bill+tom

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Tom
Genere: Introspettivo, Romantico, Humor
Avvisi: Slash,
Rating: R
Note: Io non l'ho veramente scritta. Quella che vi sta parlando è in realtà la mia gemella cattiva. Io non sono nemmeno in Italia, lei si è impossessata del mio computer e ha creato... questo. No, davvero. Non volevo. Non era nei miei piani e non era nemmeno nella mia tabella. E insomma... okay, basta con il paraggio generale di culo. Dunque, tutto è nato da una battuta di Ana, la quale commentò che l'infiammazione al braccio di Tom potesse essere stata provocata dal fai da te. Fedy mi ha riferito la cosa e, insieme - per qualche ragione assolutamente priva di logica -, abbiamo immaginato che Tom fosse costretto a fare da sè perché il fratello lo aveva mollato lì dov'era per darsi al rap e poi Fedy ha detto: la scrivi? *emoticon con gli occhioni che sfarfallano* E siccome io in quel momento stavo litigando con un'altra fanfiction che non voleva farsi scrivere, Tomi ha pensato bene di assecondarmi, così dal nulla. Ed eccola qui, per altro senza che l'infiammazione venga minimamente citata perché non c'è. E' così che funziona con me, generalmente. Stessa cosa vale per le auto-citazioni e l'auto-referenzialità. Non ho saputo trattenermi *shrugs*

Riassunto: Quello con mio fratello non è stato un periodo e non è stato un certo quantitativo di tempo a cui non so dare un nome. E' stata un'epoca, in cui io e lui siamo stati diversi o forse lui è stato finalmente se stesso e io invece sono stato un peluche dedito al trastullo della mia metà esatta.
DO IT YOURSELF


Io non avevo programmato di farmi mio fratello.
Voglio dire, non mi sono svegliato un mattino più immorale del giorno prima e ho deciso che fino a quel momento non avevo vissuto abbastanza fuori dalla grazia di Dio. Anzi, ritenevo che la mia vita fosse adeguatamente sregolata: non troppo noiosa, non troppo eccessiva. Sono una celebrità che non vuole morire giovane io e mi bastano le storie di una notte per dire di aver trasgredito. Sono tradizionalista anche in questo. Insomma, trasgredisco ma solo seguendo le regole della vecchia scuola: quindi groupie, alcol e qualche scatto d'ira con le fan invadenti. Niente di che. E' mio fratello quello che invece è capace di fare le cose peggiori di questo mondo, solo che poi voi non lo venite a sapere perché quello stronzo di Jost insiste con un certo tipo di immagine e allora di me si viene a sapere ogni cosa e di lui niente, tutti lì a proteggere il suo candore. Che poi candore il cazzo, si è fatto più gente Bill negli ultimi due mesi che io da quando ho iniziato a scopare.
Ma andiamo con ordine, perché altrimenti finisce che non capite un cazzo. Il fatto è che io non sono bravo a parlare, non ho mai imparato perché Bill non me ne ha mai data la possibilità, quindi non è che mi venga bene spiegare le cose, comunque stavolta ci provo perché mi devo sfogare oppure esplodo, che poi è il motivo per cui sono seduto sulla tazza del cesso.
Dunque sei mesi fa io ero una persona normale, più o meno. Avevo un lavoro, degli amici ed avevo un fratello gemello che alla veneranda età di vent'anni era ancora capace di piangermi su una spalla per delle ore dopo aver visto morire la mamma di Bambi, una cosa che smetti di fare non appena ti rendi conto che la sopravvivenza di un piccolo di cerbiatto incapace di parlare o di liberarsi di puzzole omosessuali che gli si sono attaccate addosso dopo i primi dieci minuti di film non è un problema tuo. Lui no, però. E' un tipo sensibile. O per meglio dire, lo era sei mesi fa e quando la mamma cerbiatta moriva, anzi appena prima che lo facesse – perché il film lo aveva visto centinaia di volte quindi lo sapeva a memoria – già sentivi i suoi singhiozzi sovrastare la musica. Ti giravi e chiedevi: “Bill, ma-” E lui non ti faceva nemmeno finire la frase, ti si gettava addosso con quel poco di peso che ha, ti incastrava la testa contro una spalle e poi da lì basta. Lacrime a profusione come se fosse morta la sua di madre e non quella di un cerbiatto che a ben guardare era già bello grassottello e sarebbe stato da Dio sulle tagliatelle.
Poi all'improvviso mio fratello è impazzito. Anzi, ad essere precisi, i suoi ormoni si sono svegliati dal letargo in cui erano costretti dal giorno della nostra nascita e hanno fatto di lui una creatura del demonio. Mi rendo conto che a raccontarla, questa storia, non ci si crede eppure è vera, ve lo giuro su quanto ho di più caro su questa terra, che poi è lui, tra l'altro.
So anche che siete già lì a scuotere la testa e a dire che no, Bill è un angelo, Bill cerca l'amore vero, Bill non è gay e il giorno che troverà la ragazza giusta andranno a vivere insieme in un posto pieno di fiori in cui lui le scriverà canzoni e lei si struggerà nell'amore assoluto che non si può non provare per lui mentre sfornerà almeno tre bambini rendendolo un padre orgoglioso e via dicendo. Ecco, sappiate che Bill non è niente di tutto questo e se proprio dovessi descrivervelo con parole non approvate dalla commissione Jost vi direi che mio fratello è così gay che fa due volte il giro e riesce a rimanere comunque gay, senza mai passare dalla casella dell'etero. Vi direi inoltre che non aspetta assolutamente il vero amore, a meno che la sua idea di attesa non assomigli in maniera preoccupante alla mia e allora siamo in due in piedi a questa fermata dell'autobus che inganniamo il tempo scopando gente che non conosciamo, anche se lui più che altro si fa scopare e comunque lo fa dall'altra parte della pensilina, per cui io non lo sto realmente vedendo. Inoltre, tanto per chiarirvi il concetto sulla storia dell'omosessualità, se mai incontrasse la ragazza giusta, questa sarebbe tale solo perché probabilmente gli ha presentato l'uomo perfetto, che poi sarebbe quello che riesce a sopportarlo aldilà dell'orgasmo, cosa che non è ancora mai successa a parte che con il sottoscritto. Anche se io devo sopportarlo in quanto è un mio familiare e come non butto mia nonna dalla finestra perché vuol farmi mangiare gli asparagi, così non butto fuori nemmeno lui che dopo che l'hai scopato prende fiato due secondi e poi ti ammazza di chiacchiere. O magari, questa fantomatica donna perfetta sarebbe tale perché è in grado di distinguere il verde smeraldo dal verde pisello, cosa che noialtri in tre – io, Georg e Gustav – ancora non siamo riusciti a fare e ci sono delle sere che Bill non c'è e gli trafughiamo queste due magliette verdi che ha e cerchiamo di dare un senso all'esistenza di uno spettro di verde che noi non vediamo ma che lui sostiene che esista.
Insomma, a parte questi dettagli che forse avreste fatto meglio a non conoscere, mio fratello non è niente di ciò che pensate di lui. Non importa quante cose abbiate letto sul suo conto. Anzi, dal momento che tutta l'informazione che ci riguarda è opera di David Jost – e Jost è un mostro dedito alla rovina della mia persona –, più avete letto su di lui e meno ne sapete. C'è un altro Bill dietro al Bill che conoscete voi. E adesso ve lo dimostrerò.
Dunque, vi dicevo che un bel giorno gli ormoni di mio fratello hanno deciso che la castità non faceva al caso loro, perché se era vero che condividevano con i miei ormoni buona parte del codice genetico allora forse era il caso che lasciassero le loro celle di clausura e si dessero alla pazza gioia. Solo che, oggettivamente, questi poverini devono essersi guardati intorno e devono essersi chiesti a cosa dovessero saltare addosso visto che di donne, in quel corpo, non se ne sentiva il bisogno e altre nozioni sembravano non averne fino al giorno prima. Ed è lì che devo essere comparso io, per caso s'intende. Io non conosco il momento preciso in cui la decisione sia avvenuta, ma sono quasi certo di essermi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e che probabilmente ero lì per farmi un caffè, niente di più. Ad ogni modo, i suoi redivivi ormoni hanno lasciato intendere a mio fratello che se di donne non ne voleva e Gustav e Georg non erano di suo gradimento, l'unica era puntare a qualcosa che di certo gli sarebbe piaciuto: se stesso.
Bill non è mai stato uno da mezze misure. Quando cambia vestiti o pettinatura è sempre qualcosa di radicale che ti fa rimpiangere quelle precedenti e ti mette l'ansia per quelle future, per dire, per cui quando ha deciso che voleva venire a letto con il sottoscritto, non è che è venuto da me, mi ha fatto sedere e mi ha detto “Tomi, voglio venire a letto con te. Come si fa?”, nel qual caso io avrei trovato il modo di farlo desistere da questa follia come l'ho sempre fatto desistere da tutte le altre prima di questa, perché ne avrei certo previste le conseguenze a lungo termine. Ma lui no, lui si è presentato direttamente nel mio letto con una bottiglia di vodka e ha detto “Festeggiamo!” e siccome Bill ha sempre dormito nel mio letto quando capitava, io non l'ho trovata una cosa poi tanto strana. E poi non si dice mai di no alla vodka. Quello che so è che sei o sette bicchieri dopo ci stavamo baciando e poi spogliando e poi stavamo facendo sesso, senza peraltro neanche troppi problemi, cosa che, insomma, un po' mi sarei aspettato da lui o da me. O da entrambi.
Io non posso dire che mi sia dispiaciuto, innanzi tutto perché non sarebbe vero, e poi perché ho come la convinzione idiota che se lo dicessi, da qualche parte il cuore di mio fratello si spezzerebbe. Ora come ora, dopo quello che sta succedendo e che ancora non vi ho spiegato semplicemente perché ritengo che abbiate bisogno di una certa premessa e perché, in sostanza, la logorrea fa parte della famiglia, forse non dovrei più pensare cose simili – che mio fratello abbia un cuore, per dirne una. E che si spezzerebbe nel caso io dicessi che fare sesso con lui non mi è piaciuto anche se magari lui è chilometri di distanza e non potrebbe sentirmi, per dirne un'altra – il fatto è che pensarlo mi piace proprio. Mi scalda dentro, ecco. Non so. Il fatto è che io e mio fratello abbiamo ancora delle sensazioni l'uno sull'altro. Se sta male io lo sento anche se non sono nella stanza con lui e so per esperienza che il collegamento funziona anche al contrario, per cui in qualche modo lui sa che mi è piaciuto stare con lui e saprebbe, nel caso, anche il contrario. E non voglio affatto che lo sappia. Comunque, mi sono perso di nuovo.
Quella prima notte con Bill io me la ricordo a tratti perché non eravamo proprio lucidissimi, ma mi ricordo tutte le altre che poi sono seguite. Bill è bravo a farti abituare alle cose, non importa quanto inizialmente tu ne fossi contrario, ha basato la sua vita sulla capacità di far digerire agli altri quello che in nessun modo avrebbero mai pensato di digerire. E se gli è riuscito con milioni di sconosciute, figuriamoci se non ci riusciva con me che, in sostanza, vivo da vent'anni nella consapevolezza di essere qui sulla Terra al suo servizio.
A quella prima notte, dicevo, ne sono seguite molte altre a cadenza quasi regolare perché, a quanto pare, mio fratello del sottoscritto non ha soltanto la faccia ma anche i ritmi e, dopo la prima volta, deve averci preso gusto: con la vodka, senza vodka, in piedi, di lato, con o senza del cibo nel mezzo. E' stata una bella epoca. Voglio dire, oggettivamente non ho motivo di lamentarmi perché mio fratello è proprio bello – e il fatto che sia maschio non conta, perché lui è mio fratello e mio fratello non è esattamente maschio. E' Bill. Nozione che, per altro, condivido con un sacco di gente, poi capirete – ha una discreta quantità di talento che gli viene dal corredo genetico e poi gli voglio bene, il che ha reso tutto speciale e ha messo in secondo piano l'illegalità della faccenda. Non so se mi spiego.
Comunque, epoca, dicevo. Quello con mio fratello non è stato un periodo e non è stato un certo quantitativo di tempo a cui non so dare un nome. E' stata un'epoca, in cui io e lui siamo stati diversi o forse lui è stato finalmente se stesso e io invece sono stato un peluche dedito al trastullo della mia metà esatta. Non lo so. So solo che ad un certo punto è iniziata – e come tutte le epoche quello non è un punto preciso – e poi è finita. La fine, come spesso accade nella storia – perché io ho studiato, un po'. Non tanto, non di gusto, ma ho studiato quindi queste cose le so anche io. E poi faccio un sacco di settimana enigmistica – ha una sua datazione storica precisa.
La data che segna la fine della mia epoca incestuosa e l'inizio di un'altra ben più oscura e medievale risale a due lunghissimi mesi fa, quando, annoiato, mio fratello ha deciso che i miei cd rap assolutamente privi di interesse fino al giorno prima fossero improvvisamente diventati la nuova frontiera del divertimento.
Ora, quando mio fratello decide che qualcosa gli piace, non è che si mette lì con l'oggetto dei suoi desideri e lo scopre, lo analizza, ne impara tutte le sfaccettature e lo fa suo. No. No nella maniera più assoluta, completa e totale che voi possiate immaginare e anche in tutte quelle maniere che proprio non vi vengono in mente nemmeno per sbaglio. Se a mio fratello piace qualcosa – qualunque cosa essa sia – lo deve rendere noto all'universo mondo. E siccome l'universo mondo, generalmente, ha altro da fare ed è pure capace di dirglielo in modi piuttosto violenti, Bill finisce per renderlo noto in particolare soltanto a me che non sono fisicamente in grado di pronunciare le parole adatte a mandarlo in un paese diverso e molto distante dal mio, possibilmente senza nessuna possibilità di contatto con il sottoscritto.
Così, quando lui ha detto “Com'è questo?” Mostrandomi un cd a caso di Bushido che nemmeno ricordo con precisione, io ho tentato di evitare il problema che mi si poneva davanti rispondendo: “Tanto non ti piace.” Che, ora lo so, sono le quattro parole in grado di far fare a mio fratello qualunque cosa, perché a lui sentirsi dire che qualcosa non gli piace senza che lui te l'abbia detto per primo, proprio non va giù. Per tanto mi ha detto “Fammi sentire.” E da lì, il disastro.
Dopo l'ascolto compulsivo di tutti i cd che possedevo a ripetizione per due settimane – una cosa che mi ha seriamente fatto venire voglia di raccogliere tutta la mia collezione in un sacchetto di plastica, portarla nel parcheggio sul retro e poi passarci sopra con la macchina fino a ridurre tutto ad una polvere luccicante di minuscoli pezzettini di plastica – Bill ha avuto la brillante idea di andare a vedere queste persone che cantavano dal vivo.
Quando tu sei una persona normale, diciamo un normale ragazzo di vent'anni, quello che succede dopo aver espresso questo desiderio è che esci di casa, spendi trenta o quaranta euro per un pezzo di carta, aspetti dei mesi se sei stato tempestivo nell'acquisto dei biglietti, quindi ti rechi la mattina del concerto ad un'ora indecente come possono essere le otto del mattino, rimani in attesa fino alle nove di sera, quindi fai a cazzotti con altre centinaia di persone per accaparrarti un posto ragionevole – ossia per finire tra la prima e la terza fila, non di più – e poi, se Dio vuole e ti ha assistito, ti godi il concerto ed urli finché non ti va via la voce. Bill no.
Bill è una diva viziata, uno di quegli artisti che quando ne senti parlare in televisione pensi “Che montato!” perché magari si sono comprati orologi da due miliardi di euro tempestati di diamanti rarissimi cavati fuori dal fondo di una grotta così profonda che riescono ad andarci solo speleologi tibetani strapagati. Per cui, quando ha deciso che doveva andare a vedere questa gente – tutta questa gente – dal vivo, ha telefonato a David, gli ha strillato nella cornetta per dieci minuti, quindi ha riappeso e la settimana dopo io e lui avevamo un posto riservato al concerto di Bushido. Tanto per cominciare.
Io pensavo che Bill avrebbe ascoltato il concerto, tanto per dirne una, perché mi sembrava un'azione che anche una super star viziatissima come mio fratello – che ha due stilisti personali che gli sbavano addosso solo per il gusto poi di poterlo vestire da alien – potesse ragionevolmente fare ad un concerto. E invece, evidentemente, io non capisco le sottigliezze della mente di Bill perché lui, dopo aver accuratamente evitato di ascoltare anche una sola nota – preso com'era a prendere le misure a Bushido, immagino – ha deciso che quello era il momento buono per dirmi che questa cosa dell'incesto non funzionava più.
Ora non vi immaginate che si sia girato e mi abbia mollato lì dove stavo con tanti saluti e grazie, che sarebbe stata una gran cattiveria ma avrebbe avuto una sua logica contorta.
No, assolutamente. Se n'è andato direttamente senza dirmi niente. Insomma, in quel momento lì io non sapevo che si sarebbe fatto una corsa fin dietro le quinte per poi farsi anche Bushido. Pensavo, che so, che avesse da andare al bagno, che si fosse annoiato, che avesse visto Nena, gli alieni, il coniglio bianco. Di certo non potevo immaginare che la mia epoca fosse finita, lì tra le prime file di un concerto di Bushido mentre la gente mi spintonava per uscire o per prendere al volo gli asciugamani sudaticci del tunisino. Io ero ignaro di tutto ciò. Ecco. Sono una vittima.
L'intera faccenda, per farvela breve visto che sono ormai quasi quattro pagine che parlo, è saltata fuori qualche giorno dopo quando io ho chiesto a mio fratello conto e ragione della sua sparizione al concerto e di quelle successive, visto che, ad un certo punto, trovarlo nella fascia oraria dalle nove di sera alle dieci del mattino era diventato impossibile. Lui ha sbattuto le ciglia. “Io non sto tradendo nessuno,” mi ha detto. “Noi non stiamo insieme, no?”
Me lo ha detto con la faccia di chi cade dalle nuvole, per altro. Come se non ci avesse mai pensato minimamente e, in effetti, non è che ci avessi mai pensato nemmeno io. Non mi ero mai svegliato una mattina guardando il soffitto e sentendomi incredibilmente felice e in pace con il mondo per motivi sconosciuti pensando che disteso accanto a me ci fosse il mio fidanzato.
In un certo senso, Bill aveva ragione. Cioè, in generale il fatto che io ci fossi andato a letto con una certa continuità per quasi sei mesi rendeva le cose un po' confuse ma nello specifico, non ci eravamo fidanzati. Anche perché sarebbe stato, credo, tecnicamente assurdo.
Essere fratelli va bene, scopare anche, ma fidanzarsi? Io non concepisco questo verbo nemmeno con le sconosciute, figurarsi con un parente... eppure! Cioè che almeno mi avvertisse, no? Sono un uomo oggetto, mio Dio.
Comunque, tornando a noi, il mio grosso problema non è che mi sono fatto mio fratello – ritengo che se la cosa doveva darmi problemi, avrebbe dovuto darmeli nel momento stesso in cui me lo sono fatto o nelle sue immediate vicinanze ma, siccome questo non è mai successo, amen – né che mio fratello dopo sei mesi di idillio e ogni genere di pratica sessuale conosciuta all'uomo, abbia deciso di punto in bianco di darsi alla sperimentazione straniera. Voglio dire, posso capirlo perché io sono uguale. Mi annoio, devo variare spesso e l'idea di svegliarmi con a fianco la stessa persona per tutti gli anni a venire mi fa venire delle torsioni di stomaco che generalmente tendo ad evitare.
Quello che mi fa seriamente incazzare, però, è che Bill mi ha rovinato la vita per sempre.
Un giorno, qualche tempo dopo ciò che vi ho appena raccontato, l'ho visto per caso con uno dei rapper che fino a poco tempo prima erano solo volti più o meno importanti sulle copertine di cd che avevo poco tempo per ascoltare, sinceramente non vi saprei dire chi fosse esattamente perché dopo Bushido, Bill se li è fatti un po' tutti, nemmeno fosse un album di figurine da completare, per cui poteva essere Bushido come Chakuza, come Sido come – che il buon gusto che sempre lo accompagnava e che d'improvviso lo ha abbandonato in questo deserto di perdizione mi perdoni – Eko Fresh, ma non sarebbe comunque importante, perché il punto è che io l'ho visto. L'ho visto e l'ho sentito mugolare illegalmente addosso a chiunque fosse che se lo scopava come se non ci fosse un domani e non mi toglierò mai più l'immagine dalla testa. Voglio dire, già io non dovrei neanche sapere come sia mio fratello a letto perché ci sono cose che i fratelli non dovrebbero mai sapere gli uni degli altri per una qualche legge divina, che però noi abbiamo infranto e per questo, suppongo, un fulmine ci colpirà quando meno ce l'aspettiamo. Ma, oltre a non saperlo, non dovrei nemmeno immaginarlo o tanto meno pensarlo. E invece faccio tutte e tre le cose e nessuna delle tre di mia volontà.
Ora, non è che io sia solito essere presente mentre mio fratello si fa scopare - con gusto anche! - da uomini che hanno dagli otto agli undici anni più di lui, ma capita costantemente che io sia nel posto giusto e loro nel posto sbagliato. Così loro danno spettacolo e io sono costretto a guardare. Okay, costretto no, magari e magari nemmeno resto ma basta l'attimo, quel poco che vedo e il mio cervello si setta sulle frequenze orgasmiche di mio fratello e niente, e dico niente, riesce più a schiodarlo di lì.
E finalmente siamo arrivati al punto a cui avrei voluto arrivare alla seconda riga, anche perché sarei piuttosto impegnato ed è una cosa che devo fare da solo.
Io non riesco più.
Cioè no, riesco ma non più liberamente.
Non come prima quando il mondo era un posto migliore, libero dall'immagine di mio fratello impegnato a copulare ad ogni ora del giorno e della notte, in ogni luogo e in ogni... antro in cui riesca ad infilarsi con l'uomo che in quel momento gli viene appresso.
Io ero un ragazzo felice che poteva uscire e trovare una donna qualsiasi che gli allietasse la serata oppure starsene in casa e allietarsi la serata da solo, sfruttando la sua potente immaginazione.
E adesso no. Adesso devo chiudermi in un gabinetto, o nella mia stanza d'albergo, nella cuccetta, o quello che è purché sia al chiuso altrimenti niente, chiudere gli occhi e pensare a mio fratello e a quello che si lascia fare quando è convinto che una porta semi-chiusa sia abbastanza per tenere il mondo all'oscuro della sua vita sessuale.
Mio fratello non pesa niente e non è diritto dalle spalle alla vita come dovrebbe essere, essendo lui un maschio. Ha una specie di punto vita, non so, un rientro delle anche, qualcosa che quando lo prendi per la vita e te lo tiri addosso, senti la linea morbida della sua pancia che si allarga verso i fianchi. Ed è profumato, ma non come una ragazza, ha solo un buon odore, che quando gli infili il naso nel collo e inspiri e lo mordi piano, lui si preme contro di te e ti stringe le braccia al collo. Io non lo so come sia possibile che il suo corpo si adatti al tuo come se fosse nato apposta. Ogni curva ha il suo posto su di te mentre tu trovi posto in lui, è come un puzzle, quasi ti aspetti di sentire l'incastro solo che se anche potessi sentirlo, saresti troppo preso da lui perché quando Bill geme, è tipo l'ottava meraviglia del mondo. Tipo, illegale. Tipo che quando mi affonda le unghie nelle spalle e mugola “Tomi!” io potrei anche, non lo so, morire ed essere felice.
“Tomi!”
Esattamente, Tomi. Bill lo dice quando c'è così vicino che non ha nessuna nozione coerente di ciò che gli sta intorno e si agita scoordinato com'è e se c'è qualcosa nel mezzo la butta giù come niente. Non puoi avere soprammobili intorno quando scopi con Bill perché non ne resta uno che sia uno sulle mensole.
“Tomi!”
Me lo grida nelle orecchie quasi sempre, ma sono quei momenti in cui non ti dà fastidio, si vede che già il sangue che migra verso sud ti rimbomba nelle orecchie, quindi sei già sordo e lui non può davvero assordarti di più. Non lo so, però non te ne frega niente e...
“Tomi mi lusinga che tu sia di nuovo in bagno a pensare a come ti grido nelle orecchie, e che tu riesca a starci ancora tanto a lungo, del resto sono uno schianto io, ma se non esci immediatamente dovrà farla qui davanti alla porta e non sarà un bello spettacolo.”
Bill non ha mai avuto un bel tempismo. Penso esattamente questo mentre con la voce squillante viene a distruggere i miei sogni di gloria. La vedo proprio, la mia immagine mentale che si disintegra e frana sul pavimento del bagno mentre io guardo ogni pezzettino agonizzare e morire. Non ho neanche la forza di raccogliergli virtualmente e rimetterli insieme con un po' di colla, giusto per finire quello che ho iniziato, che mancava poco.
“Tomi!”
“Arrivo!”
Perché di venire, proprio, non se ne parla più.
Personaggi: Bill, Tom, OFC
Genere: Comico, Demenziale
Avvisi: Slash, Het
Rating: R
Note: Da un'idea di Yulin. La storia - comparsa inizialmente con il solo sottotitolo - si è classificata prima al concorso "2018", indetto sulla kaulizestIta.
La storia è un compendio di stupidità e io ne sono molto orgogliona.
L'idea di questa famiglia allargata dove non si sa cosa nè chi, in realtà, mi intrigava già da parecchio e racchiudere il tutto in una shot piuttosto che ammorbarvi con 60 capitoli (che poi sarebbero sfumati nel dramma definitivo) mi sembrava una buona soluzione.
Per quanto riguarda Nena, la vacca - che dire?
Nena andava inserita (per essere perfetti bisognava anche sbagliare un po' delle date che la legano ai Tokio Hotel per falsare la presumibile realtà storica, ma questa volta credo di non esserci riuscita. E un po' mi dispiace: era il mio marchio di fabbrica) e ho pensato che si meritasse una parte di spicco. No offense intended nei confronti di sua maestà la vera Nena.

Riassunto: Allora l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa. Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.
Quando, da piccoli, ne parlavamo, sembrava davvero un grande idea: io, Tomi, una casa enorme e magari una ragazza che la pensasse esattamente come noi a completare l'ameno quadretto perché Tom ha sempre adorato i bambini; li voleva, nonostante tutto, e ne voleva di suoi per cui l'adozione era fuori discussione.
Ora come ora, in realtà, ho come l'impressione che più che i bambini in sé gli piacesse farli ma, all'epoca, quando mi disse che adorava l'idea di mettere al mondo tante nostre piccole copie in miniatura, la cosa mi sembrò romanticissima.

Io e Tom ne parlavamo di continuo. A quindici anni era solo un'idea molto confusa di me e di lui, e di una casa con le porte sempre aperte. Una sorta di castello incantato con le stanze comunicanti che ci avrebbero permesso di romperci vicendevolmente le palle in allegria. Eravamo ancora ai livelli per cui vivere insieme significava coccole ventiquattrore su ventiquattro senza altri futili pensieri per me, sesso ovunque e pizza a cena per Tom. Era tutto molto semplice a ben pensarci.

A diciotto anni, l'idea divenne più precisa e iniziammo ad adoperarci per realizzarla. Io volevo trovare un modo per stare con mio fratello senza finire in galera. Tom, fondamentalmente, voleva sempre far sesso ovunque e pizza a cena ma ci aggiunse i bambini e quindi il necessario elemento femminile.

A ventidue anni le ragazze divennero due e la mia bellissima idea di una bifamiliare in centro a Berlino si tramutò in un surrogato tedesco della Casa nella Prateria. La pizza rimase, naturalmente.

Allora, come dicevo, l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa perché, se qualcuno era arrivato alla nostra stessa idea, allora non eravamo poi così fuori dal mondo.
Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.


L'ASSUNTO APODITTICO PUO' ESSERE EUFONICO?
Io, mio fratello e il giorno che mi lasciarono
solo con l’anticristo.



Sono seduto sul divano di casa, che non è più veramente un divano da quasi tre anni. Mi pare di ricordare che fosse nero, una volta, ma non posso accertarmene perché è sommerso da ogni genere di oggetto. Sbuffo e appoggio la testa allo schienale morbido, guardando il soffitto quattro metri sopra di me. Il lampadario è l'unica cosa che sia ancora nel posto in cui si trovava quando abbiamo comprato questa fattoria.

Sono le dieci del mattino e vorrei già tornare a letto. Sono stanco per fare qualunque cosa, ultimamente. Questo è perché non dormo né quanto né come dovrei: la responsabilità è delle acrobazie sessuali di mio fratello, naturalmente. D'accordo, forse non è proprio tutta colpa sua ma di sicuro buona parte delle mie ore insonni ormai la devo a lui. E a loro.

E anche agli altri naturalmente.

Sembra che tutti qua dentro agiscano sotto l'effetto della stamina. Tanta stamina. Possono stare svegli per ore, a fare qualunque cosa. Non è solo questione di sesso, no. Si parla, si scherza, si urla, si piange e si gioca. Si gioca tanto; perlopiù tra una scopata e l'altra. Ecco.
Così mi tocca prima giocare, e poi scopare. O anche l'inverso, dipende da che metà del giorno viene prima. In definitiva, però, non dormo.
Ecco perché alle dieci del mattino sono già seduto su questo divano senza nemmeno la forza di recuperare il telecomando e abbrutirmi davanti al televisore.

Voglio solo morire.
Morire in mezzo a una valanga di oggetti inutili, su quello che un tempo è stato il mio bellissimo divano di pelle nera. E invece no. Qua non si muore nemmeno.

"Bill, noi usciamo."

Le parole, in realtà, mi arrivano dopo. Prima mi arriva il concetto, che è notevolmente peggio; questo perchè il cervello archivia il significato immediatamente e poi ci mette i suoi dieci minuti buoni a recuperarlo, elaborarlo in una sequenza logica e ripresentartelo in modo che tu, coscientemente, sia in grado di afferrarlo.

E a quel punto loro sono già uscite.

In realtà, il mio è un problema di tipo logico.
Ieri sera Tomi e io siamo nella nostra stanza al secondo piano e Tomi mi sta drappeggiato addosso, con la sua bella faccia soddisfatta e la mano sul mio sedere. Se ne sta lì così e io sono portato a credere che per oggi ho finito sia di giocare che di scopare, e che forse posso anche dormire. Sono così felice che mi addormento pure, dalla felicità.

Lui ovviamente mi sveglia, perché ha la stamina. Lui.
Mi pianta nel viso gli occhi da triglia e mi dice: "Domani devo andare allo studio a registrare la linea di chitarra." Agli occhi di un profano che non vive nella nostra condizione, potrebbe suonare come una frase di una banalità imbarazzante. Io sono un cantante, lui è un chitarrista, abbiamo una band: è puramente logico che ogni tanto si registri anche qualche pezzo nuovo invece di continuare a vendere per dieci anni singoli rimasterizzati di Durch den monsun. Cosa che non ci esimiamo dal fare, comunque.

In realtà no. Questa non è una notizia come un'altra, è l'annuncio dell'apocalisse imminente: E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che recavano sette flagelli, gli ultimi, perché con essi si compie l'ira di Dio. Mi libero dalla sua amorevole stretta e lo guardo negli occhi. Chiedo che cos'ha detto e lui ripete - che il cielo abbia pietà di noi tutti - esattamente le stesse parole. Lui va a registrare allo studio.

Se lui non c'è, rimaniamo in tre contro l'Anticristo.

Mi rendo conto che non posso urlare: è una questione di sopravvivenza. Se viveste come vivo io, lo capireste. Se urli, ti sentono. E se ti sentono, la loro percezione distorta del mondo li convincerà che urlare sia giusto. E ti imiteranno, emuli malvagi che tu stesso hai creato.
Così non urlo, annuisco e cerco di riaddormentarmi ma ovviamente la stamina di Tom mi nega anche il più piccolo conforto. Sia mai che oltre ad affrontare l'apocalisse in svantaggio, io possa farlo senza due occhiaie sfiguranti.

Sia mai.

Quindi, tornando al nodo centrale della questione: Tom non c'è.
Da qui se ne deduce che quelle due non possono uscire. Eppure lo hanno fatto. Se loro escono, e Tom non c'è, questo lascia me solo contro l'Anticristo.

Ho appena finito di raggiungere questo alto grado di consapevolezza ascetica che sento la porta chiudersi. Nei minuti che il mio cervello ha impiegato, come dicevo, a propormi questo grande spaccato di verità, Emma e Julie sono uscite.

Mi alzo dal divano e mi getto fuori dalla porta, pregando che le gambe mi reggano quel tanto che basta a gettarmi in mezzo al vialetto di casa. Sono pronto a farmi investire dal SUV ma vi prego non lasciatemi qui. Non da solo. Non sono neanche troppo sicuro di avere qualche responsabilità in tutto questo. La dinamica è sempre stata molto confusa, tutte e sette le volte.

Quando raggiungo l'esterno, però, ci trovo solo le sgommate dell'auto.
E quando avranno terminato la loro testimonianza, la bestia che sale dall'abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà.

***


Sono sette.

Sette sembra un bel numero. Ci sono i giorni della settimana, le note, le meraviglie del mondo. Sono sette i mesi dell'anno con 31 giorni, le vite del gatto, i nani di Biancaneve!

Poi ti viene a mente che sono sette anche i peccati capitali, e in quel momento capisci tante cose. In particolar modo comprendi che la felice idea di bifamiliare, gioiosamente arredata di bambini è una gran vaccata. E che il tuo gusto per il design non potrà mai andare d'accordo con il gusto malsano di tuo fratello di riprodursi.

Quando rientro in casa mi rendo conto che qualcosa ha colonizzato il divano; definire il numero di creature che vi si sono arrampicate sopra potrebbe essere complesso. Vedo braccia e gambe ma niente di numericamente distinguibile.

"Bill!" E' il grido primordiale che mi accoglie non appena entro nella loro visuale. Nessuno che viva sotto questo tetto può sostenere con assoluta certezza che io sia il padre di qualcuno. Nessuno può sostenere la stessa cosa di Tom. Pertanto, la convivenza civile - nella persona del sottoscritto - ha obbligato il resto del parentado all'equo utilizzo dei nostri adorabili nomi propri.

Ora che si sono rotolati in posizioni quasi umanamente vivibili, posso vedere che sono soltanto tre e mi guardano tutti fisso, come bambole di porcellana in casa di una vecchia sciroccata e piena di gatti. Sono quelli della fascia alta d'età. Sei, cinque e quattro anni.

Sembra il conto alla rovescia di Capodanno.

"Ho fame," esordisce il più grande che di nome fa Samuel. E se un giorno si lamenterà per questo gli dirò che poteva andargli peggio e che, se io e sua madre Julie non avessimo insistito, ora avrebbe il nome di un rapper che faceva già schifo quando uno dei suoi possibili padri era ancora minorenne. Se non ci fossi stato io, il primo dei nostri Kaulitz avrebbe avuto DELUXE sul certificato di nascita.

Quando mi espone il suo problema, puntualmente anche le altre due che gli siedono a fianco, e che a tutto pensavano tranne che a riempirsi lo stomaco, scoprono all'improvviso di avere fame. E succede sempre così, con qualsiasi cosa. Quando uno vuole andare in bagno, altre sei persone si pisciano addosso. Quando uno vomita, ci ritroviamo istantaneamente il salotto riverniciato di pezzettoni.

"Anch'io ho fame," proclama con veemenza la più grande delle bimbe. Si chiama Nina, perchè a Nena si sono opposti tutti quanti. E dire che era un gran bel nome.
Sua sorella, di madre diversa, le fa eco. Nei suoi quattro anni, il vocabolario è ridotto alla sola parola fame ma si avvale delle dichiarazioni dei fratelli per dare forza ai propri discorsi.
Ogni volta che la guardo mi viene in mente il volto di mia madre e quello della madre di Emma che si ringhiano l'un l'altra sopra un tavolo da caffé per chiamare quella creatura col proprio nome.

Peccato che abbia finito per chiamarsi Angelina, come la Jolie. E questo perché ho un gemello e una compagna che ancora sbavano dietro a quella donna. Quando li troviamo di fronte alla quarta visione settimanale di Wanted, è sempre un momento molto imbarazzante per tutta la famiglia.

Io non sono mai stato bravo nelle materie scientifiche ma ora so che, da qualche parte, dev'esserci qualche legge fisica che stabilisce esattamente questo: quando sei intento a preparare la colazione per i tuoi tre figli e ad ascoltare ciò che hanno da dirti, uno o più eventi si abbatteranno sulla tua persona e tu non potrai fare niente per fermare nessuno di essi.

Infatti, mentre sto posando sul tavolo un numero sufficiente di waffles a sfamare la corte del sultano del Brunei e il suo popolo tutto, perché i tre pargoli vi si gettino sopra come cavallette, squilla il telefono, suonano alla porta e - tanto per gradire - dai piani superiori urla e strepiti mi ricordano che io e Tomi, forse, dovremmo fare causa alla casa che produce i nostri profilattici.

Il corollario alla legge fisica di cui sopra, in effetti, dice: se quando sei intento a preparare la colazione ai tuoi tre figli ne hai anche altri quattro da qualche parte, sottoponiti a vasectomia.

Nell'aprire alla porta, rispondo anche al telefono, così mi ritrovo a salutare il mio postino con un bel PRONTO! squillante e ad invitare David ad entrare attraverso la cornetta.
Il postino mi guarda basito e non so se lo faccia perché ho appena detto quello che ho detto o perché mi ritrovo addosso un pigiama di Emma che ha la mia stessa taglia ma non i miei stessi gusti e adesso ho elefantini rosa sui pantaloni. Ignoro la mia situazione, prendo la posta con un cenno e gli richiudo la porta sul muso prima che uno dei paparazzi là fuori mi ritragga in questo modo e poi venda la foto a BRAVO. Abbiamo già abbastanza imbarazzanti problemi con il gioco che hanno indetto la scorsa settimana e che, con uno stupro di eleganza non indifferente, invita le adorate lettrici a dare la loro opinione su chi sia figlio di chi.

"Bill?" Dice David.

David è uno di quelli che sta cercando di supporlo da sei anni, ne sono certo. Scommetto che manda anche gli sms a Bravo per dire la sua.

"Sì, ci sono," rispondo mentre lancio occhiate alla cucina dove le tre malattie infettive si stanno facendo lo shampoo con la panna dei waffles. Quando hai sette figli, tutti di età compresa tra lo zero assoluto e i sei anni compiuti da un giorno, arrivi ad un certo punto in cui non te ne importa più niente, neanche se si facessero lo shampoo con il tuo sangue. Intanto salgo le scale, perchè il coretto dei neonati si sente fin troppo forte e chiaro.

"Ci sarebbe un servizio fotografico..." inizia David. Quell'uomo non conclude mai le frasi, le lascia in sospeso. E' un manager allusivo.

"Quando?"

"Oggi."

Rido.

"Magari sul tardi," offre lui.

"Magari quando Samuel parte per il militare," propongo io.

I bambini hanno due stanze. Una per il primo gruppo, una per il secondo. I quattro figli che mancano all'appello sono quelli nella fascia bassa d'età, il che significa due anni e meno di un anno. I gemelli - sì, i gemelli; a quanto pare quella dei gemelli che saltano una generazione è un'altra leggenda metropolitana - hanno due anni e mezzo; si chiamano Jorg, come mio padre. E Gordon, come mio padre, sempre. Mi rendo conto che la nostra situazione assume contorni perversi e contorti anche nei dettagli più smaccatamente normali. Questi due, dei Kaulitz, hanno qualunque cosa: i capelli, il naso, la bocca, la forma assurda delle orecchie. Dalla loro madre hanno preso l'unica cosa che mancava a noi: l'occhio azzurro. E lì un po' t'incazzi perchè, essendo due maschietti, sono praticamente uguali a noi ma sono più belli. Sono una versione aggiornata dei gemelli Kaulitz!

Gli ultimi due hanno sei mesi uno e quattro l'altra. Lei si chiama Simone: mia madre l'ha spuntata perché, nel frattempo, la madre di Emma è morta.
Lui invece si chiama David. Glielo dovevamo, soprattutto quando si è ritrovato coperto dalla testa ai piedi di placenta e liquido amniotico in un claustrofobico ascensore della Universal con Julie che gli stritolava la mano, massacrandogli le dita e dandogli la colpa di ogni cosa che riguardasse noi altri due che eravamo bloccati in sala stampa ad annunciare il nuovo album.

Prendo in braccio David e Simone, mentre libero i gemelli dal loro lettino con le sbarre. Il bello degli omozigoti è che si autogestiscono in quasi tutte le occasioni. So per esperienza personale che nessuno dei due permetterà che l'altro si faccia del male. Molto probabilmente tra qualche anno li troverò a limonare dentro un armadio ma credo proprio che saprò essere comprensivo.

"Ci sei?" Mi dice David. Quello adulto.

"Sì, ma devo cambiare il tuo omonimo."

"Allora niente servizio fotografico?"

Guardo nel vuoto per qualche istante e mi immagino come sarebbe passare il resto della mia vita in galera per aver ammazzato il mio manager che non ha ancora capito che dopo 6 anni e 7 figli sono ben giustificato a dire di no ad un servizio fotografico quando ho due neonati in braccio e altri due che mi corrono tra le gambe urlando parolacce che il padre - o lo zio - ha insegnato loro.

David attende. Non è che gli passa per l'anticamera del cervello che io non possa cambiare idea. Il mio David invece, puzza. E anche tanto. "Dalla cacca che fai, si direbbe che tu sia figlio di Tom," borbotto mentre lo appoggio sul fasciatoio. Simone l'ho messa nel seggiolone e attende paziente che mi occupi anche di lei.
I due gemelli li ho persi di vista ma inizierò a preoccuparmi solo quando ne sentirò piangere uno. Abbiamo dei metodi educativi molto spicci in questa casa.

"Stavi parlando con me?" Mi chiede il mio manager.

"David, se pensi che io possa interessarmi alle tue abitudini intestinali, credo che tu abbia bisogno di rivedere l'opinione che hai di me," dico intanto che cerco di allontanare da mio figlio la quantità industriale di escrementi che ha prodotto nelle ultime cinque ore senza rovinarmi la manicure. Io odio cambiare i pannolini, credo che dovrei avere una dispensa per essere esonerato da una cosa del genere.

Non mi si addice, per la miseria.

Sto vagliando l'ipotesi di riattaccare ed occuparmi della figliolanza, quando sento un gran frastuono provenire dal piano inferiore e allora mi passa di mente sia di spedire il mio manager a farsi benedire, sia il fatto che io una volta ero un giovane efebo, il cui unico compito era quello di ansimare in un microfono per scombussolare gli ormoni di un'orda di ragazzine.

Mi avvio al piano inferiore, stringendomi David contro un fianco e scopro che l'altro, il manager, sta parlando da solo da ore e non se n'è nemmeno accorto. Il che è perfettamente normale: ha passato gli ultimi dieci anni a farlo perché nessuno di noi gli ha mai dato retta. Per non sentirsi solo ha imparato ad ascoltarsi.

"D'accordo, se non riesci proprio a fare un salto qui per le foto, non fa niente," sta dicendo, con il sotto tono di uno che vorrebbe sentirsi rispondere che in realtà mi dispiace molto non esserci e che sono pronto a sacrificare il mio primogenito al demonio pur di essere lì con lui a farmi ricoprire le occhiaie di fondotinta e a posare sensualmente di fronte ad un fotografo quando ho alle spalle un complessivo di 2 ore di sonno... durante le quali non posso garantire che Tom non si sia approfittato sessualmente del mio corpo ormai esanime.

"Ad ogni modo," riprende quando non sente alcuna risposta da parte mia, "c'è questa manifestazione tra un paio di settimane e, calcolando l'uscita del vostro ultimo dvd, sarebbe forse il caso che ci foste tutti e quattro per pubblicizzarlo un po'."

Mentre scendo le scale recupero anche Angelina, che si è seduta in equilibrio precario sul primo gradino. Non ho voglia di vederla ruzzolare di testa per tutte le rampe di scale. Lo ha già fatto Tom il primo anno che eravamo qui: lui, però, una volta disteso, la rampa di scale la copre tutta. Nostra figlia invece rimbalzerebbe ben bene almeno una ventina di volte prima di arrivare in fondo e non credo se la caverebbe con due bernoccoli.

"Chi viene?" Chiedo a David, il manager, mentre faccio il mio ingresso nel mio salotto. O ciò che ne resta per lo meno. "NENA!"

Come dicevo sostanzialmente prima, quando sei impegnato a fare più cose contemporaneamente, è molto più facile che altre cose decidano di capitare proprio in quel momento. E' una legge imperscrutabile dell'universo e nessuno può sfuggire alle leggi imperscrutabili dell'Universo, nemmeno io.

Posso sfuggire abilmente alle leggi umane, e compiere incesto.
Prevenire gli eventi del fato universale, ecco... quello mi viene male.

Ad ogni modo, l'Universo non si fa mai vivo di per sé: salve io sono l'Universo e sono qui a portarti le mie leggi. No. Lo fa attraverso messaggeri di vario genere e forma, in questo specifico frangente lo fa attraverso i cinquecento chili del corpo di Nena, la vacca.

So che in questo momento vi state chiedendo cos'ha spinto me, Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel, famoso per le sue plurime dichiarazioni internazionali in cui sostiene di adorare fin dalla più tenera età Gabriele Susanne Kerner, classe 1960, a dare del bovide al mio mito d'infanzia.

Ora vi spiego.

Si da il caso che noi abbiamo una mucca. Una Pezzata Rossa Bavarese, per la precisione.
E che questa mucca si chiami Nena; ma non per colpa mia, sia chiaro. La nomina di questo animale è sfuggita al mio controllo l'attimo stesso in cui Tom l'ha comprata.

Quel cretino di mio fratello ha pensato di regalarmela già provvista di quel nome.
Pensava di farmi cosa gradita facendomi trovare sotto l'albero di natale un animale di quasi una tonnellata che portasse il nome dell'unica donna al mondo che io vorrei davvero... essere.

Chiunque mi avrebbe regalato un chihuaha. Lui no, la vacca.

Non ho il tempo di soffermarmi a pensare a quanto infelice sia la mia vita con due ragazze, un fratello-amante, sette figli e una mucca perchè Samuel sta strillando e, avendo ereditato la mia voce da usignolo, è probabilmente destinato a farsi venire una cisti alle corde vocali molto, molto presto.

Il pargolo è attaccato alla coda della mucca che, oltraggiata, sta riversando la propria frustrazione in una corsa sfrenata tra i mobili del salotto. "Bill, non riesco a fermarla!" Mi grida il bambino, che si sta facendo trascinare dalla vacca ovunque.

Il piccolo David ride tra le mie braccia mentre sua sorella Angelina pensa bene di spaventarsi come la mucca e mettersi a gridare nelle mie orecchie. In tutto questo, il mio manager non ha capito un accidenti e sembra entusiasta delle mie doti di preveggenza. "Bravo, Nena sarà presente," mi dice, convinto di aver finalmente trovato la motivazione definitiva per convincermi a presenziare ad uno dei suoi stupidi programmi. "Come hai fatto ad indovinare?"

"La vacca!" Sbraito io, col cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre lascio David e Angelina sulla prima superficie libera disponibile e mi lancio all'inseguimento dell'animale e di mio figlio che le struscia dietro.

"Ora, Bill, questa mi sembra una mancanza di educazione," commenta David. E se fossi abbastanza in me mi accorgerei che è un po' interdetto. "E' vero che ultimamente non è stata esattamente disponibile, te lo concedo, ma ha comunque una certa età e le si dovrebbe rispetto."

"Samuel lascia la presa!" Ordino e mio figlio esegue. Non capita spesso, pertanto mi permetto di gioirne interiormente. Nena corre ancora come un'invasata per un paio di metri e poi si ferma, riprendendo a masticare placida erba che probabilmente ha ingoiato ieri. Che schifo, io odio le mucche.

Mio figlio è steso a terra a quattro di bastoni e un po' mi preoccupo perché anche io ho un cuore, alla fine. Sono consapevole di odiare quella piccola miniatura di essere umano per gran parte della giornata perché urla, si muove e produce rifiuti organici, ma vederlo lì, abbandonato a terra come una borsa di Prada dell’anno scorso, un po' mi sconvolge.

In fondo quel cosino lo abbiamo fatto io e Tom.
D’accordo, io o Tom. Vogliamo forse star qui a far le pulci alle congiunzioni quando una mucca corre nel mio salotto?

"Bill, vuoi farmi la cortesia di rispondere?" Mi chiama il manager.

"David non ora. Samuel è morto," esclamo con tono piatto, forse vagamente sotto shock.

"Che cosa?" Mi urla lui nell'orecchio. E me lo immagino che si spettina tutto, perché David ha la tendenza a farsi venire i boccoli fuori posto quando l’isteria lo coglie. “Bill cos’è successo? Vuoi che chiami un’ambulanza?”

Mi avvicino a mio figlio riverso sul pavimento e lui apre gli occhi e mi guarda. Sollevo due dita e gli chiedo quante ne vede. Mi dice “Forse due,” e decido che va bene così: non posso chiedere certezze assolute ad un bambino di sei anni appena travolto da una mucca.

”Bill?” David sembra davvero molto preoccupato.

“Allarme rientrato, è solo un po’ impolverato,” rassicuro il vecchio mentre tiro su Samuel e gli tiro due pacche sul sedere per spolverarlo. “Nena lo ha travolto, ma sta bene.”

David farfuglia qualcosa sul rispetto per gli anziani ma non lo sento perché Angelina richiama la mia attenzione tirandomi la stoffa dei pantaloni. “Che cosa c’è?” Sospiro.

Lei si limita a tapparsi il minuscolo naso e ad indicare perentoria alle nostre spalle.

Ora provate ad immaginarvi il fermo-immagine.
Vedete me, con il telefono ancora incastrato fra la spalla e l’orecchio e vedete una delle mie figlie che si tappa il naso. Quello che troverò lo sapete voi, e lo so io.

E sappiamo tutti che non mi farà affatto piacere.

Nena è un animale esageratamente grosso se paragonato al mio salotto. Ed ella ha l’abitudine di evacuare in quantità direttamente proporzionali a quello che mangia. E a farlo istantaneamente.
Quello che si trova ora accanto al mio divano di pelle non sono escrementi.

E non so cosa sia.
Ma è semplicemente troppa per essere soltanto cacca.
Forse Nena si è sciolta.

Sfortunatamente l’adorabile regalo di natale di mio fratello è ancora lì, in tutta la sua ruminante placidità. In questo preciso frangente, con mezzo chilo di fertilizzante naturale sul mio tappeto persiano Isfahan da 8.000 euro, non mi preoccupo se Nena si è messa a ruminare anche le tende. Cosa può importarmi ormai?
Sono un uomo distrutto.

“Bill?” E’ la voce del manager.

”Davi, ti prego, abbi pietà di me. Nena ha fatto la cacca nel mio soggiorno,” pigolo disperato e non riesco a distogliere lo sguardo dal mucchio di escrementi che, nel buio grigio della mia disperazione, mi appare perfino sorridente. Allegro. Felice di essere stato evacuato. “E’ una cosa tremenda.”

David tace.

E con ogni probabilità lo fa perché nella sua mente, in questo momento, c’è un’immagine che non sono davvero sicuro di voler visualizzare. Io provo del rispetto per la mia cantante preferita: non voglio vederla accovacciata sul mio tappeto, con la carta igienica in mano come la sta pensando lui. Non voglio e basta, ecco. Sono già abbastanza insonne per cause indipendenti dalla mia volontà, per aggiungere anche questo dettaglio raccapricciante alle mie notti. “David… sto parlando della mia mucca,” dico.

Il mio manager è un uomo buono. Dico davvero.

Lo conosco da quando non ero altro che un ragazzino e lo conosco bene, nella sua vita non ha fatto niente di male, a parte aver lanciato sulla scena musicale quattro mocciosi incapaci di mettere insieme due note. Probabilmente si meriterebbe qualcosa di più che stare qui al telefono con il suo frontman ad implorarlo di lavorare almeno una volta al mese come un impresario da quattro soldi qualunque.
E certo non si merita che io lo confonda con tutti i miei figli e la cacca della mia vacca che per altro ha un nome che lui potrebbe facilmente equivocare. Io lo so. Lo so eppure non gli evito mai niente di tutto questo, lo trascino all’inferno con me, sempre. Ledo la sua dignità ogni volta che mi rivolge la parola.

Mi sento un po’ in colpa.

La cacca è pur sempre là, però. E puzza.
Decido che la dignità di David può aspettare le mie scuse ancora un altro po’.
”David, ne riparliamo un’altra volta, va bene?” Gli dico. Mentre chiudo il telefono mi sembra di sentirlo piangere, ma forse mi sbaglio.

Solo quando chiudo la conversazione e la stanza piomba di nuovo nel silenzio – fatto salvo per il borbottio continuo dei miei figli e il macinare dei denti di Nena – che mi rendo conto che quella cacca va spostata.
Ora, tu puoi contemplare gli escrementi del tuo enorme animale da fattoria che staziona erroneamente in salotto e sentire le lacrime che ti salgono agli occhi per il semplice fatto che tutta quella merda non dovrebbe affatto trovarsi dove si trova, e va bene. Quando però ti rendi conto che osservare tristemente quanta sfiga ti abbia colpito tutta quanta insieme non è l’unica cosa che l’Universo ti richiede, capisci che fino a quel momento non hai davvero avuto abbastanza motivi per piangere.

“Chi ha fatto entrare Nena in casa?” Chiedo, senza voltarmi.

”Nessuno l’ha fatta entrare, è entrata da sola,” Samuel mente con una facilità estrema. Le parole gli escono di bocca liquide come acqua. Se non è a te che sta sparando cazzate consapevolmente, lo trovi quasi commovente da quanto è bravo. Un talento naturale.

Mi giro verso di lui con una sguardo e un sopracciglio sollevati costruiti ad arte in quindici anni di onorata carriera e lo osservo. Lui rimane impassibile. “E come avrebbe fatto, di grazia, ad aprire la sua recinzione e il chiavistello della porta d’entrata?”

Samuel sostiene il mio sguardo e tira su il naso. Ha una mano sul fianco e l’anca spostata prepotentemente di lato. “E io come faccio a saperlo, non sono mica una mucca!”

Io voglio strangolarlo.

Il pensiero si palesa nella mia testa con tanta chiarezza che non sono certo di trattenermi dal farlo. “No, sei un bambino che ha fatto entrare una mucca in casa. E per questo pulirai il disastro che ha fatto,” proclamo, recuperando al volo segatura, paletta e cestino.

”Tu non puoi farmi questo!” Esclama Samuel. Spalanca gli occhi e la bocca in maniera così teatrale che mi viene quasi un groppo alla gola. E’ così oltraggiato, così insensatamente offeso e pronto all’autocommiserazione che per la prima volta sento l’orgoglio di padre esplodermi in petto. Se i geni della Diva esistono, come sostiene Tom, allora forse il primogenito di questa casa è opera mia.

Credo che mi vanterò in maniera indecorosa con mio fratello.
Forse ballerò anche. Non so, devo ancora decidere bene i dettagli.

Ad ogni modo, non è questo il punto. Devo concentrarmi. “Oh sì che posso signorino,” commento. E lo faccio proprio così, con queste parole, perché sono quelle che mi sibilava mia madre e io ho aspettato per anni il momento di poterle ripetere. “Tu hai portato la vacca in casa, tu pulisci quell’enorme mucchio di cacca.”

”Io non lo faccio,” proclama Samuel, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente.

”E io non ti porto al cinema a vedere i cartoni animati,” replico io, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente, ma molto meglio di lui. L’età ha un certo peso in queste cose. Significa pratica.

“Sei un uomo orrendo!” Mi sbraita contro, offeso oltre il limite umano.

”E tu un bambino insopportabile!” Replico, con lo stesso tono.

Rimaniamo lì così, decisi a non guardarci in faccia mai più, cadesse il mondo, anche se io fossi l’ultimo padre della terra e lui l’ultimo bambino sul pianeta. Decido che ho altri sei figli da vestire, svestire e truccare, non ho assolutamente bisogno di lui. Sono mortalmente offeso dal suo comportamento.

Lui è mortalmente offeso dal mio, ovvio.
Pensa pure di avere ragione, il nano da giardino.

La cacca invece è lì.
E sembra sempre felice.

Potremmo rimanere in quella posizione per ore.
E' già successo altre volte e nessuno, per altro, ha mai fatto una piega. In questa famiglia il divismo è una malattia ereditaria, come il diabete o i calcoli renali, e di conseguenza la gente ti ignora se tenti di dimostrare la tua indignazione con pose studiate a tale scopo. Trovo tutto ciò discutibile e quasi offensivo ma durante le riunioni di famiglia sono l'unico adulto a pensarla così e la mia minoranza è senza dubbio penalizzante.

Ad ogni modo, io e Samuel non abbiamo abbastanza tempo per orchestrare il nostro melodramma perché la porta di casa si spalanca. O meglio, si spalancherebbe se non fosse già spalancata per via della vacca e di tutto il resto.

Emma e Julie fanno due passi in casa e urlano.
Hanno questo vizio indegno di travolgerti con grida insensate quando trovano qualcosa fuori posto.

"Cosa diavolo è successo qui dentro?" Esclama una.

"Nena!" Esclama l'altra. Poi vede e si disgusta. "Oddio!"

Tutto questo, almeno dieci decibel sopra la norma.
E cosa sarà mai? E' solo un po' di cacca!
Piuttosto, io e mio figlio stiamo girando il remake di Mezzogiorno di Fuoco e non se ne accorge nessuno. Siamo senza pubblico, non è divertente. Voglio dire: tutto questo talento sprecato dove lo vogliamo mettere?

La cacca è qui.
Io sono qui.
Eppure è lei quella più felice.

E lei è una cacca, mentre io sono Bill Kaulitz.

"Bill ma non ti si può lasciare un attimo da solo!" Esclama Julie, raccogliendo David e Simone da terra come se li avessi lasciati in chissà quale luogo pericoloso.

"Beh non ero esattamente da solo, ma con i vostri sette marmocchi!" Puntualizzo io, che a questo punto mi girano anche un po', se permettete.

"Adesso sono i nostri figli?" Esclama Emma, ed è li che mi accorgo che c'è qualcosa di strano perché una frase del genere avrebbe dovuto dirla con un tono infastidito e sul limite dell'incazzatura. E invece lei è serena.

Troppo serena.

Da qualche anno a questa parte ho sviluppato la capacità di prevedere le catastrofi, forse perché vivo in perenne stato di emergenza. Al primo accenno di disastro il mio stomaco si ribalta e capisco che di fronte a me ci sono mesi di disperazione duante i quali la mia persona verrà ripetutamente traumatizzata in qualche modo.

Il mio primo istinto sarebbe quello di fuggire. Afferrare le mie cose, le chiavi della mia auto e infilare l'autostrada nella prima direzione disponibile per non fare mai più ritorno.
Non so neanche da cosa desidero fuggire ma non ha importanza.

So già che è una cosa tremenda.
Lo so perché Emma sorride. Perché Julie sorride. Lo so perché Nena è entrata in casa a brucarmi il divano mentre cinque dei miei sette figli distruggevano il resto della casa, e ne ho persi due che non so dove sono. Questo è il karma che torna indietro.

Ho fatto del male nella mia vita precedente.
O forse perfino in questa.

Karma is gonna get you.
Forse è John Lennon che si vendica per come ho ridotto la sua canzone.

"Abbiamo una bella notizia," esclama quella donna infernale. "Aspettiamo un altro bambino!"

Ora, la mia idea di buona notizia comprende molteplici avvenimenti.
Un disco d'oro è una bella notizia.

Una vacanza alle Maldive. Andi che viene a trovarci.
Io e mio fratello da soli, a limonare lontano dalla pazza folla.
UNA LARINGITE.

Qualunque cosa, ma di certo non la venuta al mondo dell'ottava emanazione dell'anticristo.
Trovo che qui ci si stia approfittando della mia pazienza, andando oltre ciò che Iddio stesso aveva previsto come il male in terra.

"Allora? Non dici niente?" M'incalza l'altra. E sorride. Una donna felice di portare in terra la nuova apocalisse non può che essere malefica quanto la prima.

Vorre dirle che persino le più Grandi Catastrofi Naturali lasciano il tempo all'uomo di illudersi che potrà ricostruire e ricominciare a vivere, perché loro due non possono regalarmi questo piccolo sollievo di tanto in tanto? Sono sei anni che non fanno nient'altro che produrre umanità.

Vorrei dire questo e molto altro ma il mio corpo ha pietà di me. E' l'unico ad averne in questa casa; e prima che tutto si faccia buio e scuro mi rendo conto di quanta tristezza ci sia nel fatto che se desidero un po' di comprensione io debba darmela da solo.

Tutto questo è troppo da sopportare.

La voragine si apre e m'inghiotte, ed è finita, non soffrirò più.
Quelle due, le streghe, non hanno occhi che per se stesse anche nel mio uiltimo istante. Megere, egoiste. "Ma non dovrei essere io a svenire?" Dice una.
"Lo sai quanto è delicato," dice l'altra.

Poi il vuoto.

Sono sicuro che è colpa di Tom.
E' sempre colpa sua.

Svengo.
Personaggi: Bill, Tom
Genere: Drammatico
Avvisi: Slash, Drabble
Rating: R
Note: -

Riassunto: "Perché io?" "Perché ne sei la fonte."
LA FONTE

- Mi ami?
- Ti voglio bene.
- Non è una risposta.
- Posso dirti solo questo.
- Ma mi hai baciato.
- Ti ho avuto, Bill.
- E non mi ami?
- Non era necessario.
- E’ che non vedo la ragione.
- E’ giusto così. Questo orrore non può esistere.
Bill non ha bisogno di capire: Tom pensa per entrambi.
- Perché io?
Chiede mentre Tom gli taglia le vene.
- Perché ne sei la fonte.
Tom non ha bisogno di ferirsi: Bill sanguina per entrambi.
Un’unica mente, un cuore.
Il peccato che convive con la sua punizione.
Personaggi: Bill, Tom
Genere: Sci-Fi, Angst
Avvisi: Slash, lemon, AU, WIP
Rating: R
Capitoli: 7 (on hiatus)
Note: La storia nasce eoni fa. Inizialmente era un’idea vaga che, per arrivare dove poi è arrivata, è passata attraverso svariate mani e cervelli fino ad approdare ad un progetto quantomeno singolare.
La trama fu buttata giù dalla sottoscritta in treno, nella tratta Milano-Saronno, poi – causa blocco dello sceneggiatore e conseguente panico – fu comunicata a Majestrix nella quale la vostra affezionatissima ripone una gran fiducia. Majestrix creò, in venti minuti, quello che alla storia mancava. Si pensò inizialmente di scriverla a quattro mani ma c’era un problema fondamentale: la lingua in cui scriverla. Dopo svariate opzioni, tutte scartate – che per altro comprendevano la mia inconciliabile necessità di scrivere una storia di duemila capitoli e la sua struttura di sole sette parti, o quasi – ne abbiamo concluso che avremmo scritto due storie diverse a partire dallo stesso concetto iniziale.

Riassunto: Bevi il tuo succo d'arancia, avanti.
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La casa è completamente immersa nel buio, non ci sono neanche i lampioni là fuori a dare conforto e le luci private sono proibite.
La Corporazione ha dato ordine che dopo le undici nessuna luce venga accesa; le sanzioni per chi infrange la regola sono troppo alte, così tutti obbediscono e nessuno chiede il perché. Solo il grosso riflettore sulla collina di Komat è acceso e vomita un'intensa luce verde sulle celle di detenzione nella città vecchia, perché i condannati non possano mai dormire in pace. Molti di loro impazziscono per la mancanza di sonno, altri si cavano gli occhi prima che questo accada.
Sono brutti posti quelli, dove la gente perde la testa e la propria identità. Così dice Gordon. Gordon è il loro patrigno e loro credono sempre a quello che dice perchè lui non ha mai mentito. Jorg invece ha lasciato sola la mamma e, visto che non sanno più nulla di lui, Tom spera sempre che si trovi in una delle peggiori celle del carcere, tormentato dalla luce verde. Gordon dice che non è una bella cosa da dire ma a lui non importa.
La città è buia fuori dalla finestra. Nel buio ci sono cose oscure che frusciano.
"La mamma non c'è," mormora Bill, rannicchiandosi tra le braccia di Tom. E' un codice quello, il suo modo di dire che vuole fare l'amore e non sarà certo lui a infrangere i suoi desideri.
La mamma non c'è davvero. Lei e Gordon sono partiti il giorno prima per raggiungere la Fiera della Vecchia Parigi oltre il confine occidentale. Sperano che là la gente compri loro qualcosa. Mamma ha detto che quest'inverno non hanno venduto molte stoffe. Ci vorranno tre giorni di viaggio se la Corporazione non li ferma. E' già successo e Gordon era preoccupato prima di partire ma a Tom adesso non importa perchè suo fratello si è sollevato per fissarlo nel buio.
Non ha bisogno di nessuna luce per vederlo, è abituato. E poi guardare Bill è come guardarsi allo specchio, perchè sono gemelli omozigoti e l'unica cosa che davvero li distingue sono i due nei che Tom ha sul collo; ma nessuno se ne accorge mai di quei due minuscoli puntini neri.
Come Tom, Bill è alto e magro; non pesa quasi niente. Ha gli occhi ambrati e i capelli di un biondo lucido e corposo, acconciati in ciocche rasta che gli scendono morbide sulle spalle. Mamma Simone non voleva che se le facesse ma Bill non avrebbe mai accettato di differire da Tom in qualche modo.
Sono così uguali che quando si muovono, a volte, fanno paura. Ai vicini non piacciono molto e nessuno di loro fa giocare volentieri i loro figli con i gemelli Trumper. A Bill e Tom non importa, non è mai stato un problema isolarsi nel loro piccolo mondo.
"Tomi?" La voce di Bill è la cosa che Tom preferisce ascoltare. Suo fratello canta, di tanto in tanto, e quella città così grigia sembra un posto migliore. Torna a guardarlo e gli sorride.
"Sì?"
"Possiamo?" Chiede. Il suo sorriso gli dice che ha già deciso. Bill non aspetta mai il suo permesso per questo. Sa che Tom non si tirerebbe indietro per tutto l'oro del mondo. Lo bacia piano sulle labbra e poi approfondisce quel bacio, costringendo Tom ad aprire la bocca.
Tom lascia scivolare le mani sul corpo del gemello, che è più piccolo di lui soltanto di dieci minuti. Bill geme sotto le sue dita e inarca la schiena quando lo accarezza tra le gambe, piano.
La casa è vuota e lui sa che Bill ne approfitterà per gridare. Gli ansimi deliziosi che riuscirà a strappargli con i baci e le carezze si trasformeranno in grida di piacere e Tom sa che sarà costretto a chiudere gli occhi mentre il fratello grida il suo nome perché è troppo bello da sopportare.
Spinge delicatamente Bill sopra il materasso e si distende sopra di lui. Le abili mani di suo fratello lo spogliano della maglietta e gli accarezzano le spalle. Tom affonda il viso nel collo del gemello, il suo profumo è concentrato lì e adora inspirare dalla sua pelle.
Tom non sa quando i loro abiti finiscono a terra, non se ne rende mai conto. Le labbra di suo fratello e la sua lingua lo distraggono al punto da non sentire né percepire più niente se non il corpo di Bill sotto il suo e l'armonia della sua voce che gli chiede implorante più veloce, più forte, di continuare.
Bill allarga le gambe e fa posto al suo corpo, trema e sorride chiedendogli un altro bacio. Tom lo adora, letteralmente.
Sono sempre stati molto legati ma qualcosa è cambiato tra loro qualche anno prima; sono anime gemelle ormai, non c'è niente che possa separarli. Mamma non vorrebbe, lo sanno, ma nessuna regola vale quando si tratta di loro due. Hanno bisogno l'uno dell'altro come non hanno mai avuto davvero bisogno di niente in vita loro. Per Bill non è sufficiente ricevere da Tom coccole fraterne. Tom non può mai fare a meno di toccare Bill nei posti che sa. E' un bisogno fisico incontrollato. E' la necessità di mostrare amore nel modo più profondo che conoscono e quello oggettivamente più piacevole.
Bill gli cattura di nuovo le labbra in un bacio così umido da sciogliere qualcosa nel ventre di Tom.
Sente il calore di suo fratello così vicino da diventare quasi doloroso e all'improvviso il desiderio di averlo si fa devastante. Come sempre.
Lascia scivolare le dita bagnate di saliva tra le cosce di Bill che geme di nuovo e si inarca. "Fa piano," mormora.
Tom annuisce, osserva il viso di Bill contrarsi in una smorfia e poi allentarsi di nuovo mentre si stringe un labbro tra i denti. Tom può sentirlo da dentro, sa dove toccare; trova che sia bellissimo starlo a guardare, non guarderebbe nient'altro per tutta la vita.
Poi Bill gli tende le braccia e Tom si distende piano, appoggia la fronte alla sua e nessuno dei due si sogna di chiudere gli occhi. Devono guardarsi. Sempre.
"Non allontanare lo sguardo," sussurra Bill.
"Non lo farò."
E si guardano mentre Tom lo fa, il più dolcemente possibile perché mai si azzarderebbe a fargli del male o a non esserci, a non essere là per lui e con lui, anche se lo vuole così disperatamente che c'è da perderci la testa.
Bill si perde nei movimenti di Tom. Lo stringe forte a sé, per sentirlo ancora più vicino e geme nelle sue orecchie.
La stanza si riempie dei loro respiri pesanti. La città fuori non ha più alcun senso. Tom sente il corpo nudo di suo fratello scivolare sotto di sé, afferra i fianchi magri così identici ai suoi e spinge con più forza senza mai staccare gli occhi dai suoi. Glielo ha promesso.
Lo lascia gridare, finché non sente il bisogno di coprire quella bocca rossa con la sua, di stringerlo a sé e perdersi completamente, sciogliendosi nel suo corpo come anche Bill sta facendo tra le sue dita.
"Ti amo," mormora Bill.
Tom gli scosta una ciocca bionda dagli occhi e sorride. "Ti-"
Ma entrano loro ed è tutto finito.
Sono dieci uomini vestiti di nero.
Tom capirà soltanto in seguito quanti sono, quello che capisce al momento è la gran confusione che fanno invadendo la sua stanza. Non ha idea di come siano entrati in casa senza farsi sentire ma di certo hanno smesso di essere silenziosi.
Circondano il letto, Bill è confuso e spaventato. Grida e si stringe a lui, solo vagamente cosciente della propria nudità e della propria posizione.
Gli uomini si immobilizzano. Quello più vicino a Tom fa una smorfia, vedendoli. "Cazzo, ma stanno scopando," sputa fuori. Ha il viso coperto fino al naso ma Tom non ha bisogno di vedergli la faccia per sentire il disgusto che trasuda dalla sua voce.
"Quelli stanno diventando sempre più perversi nelle loro richieste," commenta qualcun altro.
Segue un coro tra risate e altri commenti. Tom non sente niente. Vede solo l'uomo di fronte a lui che continua a guardarli. Bill fra le sue braccia sta tremando.
"Chi diavolo siete?" Chiede, cercando di suonare minaccioso. Si inginocchia sul letto, tenendo Bill stretto a sé. Suo fratello sta cercando di coprirsi, continua a mormorargli nell'orecchio.
Nessuno ascolta Tom. "Quale prendiamo, signore?" Chiede un altro.
Il primo dev'essere il capo, anche se non ha alcun segno distintivo che possa indicarlo come tale. Ognuno di quei dettagli tornerà alla mente di Tom soltanto dopo. "Uno o l'altro, non fa nessuna differenza."
Tom si fa immediatamente avanti. Nessuno può toccare suo fratello. "Prendete me," esclama. Non sa per cosa. Non sa chi. Ma tutto perde importanza di fronte alla possibilità che Bill ci vada di mezzo.
"Tom, no!" Suo fratello cerca di fermarlo.
L'uomo sorride. "Allora prendiamo l'altro."
"No!"
Tom si volta per proteggere Bill ma due uomini lo afferrano per le braccia e lo tengono fermo mentre altri due trascinano Bill giù dal letto. Suo fratello scalcia e urla ma non riesce a liberarsi, la stretta è troppo forte.
"Lasciatelo stare!" Tom grida più forte che può.
"Tomi!"
Trascinano Bill sul pavimento, ancora nudo. Qualcuno di loro gli getta addosso la coperta del letto ma nessuno si prende la briga di tirarlo di nuovo su in piedi. Bill riesce a liberare un braccio, lo allunga verso Tom ma lui non può afferrare la sua mano perché quelle bestie lo tengono fermo.
"Tomi, ti prego!"
"Toglietegli le mani di dosso luridi figli di puttana!"
Il capo lo colpisce alla testa con il calcio del fucile che sta imbracciando, quindi si volta senza degnare Tom di un altro sguardo. Qualcosa sfrigola all'altezza del suo orecchio. Un auricolare. "Obbiettivo completato"
"Ottimo generale, Dreig"
A Tom si sta annebbiando la vista.
L'ultima cosa che vede è il fratello che trema e lo sguardo di paura che c'è nei suoi occhi.

Personaggi: Bill, Tom, OFC
Genere: Drammatico
Avvisi: Lemon, slash
Rating: R
Note: Dunque, io odio le note. Lo sapete questo, vero? Ma non è che posso sprecare l'occasione di ammorbarvi, per cui le scrivo; tantopiù che questa volta ho delle cose da raccontarvi.
1. Com'è nata questa storia? Sedetevi che è folle.
Inizialmente doveva essere un mpreg incredibilmente demenziale, da collocarsi nell'universo di Cuteness is not a Good Reason: David voleva un figlio da Tom, che si rifiutava categoriamente. Fortunatamente per il manager, Bill voleva un figlio con gli occhi azzurri...
Poi, visto che avrei dovuto metterci di mezzo gli alieni di The Sims e la questione si sarebbe fatta eccessivamente complicata, ho pensato bene di trasferire il tutto su un piano decisamente più razionale.
2. Io sono molto orgogliona di questa one-shot e la amo particolarmante, ma non per la storia in sè, quanto perchè a) è una one-shot e a me non riescono mai; b) perché è finita. E voi non potete capire cosa significa scrivere per 10 anni e finire qualcosa per una volta.
3. Per quanto possa essere drammatico: Bill sono io. Senza scherzi. Tutti i ragionamenti che fa sono prettamente miei, la quantità di cinismo che sono riuscita a riversare nelle sue parole viene direttamente dalla vostra affezionatissima.
E sì, lo avrei fatto anche io. Assolutamente.

Riassunto: Io non ho mai negato niente a mio fratello.
KAREN

It's meeting the man of my dreams
And then meeting his beautiful wife
And isn't it ironic...don't you think
(Alanis Morissette - Ironic)



Sono entrambi seduti davanti a me sul divano e aspettano che io risponda, suppongo.
Ciò che più mi colpisce è la loro espressione: mi guardano come se mi avessero chiesto 10 euro per andare al cinema. Ora, io non sono molto esperto in materia, ma non credo che questa sia l'espressione più appropriata.
"Dì qualcosa, ti prego" esclama all'improvviso lui.
Cosa vuole che gli dica? "Sono un po' sconvolto" ammetto, sinceramente.
"E' normale che tu lo sia" si affretta a rassicurarmi lei, con un sorriso incerto. "Davvero, non ti chiediamo di risponderci subito."
Mio fratello mi guarda e il suo sguardo mi dice tutt'altro. Non credo che pretenda davvero da me una risposta immediata ma di certo non riesce a nascondermi la sua impazienza.
Comincio a credere che si aspettasse piuttosto di non dover proprio sopportare quel silenzio imbarazzante. Forse credeva che avrei iniziato a saltellare su e giù e a battere le mani in preda ad un folle entusiasmo.
Sì, è questo che si aspettava. E mi sembra un po' ingenuo da parte sua.
"Bill..." inizia, con un tono di voce che conosco alla perfezione.
C'è quella nota di delusione e di disappunto, come se avessi fatto qualcosa di male che non si aspettava da me. Non è così evidente per tutti, comunque. Lei non se ne accorge, per esempio.
"Devo pensarci" rispondo, come se mi avesse fatto un discorso lungo due ore invece che avermi soltanto chiamato per nome. "E' una cosa seria."
Mi alzo e lei scatta in piedi con la speranza negli occhi.
A quanto pare lei ha aspettative più basse del mio gemello. Il solo fatto che io abbia preso in considerazione l'idea di pensarci l'ha resa felice e questo mi sembra più naturale.
"Prenditi il tempo che vuoi" mi dice.
Solo non troppo, mi viene da pensare leggendo negli occhi di mio fratello.
A quanto pare l'orologio biologico che ci ha riuniti tutti in questa stanza sta ticchettando più velocemente di quello che pensavo.

Mio fratello mi raggiunge qualche ora più tardi nella camera d'albergo in cui alloggerò per i prossimi Dio-solo-sa quanti giorni e mi dà molto fastidio che lo faccia, anche se me lo aspettavo.
Sapeva che la richiesta di Karen sarebbe stata inutile, mi conosce.
Lo vedo dai suoi occhi che aveva già previsto di venire a parlarmi di persona prima ancora di fissare il giorno per accompagnare Karen da me.
Mi chiedo quanto sia importante questa cosa per lui. Non è mai stato particolarmente interessato ai bambini, ma nel suo caso credo che il problema sia Karen.
E' lei che lo vuole e lui non sa negare niente alle persone che ama. Neanche a me, del resto. Vedi qual'è il problema ad essere vagamente bisessuali, Tom? Le donne vogliono figli di solito.
Io non li avrei voluti.
Ma non è questo il momento di recriminare: in fondo io non odio Karen.
Lei non mi ha fatto niente: si è comportata esattamente come avrebbe fatto qualunque altra ragazza al suo posto.
Tom si è innamorato di lei e io non ho mai avuto niente da ridire su questo.
In realtà avevo sempre pensato che Tom sarebbe stato costretto a sposarsi perchè ne aveva messa incinta una. E invece, prima l'ha sposata e ora chiede a me di metterla incinta. Ironico.
Karen è mora con i riccioli. Non è molto alta - mi arriva a malapena al petto - ma è graziosa e ben proporzionata. Non mi stupisce che Tom la trovi attraente: la trovo attraente perfino io! E poi è dolce, e molto educata.
I primi tempi, quando tutto sembrava molto facile e niente aveva la benchè minima parvenza di quella serietà che ha adesso, io e lei andavamo perfino a fare compere insieme. Una cosa che permetteva a me di avere consigli sui miei pantaloni, e sollevava Tom dall'obbligo morale di farle da cavaliere e stare lì ad annuire convinto, qualunque cosa lei dicesse.
Ad ogni modo, non le ho mai voluto male per avermelo portato via.
E non posso volerle male adesso. Si è abbassata a chiedere lo sperma al fratello gay di suo marito. Non si può voler male a tanta disperazione.
"Entra" dico a Tom. Mi sorride ma non reagisco. Li conosco tutti i suoi sorrisi e quello non mi piace perchè lo ha tirato fuori per rabbonirmi.
Lui si chiude la porta alle spalle e si guarda intorno. Sono in quella stanza d'albergo da meno di dodici ore e l'ho già resa mia: i miei vestiti sono ovunque e il bagno è stato colonizzato dai miei fondotinta.
Quando dormo in albergo io voglio starci come a casa mia e se non posso farlo, allora cambio albergo. Non c'è nessuna persona al mondo che lo sappia meglio di Tom. Beh, David forse.
Comunque, non parla e io non ho nessuna intenzione di intavolare quella discussione. Prendo una coca dal minibar e gli faccio cenno per capire se la vuole anche lui.
Annuisce e gli lancio la lattina. Quasi gli cade a terra: io non sono mai stato bravo a lanciare e lui non è mai stato capace di ricevere.
Certe cose non cambiano.
"Lo farai vero?" esordisce, e mi sorprende lo ammetto.
Pensavo che ci avrebbe girato intorno un po' di più.
Tom è bravo ad aggirare le questioni.
Bevo un sorso e lo guardo. Non sono mai veramente riuscito a fare il sostenuto con Tom. Forse perchè lui riesce a leggermi dentro anche quando nessun altro può. O forse perchè mi è sempre piaciuto guardarlo e anche quando sono arrabbiato con lui adoro perdermi nei suoi occhi.
"Non ho ancora deciso" rispondo, ed è vero.
Il mio primo pensiero è stato quello di rifiutare ma c'è qualcosa che mi turba. E io non prendo mai decisioni definitive se non ne sono sicuro al cento per cento.
"Dopo la malattia, sei la nostra unica speranza Bill" esclama.
Anche se suona come la principessa Leia di Guerre Stellari, non rido.
La malattia. La chiamiamo così perchè ci fa paura e la esorcizziamo non nominandola. Si è quasi portata via Tom tre anni fa.
E' stato il periodo più brutto della mia vita.
Fortunatamente così com'è venuta se n'è andata ma, tra medicine e chemio, non è stato un bello spettacolo.
I capelli di Tom sono ricresciuti ormai - e lui si è rifatto di nuovo i dreadlocks. Un po' per marketing, un po' perchè con i boccoli è davvero improponibile - ma la parte consistente del suo apparato riproduttivo è fottuta.
Non che a lui sia importato qualcosa, allora. Anzi.
Essendo sterile, ha solo pensato a quante poteva farsene senza rischio.
Sempre assolutamente pratico mio fratello. Il lato lirico della vita lo ha sempre buttato nel cesso. Oppure lo delegava a me.
"Tom, esistono le banche del seme, lo sai questo vero?" Gli faccio notare con un mezzo sorriso oltre il bordo della lattina.
Lui scuote la testa con decisione. "Non voglio. Sarebbe innaturale" commenta.
Alzo un sopracciglio e tanto gli basta per capire cosa gli voglio dire.
E' sempre stato facile non parlare con Tom.
"Non è normale" ripete. Ha lasciato la lattina sul tavolo senza neanche aprirla. E' così nervoso che si tortura le dita da quando è entrato. "Io non voglio che Karen usi la… roba di un altro"
"Un modo interessante di dirlo" commento. "Eppure non sarebbe tanto diverso se usasse la mia di roba."
"Rimarrebbe tutto in famiglia" mi dice.
"Ah, beh allora."
Sbuffa. Guarda ovunque tranne che me. "Bill" esclama alla fine, sempre con lo stesso tono. "Siamo gemelli, sarebbe come se fosse mio. Stesso patrimonio genetico."
"Ma non lo sarebbe" gli faccio notare.
"Oh detto che sarebbe come…"
"No" esclamo. "Non importa se a livello genetico siamo fatti allo stesso modo. Mi stai chiedendo di fare un figlio con tua moglie."
Tom ghigna, involontariamente. E' sempre stato così mio fratello: se qualcosa lo fa ridere, ride; non importa dove si trovi o quanto seria sia la situazione. "In realtà ti sto chiedendo di riempire un barattolo."
"Sei un cretino."
Per un po' non parliamo. E' come se tutto ciò che c'era da dire fosse già stato detto, anche se non è così.
Penso a questa cosa da quando Karen me l'ha chiesta. Ci penso continuamente, ogni singolo istante da quando sono venuto a saperlo; e non so risolvermi.
Innanzi tutto non ne capisco l'urgenza. Sono sposati da due anni, ci sono centinaia di altre opzioni. Potrebbero adottare. Perchè io?
E poi mi rendo conto che sono attaccato alla mia capacità di procreare molto più di quello che credevo. Se la cosa dovesse funzionare, se dovesse nascere un bambino: non finirò per pretendere che sia mio?
Lo sarebbe, ad essere pignoli.
E io sono pignolo.
Sono anche egoista, per la miseria. Non ho mai pensato a nessun altro tranne che a me stesso. E ho sempre preteso che tutti quanti facessero lo stesso.
Quello che era mio, era mio. E quello che non lo era, doveva diventarlo.
E' stato così anche per Tom. Le groupie lo hanno avuto per anni, ma soltanto perché io glielo concedevo.
E se adesso riempio quel baratto, se regalo a mio fratello una manciata di cellule ... quante probabilità ci sono che la mia gelosia le reclami indietro come prodotto finito?
Sospiro e sento mio fratello sollevare lo sguardo su di me. Non mi volto a guardarlo, perché non voglio che mi legga in faccia quello che sto pensando.
Ricordo il volto di Karen e le sue parole. Lei sembra tenerci davvero, e in fondo io spreco un sacco di quel materiale ogni giorno.
Non ho mai voluto un figlio.
Sto quasi per convincermi.
E' in quel preciso istante che Tom infila una dietro l'altra tutte le argomentazioni sbagliate che poteva trovare. E mi fa incazzare.
"Andiamo Bill, che cosa ti costa?" Chiede, infatti.
Alzo lo sgurdo, incredulo. "Cosa mi costa? E' un bambino, non un'auto che ti posso prestare. Io... non ci avevo mai nemmeno pensato!"
Spalanca le braccia, come al solito. "Tu non potrai comunque averne" replica immediatamente. "Quindi qual'è il problema? E' un'occasione anche per te... "
Lo guardo. Mi guarda. Quindi abbassa lo sguardo perchè sa di aver detto qualcosa di scomodo.
A Tom non è mai andata giù che io abbia finito per dichiararmi gay, la trova una mossa controproducente. Peccato che non sia una mossa.
Io sono omosessuale.
Ne ho avuti tanti dopo di lui.
E magari è questo che non ha mai digerito. Lui considera il suo periodo con me qualcosa che è legato soltanto a me. E credo che sia vero; ma la cosa non funziona così quando si tratta del sottoscritto.
Tom è l'unico uomo che io abbia mai amato. Ma non è l'unico con cui io sia andato a letto.
E il fatto che io abbia deciso di essere quello che sono, non significa niente. Non gli dà il diritto di convincermi che donando a loro lo sperma, farei un favore anche a me stesso. Non sono loro che mi concederanno un nipote tra nove mesi. Sono io, cazzo, che permetto loro di averlo.
"Bill, ascolta" Tom sospira. "D'accordo, ho scelto male le parole. Ma tu lo sai che è una cosa importante per me. E per Karen."
Rimango in silenzio.
"Pensala così, sarebbe un modo per essere di nuovo vicini" dice all'improvviso. E questa è la più brutta. La cosa peggiore che potesse recuperare per convincermi. Raschia il fondo del barile e raccoglie tutto lo sporco più velenoso. "Sarebbe un modo per continuare quello che avevamo. Anche se le cose non sono andate come volevamo."
Le cose sono io. E quello che c'è stato tra di noi prima della sua malattia.
Io sono le scopate che si è fatto prima di compiere 25 anni in un ospedale di Berlino. Poi tutto è finito e solo perché si è sentito troppo vicino alla morte per trovare il coraggio di stare ancora con me.
E adesso mi chiede di sistemare le cose - di sistemare me - dando a Karen la possibilità di generargli un erede.

Io non ho mai negato niente a mio fratello.

Alla banca del seme ci andiamo in due. Io e lui. Ho detto che non ritenevo opportuno che Karen mi aspettasse in sala d'attesa mentre mi masturbo per poi consegnarle suo figlio in un barattolo.
L'infermiera all'entrata ci guarda come se avesse altro di meglio da fare. Gli dico il motivo per cui sono lì anche se non ci sono altri motivi per esserci. Lei mi passa un foglio da compilare, indicandomi tre linee su cui firmare. Mi consegna un barattolino sterile. "Va riempito" mi dice. Annuisco, onestamente dubbioso di poterle riportare indietro anche solo la metà di quello che le serve.
"Qua ci sono delle riviste" dice ancora. Tira fuori dei mensili patinati da sotto il bancone, poi mi squadra da capo a piedi e decide di rimetterli via. Ne tira fuori altri: questi hanno degli uomini in copertina. Non dice una parola e mi indica una stanza in fondo al corriodio.
Mi avvio con le mie riviste porno gay e il mio barattolo; Tom mi segue. Non abbiamo mai avuto tanta voglia di sganasciarci dalle risate come adesso. E non ho neanche bisogno di guardarlo per capirlo.
Tutto questo è assurdo. Lo so io e lo sa anche lui, ma Tom mi sta troppo vicino perchè la sua presenza non mandi a puttane le mie facoltà razionali.
Mi fermo di fronte alla porta. "Sembra proprio che ci siamo."
Tom non risponde e fa quello che mi aspetto che faccia da anni. Me lo sogno ogni singola notte da quando è guarito. Da quando lui e Karen sono diventati l'unica speranza di mia madre di diventare nonna; il che è buffo perchè Karen è arrivata dopo la malattia, quando gli amichetti di mio fratello erano già fuori uso da un pezzo.
Mia madre non crede nelle adozioni, ma è ben disposta a credere nei miracoli, a quanto pare.
Quando mio fratello mi bacia, lì sulla porta dopo cinque anni che non mi sfiorava nemmeno, io però lo fermo. Mi concedo giusto il tempo di sentire la morbidezza delle sue labbra, il sapore della sua bocca quando la sua lingua sfiora la mia per un istante.
"Tom" mugolo, mentre mi schiaccia controllo la porta, un ginocchio tra le mie gambe. "Che stai facendo?"
Ricordo perfettamente la prima volta che gliel'ho chiesto. Avevo quattordici anni e lui era nel mio letto. Come sempre. Solo che quella volta, come adesso, si è allungato verso di me e mi ha baciato, stringendomi a sè come se avesse paura di perdermi.
Tom non risponde alla mia domanda. Mi bacia di nuovo e mi manca il fiato. Lo guardo e mi sorride, il suo sorriso speciale, quello che forse soltanto io e Karen abbiamo visto. Karen.
"Hai una moglie, te lo ricordi?" chiedo, agitando il prezioso barattolino di fronte ai suoi occhi.
Lui ride e fa scattare la porta senza lasciarmi andare. "E' anche per lei che lo sto facendo. Non c'è niente di male."
Avrei un mucchio di ragioni da dargli sul perchè Karen non sarebbe tanto contenta di sapere che per farle avere ciò che mi ha così gentilmente chiesto mi sono fatto aiutare direttamente da suo marito.
"Come glielo spieghi?" dico, mentre lui si chiude la porta alle spalle e poi si gira di nuovo verso di me. Non riesce a togliermi le mani di dosso. "Che volevi avere anche tu parte attiva nella faccenda?"
Mi morde il lobo dell'orecchio e ringhia leggermente, a bassa voce. "Qualcosa del genere."
Spalanco gli occhi, sembra dannatamente serio. "Qualcosa del... Tom?"
Non mi guarda. "Togliti i pantaloni" ordina, leccandomi il collo.
"Tom..."
Lo sento sorridere contro la mia pelle. "Fà come ti ho detto, Bill" mi dice di nuovo, ma dolcemente. E io non ho mai saputo resistergli.
Mai.

Mentre mi rivesto osservo l'innocuo barattolino e mi chiedo cosa stiamo combinando.
In realtà, pensavo che mi sarei sentito molto più in colpa. In fondo Karen è una mia amica. Ho perfino fatto da baby-sitter a quel suo orribile vecchio gatto, una volta. Un siamese che aveva tormentato il mio povero Scotty per due lunghe settimane.
Poi penso che lei è mia amica ma Tom è mio fratello gemello, il che significa che è la mia metà perfetta per volontà genetica.
E la genetica, se mi è permesso dirlo, ha un peso non indifferente sulla questione in oggetto.
Non abbiamo fatto niente che non avessimo già fatto prima. E non è nemmeno una questione di libido. E' una cosa nostra.
Ci sono fratelli che giocano insieme a calcetto, noi scopiamo.
Recupero il mio bottino per Karen mentre in testa mi rimbombano tutte le stronzate che mi sono somministrato per convincermi che i bei vecchi tempi sono tornati. In realtà so che mio fratello lo ha fatto per un motivo soltanto.
Nell'aria sento solo la sua volontà di arrivare in fondo a questa storia.
E niente di più.
Se mi avesse lasciato qui dentro da solo a guardare le foto di qualche energumeno palestrato e unto, il barattolino sarebbe ancora tristemente vuoto e io sarei probabilmente impegnato a fare il cruciverba del Suddeutsche Zeitung. E invece...
Invece quel bastardo di mio fratello ha pensato bene di realizzare le mi fantasie. Per fare prima, naturalmente.
"Sei pronto?" Mi chiede.
Annuisco. Io e mio figlio - o mio nipote? - siamo più o meno pronti.

"Non ho nessuna intenzione di firmare" e lo dico con un tono che non possano assolutamente fraintendere.
Karen è di 7 mesi ormai ed è decisamente enorme, più che un bambino sembrano tre. Siamo sicuri che non lo siano, comunque. A quanto pare i gemelli saltano una generazione. "Bill, io non capisco" mi dice piano, le mani in grembo.
Non ho cuore di risponderle. Sembra sempre così devastata quando parliamo di questa faccenda. Il foglio è sul tavolo tra di noi e io non lo degno di uno sguardo.
"Leggilo almeno" s'intromette Tom, seduto sul rientro della finestra. Ha lo sguardo contrariato, ma faccio finta di non accorgermene.
"Non ne ho bisogno. Lo so cosa c'è scritto" rispondo, le braccia incrociate.
"Allora firmalo" insiste lui, come se fosse la conclusione più naturale del discorso. E punta gli occhi nei miei, confidando nel loro potere persuasivo.
O nel fatto che l'ultima volta che me li ha messi addosso stavamo facendo sesso sul tavolo di una struttura medica.
Solo che può scordarsi che faccia come vuole lui stavolta. E' una cosa che mi è venuta in mente qualche giorno fa: ho acconsentito ad aiutarli ma questo non significa che rinuncerò alla paternità della bambina che dovrebbe nascere tra un paio di mesi. Non me lo hanno chiesto il giorno in cui ho fornito loro la materia prima, chiedermelo adesso quando Karen è ormai una balenottera spiaggiata mi sembra una grave dimenticanza.
"No, Tom, non lo farò" ripeto. Rimetto il foglio nella cartelletta di cartoncino nella quale me lo hanno portato questa mattina e riconsegno la penna a Karen che la prende ad occhi bassi senza insistere ulteriormente.
"Ma Cristo, Bill! Che ti prende adesso, si può sapere?" Sbotta Tom, scendendo dalla finestra e agitando le mani. Si veste ancora come se fosse uno di quei gangesta rapper del Bronx. Solite maglie, solite fasce. Soliti cappellini. Un turbinio di stoffa in eccesso che si dimena con una grazia che non ha mai acquisito. Nessuno di noi due ha cambiato stile.
Io non ho neanche cambiato taglia.
"Non voglio firmare, tutto qui" ripeto con tutta la calma del mondo. E mi sembra sufficiente a spiegare ogni cosa.
"Cosa ti costa?" Esclama. Ancora quella frase. Stando a quanto dice lui, a me non dovrebbe mai costare niente. "A te non importa neanche!"
"Questo non è vero!" replico. Con la coda dell'occhio vedo Karen alzare lo sguardo su di noi. Non sono tante le volte in cui ci ha visti litigare ma sa quanto possiamo essere cattivi l'uno con l'altro. "Mi importa esattamente quanto importa a te!"
Il che può voler dire qualunque cosa. E Tom capisce perfettamente quale dei mille significati volevo dare a quella frase.
"Se davvero fosse così, firmeresti quel fottuto foglio!" Sbatte una mano sul tavolo e Karen trasale.
Io non faccio una piega.
"Bill non è uno smalto da comprare, per la miseria! E' un bambino!" Esclama ancora. E lo odio, perchè fa sempre così quando finisce le argomentazioni: mette sempre di mezzo le mie frivolezze, come se fossi una di quelle oche idiote con le quali andava a letto a sedici anni.
"E' un bambino, Tom?" Sogghigno. "Uno a caso, oppure è il tuo?"
"Non farlo" mi minaccia, puntando il dito.
"Fare cosa?"
"Non giocare con quello che dico!" Mi abbaia contro. "Capisci sempre e solo quello che vuoi tu!"
Karen si muove a disagio, seduta sulla sua sedia. Forse prova a chiamarci ma l'abbiamo entrambi esclusa da quella conversazione. "Come ti pare, Tom. Non ha nessuna importanza" dico. "Ma questa volta sono io a dover decidere cosa fare e ti posso assicurare che non avrai la mia firma. Mi sembra di averti già dato quello che ti serviva!"
"Eravamo d'accordo, Bill!"
"Avevamo stabilito che vi avrei permesso di farlo, non che vi avrei dato il permesso di togliermi qualsiasi diritto"
Sgrana gli occhi, indignato. Ed è il caso di dire che in questo momento è una gloriosa replica di me stesso. "TU NON CI PENSAVI NEANCHE!" Ruggisce, all'improvviso. "Per te non è altro che un po' di sperma in un barattolo!"
"Magari ho cambiato idea, Tom!"
"Magari non ha nessuna importanza, perchè, visto quello che hai scelto di essere, un bambino non ti riguarda" replica.
Serro le labbra e lo guardo, ferito. Ha colpito dove sapeva di fare più male e lo odio per questo. Lo odio con tutto me stesso, con la stessa ferocia con la quale l'ho sempre amato.
"Adesso basta!"
La voce di Karen riempie la stanza all'improvviso. Ci voltiamo entrambi nello stesso identico modo. Nello stesso identico istante.
L'impeto che l'ha portata ad alzarsi di scatto e a gridare un po' vacilla ma continua a sostenerla. "Mi sono stancata di sentirvi litigare, sono mesi che questa storia va avanti" dice. Ed è fiera e bellissima: la gravidanza l'ha resa florida e i suoi occhi brillano. Provo un fascino inspiegabile per la forza che riesce a tirare fuori. "Non fa bene a voi due e non fa bene a me. E soprattutto, non fa bene a Sienna"
"Sienna?" sollevo un sopracciglio.
La rabbia di Tom sembra svanire all'improvviso. "E' così che abbiamo deciso di chiamarla" spiega, allargando le braccia quasi a volersi scusare.
E fa bene, cazzo. Ma che razza di nome è?
"Sarà immediatamente chiaro al mondo che non avete fatto uso del mio buon gusto quando avete deciso" esclamo.
C'è un attimo di silenzio, poi Tom inizia a ridere. E io lo seguo a ruota.
Karen ci guarda un po' stranita, ma poi le sue labbra si piegano e ride anche lei.
"Bill, sei un cretino" mormora mio fratello.
Karen ritrova la forza di respirare solo qualche istante dopo. "Pensi che sia davvero tanto brutto?" Mi chiede.
Scuoto la testa. "No, affatto" le sorrido, cercando di farle capire che qualsiasi nome le avessero dato a me sarebbe stato bene. Non è quello il punto.
"Forse... " Tom inizia e ci giriamo tutti e due, io e Karen. "Beh forse non è poi così importante che tu firmi. Non sei un estraneo, non corriamo certo il rischio che tu usi questa cosa contro di noi un giorno."
Lui e Karen si scambiano un'occhiata che vorrebbe essere intima, peccato per loro che io possa leggere negli occhi di mio fratello esattamente come lui può leggere nei miei; il che significa che non hanno la minima privacy in quello sguardo. Tom le ha comunicato che dovranno scendere a compromessi e a lei non è rimasto che accettare. Non c'è scelta quando l'alternativa sono i miei desideri.
"No, infatti" concordo.
In quel momento non vedo il motivo di impugnare quel foglio contro mio fratello.

Sienna è sempre uggiosa quando non ha dormito abbastanza.
Me la stringo addosso e dondolo leggermente, cercando di ignorare i suoi mugolii fastidiosi e strascicati. "Mamma..." chiama di nuovo. Non ha fatto nient'altro nell'ultima mezz'ora, forse perchè è l'unica parola che sa pronunciare come si deve.
Ha un anno e mezzo ormai, e somiglia a me e a Tom quando eravamo piccoli. Il visino rotondo e un cesto di capelli biondi appena mossi. Non ha preso niente di Karen, è assolutamente strabiliante.
Si dimena tra le mie braccia, cercando di liberarsi ma la tengo stretta. "Mamma..." dice di nuovo.
"La mamma arriva presto" le dico, accarezzandole i capelli.
Sono le tre di notte, la sala d'attesa dell'ospedale è quasi completamente vuota salvo una donna che sta aspettando di essere visitata e un ragazzo che dev'essere suo figlio.
Mi guardo intorno, cercando di distrarmi. Sienna continua a lamentarsi, a volte piagnucola ma non scoppia mai davvero in lacrime. E' come se volesse richiamare l'attenzione in quel modo ma ci rinunciasse subito vedendo che non ottiene alcun risultato.
"Shh.. buona" le dico distrattamente. Cerco di farle appoggiare la testa sulla mia spalla. Voglio che torni a dormire, è solo molto stanca.
Lei sembra accogliere l'idea, afferra una ciocca dei miei capelli e la stringe, so che le piace addormentarsi sentendo il mio profumo.
Sento rumore di passi e mi volto, ma è soltanto un'infermiera.
Tom è sparito quasi un'ora fa. Ha seguito la barella di Karen fin quasi dentro la sala operatoria ma non lo hanno fatto entrare. E' rimasto un po' a gironzolare in preda all'ansia in sala d'aspetto, poi mi ha passato Sienna e ha detto che doveva trovare un medico che gli dicesse qualcosa.
E' terrorizzato.
Karen era fuori città per lavoro oggi, mentre noi due portavamo Sienna al circo. Ha trovato traffico sull'autostrada, poi la fila si è dissipata e lei ha premuto l'acceleratore per ridurre il suo clamoroso ritardo.
Così mentre noi battevamo le mani per le tigri ammaestrate, lei si schiantava a centoventi all'ora contro un'altra auto.
Mentre inganno il tempo con sua figlia in braccio cerco di immaginare cosa stessimo facendo noi tre mentre il suo cofano si accartocciava contro una Cadillac Escalade nera. Ironico che sia la stessa macchina che lei si rifiuta di usare perchè le fa paura, e che marcisce in garage da quando Tom ne ha comprata una ancora più grossa.
Forse Sienna guardava i trapezzisti con la bocca aperta e il naso sporco di zucchero filato. Forse ridevamo.
Questa volta, quando la porta si apre, è davvero Tom.
Sienna non fa neanche il gesto di voler andare in braccio a lui: in un certo senso è come se già lo fosse. Lei percepisce il mondo prevalentemente attraverso i sensi. Io e Tom abbiamo lo stesso odore, la stessa pelle...
"Ci sono notizie?" Chiedo.
Lui scuote la testa.
Cerco di trovare qualche parola per consolarlo, ma la verità è che non c'è un bel niente da dire. Karen potrebbe morire in quella sala operatoria.
O potrebbe uscirne in uno stato talmente pietoso da non sembrare più neanche lei.
So che Tom condivide con me cinismo a sufficienza per poter pensare quello che penso io in questo momento: cosa farà se Karen rimane paralizzata, o magari cieca? Se perde un arto? Quando l'ha sposata quattro anni fa era una donna intera, riuscirà a stare vicino all'unica parte di lei che uscirà da quella sala operatoria? E se non si svegliasse più?
La moglie di Tom Kaulitz, un vegetale.
Ho sempre creduto nell'amore che supera ogni barriera, ma mi riferivo al mio per Tomi. Non ce ne sono altri altrettanto potenti e, per quanto io sappia che Tom prova amore nei confronti di Karen, so che non è quel tipo di amore che lo porterà ad accettare una moglie senza una gamba.
E lo sa anche lui mentre osserva la città oltre il vetro della finestra.
Il fatto che quei pensieri lo abbiano raggiunto prima ancora che si chiedesse se Karen sarebbe sopravvissuta lo spaventano.
Ha sempre avuto paura dei suoi sentimenti.
Guardate me, sono la prova vivente.
Sienna si è addormentata. Mi siedo, sistemandomela meglio in braccio. "Ci sai fare" mi dice Tom, staccandosi dalla finestra e guardando la bambina senza però far cenno di volerla prendere. "Sembra quasi figlia tua."
Stavo per sorridere ma il sorriso mi muore sulle labbra, trasformandosi in una smorfia.
"Bill, mi dispiace" mi dice subito. "Scusa, sono solo molto nervoso"
"Non importa. Lascia perdere" scosto una ciocca di capelli dalla fronte di Sienna.
Vorrebbe dire qualcos'altro, lo sento dal suo respiro, ma non c'è tempo perchè la porta si apre per l'ennesima volta.
Il medico si toglie la mascherina e ci guarda.
Karen è morta.

Sono passati dieci giorni.
Karen è distesa sotto due metri di terra. La sua storia è finita e così quella parte della vita di Tom.
E ora il mio gemello mi sta seduto di fronte, in un piccolo bar qui a Magdeburg, dove Karen è sepolta e io ho portato sua figlia a vivere nella nostra vecchia casa.
"Sai perfettamente che tutto questo non ha senso" mi dice, gli avambracci sul tavolo. E' teso, vorrebbe urlare.
Ho scelto un bar proprio per questo: non oserà dare spettacolo.
Gli occhiali scuri che ci coprono metà del viso bastano a malapena a non rivelare le nostre identità. Sebbene i Tokio Hotel non esistano più, ci conoscono tutti. Abbiamo carriere diverse, la gente ci adora comunque.
Alzare la voce in un luogo pubblico per noi significa ancora fotografie, richieste di autografi, baci da sconosciute.
E Tom non ha certo bisogno di questo mentre tenta di convincermi a non portargli via sua figlia.
"Karen era sua madre" commento, girando il cucchiaino nella mia tazza di caffé. Produco volontariamente quel rumore che gli da tanto fastidio. "E ora che è morta, è giusto che rimanga con il parente più prossimo."
"Io sono suo padre, Bill"
Faccio scorrere una cartelletta sul tavolo e gliela passo.
"Non secondo gli esami."
Tom legge gli esami clinici, quelli che attestano che il dna è il mio. E' anche il suo, certo, ma lui è sterile. Ci sono esami clinici che attestano anche quello.
E i miei legali sono in possesso di tutta la documentazione necessaria.
"Avevi promesso" sibila.
Annuisco, perché fin qui ha ragione. "Ti avevo detto che vi avrei aiutati. Tu e Karen" spiego, con tutta la calma che possiedo. Ed è tanta perché ho pianificato questa cosa così bene che potrei anticipare ogni sua singola risposta. "Ma non ti lascerò la bambina perché tu possa rifarti una famiglia con qualcun'altra."
"Si può sapere cosa cazzo stai dicendo?" Esclama. "Bill, la bambina non è tua. Non hai nessun diritto su di lei!"
Sollevo un sopracciglio. "Se mi ricordo bene ce l'ho ancora" dico, indicandogli uno dei fogli. E' la rinuncia alla paternità.
Che non ho mai firmato.
"Cazzo!" Tom chiude di scatto la cartella. Stringe i pugni e impreca pesantemente. Quando torna a guardarmi ha sul viso un'espressione incredula e sconvolta insieme. "Bill non puoi essere così bastardo da fare una cosa simile"
"Non è una bastard-"
"Sì che lo è invece!" Insiste. "Lo stai facendo soltanto per ripicca; perchè sei un fottuto egoista! Ti è preso il capriccio di avere un figlio e ora pretendi di averne uno, come hai sempre preteso tutto quanto il resto!"
Non rispondo.
"Metterò di mezzo gli avvocati."
"Karen e io siamo i suoi genitori biologici" esclamo, appoggiando il gomito sul tavolo e gettando in fuori una mano. "Sei tu che non hai posto nell'equazione."
"Nessuno ti permetterà una cosa simile."
Sorrido. "Vuoi rischiare?"

A quel punto ha due possibilità.
Può alzarsi da quel tavolo e spendere migliaia di euro nel tentativo di strapparmi una paternità convalidata da test clinici inappuntabili e da una serie di voci che mi sono già permesso di mettere in giro.
Oppure può rimanere lì seduto e decidere di passare il resto della sua vita con me. E con lei.
Tom sospira e ordina un altro caffé.
Personaggi: Bill, Tom, David, Saki, OMC
Genere: Drammatico, Romantico, Hurt/Comfort
Avvisi: Lemon, slash, WIP
Rating: NC-17
Capitoli: 15 (on hiatus)
Note: Moscow Intimacy è la mia re-interpretazione di un'altra fanfiction che s'intitola "Ti amo" ed è opera di Alba. Potete trovare l'originale qui. Alba è perfettamente a conoscenza della mia versione, quindi non datevi disturbo ad urlare al plagio.

Riassunto: Sapendo di non poter continuare a vivere accanto al fratello dopo avergli dichiarato il suo amore, Bill se ne va facendo perdere le sue tracce. Tom va a cercarlo, per chiarire la situazione.
01. Break Away

"Qualcuno di voi due vuole spiegarmi cos'è successo?" Il loro manager li aveva letterarmente trascinati in camerino afferrandoli entrambi per la collottola.
"Niente David. Perchè, ti sembra che sia successo qualcosa?" Bill stava ancora ridendo. Non aveva smesso di ridere da quando era salito sul palco. Era assurdo che nessuno si fosse accorto di quanto fosse fatto.
Tom si lasciò andare seduto sul divano, espirando. Il gemello gli lanciò un'occhiata divertita, dalla quale distolse lo sguardo imbarazzato.
"Guardami quando ti parlo" David gli afferrò il viso con una mano e lo costrinse di nuovo a voltarsi.
Bill cambiò immediatamente espressione e si divincolò con due strattoni nervosi.
Tom sapeva che non gli piaceva essere toccato. Fin da piccolo Bill non aveva mai voluto che qualcuno gli si avvicinasse troppo: il contatto fisico lo metteva a disagio. Era sempre stato bello e algido. Alieno quasi, agli occhi del mondo.
E lui, sempre lì di fianco. Ombra perenne a proteggerlo, ad evitare che qualcuno allungasse troppo le mani. Era ridicolo ricordarsi adesso cos'era stato per suo fratello, quando aveva lasciato che per settimane si rovinasse da solo con le sue stesse mani.
"Vorrei solo sapere cosa vi è saltato in testa!" stava dicendo David, mentre Bill si sedeva accanto al fratello sul divano. Tom percepì il calore del suo corpo attraverso la maglietta: gli si era quasi buttato addosso. Lo stava facendo apposta. Incrociò gli occhi divertiti del fratello e si scostò leggermente.
Bill lanciò un'ultima occhiata al gemello, poi strinse le spalle in direzione del manager. "Era un gioco" rispose con nonchalance. "Uno scherzo. Facciamo sempre del fanservice per le ragazze, non vedo perchè ti preoccupi tanto!"
"Perchè hai infilato la lingua in bocca a tuo fratello" fu la risposta secca dell'uomo.
Bill non si scompose. "E allora?"
"Forse è stato un po' troppo eccessivo, non trovi? Non rispecchia la vostra immagine, Bill. Hai passato la linea"
Il ragazzino non sembrava d'accordo. "C'era una linea per caso? A me non sembra proprio. Le foto in cui Tom mi mette una mano nelle mutande sì, il bacio con la lingua no? Davvero non capisco"
David scosse la testa, espirando frustrato. Ecco qual'era il problema a lavorare con dei ragazzini prodigio: non avevano il senso della misura. E mancavano totalmente di logica. Non capivano quando l'allusione smetteva di essere tale. Contò fino a dieci e si dette il tempo di ritrovare la calma, mentre Bill prendeva a guardarsi le unghie come se si trovasse in un altro posto e non nel bel mezzo di una discussione seria. "Ascolta," attese che Bill avesse di nuovo sollevato lo sguardo prima di continuare "la vostra... ambiguità era stata progettata fin dall'inizio. Era sotto controllo. Certe foto, certi atteggiamenti, ogni dettaglio: tutto era stato previsto. Ma c'era un limite. Un conto è alludere ad un incesto tra gemelli. Un conto è farlo vedere sul palco. Capisci costa intendo?"
Bill si strinse nelle spalle. "Capisco che ti stai agitando per niente. Per quanto nei sai tu, potrebbe anche non essere la prima volta che limono mio fratello"
Tom si irrigidì. Chiuse gli occhi sotto la visiera del cappellino e pregò il cielo che David troncasse la discussione prima che Bill - sotto l'effetto della droga - gli raccontasse ogni cosa.
David non lo prese sul serio. In fondo Bill era sempre stato un po' strafottente: lui era il poser del gruppo. La diva. Aveva sempre avuto atteggiamenti irritanti, protetto dal personaggio che gli era stato creato intorno. "Non è questo il punto" insistette. "Siamo andati fuori dal copione. Domani, la foto del vostro bacio farà il giro del mondo"
"Meglio no?"
"E come ci giustificheremo?" chiese David. "Non possiamo negare che vi siete baciati, sul maxischermo si è visto ogni cosa!"
Le labbra di Bill si aprirono in un ghigno malizioso. "Ma non mi dire..."
David si passò una mano tra i capelli, frustrato. "Sarà un lavoraccio trasformare questa cosa, ragazzi. Avreste dovuto per lo meno avvertirci. Vostra madre è furiosa e anche la casa discografica non l'ha presa benissimo"
Sua madre. Tom si rese conto che non aveva mai preso in considerazione la loro famiglia, quello che avrebbero detto o fatto se lo avessero saputo.
"Quanto la fai lunga! Non abbiamo mica scopato!" esplose Bill, la voce leggermente più acuta. Si avvicinò al gemello e gli sussurrò all'orecchio. "Non è vero Tomi?" poi scoppiò a ridere, gettando la testa all'indietro euforico.
"Ci mancherebbe altro!" replicò David. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era una versione gemellare e minorenne degli spettacoli di Marilyn Manson. Poi però sembrò tranquillizzarsi. Sbuffò fuori l'aria, come se avesse appena fatto uno sforzo immane. "Va bene, d'accordo. Ormai è successo e vedremo di trarne vantaggio. Per il resto siete andati bene, anzi benissimo. Tom, sei stato decisamente bravo a recuperare quando Gustav ha sbagliato la battuta"
Tom gli sorrise leggermente, ma quasi non lo aveva sentito.
"Ora tornate in albergo. La macchina è giù che vi aspetta, gli altri sono già andati"
Tom annuì, ma David era già uscito dalla porta.
"Che palle..." Bill si era alzato e aveva aperto una lattina, appoggiando la schiena contro il tavolo del buffet. "Possibile che ogni imprevisto susciti sempre questo casino? Cosa vuoi che succeda? Quelle là fuori non aspettavano altro!"
"Muoviti, dobbiamo andare" Tom lo ignorò e raccolse la giacca dal divanetto. Voleva soltanto tornare in albergo, chiudersi in camera e dormire. Possibilmente fino all'anno dopo.
"Sei arrabbiato anche tu?" la voce di Bill si fece più dolce. Insicura.
Bill si fermò senza voltarsi, a metà tra il gemello e la porta. "No, non sono arrabbiato" rispose.
"Però non dici niente"
"Che cosa dovrei dire?" Tom sembrava stanco.
Bill si staccò dal tavolo, agitando le braccia quasi isterico. "Non lo so! Qualsiasi cosa!" replicò "Io ti bacio sul palco e tu non fai una piega!"
Tom sospirò. "Non so più cosa dirti, Bill. Dico davvero. Sono stanco di stare dietro a tutte le tue cazzate. Non ho neanche ben capito perchè lo hai fatto. Per attirare l'attenzione, suppongo: la mia, quella della gente. Non lo so!"
"Credi che lo abbia fatto per questo?"
Le labbra di Bill tremavano, ma il fratello non era più disposto a farsi intenerire. Non quando sapeva che era solo una maschera e che da un momento all'altro sarebbe caduta. Bill lo aveva fatto troppe volte negli ultimi tempi. "Credo che tu sia molto confuso adesso..."
"Pensavo che almeno tu mi avresti sostenuto in questa cosa!" lo accusò. "E invece sembra che non te ne freghi assolutamente niente!"
"Cosa avrei dovuto fare secondo te? Limonarti sul palco?!?!" replicò duro Tom. "Io non ti capisco!"
"Beh di solito quando ti bacio è questo che fai!"
"Un minuto mi salti addosso e il minuto dopo mi urli che mi odi!" sbottò il ragazzo, imbestialito. "Secondo te dovrei reagire a comando, quando sua altezza ha voglia? Tu credi sempre di poter fare quello che vuoi, vero?! Per te è sempre così! Tu ordini e gli altri eseguono! Sei tu il capo!"
Bill iniziò a piangere per il nervoso e per le parole del fratello che erano dure come macigni e avevano colto nel segno. "Volevo solo che tu mi sostenessi!" ripetè mormorando.
"No tu volevi soltanto mettermi in imbarazzo! Ecco cosa" esplose Tom, alla fine. "Per punirmi o per ripicca, o per chissà quale paranoia che ti è passata per il cervello!"
Con un gesto di stizza Bill gettò a terra tutto ciò che c'era sul tavolo, ringhiando. "VAFFANCULO" gridò, senza sollevare gli occhi dal tavolo.
"Bill..."
"Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo!"
"Bill calmati adesso!"
Tom tentò di fermarlo, ma Bill si divincolò e nel tentativo di liberarsi lo colpì sul viso. "Non capisci! Tu non capisci niente!" gridò, quindi lasciò la sala correndo.
Quando Tom uscì nel corridoio, del gemello non c'era già più traccia. Espirò, lasciandosi scivolare contro il muro, con il sangue che gli usciva dal naso. Si chiese come diavolo fossero arrivati a quel punto, come poteva essere degenerato tutto così.
Era accaduto tutto senza che Tom ne avesse avuto il minimo controllo.
L'intera sequenza di eventi si dipanò di fronte ai suoi occhi, come diapositive su un videoproiettore. Scena dopo scena, come in un film di cui involontariamente era stato il protagonsita.
Lui in scena, con il suo copione in mano a recitare battute scritte per lui da qualcun altro. Era stato una marionetta, costretta a ballare in un teatrino di legno.
E quei fili, che lo rendevano vivo, erano sempre stati tra le dita magre di Bill.
Anche ripercorrendo ogni evento a ritroso non ricordava con chiarezza l'inizio della faccenda. Ogni istante era nitido nella sua testa, ma non l'inizio. Quello no, si perdeva tra i suoi ricordi. Era l'acqua torbida appena sotto la cascata: poteva distinguere ogni tratto di fiume ma là dov'era iniziato tutto era schiuma e vapore.


"Ti amo" Bill sembrava assolutamente serio. I grandi occhi castani ancora truccati dall'ultima intervista, l'abito che gli avvolgeva il corpo minuto.
Tom all'inizio non aveva capito. "Cosa?"
"Ti amo" ripetè Bill, ancora più serio. C'era così tanta disperazione nel suo sguardo che Tom si spaventò. Non aveva mai visto il gemello tanto impegnato in qualcosa, così tenacemente in attesa di una risposta.
"B-Bill, che stai dicendo? Non fare lo stupido!" provò a scherzare Tom. Abbozzò un sorriso, nel tentativo di smascherare quella pagliacciata ma suo fratello sembrava serio.
La situazione era assurda. Erano appena usciti da un'intervista devastante proprio sull'argomento. Il presentatore non aveva fatto che alludere alle twincest che le fan scrivevano su di loro. Certo Bill era sembrato un po' strano senza i suoi soliti sorrisi, senza la sua presenza scenica ma Tom aveva pensato che fosse per colpa di tutte quelle domande personali, tutto quell'indagare nella sua vita privata.
"Ti sembra che io stia scherzando?" la voce di Bill era soltanto un sussurro incrinato, ora. Le parole gli erano sfuggite di bocca una dietro l'altra senza controllo. Non aveva realmente pensato di dire davvero al fratello quello che provava. Era successo. E ora che era lì ad aspettare una reazione - una qualsiasi - si rendeva conto che qualunque fosse avrebbe cambiato il loro rapporto. Chiuse le mani e conficcò le unghie nel palmo fino a sentire dolore. Dio ti prego, fà che non mi guardi come il resto del mondo.
"I-io..." Tom era incredulo. Si passò una mano sugli occhi stanchi e si appoggiò al muro perchè non era sicuro di potersi reggere in piedi. Espirò. "Seriamente, Bill, non capisco"
"Cosa c'è da capire?" replicò il ragazzo. "Quello che scrivono... le twincest o come diavolo si chiamano: è tutto vero. E' così che mi sento, come mi descrivono loro!"
"Perennemente arrappato, totalmente illogico, spesso sgrammaticato e isterico come una scimmia?" chiese Tom. Aveva letto un paio di quelle stronzate girando per forum e a volte si sorprendeva di quante idiozie potesse scrivere la gente anche in poche righe.
Bill sollevò su di lui uno sguardo già pieno di lacrime e Tom si sentì tremendamente in colpa. Sdrammatizzare, a quanto pareva, era fuori discussione. "Scusami, mi dispiace."
"E' una tortura" mormorò Bill. Tirò su col naso, ma le lacrime stavano già scendendo. "Io ho questi... pensieri adesso. Ogni minuto del giorno. Ogni volta che ti ho vicino. Ogni volta che mi ... tocchi"
Era abituato a vedere il fratello piangere: Bill aveva sempre sfogato in quel modo il dolore e la rabbia. Quando Bill piangeva, lui doveva semplicemente picchiare qualcuno e tutto si risolveva ma adesso le cose erano diverse. Dubitava di poter ottenere un qualche tipo di risultato con atti di masochismo. Tom si sentiva a disagio. "Non avevo idea che ti sentissi così. Com'è potuto succedere?"
"Non lo so!" Bill scosse la testa, la massa delle sue ciocche ondeggiò con lui. "Non lo so, Tom! E' successo e basta. Improvvisamente mi sono reso conto che...che provo qualcosa per te"
Tom si grattò la testa, confuso. "Forse tutta questa storia delle fanfiction ti ha influenzato, magari è solo una fase..."
"Le storie non c'entrano niente!" Bill tirò nuovamente su col naso, ma ormai le lacrime scendevano così copiose che singhiozzava. "E' iniziato tutto molto prima che le scoprissimo.. oddio, mi sento così stupido ad avertelo detto!"
I singhiozzi si fecero ancora più forti. Bill portò entrambe le mani sugli occhi a coprirsi il viso. Sembrava incredibilmente fragile in mezzo a quel corridoio. Istintivamente, Tom lo abbracciò come faceva sempre quando qualcosa non andava. Bill appoggiò la testa contro il suo petto, perdendosi nella maglietta enorme del fratello. "Hai fatto bene, invece" mormorò Tom, appoggiando la testa su quella del gemello. Non ne era così sicuro, ma voleva evitare di far sentire Bill più diverso di quanto non si sentisse già.
Dopo un po', Bill sembrò calmarsi. Tom sentì che si asciugava gli occhi e si scostò un po' per vedere come stava. Il gemello sollevò la testa e gli lanciò uno sguardo umido. Il mascara e l'eye-liner colando gli avevano formato due righe nere sulle guance. "Ho qualcosa che non va" mormorò.
"Non dire così"
Bill scosse la testa, le mani appoggiate sul petto di Tom che senza volerlo lo stringeva ancora. Nella sua tenerezza era così dolorosamente ambiguo. "L'unica cosa che riesco a pensare e che vorrei tu provassi le stesse cose. E' da quando l'ho capito che sogno un momento identico a questo dove tu mi dici che sono le tue stesse sensazioni e non tenti di farmi ragionare"
"Siamo fratelli" fu tutto quello che riuscì a dire.
"Lo so"
Rimasero in silenzio a lungo. Bill con l'orecchio appoggiato al suo cuore, per coglierne ogni singolo battito accelerato. Da giorni un'idea si era fatta strada nella sua testa e ora era arrivato il momento di concretizzarla. Se doveva fare quello che aveva deciso, allora voleva crogiolarsi nel calore di suo fratello fino all'ultimo istante. Sentire il suo corpo oltre quei vestiti enormi, come aveva fatto molte volte prima di allora giocando con lui senza nessun altro pensiero.
"Senti..." Tom iniziò impacciato, proprio mentre Bill si staccava da lui lentamente.
Il gemello si asciugò l'ultima lacrima e poi abbozzò un sorriso. "Sto bene" mormorò. "A dire il vero, credo che me ne andrò per un po'"
"Cosa?" Tom sgranò gli occhi per la sorpresa. "E dove vorresti andare?"
Bill fece qualche passo indietro, allontanandosi dal fratello, si accarezzò un braccio confuso. "Da qualche parte, non importa dove" rispose. "Voglio solo del tempo per pensare"
"Io non voglio che tu te ne vada"
Bill si morse un labbro nel tentativo di non ricominciare a piangere. Tom sembrava davvero così triste. Non si era aspettato che fosse così difficile: ora che sentiva quelle parole, stava perdendo la forza di andarsene. "Tom, non posso rimanere qui. Pensavo di poter sopportare, ma non ci riesco più! Sapere che sei qui, accanto a me e che ... che è sbagliato quello che sento... non ci riesco" Bill deglutì, raccontare quella stessa verità non era stato altrettanto complicato allo specchio. "Non capisci quanto sia difficile? Pensa a tutte le ragazze che ti girano intorno, a come mi sento io quando le baci, quando...devo farti schifo, non è così?"
"No, affatto" Tom scosse la testa. "E non ti lascio andare così, Bill. Sei solo confuso"
"Ti prego, non rendermi le cose ancora più complicate" mormorò. "C'è un'auto qui fuori che mi aspetta. Ho già avvertito mamma e David."
Bill fece per voltarsi, ma Tom lo trattenne. "No! Tu non te ne vai così!" ringhiò il fratello. "Se c'è un problema lo affrontiamo insieme!"
"Tom, per favore!"
"No!" il ragazzo lo strattonò, riportandolo verso di sè. Bill era così leggero che sembrava fatto di niente. "Non puoi lasciarmi qui così!"
Il viso di Bill si fece più scuro. Coprì la poca distanza che lo separava dal fratello e lo baciò sulle labbra prima che l'altro potesse fare qualsiasi cosa per fermarlo. Tom lo lasciò andare di scatto e si ritrasse, senza volerlo.
"Lo vedi?" mormorò Bill. Lo tradì una vena tremula nella voce: aveva sperato fino all'ultimo che Tom non lo lasciasse andare, di non vedergli in viso quell'espressione quasi terrorizzata. "Se resto qui finirai col guardarmi come un mostro e io non voglio."
Il ragazzo lo guardò un'ultima volta, poi si calò il cappuccio in testa e gli voltò le spalle uscendo da quella stanza.
"Bill, aspetta!"
Tom provò a rincorrerlo, ma fece appena in tempo a vederlo salire sul taxi che partì un istante più tardi.

Tom aveva passato le ultime due ore a fissare il vuoto con il cellulare in mano: Bill rifiutava le sue chiamate e non riusciva a trovare nè David nè sua madre da nessuna parte. Gustav e Georg continuavano ad entrare ed uscire dalla sua stanza chiedendogli se stesse bene, se avesse bisogno di qualcosa, magari di un cheesburger o una coca. Nessuno dei due si era azzardato a chiedergli dove si fosse cacciato Bill: le urla incazzose di Tom che sbatacchiava il telefono in terra ogni volta che il gemello non rispondeva erano già abbastanza esplicative.
Poi all'improvviso, il telefono si era messo a squillare. Tom aveva tirato su prima ancora di controllare il display. "Pronto?"
"Tom, sono la mamma"
"Alla buon'ora!" ringhiò Tom. Attraversò la stanza a grandi passi e chiuse la porta sulla faccia di Georg che era appena tornato con un paio di videocassette nell'ennesimo tentativo di tirarlo su di morale. "Sono due ore che tento di chiamarti! Dov'eri?"
"All'areoporto"
La voce tesa e stanca di mamma Simone sembrarono riscuotere Tom dalla sua arrabbiatura. Il cuore prese a battergli più forte: c'era qualcosa che non andava. "Mamma, cos'è successo?"
"Bill è lì con te?"
Per un istante il tempo sembrò fermarsi. Tom percepì soltanto il respiro di sua madre attraverso la cornetta e il proprio che gli rimbombava nelle orecchie. "N-no" rispose, lo sguardo perso nel pavimento della stanza. "E' partito due ore fa. Speravo fosse venuto lì"
"Doveva" ammise la madre. "Mi ha chiamato ieri, ha detto che sarebbe stato qui per un po' ma non è mai sceso dall'aereo"
"Ne sei sicura?"
"Tom credi che sia stupida?" sbottò la madre. "Sono stata lì un'ora ma di lui neanche l'ombra. Ho chiesto alla compagnia aerea: il suo nome non era neanche nella lista dei passeggeri!"
"Merda!"
Tom si lasciò andare seduto sul letto ancora disfatto. La camera sembrava il risultato di un'esplosione post-atomica: vestiti ovunque, i suoi videogiochi sparsi su ogni superficie disponibile e le carte di merendine che non trovavano mai la strada per il cestino. Bill trovava quella stanza disgustosa. Ogni volta che ci entrava stava attento a dove poggiava il sedere e si aggirava prendendo le cose soltanto con due dita. Schizzinoso.
"Tom?"
"Sono qui"
"Dov'è?" chiese sua madre. Non era mai stata una donna facile alle lacrime, ma adesso Tom poteva sentire un leggero tremore nella sua voce.
"Non lo so, ma'" il cervello di Tom stava già lavorando per cercare una possibile soluzione a quella faccenda. "Quando è partito non mi ha detto dove andava. A dire il vero ho saputo che se ne andava cinque minuti prima che prendesse il taxi"
"E' successo qualcosa? Avete litigato?"
Tom trattenne il respiro per qualche istante. "...no" rispose alla fine. Espirò, mentre gli tornava alla mente l'intera scena. Bill che gli diceva che lo amava e che non avrebbe sopportato di rimanere lì con lui. Non poteva raccontarlo a sua madre. "Sei riuscita a parlare con David? Forse lui sà qualcosa!"
"Lui non sa niente. Bill gli ha detto che veniva da me" Simone espirò, cercando di mantenere la calma. Suo figlio che gli mentiva non era una novità: avere due gemelli maschi che si spalleggiavano a vicenda fin dalla tenera età di tre anni l'aveva allenata alle bugie, ma in questo caso la cosa era seria. Bill aveva deliberatamente tenuto tutti all'oscuro, compreso il suo gemello e adesso poteva essere chissà dove, senza nessun tipo di protezione. La sua notorietà lo rendeva un bersaglio facile, lasciarlo andare in giro da solo era fuori discussione già da molto tempo.
"David non ha avuto nessun'idea?" chiese Tom.
"Sì, ha detto che lo avrebbe cercato" la donna tentò di riordinare le idee. "Ha parlato di rintracciare la sua carta di credito per seguire i suoi spostamenti. Ha detto che mi faceva sapere ma non ho sue notizie da almeno un'ora"
"D'accordo. Adesso calmati" Tom si stava già mettendo la giacca, con il telefono incastrato tra la testa e la spalla. "Telefona a tutti i nostri amici, senti se è andato da loro. E chiama anche i parenti a Cologne"
"Tom l'ho già fat--"
"Fallo di nuovo!" insistette Tom. "Prova tutte le persone che conosci e che conoscono Bill. Forse vuole solo farci credere di essere scappato: lo sai com'è fatto! Ricordi quando era piccolo e ogni settimana se ne andava di casa per poi rintanarsi nella casetta sull'albero di Andreas?"
La donna non potè trattenere un sorriso, anche se triste. "Tom, aveva soltanto dieci anni!"
"Beh espandi leggermente le sue possibilità. Forse ha trovato la sua casa sull'albero in un altro stato. In fondo gli emo come lui fanno sempre gli stessi ragionamenti!"
Simone scosse la testa, pensando che era stato un bene chiamare Tom. Non importava quanto fosse drammatica la situazione, lui trovava sempre il modo di sdrammatizzare e certo andare in giro urlando isterica non l'avrebbe aiutata a ritrovare Bill. "D'accordo, va bene..."
"Mamma?"
"Sì?"
"Non ti preoccupare, lo troveremo"

Bill aveva passato le ultime due ore seduto in una tavola calda a qualche chilometro dall'albergo.
Aveva pensato di recarsi in aereoporto e prendere il primo volo per l'altro capo del mondo ma poi si era reso conto che così rintracciarlo sarebbe stato molto più facile; la carta di credito, il suo nome sulla lista dei passeggeri: David avrebbe impiegato si e no mezz'ora per capire dov'era diretto e ancora meno per avvertire il pilota di non farlo scendere. Per non parlare del fatto che sapeva soltanto il tedesco e non aveva la minima idea di come farsi capire all'estero senza un interprete. Rimanere in città era più sicuro.
Aveva ritirato dal suo conto tutto il contante possibile, quindi aveva trascinato le sue due enormi valigie fin dentro il locale, e si era rintanato nel tavolo più in angolo.
Stava ancora giocando con il menu quando una cameriera gli si era avvicinata per prendere la sua ordinazione. Una birra. Una zuppa. Qualcosa di caldo che allontanasse il gelo che gli si era insinuato fin dentro le ossa. Fuori la temperatura si stava facendo proibitiva, l'inverno era quasi al suo culmine. Mancavano quattro settimane a Natale. Tra poco: le strade gelate, la neve in cumuli alti mezzo metro lungo i marciapiedi e il vento freddo che ti sferzava il viso fino alle lacrime.
Sospirò, affondando il cucchiaio nella brodaglia pastosa che gli era stata servita. Non aveva idea di dove rintanarsi, nè di cosa avrebbe fatto poi. Come poteva fuggire a suo fratello, alla sua famiglia, alla band? "Come posso rimanere ancora lì?" aggiunse a bassa voce.
Si sentiva sospeso tra due possibilità, entrambe ugualmente devastanti. Non poteva sparire, ma non poteva neanche tornare indietro. La vita con suo fratello era ormai un sogno irrealizzabile, la vita senza di lui un concetto altrettanto impossibile. "Fantastico..." deglutì senza far caso alla zuppa che gli ustionava la gola. "Me ne vado e non so neanche dove. E ora sto qui a farmi le paranoie drammatiche come un poeta dell'ottocento. Non solo moralmente perverso, ma anche un enorme e stupido clichè. Sono uno stereotipo...."
Lasciò andare il cucchiaio con un gesto di stizza. Sul tavolo, accanto al suo piatto, era appoggiato il giornale della mattina, piegato sulla pagina degli spettacoli: una foto della band prendeva praticamente tutta la pagina con la sua bella faccia in primo piano. Sorrideva.
Accanto a lui, come sempre, Tom salutava il pubblico sbracciandosi come un indemoniato. Il suo entusiasmo era contagioso, le ragazze urlavano al suo passaggio e gli gridavano cose senza vergogna. Aveva un sorriso per tutte, un gesto per tutte e non c'era una sola di loro con la quale non avesse flirtato, fosse anche per un secondo. Lo amavano.
E lo amava anche lui. Gli sembrava impossibile non farlo, che ci fosse qualcuno al mondo che vedendolo non se ne innamorasse a prima vista.
La cameriera era tornata senza che lui se ne accorgesse, così Bill trasalì quando gli chiese se avesse finito. Annuì e poi si accorse che la donna lo stava fissando, lo sguardo dubbioso che andava alternativamente dal suo viso al giornale. Bill tirò via il quotidiano, facendolo sparire sotto il tavolo. "Era tutto buonissimo, grazie" biacicò velocemente, badando a tenere lo sguardo in basso. I battiti del suo cuore accelerarono ma la cameriera sembrò convincersi che no, quel ragazzino allampanato e con le occhiaie non poteva assolutamente essere il Bill Kaulitz di cui si parlava sul giornale.
Quando si fu allontanata, Bill espirò. Lo sguardo gli cadde sul portatovaglioli che rifletteva opaco il suo viso. Il cappellino calcato fino alle orecchie non era sufficente a nascondere la sua identità. Come aveva fatto a non rendersene conto? Gli occhi erano ancora truccati pesantemente per l'intervista ed erano troppo appariscenti. Troppo suoi.
Afferrò il tascapane che conteneva ad occhio e croce metà dei suoi possedimenti e si diresse in bagno. Tom lo prendeva sempre in giro per quella borsa, per quanto pesava, per le cianfrusaglie che ci ficcava ogni volta. I suoi trucchi, il diario, le annotazioni per le nuove canzoni e una quantità innumerevole di oggetti totalmente inutili. E nessuno poteva metterci le mani, nè sopra nè dentro. Quel tascapane era inviolabile. L'unico bagaglio a mano che si concedesse quando viaggiavano, l'unico oggetto per il quale pretendeva la cassaforte nei camerini. Nemmeno sua madre, in dieci anni che la possedeva, aveva mai potuto toccare quella borsa. "Cosa mai ci terrai dentro!?" gli aveva detto una volta Tom, infastidito quando aveva osato tirarla su per spostarla e lui gli aveva urlato contro. Ci tengo dentro te, Tom. Avrebbe voluto rispondergli così, ma probabilmente sarebbe suonato alquanto macabro.
Nei bagni non c'era nessuno, così infilò in quello delle donne dove lo specchio era più grande. In caso fosse entrato qualcuno avrebbe potuto sfruttare il suo corpo androgino. Erano diciotto anni che lo scambiavano per una femmina, almeno questa volta gli sarebbe tornato utile. Si tolse il cappello e fissò il proprio riflesso, quasi perfetto. I capelli erano stati lisciati e pettinati verso il basso. La sua parrucchiera li scalava regolarmente ogni tre settimane in modo che fossero sempre a posto. Quella pettinatura gli incorniciava il viso delicatamente, accentuando quell'aria femminile per la quale era adorato e offeso in tutte le parti del mondo. Gli occhi erano due macchie scure, su un viso reso diafano dal fondotinta. Doveva togliere quella maschera, Bill Kaulitz doveva sparire.
Struccarsi gli occhi non fu per niente facile. Tutto quel nero non andava via con una passata di cotone, ne sapeva qualcosa. Per ogni intervista, concerto o apparizione ci voleva mezz'ora di trucco. E lo stesso tempo era necessario alla fine.
Bagnò un nuovo dischetto di struccante e si accanì con ancora più foga. Man mano che toglieva il trucco, i suoi veri lineamenti spuntavano fuori. Come un'altra persona che emergeva lentamente da sotto la sua pelle. Alla fine, tolto il cerone, Tom lo fissò attraverso lo specchio.
"Tomi..." allungò una mano verso il riflesso e quasi si stupì di sentire vetro liscio e freddo sotto le dita e non la morbidezza delle guance del fratello.

"David!" Tom lo assalì prima ancora che fosse completamente uscito dall'ascensore dell'hotel. Aveva la faccia scura e turbata di quando lui e Bill combinavano qualcosa di disastroso. Le sue sopracciglia si incurvavano verso il centro della fronte e il naso si arricciava, come se fosse pronto a ringhiare. Quando erano piccoli si spaventavano sempre un po' per quella reazione. Beh, Bill sicuramente. Lui un po' meno ovviamente. "Allora? Ci sono novità?"
David non si fermò neppure e continuò diritto per il corridoio, con Tom che gli trotterellava dietro a grandi passi. "No, nessuna novità"
"Ma... la carta di credito? E la lista dei passeggeri?"
"Niente" rispose l'uomo, aprendo la propria stanza.
Tom gli andò dietro prima che potesse chiuderlo fuori. "Ma avevi detto che così potevano rintracciarlo!"
"Certo! Se avesse usato la carta di credito per comprare i biglietti, ma non lo ha fatto!" sbottò il manager. "Non è nemmeno partito"
Tom sgranò gli occhi, sconvolto. "Cosa?"
"Non c'è sulla lista dei passeggeri della Lufthansa, nè di qualsiasi altra compagnia aerea" spiegò David. Poggiò la giacca sul letto e si versò da bere.
"Ma.."
"Non è partito, Tom" ripetè, prima che il ragazzino potesse insistere. "Non ha preso nessun aereo. Ovunque sia, è ancora in questa nazione"
Tom era incredulo. Si era già immaginato il fratello in volo, diretto chissà dove, magari già atterrato in qualche posto sperduto del... del vietnam o del madagascar, magari! Un posto dove nessuno lo conoscesse e loro non avessero i contatti per rintracciarlo. E invece no, era in Germania. Magari in qualche tavola calda a mangiare una zuppa!
"Se è qui sarà più facile rintracciarlo!" esclamò però alla fine.
David scosse la testa. "No. Se resta qua avrà meno possibilità di utilizzare i documenti. Se non si registra da qualche parte, non lo troveremo più"
"Avrà pur bisogno di soldi no? Prima o poi userà la carta!"
"Lo ha già fatto. Due ore fa ha ritirato il massimo da uno sportello automatico" lo informò il manager, passandosi una mano tra i capelli. "Siamo corsi lì, ma non c'era già più. Ho fatto setacciare i dintorni ma è stato inutile. Con quella cifra può andare avanti per mesi. Anche se gli blocchiamo il conto non servirà a nulla nell'immediato"
"Beh dovrà pur dormire da qualche parte!" insistette Tom, incapace di stare fermo.
"Magari ha degli amici o dei parenti che lo coprono" David si strinse nelle spalle. "Ci sono motel che non chiedono documenti... le possibilità sono infinite"
A lungo rimasero in silenzio. Tom si sentiva come svuotato. Erano passate dieci ore da quando suo fratello gli aveva fatto la grande rivelazione, tre da quando virtualmente era sparito nel nulla. Era quasi l'alba e nessuno di loro aveva dormito.
All'inzio tutto quanto era stato troppo frenetico per fermarsi e pensare a cosa fosse successo: le telefonate di sua madre che ogni mezz'ora chiedeva se fosse tornato, Georg e Gustav che si erano offerti di battere la città palmo a palmo per ritrovarlo, David che faceva avanti e indietro dall'albergo agli uffici della produzione, all'areoporto, sempre attaccato al cellulare nel tentativo di mettersi in contatto con questa o quella persona. Tom aveva passato tutto quel tempo tra la hall e il corridoio di fronte alla sua stanza, nella quale non era voluto più entrare. Sempre in movimento, sempre occupato a far qualcosa. Sapeva che se si fosse appoggiato anche solo un istante da qualche parte, sarebbe crollato. E non poteva permetterselo.
Quando David era uscito un'ora prima senza dire dove andava, Tom aveva sperato che fosse la volta buona, che gli avessero comunicato qualcosa di importante. Ritrovarselo ora, seduto accanto, privo di altre soluzioni lo aveva come svuotato. Tutto ad un tratto si sentiva completamente perso. Se neanche David sapeva dove cercarlo, cosa poteva fare lui?
"Hai provato a chiamare Andreas?" chiese David, all'improvviso. La sua voce bassa e greve sembrò quasi rimbombare nel silenzio perfetto che si era creato.
"Dice che non vede nè sente Bill dall'ultima volta che siamo stati là" rispose Tom senza guardarlo. Cominciava a trovare interessante quella macchia sul muro "Ha detto che provava a fare un giro dei nostri amici"
Rimasero ancora in silenzio, poi Tom sentì David espirare. La tensione nell'aria sembrò intensificarsi, Tom era ormai abituato a percepire un uragano in arrivo visti i casini che combinava di solito. "Cosa diavolo è successo?" chiese il manager. "Vuoi dirmelo ora?"
"Non lo so" Tom si mise sulla difensiva. Si portò verso la finestra e guardò fuori. Berlino era immersa nella luce rosata del sole nascente. C'era qualcosa di magico in quella visione. Pensò a suo fratello là fuori e strinse il pugno sul davanzale.
"Fino a ieri andava tutto bene. Poi all'improvviso tu ci parli e lui decide di andarsene"
"Pensi che sia colpia mia?" Tom si voltò di scatto e lo fulminò con lo sguardo quasi sfidandolo a confermare.
"Non dico questo, ma sicuramente qualcosa è successo" insistette David, cercando di evitare lo scontro. Non gli era mai piaciuto litigare con i suoi due pupilli: rimettere a posto le cose era sempre più stancante che scatenare la discussione. "Durante l'intervista era tranquillo"
"No! Non lo era affatto!" Tom si morse la lingua. Il fatto era che si sentiva tremendamente in colpa per non essersi accorto del malessere di Bill e ora non sopportava l'idea che nessun'altro lo avesse notato e che Bill fosse stato completamente solo con il suo problema. Se ripensava all'intervista, per esempio, ricordava come fosse stato in silenzio per quasi tutto il tempo.... lui! Lui che era pronto a sbranarti vivo se riuscivi a rispondere alle domande prima di lui. Lui che ti parlava sopra se osavi dire la tua prima che avesse espresso la propria opinione. Come diavolo avevano potuto pensare che fosse a posto?!?
"Non lo era?" lo incalzò David. "Aveva un problema e non me lo hai detto?"
"No" Tom sospirò. "Io... senti David, non lo sapevo che avesse un problema, okay?"
David non sembrava assolutamente convinto da quella risposta. "Cosa mi stai nascondendo?"
"NIENTE!" replicò secco il ragazzino, sperando che questo bastasse a far smettere David di fare domande ma il manager continuava a fissarlo come se fosse intenzionato ad attendere da lui una risposta per tutta la vita. "Ascolta, ne so quanto te. Ad un certo punto mi ha detto che se ne andava e se n'è andato"
"E non lo hai fermato?"
"Hai mai visto Bill che fà quello che gli dici?" Tom lo guardò da sotto in su. David ricambiò l'occhiata, poi gli venne da ridere. Una risata breve, involontaria, che contagiò anche Tom. Entrambi avevano ben chiare in testa tutte le volte in cui Bill si era intestardito su qualcosa ed era stato impossibile fargli cambiare idea. Quando Bill si metteva in testa qualcosa, non voleva sentire ragioni. O si faceva come voleva lui, oppure non se ne faceva nulla.
E se davvero per caso non se ne faceva nulla, allora s'incazzava il doppio, diventando isterico.
David espirò e gli battè una mano su una spalla. "Sarà meglio che tu vada a letto ora. Vedrai che prima o poi salterà fuori"
"Io non--"
"Tom, soltanto un paio d'ore" insistette il manager. "Sei in piedi da ieri mattina"
Il ragazzino ci pensò su qualche istante, poi si rese conto che David aveva ragione. Improvvisamente, la stanchezza si fece sentire tutta insieme. Faticava a tenere gli occhi aperti. "Se ci sono novità.." iniziò, prima di lasciare la stanza.
"Ti vengo a chiamare personalmente, promesso" lo rassicurò il manager.