a vanvera o a buttare giù cose quando agitavo le mani. Così penso che Bill si senta allo stesso modo, che il suo cervello escluda i difetti evidenti di quest'uomo e ne veda solo le caratteristiche che scatenano quell'onda calda che gli chiude la gola.
Generalmente quando arrivo a questo punto del ragionamento evito di pensare oltre: a Bill, a Chakuza e soprattutto ad Anis che ogni tanto mi chiede le cose e io mi fermo cinque minuti a decidere come rispondere. Sì, ancora.

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Certe situazioni, quando si protraggono sempre uguali a loro stesse per troppo tempo, hanno due modi di concludersi: o si modificano lentamente, fino ad estinguersi, oppure all'improvviso esplodono, degenerando, come se qualcuno, da qualche parte, avesse premuto un grilletto. Naturalmente a noi capita la seconda. Il nostro grilletto lo preme Chakuza, il giorno che per l'ennesima volta ci prova, infila le mani e il sottoscritto lo ferma un attimo prima che il suo cervello smetta di lottare. Il processo degenerativo di questo quadrilatero di disperazione è molto lento, comunque, nel senso che non c'è una vera propria esplosione sul posto, è più un rotolare nell'insolvibile.
Tutto inizia che siamo tutti e quattro a casa di Anis, tanto per cambiare. Tra me e lui stiamo cercando di dare un senso a quattro pagine di vaneggiamenti che ho scritto mentre ero ubriaco. Sappiamo che c'è del salvabile, ma dobbiamo trovarlo tra il marasma generato da quattro bottiglie di birra e così ci mettiamo sul tappeto a rileggere tutto. Bill è qui da ieri sera, anzi, è qui da una settimana perché suo fratello si è regalato una vacanza con il loro amico Andreas e insieme, i due deficienti, hanno intenzione di devastarsi in vari locali della nazione. Bill non aveva alcuna intenzione di seguirli e siccome da solo si deprime come una pianta al buio, Anis lo ha invitato a stare da lui. Quando sono entrato era in pigiama ma ha fatto in tempo a mettersi in tiro per l'arrivo di Chakuza, che è qui in veste di non so cosa ma che probabilmente è stato mandato da Dio. Non ho ancora capito se per punire me della mia vita di delinquente, o per punire Bill – con la sua indifferenza – per la sua vita immorale agli occhi del Signore.
Ad ogni modo lo vedo che si siede sul divano e vedo Bill che lo raggiunge e cerca di fare conversazione, una qualsiasi. Mentre sono lì che mi canto la canzone a mezza voce per trovare un senso ad una rima che non ce l'ha, sento lo sguardo dell'austriaco che mi perfora il retro della testa, lo sento tutto il tempo e devo ammettere che ho quasi paura, ad un certo punto, ad alzarmi ed andare in bagno.
La villa di Bushido non è veramente una casa, come dicevo, è un labirinto. E prima di trovare un gabinetto, ho tutto il tempo di ricordarmi la storia dei Minotauro e di come gli sacrificassero delle giovani vergini di tanto in tanto. Io non sono vergine, ma il Minotauro spunta lo stesso da dietro un angolo. E ha la faccia di Chakuza.
Per un attimo mi chiedo se sto vedendo davvero quello che mi sembra di vedere, perché non è davvero possibile che quest'uomo sia appoggiato con una spalla al muro, le gambe incrociate all'altezza delle caviglie e mi guardi come uno che sa già con assoluta certezza che stasera batterà cassa con il sottoscritto. No, perché è questo che Peter Pangerl – in arte Chakuza – sta facendo e io non riesco a crederci. Forse il racconto di questi ultimi tempi è stato un po' troppo veloce e quindi, forse, la situazione è un po' confusa. Io e lui non abbiamo mai nemmeno cenato insieme, che non è un modo carino per dire che io non lo do via così dal nulla – cioè, anche sì, ma non è questo il punto. Il punto è che io e quest'uomo non abbiamo fatto niente di più che stazionare nella stessa stanza mentre facevamo cose completamente diverse. Abbiamo chiacchierato, anche, sì, ma non tra noi due. Voglio dire, io ero ospite di Bushido. Lui era ospite di Bushido. E qui finisce il nostro tentativo di relazionarci, se si escludono le sue occasionali escursioni non permesse nei miei pantaloni. Non c'è stato, in nessun modo e per nessuna ragione, un ragionevole svolgersi di eventi che possa ventilare l'ipotesi che io voglia andare a letto con lui. Quindi non so che cosa gli dia la certezza matematica che anche se per cento volte che me lo ha chiesto, io cento volte gli ho detto no, comunque mi si farà. Forse è questo che rende Chakuza così affascinante: è una creatura che non dovrebbe esistere in natura e invece, per uno sbaglio genetico o forse l'intervento di un ragno radioattivo, egli è qui di fronte a me.
“Patrick, ascolta...”
“No,” lo blocco subito. E poi non dovrebbe chiamarmi col mio nome di battesimo, non è corretto. Non si fa così tra rapper che non si conosco. Non è buona educazione.
“Non sai nemmeno che cosa voglio chiederti.”
“Ti pare di aver portato alla mia attenzione molti argomenti diversi nelle ultime... trecento mila volte che mi hai inchiodato in un angolo?” Gli faccio notare con un'alzata di sopracciglia.
Lui ride. “Magari questa volta è diverso.”
Non mi abbasso nemmeno a rispondergli.
“Insomma,” fa, avvicinandosi pericolosamente e, per altro, iniziando a spiegarmi una cosa che non voglio che mi spieghi perché sono sicuro che non ha assolutamente logica. “Le mie intenzioni le sai, okay? Ed è chiaro che lo vuoi anche tu...”
Qui mi chiedo se da queste parti dire molte volte no e lanciarti dall'altra parte della stanza con una spinta ben assestata sia un segno inequivocabile di disponibilità sessuale, come tra i gorilla o roba simile. “Quando, per l'amor di Dio, ti è sembrato che io fossi d'accordo?”
Lui non si prende la briga di rispondermi perché evidentemente questo, tra i gorilla, non è necessario, quindi mi ritrovo schienato contro il muro e lui è ovunque, che non so come faccia essendo quello che è, ma ci riesce. Mi coglie di sorpresa, quindi gli regalo qualche minuto di onnipotenza, ma poi mi riprendo e gli tiro un pugno in faccia. “Non parlavano tedesco gli austriaci?” Sbraito.
E sbraito principalmente perché lui non è che sia piegato in due dolorante. Sta anche quasi ridendo mentre si tiene la mascella. “Certo che ci vai giù pesante tu,” mi dice.
“E non hai ancora visto niente.”
“Cambierebbe qualcosa se io fossi Bushido?” Mi chiede, con un sorriso che potrebbe anche venirmi voglia di devastarlo.
“Vaffanculo,” sibilo.
Lui ride. “Non resisterai per sempre,” mi dice, convinto della propria supremazia. Sui puffi, immagino. “E alla fine cambierai idea.”
“No. Qualunque cosa tu possa dire o fare, la risposta è no,” replico. “E lo sarà sempre.”
“Vedremo,” insiste, allontanandosi.

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Parlavo di grilletti e di conseguenze deprecabili.
Io e Bushido riusciamo a rimettere insieme la canzone che stavo scrivendo e dal momento che dobbiamo lavorarci sopra anche a livello musicale, io mi perdo un po' dietro a questo progetto e non faccio caso a quello che mi succede intorno. Non faccio caso nemmeno al fatto che Chakuza non mi tormenta più. Si sarà stancato, penso.
Questo perché non so che la prima regola di Chakuza è che su queste cose non si stanca mai.
Ha solo diretto altrove i suoi sforzi e visto che li ha diretti su Bill, non ci ha messo molto ad ottenere quello che voleva. Ora, io questo lo vengo a sapere quando una mattina allo studio dell'etichetta arrivano insieme e Bill sta indossando quello che gli ho visto addosso ieri sera, una cosa che non capiterebbe mai, neanche se qualcuno gli desse fuoco all'armadio. A meno che non abbia dormito fuori casa. Certo potrei anche sbagliarmi, non è che ce l'ha scritto in faccia ma diciamo che il trovarlo poi disteso su un divano al piano di sopra con Chakuza addosso mi fa pensare che forse ho ragione. E non è che mi piaccia tanto averla.
Bill voleva questo fin dall'inizio ma lo voleva in maniera diversa, come succede sempre quando non chiarisci fin da subito il tipo di rapporto che vuoi avere con una persona. Lui è innamorato di Chakuza. Chakuza si sta solo sfogando. E non ho bisogno di conoscerlo da vent'anni per sapere che lo sta facendo, perché io non credo nell'amore eterno all'improvviso e ci credo ancora meno quando so che quest'uomo, non solo non ha mai dato a Bill più di un briciolo di attenzione in tutto il tempo che sono stato qui, ma come dicevo prima, ci provava con me. Quindi non credo proprio che sia sincero. Diciamo che il solo fatto che sembra particolarmente tenero con Bill solo quando gli allunga le mani addosso, ecco, non aiuta la sua presunta innocenza.
Io però sto zitto, perché non sono affari miei. E perché, dopotutto, potrei anche sbagliarmi – non credo, ma potrei – e tutto ciò che faccio è sperare che Bushido veda e intervenga, come il grande signore che vuole farci credere di essere, ma questo non succede.
Bushido non sembra nemmeno vederli, questi due. Voglio dire, sembra quasi che a chiederlo a lui non sia cambiato niente. Questi ogni tanto spariscono e lui non dice una parola. E dire che è casa sua, cioè, va bene l'ospitalità e tutto ma io non ce lo vorrei un austriaco che scopa al piano superiore. Il punto centrale della questione, non è che questi due si divertano, comunque. Voglio dire se fosse così, il problema non si porrebbe e io sarei un uomo felice, libero dall'ansia di dover fuggire alle grinfie di un altro uomo, una cosa che non mi è mai capitata nemmeno quando spacciavo droga. Il punto è che non è così. E giorno dopo giorno questa cosa è piuttosto evidente anche al primo che passa per strada, figuriamoci se non dovrebbe esserlo a Bushido.
Una sera, dopo che Chakuza si è alzato da tavola e ha annunciato al mondo che lui e Bill se ne andavano perché avevano da fare – con grande sorpresa di Bill, che non lo sapeva affatto e si è visto trascinare via praticamente di peso – decido che forse potrei anche parlare al tunisino e informarmi, così tanto per... E' che mi sento in colpa, come se quest'ondata vendicativa del nano malefico l'avessi scatenata io, negandomi com'era mio diritto fare. Solo che Bushido mi precede.
“Cosa c'è che non va?” Mi dice.
“A parte l'inquinamento e la fame nel mondo?” Chiedo, sollevando un sopracciglio. “Che vuoi dire?”
Lui prende uno stecchino dal tavolo e se lo infila in bocca, come faceva quand'era più giovane. Mi colpisce di nuovo la nitidezza del movimento. Solo il braccio si è mosso, tutto il resto di lui è rimasto immobile, come sempre si limita ai movimenti essenziali e nulla di più. Io questa cosa non ce l'ho mai avuta, mi agito un casino.
“C'è qualcosa che non ti torna,” commenta. “Sei nervoso.”
“Non sono nervoso,” protesto.
“Patrick.” Netto, proprio. Mi dice sempre così quando vuole che la pianti con le stronzate e mi muova a rispondergli o fare ciò che mi ha chiesto di fare. Ci vuole una certa abilità a racchiudere una richiesta del genere in sette lettere.
“Okay, senti, lo so che non sono affari miei,” butto lì. “Ma secondo me questa cosa tra Bill e Chakuza non va bene.”
Lui mi osserva ma non fa nient'altro. “Perché?”
“Perché Chakuza non è affatto interessato a Bill.”
Dopo qualche secondo di silenzio mi accorgo che annuisce, anche se piano. “Lo so.”
“E non fai niente?”
“Non posso fare niente,” mi corregge lui. “E poi non spet-”
“Le palle!” Esclamo. E non so nemmeno perché me la prendo tanto, davvero. Cioè, anche se fosse senso di colpa, voglio dire, non sono mica il fratello di quel ragazzino, Dio Santo. “Prima te lo tieni qui in casa nemmeno fosse un orfanello e non un cantante che vale miliardi. Te lo coccoli e tutto e fingi di proteggerlo da solo tu sai cosa, e quando arriva il momento di proteggerlo davvero, non spetta a te?”
Lui ascolta lo sproloquio e poi dice: “Vedo che non hai perso il vizio di interrompere sparando idiozie che ti saresti benissimo risparmiato stando a sentire.”
Arrossisco e fine del mio amor proprio. “Spiega,” sibilo, guardando altrove.
“Bill si è innamorato di Peter dal primo momento che l'ha visto, Dio solo sa perché,” inizia, alzando gli occhi al cielo. E io vorrei dirgli che non lo so neanch'io com'è stato possibile ma che, se non se n'è accorto, quell'uomo c'ha qualcosa negli occhi, quando ti guarda. Sarà libido, sarà strabismo o sarà che magari ipnotizza la gente, che ne so? Però lui farebbe bene a fare una ricerca su questo Pangerl per essere sicuro che non sia uno svalvolato qualunque in grado di friggerti il cervello con la sola imposizione delle pupille. Comunque non gli dico niente di tutto questo e lui prosegue. “Ho cercato di fargli capire che non era la persona adatta a lui ma non ha voluto ascoltarmi, perché è una testa dura, tale e quale a sua fratello. D'altronde sono uguali...” Non mi soffermo a chiedermi che cosa c'entri Tom Kaulitz in tutto questo. Se tre è una folla, quattro è un'invasione. Non mi sembra il caso di aggiungere un quinto elemento a questa già complicata equazione. “D'altra parte,” prosegue, “Chakuza può essere ingestibile quando s'impegna, ma non è cattivo. Quindi forse, chissà, magari Bill riesce a fare il miracolo.”
“Tu non credi a queste cose.”
Bushido mi passa una birra e poi ne apre una per sé. “No, infatti,” beve e guarda un punto indefinito sul pavimento. “Immagino sia arrivato il momento che Bill impari le cose come le abbiamo imparate tutti.”
Battendoci la testa.

*


Io però continuo a sentirmi in colpa, soprattutto perché non sto facendo niente anche se sono l'unico che, in definitiva, conosce tutti i dettagli della faccenda. Bushido, per dire, non ha idea che l'uomo tra le cui possenti braccia ha deciso di affidare il ragazzino, ci ha ripetutamente provato con me. Mi sento in dovere morale di agire in qualche modo, anche solo in funzione del fatto che sono stati i miei no a lasciare Chakuza libero di spezzare il cuore di Bill.
E dal momento che Bill non mi ascolterebbe mai, visto che non ascolta nemmeno Bushido, io decido di andare direttamente alla fonte di ogni male. Per estirparla, se possibile.
Chakuza passa alla Beatlefield un tempo variabile fra le due e le sei ore ogni giorno, dimostrando che c'è qualcos'altro nella vita che gli interessa oltre a saltare addosso alla gente. Ed è lì che lo trovo oggi pomeriggio, quando decido che è l'ora che qualcuno gli dica qualcosa.
Quando entro nella stanza non mi sente arrivare perché è girato di schiena e ha su due cuffie enormi che rendono la sua testa esageratamente buffa. Ho l'occasione di strangolarlo, se voglio, ma non ne ricaverei niente di buono: Bill che piange come una vedova inconsolabile, i titoli sui giornali e tutti i suoi amici e colleghi riuniti in una trasmissione che parlano bene di lui anche quando non lo pensano affatto. Così decido che posso iniziare schiarendomi la voce e quando si gira e mi vede, ha anche il coraggio di sorridermi come se l'ultima volta che abbiamo scambiato due parole noi due da soli non lo avessi mandato a quel paese.
“Fammi indovinare, hai cambiato idea?” Mi chiede, mentre il film che ha girato da solo riparte nella sua testa.
Quest'uomo è oltre la mia comprensione. “No, non ho cambiato idea,” commento, lanciando un'occhiata a quest'ufficio che sembra fatto a misura sua. E' uno sgabuzzino minuscolo con un gran casino dentro. Esattamente come lui. “Anzi, direi che sono ancora più convinto di prima.”
Lui solleva un sopracciglio.
“Quello che stai facendo a Bill è da stronzi,” commento.
Lui mi guarda con l'occhio rotondo che vorrebbe essere ignaro di ciò che sto dicendo, ma ovviamente non riesce perché non lo è affatto. “Non ti capisco,” dice.
“E' davvero innamorato di te, Chakuza,” insisto.
“Quindi?”
“Quindi dovresti smetterla di illuderlo,” sospiro. “Se è un giocattolo che ti serve, vai a cercare da un'altra parte.”
“Ad esempio?” Mi guarda e sorride. “Bill non è un bambino. Non ho fatto niente che lui non volesse.”
“A te non interessa di lui.”
Chakuza si stringe nelle spalle. “L'interesse è una cosa soggettiva, non credi?” Mi fa. “Scopare m'interessa. Quindi in sostanza, mi interesso di lui.”
E io lì potrei mettergli le mani addosso, anzi voglio proprio farlo. Tirargli un pugno come si deve sul naso e vederlo rotolare sul pavimento finché la sua testa tonda non prosegue per inerzia. E non tanto per Bill, cioè anche per lui ma fino ad un certo punto, è proprio una questione di principio. Tu non puoi guardarmi con quella faccia, con quegli occhi, con quel sorriso così sicuro anche dal tuo scarso metro e venti d'altezza e dirmi una cosa simile. Tu dovresti pagarla, cazzo, la gente per scopare. E' surreale che tu, proprio tu, possa dirmi una cosa tanto meschina nello stato in cui sei. No, davvero. Non ci si crede! Bill è tipo... cioè, è carino. Si merita di meglio, Dio Santo. Vorrei che fosse qui a cavarti gli occhi con quelle unghie!
E Bill c'è. Immobile sulla porta. Come poteva non esserci dopo quest'immensa piazzata in cui io vengo qui, nell'ufficio di quest'uomo, a sbraitare cose che non mi competono in difesa di un ragazzino che non è nemmeno cosa mia? E' una cosa di Anis, naturalmente. E altrettanto naturalmente Anis ha deciso che non deve metterci bocca, lasciare che il disastro si compia e poi non so, a quel punto fare la parte dell'angelo salvatore nella vita di Bill. Non so, forse. E' che se me la racconto così mi sembra anche plausibile e mi sento pure scemo ad essere qui.
“Ero... passato a trovarti,” dice Bill, anche abbastanza inutilmente. Il suo sguardo non si sposta mai da Chakuza.
“Sono occupato, al momento,” fa lui.
“Quello che hai detto è vero?” Chiede.
“Bill, ho da fare.”
E io mi chiedo: cosa ci stai a fare, qui, Fler? Qualunque sia il problema, non è un tuo problema. Quello che ti sentivi in dovere di fare lo hai fatto, ora puoi anche uscire.
“E' vero quello che hai detto?” Insiste Bill, serio. “Non... non te ne frega niente?”
“Bill-”
“Rispondi!” Sbraita.
“No,” è l'urlo esasperato di Chakuza. “Che cosa ti aspettavi? Sei tu che ti sei fissato che stessimo insieme, io non ti ho mai lasciato credere niente del genere!”
Bill apre bocca, ma non dice niente. Quello che succede dopo è che si avventa su Chakuza per colpirlo e lo fa. Chakuza però risponde e lo spedisce in terra con un ceffone che avrebbe steso anche me, forse. Lo vedo sbattere malamente contro la libreria e finire sul pavimento. Quando alza la testa ha gli occhi sgranati e un po' di sangue che gli esce dal labbro.
“Dico, ma ti ha dato di volta il cervello?” Lo aggredisco, raggiungendo Bill che non si sta alzando. Lo guarda e basta come a chiedersi perché si trova lì quando un attimo prima era in piedi. Gli tendo la mano e lui ci si aggrappa, barcollando.
“Smettetela di trattarlo come una ragazzina,” fa Chakuza. Nei suoi occhi c'è qualcosa oltre alla strafottenza, però. Evidentemente non si è reso conto della forza che c'ha messo. Immagino che questo almeno lo abbia scosso. “Non lo è.”
“Sto bene...” pigola Bill, scuotendo la testa. Si pulisce il sangue dalla bocca e lo vedo che guarda un po' ovunque, non so se per evitare di incrociare lo sguardo di Chakuza o se per rendersi effettivamente conto di quello che è successo.
“Non ti muovere da qui,” sibilo a Chakuza, mentre accompagno Bill fuori dall'ufficio.
Lui protesta, ma è un sacco confuso. Non dal ceffone, immagino, ma dal fatto che quello in cui credeva si è appena sgretolato come polvere. E' così che succede. Tu sei sicuro di una cosa, o almeno vuoi esserne sicuro, e quella come niente svanisce. Quando ci credi tantissimo e poi non funziona, devi fare i conti con il pugno di sabbia che ti rimane in mano. Non sai se aprire le dita e lasciare che quello che era scompaia del tutto, o stringerle e farti male, ma almeno sentirlo ancora un po'. Mentre lo faccio salire in macchina, alzo lo sguardo e vedo l'ombra di Chakuza alla finestra.
Io e te dobbiamo parlare.

*


“Sto bene,” mi ripete Bill, quando lo riporto nel suo appartamento.
So dove si trova perché Bushido ha il vizio di mandarlo a prendere e farlo riportare, quando lui è impegnato con qualcos'altro. La prima volta che mi ha chiesto di farlo pensavo che scherzasse. E invece lui era serissimo, com'è sempre serio lui quando gli vengono queste idee assurde. Anzi, più sono assurde e più lui è serio. Non dovrebbe stupirmi più di tanto, comunque. Per uno che pensa di essere il re dei re, suppongo sia normale dare ordini di questo tipo.
Lo faccio sedere sul divano e medito sul da farsi. Alla fine gli dico di aspettare e m'infilo in cucina, col telefono premuto contro l'orecchio.
“Che succede?” La voce di Bushido è tesa. So che registrava qualcosa oggi, quindi devo averlo disturbato. E questa telefonata mi è così familiare che quasi mi commuovo. Ricordo quando eravamo nel quartiere e succedeva casino con una consegna, che mi toccava chiamarlo perché non riuscivo a sbrigarmela da solo.
“Il ragazzino... “ inizio. “Senti, è un casino, magari è meglio se vieni.”
Io non lo so come faccia, ma capisce subito al volo. Ce l'ha sempre avuta questa cosa di capire le situazioni anche quando aveva solo la metà delle informazioni che gli servivano. Così mi dice: “Sto venendo lì, aspettami.” Che mi chiedo come facesse a sapere che volevo andarmene.
Arriva dopo venti minuti, Bill li ha passati sul divano ad abbracciarsi le ginocchia. Non ha ancora pianto ma non ha detto neanche niente e io, sinceramente, non so da che parte prenderlo. Così me ne sto qui sulla poltrona e lo guardo. Dopo un po' gli chiedo: “C'è qualcosa che posso fare?” e lui risponde: “No,” e poi “Anis viene?”
Gli dico che sta arrivando e questo sembra rassicurarlo. Annuisce e poi torna ad accoccolarsi su se stesso, guardando il pavimento.
Mi aspetto di sentire il campanello ma, a quanto sembra, Anis ha le chiavi di casa, qui. Quando sente aprire la porta, Bill si getta letteralmente nel corridoio e sento lo sbuffo ovattato del suo corpo che si scontra con quello di Bushido. Quando li raggiungo, Bill sta piangendo e Anis lo stringe a sé in silenzio, come se non ci fosse bisogno di nessuna spiegazione.
Mi ipnotizza la sua mano che gli accarezza la nuca, con il movimento lento e rodato di chi è abituato a farlo spesso. Mi chiedo quante serate ha passato a cercare di tranquillizzarlo e per quali e quanti motivi. Mentre li osservo non posso fare a meno di notare come le sue dita conoscano il corpo di Bill e chiedermi distrattamente se questo non dovrebbe significare qualcosa.
Guardarli mi mette a disagio, così tossisco e Anis solleva la testa. Mi guarda. “Devo andare,” dico un po' confuso. “Qui, ci pensi tu?”
Lui mi osserva e mi sembra quasi che sappia perfettamente cosa sto per fare, la cosa non dovrebbe inquietarmi come invece fa. “Sì, non preoccuparti.”

*


Da Chakuza ci arrivo nella metà del tempo che occorre ad una persona normale che rispetta le regole della strada e non curva su due ruote. Non so esattamente cosa gli dirò prima di sbatterlo contro un muro e tirargli tante di quelle botte che nemmeno sua madre saprà riconoscerlo. Non so nemmeno se gli dirò qualcosa prima di farlo o se invece prima lo ridurrò uno schifo e poi, forse, gli dirò qualcosa. Devo ancora decidere.
Parcheggio di traverso sotto lo stabile della Beatlefield che è una sorta di casermone fatiscente in cui tendenzialmente uno non penserebbe di poter registrare nemmeno una canzone alla radio, figuriamoci interi cd. Alzo lo sguardo verso la finestra, ma l'ombra del nano non c'è già più. Immagino sia tornato a fare quello che stava facendo prima di tirare un ceffone a Bill, il che, suppongo, fosse nulla, visto che nel poco tempo che sono stato lì non ha fatto altro che spostare fogli stampati da una parte all'altra della scrivania.
Agli studi della Beatlefield non c'è nessuno che controlli la porta, un usciere, tipo; forse perché il proprietario della Beatlefield è l'usciere dell'Ersguterjunge – chiunque, nel giro, ha visto il video su internet in cui Chakuza apre la porta – e quindi suppongo che un usciere non possa davvero avere un usciere anche lui. Sto delirando.
Salgo le scale a due a due e gli spalanco la porta dell'ufficio, senza chiedere il permesso. Lui allontana gli occhi dallo schermo del pc per guardarmi. Visto che non ha le cuffie stavolta mi ha sentito. Ci guardiamo per un tempo infinitamente lungo, durante il quale gli lascio la possibilità di alzarsi in piedi. Non che faccia molta differenza, dal momento che anche in piedi sembra seduto, ma credo che se devo pestarlo, è più giusto che stia sulle sue gambe, prima che gliele spezzi.
Sto per aprire bocca e dirgli non so cosa, perché sono cosciente che il mio cervello non ha ancora processato un discorso coerente in mezzo a tutta questa rabbia ingiustificata che provo nei confronti di quest'uomo che conosco appena, ma lui mi anticipa. “Se pensi che mi scuserò, sei fuori strada,” dice, interrompendo il contatto visivo per riprendere a sistemare sul tavolo. Stavolta ripone dei fogli in un faldone e attraversa la stanza per metterlo in una libreria. “Io non sono dispiaciuto per come sono andate le cose.”
Io lo seguo con lo sguardo, perché oggettivamente non so se non si rende conto che sta dicendo cose per le quali dovrei picchiarlo. Sembra tranquillo.
“Certo,” continua, “non sono qui a ridere come un invasato al pensiero di aver ferito Bill ma non me ne faccio neanche una colpa. Ognuno prende le cose come vuole e non è una mia responsabilità se lui ha deciso di prenderle così.”
Io sono senza parole. Dico davvero. Uno può anche decidere di farsi due piani di scale malridotte di corsa, può infilarsi in testa di prendere quest'uomo e sbatacchiarlo un po' dovunque per vedere se da quella testa tonda esce qualcosa. Dico, io queste cose le ho pensate e le penso ancora, ma di fronte alla naturalezza con la quale mi dice che se Bill adesso sta male è perché ha deciso di prenderla in un modo piuttosto che in un altro, io resto basito. Ho ancora voglia di farlo a pezzi, ma per il momento sono basito e basta. “Tu sei un pezzo di merda,” dico. E mi esce così, nemmeno come un'esclamazione. E' un dato di fatto, tipo. Non lo so. Lo sto solo informando di quello che dovrebbe essere oggettivamente riconosciuto dall'universo, quindi suppongo anche da lui.
Cioè lui deve sapere che è un pezzo di merda. Io non tollero l'idea che lui non lo sappia.
“Forse,” dice lui, scorrendo le dita tra altri faldoni in cerca di uno in particolare. “O forse no. Forse sono solo uno che vuole delle cose e quando non può ottenerle si arrangia.”
Si gira a guardarmi e mi trova sulla porta, perfino con la bocca un po' aperta credo, non lo so, perché tutto mi aspettavo tranne che sentirlo dire queste cose da genio del male. “Io volevo te. Non ti ho avuto e mi sono arrangiato,” solleva una spalla. “Che cosa dovevo fare? Andare a puttane per il resto della mia esistenza per non spezzare il cuore della povera ragazzina innocente, che per altro mi voleva? Bushido non mi paga abbastanza.”
Quand'ero un ragazzino, Bushido mi diceva sempre che ogni uomo ha due interruttori. Uno per quando è felice – e quello possono premerlo solo le donne, Patrick. E rideva come un cretino, fin quasi a soffocarsi, con la birra che gli usciva dal naso – e uno per quando s'incazza. Sta qui, mi diceva spingendomi forte con due dita sulla pancia. Sta in fondo allo stomaco. E quando scatta, non ce n'è più per nessuno anche se spesso, non sai nemmeno bene perché.
Ecco, il mio è appena scattato. E non so il perché, di preciso, tra tutte le stronzate che gli stanno uscendo di bocca. So solo che sono più incazzato di prima. “No, tu non volevi me, cazzo! Tu volevi un buco qualsiasi in cui infilarti” Sbraito, avvicinandomi.
“Se vuoi vederla così...”
“Non cercare di passare per quello deluso che c'è magari stato anche male, perché-”
“Perché cosa, Fler?” E la sua voce rimbomba. Me la sogno, io, un urlata a quei livelli. “Eri forse nella mia testa? Sai per caso come mi sono sentito a venirti dietro per settimane e non ottenere un cazzo di niente? Sai cosa pensavo o cosa provavo?”
Io non rispondo mentre lui mi si avvicina. Sono arrabbiato e spiazzato. Okay, sono più spiazzato che arrabbiato. Queste non sono parole da genio del male. Forse lo preferivo prima.
Si ferma di fronte a me e per una volta il fatto che mi arrivi a malapena ad una spalla non conta molto, perché in faccia c'ha un'espressione così sofferente che mi chiedo dove sia andato l'ometto di prima che diceva che era colpa di Bill se Bill stava male.
“Non solo sono pronto a scommettere che non lo sai,” si risponde da solo, “Ma scommetto anche che non te lo sei nemmeno chiesto. Non t'importava proprio. Perciò Vaffanculo! Non provarci nemmeno a farmi la morale!”
Ora io potrei stare qui a raccontarvi del sole che picchiava attraverso il vetro della finestra senza tende di questa topaia, dritto sul testone lucido di quest'uomo e di come l'ho picchiato finché non ha chiesto pietà e ha promesso di chiedere perdono a Bill. Potrei, dico, la fantasia non mi manca. Ho inventato tante di quelle balle nel corso della mia vita, che potrei benissimo scriverci un romanzo e sarebbe pure credibile. Il punto è che non ha senso arrivare fino a qui e poi raccontarvi la fine di qualcun altro. La verità è che io Chakuza non l'ho menato. Lo inchiodato alla libreria, ho fatto cadere i faldoni e gli ho infilato la lingua in bocca. E sul perché, che il cielo mi perdoni, ci devo ancora ragionare. Il punto è che non mi viene tanto bene mentre rotoliamo sul pavimento. Lui mi sta artigliando gli avambracci ai quali si è aggrappato mentre lo tiravo giù e ora è un gran miscuglio di gambe e di braccia mentre più che baciarlo lo mordo e lui più che stringermi graffia.
“Il tuo problema,” ringhio mentre lo inchiodo sul pavimento e non so più nemmeno dove ho le mani. “E' che sei un cretino.” Sento le sue mani scorrermi sullo stomaco e poi sulla schiena. Stamattina, quando mi sono svegliato, non avevo idea che sarei finito ad avere i pollici di un uomo nell'ombelico. “Avresti dovuto aprire bocca e parlare, invece di saltarmi addosso.”
“Non ti sta dispiacendo,” fa lui e m'infila un ginocchio tra le gambe. Nel farlo mi fa male, cazzo, quindi si becca un morso.
“Sono stato io a saltarti addosso ora,” puntualizzo.
Lui ghigna. “Io te l'avevo detto che lo volevi anche tu.”
Quest'uomo è senza pudore e mentre su questo pavimento sembriamo fare a cazzotti, più che scopare – e io non l'ho detto davvero – il pudore lo perdo anch'io, perché mi attacco alla sua maglietta e la strattono. Sono sempre più convinto che quest'uomo emani feromoni di qualche tipo. Ed è per questo e solo per questo, che io sono qui disteso sul pavimento di questo studio dimenticato da Dio e gli permetto cose.
Cose del tipo che sono disteso su di lui e lui ha una mano nei miei pantaloni. “Ti ho forse dato il permesso?” Sibilo e cerco di farlo sembrare un ringhio virile, non una specie di mugolio perché le sue dita mi stringono abbastanza bene da chiedersi se quest'uomo non abbia passato gli ultimi mesi a masturbarmi nel sonno, per conoscermi tanto bene.
“Io non chiedo il permesso.”
Gli allontano la mano tanto forte che batte il dorso in terra. “Beh, impara a chiederlo perché potrei farti del male, altrimenti,” lo minaccio a due centimetri dal viso. Grave errore.
Lui m'infila una mano dietro la nuca e mi tira giù. “Sta zitto,” sibila, per poi baciarmi.
Quest'uomo non dovrebbe davvero poter fare di queste cose, non dovrebbe potermi schienare, non dovrebbe potermi togliere tutto quello che ho addosso ed entrarmi dentro. Non dovrebbe essere così eccitante quando lo fa, anche se fa male e vorrei pestarlo. Stringo le dita intorno al tappeto che si arriccia contro le mie falangi mentre le sue spinte si fanno più forti e so, anche senza vederlo, che quel poco di cervello che ha gli si è spento dieci minuti fa. “Ti dispiace darti una controllata?” Sbraito.
Lui in risposta mi morde una spalle e un dolore copre l'altro. Più o meno.
Quando scende a toccarmi penso che ho sofferto dolori peggiori in passato, così appoggio la fronte al tappeto, inspiro ed espiro mentre mi accarezza. L'ultima pensiero coerente prima dei nostri grugniti quasi contemporanei – ma non del tutto, perché non siamo affatto perfetti – sono io che mi chiedo come abbia potuto col suo unico neurone mantenere la coordinazione e fare tutto quanto discretamente bene.

*


Siamo su questo tappeto da, non so, ore credo.
“Nano, che ore sono?” Chiedo, sovrappensiero.
E' tutto arricciato contro la mia schiena, così riesce bene a tirarmi una ginocchiata dietro una gamba. “Vaffanculo.”
“Che ore sono?”
“Non ne ho idea,” commenta. “Non ho più neanche l'orologio.” La risata che gli scappa dalla bocca mi vibra per tutta la spina dorsale. Sorrido anch'io.
“Potrebbe entrare qualcuno?”
“Molto probabile,” dice calmo.
“E la cosa non ti turba, immagino.”
Scuote il capo rotondo. “Nemmeno un po'.”
“Devono essere abituati a trovarti nudo come un verme sul tappeto.”
“Non con un uomo,” rimane disteso mentre io mi siedo, alla ricerca della mia maglietta.
Mi vesto in silenzio, poi gli lancio un'occhiata. “Senti ma....”
“A cena,” mi ferma subito lui e quando aggrotto le sopracciglia è l'ora che finalmente si tira su anche lui e smette di mostrarmi la mercanzia che non sono ancora abituato a vedere. Non è che ci sia venuto a patti con quest'idea. “Facciamo che ne parliamo a cena. Ti va?”
E penso che questo sia un invito, credo.
Mi va, penso. Ed è tutto lì.
Un'altra delle mie certezze che se ne va.
Ed è colpa di Bushido.
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido
Genere: Demenziale
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Note: Queste quattro pagine sono nate per il semplice fatto che Lost ha Chakuza tra gli amici di FaceBook e io no. Oggi mi ha fatto sapere che il mio uomo ieri è stato tutto il giorno in studio e che ad intervalli di qualche ora ci ha fatto sapere che era ancora lì, e che alle dieci di sera era ancora più scazzato di esserci. Inevitabile pensare che fosse ai lavori forzati per colpa di Bushido, il quale ha annunciato al popolo tutto l’uscita del CCN2 per settembre 2009. E sì, sarà proprio il due, alla faccia di Saad, direi.
Ora, la shot in questione non doveva essere affatto una shot, doveva essere, non dico una drabble perché non sono capace, ma una cosina così, ecco; che nel mio gergo significa una paginetta. E invece sono quattro. Comunque sia, è assolutamente inorganica, perde di tono al centro e soprattutto! è slash quando non doveva esserlo. Epperò, anche chi se ne frega *caduta del pubblico a casa* Nel senso, non è una fanfiction seria, né una fanfiction punto, quindi prendetela un po’ come viene. Dovevo scrivere altro, non ne avevo voglia e ho scritto questo :)

Riassunto: Quest’uomo pretende da me il miracolo di un cd fatto uscire in tre mesi quando è già tanto se hanno il ritornello della prima canzone.
ACCIDENTAL MIXTAPE


La questione, con Bushido, è che la gente ha di lui un’idea totalmente distorta.
L’immagine che si è creata intorno a quest’uomo discutibile è quella del capo severo ma giusto, che dispensa critiche ma anche elogi e sa perfettamente qual è il momento giusto per le une e per gli altri. Tutti si sono fatti questo filmino che lui sia una specie di delinquente, ma col cuore d’oro, e che noi si stia tutti qui a pendere dalle sue labbra per ragioni assolutamente opinabili.
Là fuori – e per là fuori intendo il vasto regno di Germania sul quale ha deciso che metterà indiscutibilmente le mani prima o poi – la gente pensa che sia un professionista, ma la verità, e qui vi svelo un segreto dell’universo, è che se proprio vogliamo dargli un aggettivo positivo, Bushido è solo un coglione.
Di per sé, questa cosa dell’isteria di massa e dell’ammirazione immotivata della folla non sarebbe neanche un gran problema. Voglio dire, più gente s’innamora, più dischi vende. Più dischi vende lui, più lavoriamo anche noi, quindi è okay.
Il problema nasce nel momento in cui lui smette di recitare e comincia a fare sul serio. Ad un certo punto della nostra esistenza, non so di preciso quale ma di certo è stato un momento molto triste e drammatico, questo tunisino - nato e cresciuto in Germania, al punto che fra me e lui, quello più immigrato sono io che vengo almeno da un altro stato – ha deciso che il mondo là fuori aveva ragione e che lui era effettivamente un delinquente dal cuore d’oro a cui tutti guardavamo con ammirazione.
Ma anche no, dico io. Chiariamo, è vero che io sono stato il primo ad inseguirlo per giorni per sventolargli una demo davanti, ed è vero che D-Bo farebbe qualsiasi cosa per lui, che Kay viveva in casa sua prima che si prendesse bene con Mandy e tutto il resto. Insomma, gli vogliamo bene, mica dico di no, però c’è un limite. Io ho un limite, almeno.
Ma sembra che quello che ho io, come quello che voglio io, come anche quello che penso e che dico, contino poco ora che stiamo per assistere al miracoloso avvento del Carlo Cokxxx 2. Parliamone.
L’epifania di questo cd – che a conti fatti avrebbe dovuto essere il numero 3, ma è una cosa di cui non parliamo perché Saad tende ad avventarsi a zanne snudate su chiunque nomini la questione – era prevista per l’anno prossimo. Circa otto mesi. Pacifico. Scrivi i testi, lavori sui beat, fai qualche modifica, riesci perfino a programmare la promozione. Era fattibile. Il nostro uomo, però, pensava che la ritrovata fratellanza con Fler non fosse abbastanza per fomentare e l’uscita dell’audiolibro e l’uscita del film sulla sua vita e, suppongo, lui stesso medesimo come figura di riferimento per le masse, per cui ha pensato bene di anticipare la data. Anticiparla e non chiedersi se ciò fosse possibile, materialmente parlando.
Ha quindi spostato le ditina da World of Warcraft per appoggiarle sul forum e annunciare al popolo tutto la sua brillante idea. Il Carlo Cokxxx Nutten 2 esce l’11 settembre 2009.
Ora sappiate, tutti quanti là fuori – grande popolo di Germania asservito a quest’uomo surreale che voi nemmeno conoscete – che se l’epifania di questo cd, atteso come la madonna il papa, da quella massa di ragazzini in età pre-puberale che affollano il forum di Fler squittendo come topi in amore, sarà possibile, è solo grazie al sottoscritto. Al sottoscritto e anche un po’ al suo culo. Ma ci arriveremo.
Io sono un uomo molto organizzato per quanto riguarda le questioni lavorative. Ho una tabella di marcia, delle scadenze, delle abitudini… e odio che mi vengano scombinate. Lo odio tantissimo, tipo che se tu arrivi la mattina alle nove e mi dici che i programmi sono cambiati, io sto incazzato tutta la giornata.
Ovviamente Bushido arriva alle nove del mattino a casa mia, si attacca al campanello come se fosse divertente svegliare tutti i miei vicini al suono di Fra’ Martino Campanaro e quindi, una volta che gli ho aperto, l’ho mandato a fanculo e lui mi ha detto grazie, mi avverte che i miei programmi – che per altro non lo avevano mai compreso – sono cambiati e lui è ora il fantastico centro del mio mondo. Era chiaro, e per altro era anche giustificato che io gli chiudessi la porta in faccia, no?
Comunque serve a poco chiudere la porta in faccia a Bushido, perché tanto quello rientra dalla finestra, per cui dopo essermi lavato, vestito e dopo aver fatto anche colazione e guardato il telegiornale, ho riaperto la porta perché tanto lo sapevo che lo trovavo lì a parlare con la mia vicina di casa dell’ultima puntata di non so che soap-opera, percui…
Da lì il delirio di quest’uomo che pretende da me il miracolo di un cd fatto uscire in tre mesi quando è già tanto se hanno il ritornello della prima canzone. Nello specifico devo occuparmi di mixargli le cose, magari trovargli anche i beat, in generale dargli una mano, a questi due, che si sono presi benissimo ma che non hanno capito che non possono far nascere un disco solo sulla base del loro ritrovato amore. Insomma non nascerà da solo, ecco. E io non ho detto davvero amore.
Comunque, ecco perchè sono qui seduto davanti ai computer del mio studio personale, a cercare di dare un senso al farfugliamento contorto di un uomo che si ostina a dire più parole di quante ne possa effettivamente pronunciare.
“No, da capo,” dico nel microfono. “Non si capisce una sega.”
Bushido sospira. “Non potremmo tenerla e poi vedere di-“
“No fa schifo. Rifalla.”
Provo una certa soddisfazione nel costringerlo a ripetere decine di volte gli stessi passaggi finché non sono perfetti. Tu non puoi costringermi a sopportare la tua persona, e la persona di Fler – che se ne sta per altro in un angolino della sala di registrazione e ci guarda tutti un po’ così perché nessuno ha ancora ben capito che posto è, il suo – e poi pretendere che io non mi vendichi su qualsiasi stronzata.
“Ok, buona,” dico alla fine. Alzo la linea vocale di Fler. “Ora stai zitto, mi serve lui.”
Fler è tipo enorme. Dal mio punto di vista sarebbe scontato, ma anche dal punto di vista di tutti gli altri, temo. Innanzi tutto è altissimo, più di Bushido, che è sostanzialmente già illegale, e poi in generale è grosso tutto, le spalle, le braccia, ogni cosa. Per questo quando si solleva dallo sgabello incastrato nell’angolo e fa due passi avanti per raggiungere il microfono mi sembra che occupi tutto lo spazio disponibile dentro la sala di registrazione. Il bello è che poi da uno così ti aspetti determinate cose…. La mia voce tipo. E invece no. Fler ha una bella voce, ma è di una tenerezza sconcertante. E poi ti aspetti che sia un altro coglione – d’altronde vanno in giro in coppia, e uno già c’era – e invece nemmeno quello. E’ timido, timidissimo. Ti guarda con questi occhioni azzurri e ti chiedi com’è che all’Aggro non se lo sono mangiato subito come lo hanno visto.
Gli conto i secondi con la mano sinistra e faccio partire la base. Mi fa rifare l’attacco due volte, ma poi prende il via e non lo fermiamo più. Quando finisce e mi guarda di nuovo, apro l’interfono. “Ok, abbiamo deciso. Teniamo lui, signor Ferchichi può andare,” scherzo, e Bushido mi manda a fanculo.

*


Dodici ore dopo io sono ancora seduto dov’ero stamattina, nel disperato tentativo di dare un senso al lavoro di oggi. E devo farlo ora, perché se domattina dovrò riaprire questi file e rimetterci nuovamente le mani, probabilmente ucciderò qualcuno, mi arresteranno e finirò i miei giorni in galera ad evitare di raccogliere saponette.
Bushido voleva pranzare e non ha potuto. Voleva fare merenda, e non ha potuto. All’ora di cena cantva mugolando, seduto su uno sgabello, quindi ho pensato bene di mandarlo a comprarsi il kebab prima che svenisse o in alternativa cominciasse a diventare uggioso e più insostenibile del solito. Ora sono molto impegnato a scrivere appunti per me stesso domattina, così non mi accorgo degli occhioni azzurri che mi fissano oltre il vetro finché non alzo la testa.
Fler ha le mani sul vetro, come allo zoo con la vasca degli orsi polari.
“Tu non mangi?” Chiedo.
“E tu?” Fa lui, che io dico… hai un microfono, usalo, no?
Mi stringo nelle spalle. “Mangerò dopo,” rispondo. Dopo quando, non lo so. Sono già le dieci e il tempo che finisco qui sarà già chiuso tutto. Se non ricordo male nel frigo ho un limone andato a male e tre lattine di birra.
“Ho dei panini, lì, nello zaino,” mi indica lo zaino. Poi si guarda intorno. “Ma posso uscire?”
No, ti teniamo là dentro per guardare quanto sei bello. Cose da pazzi. Gli faccio cenno verso la porta e lui, tipo, annuisce e poi lo vedo spuntare prima con la testa e poi tutto il resto. “Li ho portati in caso avessimo fatto tardi.”
“Beh, è tardi.”
“Già.”
Traffica in questo zainetto e ne tira fuori un ciotolino in plastica. “Non ho da bere, però.”
“C’è qualcosa nel frigo,” rovisto un po’ in questo frigo minuscolo che Stickle ha installato l’anno scorso quando il condizionatore è saltato e noi dovevamo lavorare d’agosto che faceva un caldo come in Germania non s’era mai visto. Abbiamo bevuto tanta di quella coca che tenevamo il tempo a rutti, ad un certo punto. Tiro fuori due birre.
“Vuoi questa carne, credo, con insalata…” chiede, per poi mettersi a guardare con minuziosa attenzione il secondo panino che tiene in mano. “… oppure questa cosa che non so davvero cosa sia ma potrebbe essere tonno?”
Rido. “Credo che opterò per il chissà-cosa con forte possibilità di tonno.”
Mi passa il panino. “Ed è sempre così qui?”
“Così come?”
“Beh, siamo qui da più di dieci ore.”
“Oh,” bevo. “No, no affatto. Quando non è Bushido a decidere le date di uscita, si lavora come delle persone normali.”
Lui sorride e basta. E’ un sorriso di quelli che sanno cose; tra l’altro mi piacerebbe saperle anch’io quest cose, se non gli dispiace, che qua sto lavorando per loro. Quindi tossisco per schiarirmi la voce. “Ti rendi conto che è un’impresa fare quello che vuole, si?.”
“Lui ha detto che potevi, quindi immagino sarà vero.”
Rimaniamo in silenzio due minuti.
“Te lo ha detto lui di dirlo, vero?” Chiedo poi.
Lui annuisce mentre morde. Poi ridacchia. “Non sono molto bravo in queste cose.”
“No, non lo sei,” sorrido.
Dunque, ricapitolando. Bushido si presenta a casa mia, mi consegna un cd da creare in tre mesi partendo praticamente da zero e durante il primo giorno di lavorazione scappa con il tunisino del kebab in fondo alla strada, lasciandomi in eredità… Fler.
Iniziamo malissimo.
Fler però è a posto. Nel senso che pensavo di ritrovarmi davanti un altro Bushido, alla fine, con quel sorriso lì e tutto, e invece proprio per niente.; che poi ti viene da chiederti com’è possibile che questi due siano andati d’accordo per quanto? Sei anni?. Non so.
“Chaku…” alzo un sopracciglio e lui finisce: “… za. Ok, niente abbreviazioni… ehm. “ si schiarisce la gola “…non possiamo intanto andare avanti noi?”
“No perché tu la tua parte l’hai finita,” commento, passandomi una mano sugli occhi.
“Perché non mi hai mandato a casa allora?” Chiede lui sconcertato.
Sono sconcertato anche io: non lo so. “Beh perché… “ cerco di trovare una giustificazione sensata al fatto che questo tipo è qui con me da un’ora e mezzo in attesa del tunisino senza motivo. “….perchè….perché pensavo fossi con Bushido.”
“Sì beh, stavamo cantando!”
“No, intendevo che tu fossi venuto qui con Bushido!” Preciso.
“Quanti anni pensi io abbia?” Commenta lui.
Mi verrebbe da dire dieci visto come si comporta. “Non lo so! Senti, ma mica mi faccio i fatti vostri! E poi se volevi andartene potevi pure dirlo!”
“Beh ma mica voglio!”
“Allora!”
“Non lo so!”
Dico ma che cos’è ‘sta roba. Io cantavo una volta. E mixavo. E magari capitava che suonassi pure, per dire, non lo so. Due accordi. E ora questo mi tira scemo con i-voglio-andare-ma-però-anche-no. “Non hai più nulla da fare,” chiarisco. “Se vuoi puoi andare, se non vuoi puoi restare.” L’acqua è bagnata. Il sole scalda. E il cane fa bau. Adesso sembro una persona immensamente profonda.
“Credo che resterò,” fa lui.
“Bene.”
Bene?

*


Bushido è andato davvero a prendere il kebab e non è scappato con il ragazzo tunisino che gliel’ha venduto. Ha solo trovato coda. Tutto qui. Adesso, però, chi glielo spiega perché sono schiacciato contro il mixer – e ho per altro sputtanato tutti i settaggi dell’equalizzatore – con la lingua di Fler in bocca?
Non lo so come questa situazione, nella mia testa, sarebbe stata più giustificabile se Bushido, invece di trovare coda, fosse davvero scappato col tunisino che gli vendeva il kebab. Forse perché in quel caso non sarebbe tornato, oppure – anche se lo avesse fatto – sarebbe stato dopo mesi e non ci avrebbe trovati così, e in ogni caso avremmo sempre potuto dirgli che ci eravamo stretti nel dolore della sua perdita.
E io non lo so davvero che cosa sto dicendo. Non so nemmeno cosa sia successo, in effetti. E’ successo, però. Eravamo seduti, poi non lo eravamo più ed eccoci qua, insomma. Capita, no? Che vuoi che sia…
E’ che non ho mai avuto la lingua di un uomo in gola, prima d’ora. E averla quando Bushido torna con il kebab non mi sembra appropriato. Tra l’altro non so se mi sembri così perché è Bushido o perché è Bushido che sta mangiando.
Comunque lui se ne sta lì, e gli cola anche un po’ di salsina sconvolta dal mento. Io penso che forse sarebbe il caso che Fler si scostasse e che io chiudessi le gambe che – oh signore – ho aperto per farlo stare comodo e che, con un colpo di tosse compunta, cercassimo tutti e due di darci un tono.
Fler invece finisce di esplorarmi con cura l’esofago e qundi si ritrae, leccandosi le labbra. “Vedi Chakuza? Avevo ragione io,” esclama. “Era tonno. Ora finiamo di registrare?”

*


“Pomodori?”
“No.”
“Io scendo a prendere il kebab.”

*


Ci riusciamo, in questi tre mesi. Anche se Bushido esce a comprarsi un sacco di kebab e Fler diventa bravissimo ad indovinare cos’ho mangiato a pranzo.
E alla fine, anche se il Carlo Cokxxx nutten 2 porta, nel mixaggio, l’impronta del mio sedere o di quello di Fler – dipende dalla canzone – è venuto fuori un bel lavoro.