bill+ofc

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Bill, Tom, OFC
Genere: Comico, Demenziale
Avvisi: Slash, Het
Rating: R
Note: Da un'idea di Yulin. La storia - comparsa inizialmente con il solo sottotitolo - si è classificata prima al concorso "2018", indetto sulla kaulizestIta.
La storia è un compendio di stupidità e io ne sono molto orgogliona.
L'idea di questa famiglia allargata dove non si sa cosa nè chi, in realtà, mi intrigava già da parecchio e racchiudere il tutto in una shot piuttosto che ammorbarvi con 60 capitoli (che poi sarebbero sfumati nel dramma definitivo) mi sembrava una buona soluzione.
Per quanto riguarda Nena, la vacca - che dire?
Nena andava inserita (per essere perfetti bisognava anche sbagliare un po' delle date che la legano ai Tokio Hotel per falsare la presumibile realtà storica, ma questa volta credo di non esserci riuscita. E un po' mi dispiace: era il mio marchio di fabbrica) e ho pensato che si meritasse una parte di spicco. No offense intended nei confronti di sua maestà la vera Nena.

Riassunto: Allora l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa. Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.
Quando, da piccoli, ne parlavamo, sembrava davvero un grande idea: io, Tomi, una casa enorme e magari una ragazza che la pensasse esattamente come noi a completare l'ameno quadretto perché Tom ha sempre adorato i bambini; li voleva, nonostante tutto, e ne voleva di suoi per cui l'adozione era fuori discussione.
Ora come ora, in realtà, ho come l'impressione che più che i bambini in sé gli piacesse farli ma, all'epoca, quando mi disse che adorava l'idea di mettere al mondo tante nostre piccole copie in miniatura, la cosa mi sembrò romanticissima.

Io e Tom ne parlavamo di continuo. A quindici anni era solo un'idea molto confusa di me e di lui, e di una casa con le porte sempre aperte. Una sorta di castello incantato con le stanze comunicanti che ci avrebbero permesso di romperci vicendevolmente le palle in allegria. Eravamo ancora ai livelli per cui vivere insieme significava coccole ventiquattrore su ventiquattro senza altri futili pensieri per me, sesso ovunque e pizza a cena per Tom. Era tutto molto semplice a ben pensarci.

A diciotto anni, l'idea divenne più precisa e iniziammo ad adoperarci per realizzarla. Io volevo trovare un modo per stare con mio fratello senza finire in galera. Tom, fondamentalmente, voleva sempre far sesso ovunque e pizza a cena ma ci aggiunse i bambini e quindi il necessario elemento femminile.

A ventidue anni le ragazze divennero due e la mia bellissima idea di una bifamiliare in centro a Berlino si tramutò in un surrogato tedesco della Casa nella Prateria. La pizza rimase, naturalmente.

Allora, come dicevo, l'idea ci sembrava grandiosa e, quando scoprimmo che gli hippies c'avevano già pensato vent'anni prima che noi nascessimo, ci sembrò un'idea ancora più grandiosa perché, se qualcuno era arrivato alla nostra stessa idea, allora non eravamo poi così fuori dal mondo.
Oggi, a ventotto anni, comincio a credere che noi, come gli hippies negli anni sessanta, non siamo altro che un branco di sciroccati.


L'ASSUNTO APODITTICO PUO' ESSERE EUFONICO?
Io, mio fratello e il giorno che mi lasciarono
solo con l’anticristo.



Sono seduto sul divano di casa, che non è più veramente un divano da quasi tre anni. Mi pare di ricordare che fosse nero, una volta, ma non posso accertarmene perché è sommerso da ogni genere di oggetto. Sbuffo e appoggio la testa allo schienale morbido, guardando il soffitto quattro metri sopra di me. Il lampadario è l'unica cosa che sia ancora nel posto in cui si trovava quando abbiamo comprato questa fattoria.

Sono le dieci del mattino e vorrei già tornare a letto. Sono stanco per fare qualunque cosa, ultimamente. Questo è perché non dormo né quanto né come dovrei: la responsabilità è delle acrobazie sessuali di mio fratello, naturalmente. D'accordo, forse non è proprio tutta colpa sua ma di sicuro buona parte delle mie ore insonni ormai la devo a lui. E a loro.

E anche agli altri naturalmente.

Sembra che tutti qua dentro agiscano sotto l'effetto della stamina. Tanta stamina. Possono stare svegli per ore, a fare qualunque cosa. Non è solo questione di sesso, no. Si parla, si scherza, si urla, si piange e si gioca. Si gioca tanto; perlopiù tra una scopata e l'altra. Ecco.
Così mi tocca prima giocare, e poi scopare. O anche l'inverso, dipende da che metà del giorno viene prima. In definitiva, però, non dormo.
Ecco perché alle dieci del mattino sono già seduto su questo divano senza nemmeno la forza di recuperare il telecomando e abbrutirmi davanti al televisore.

Voglio solo morire.
Morire in mezzo a una valanga di oggetti inutili, su quello che un tempo è stato il mio bellissimo divano di pelle nera. E invece no. Qua non si muore nemmeno.

"Bill, noi usciamo."

Le parole, in realtà, mi arrivano dopo. Prima mi arriva il concetto, che è notevolmente peggio; questo perchè il cervello archivia il significato immediatamente e poi ci mette i suoi dieci minuti buoni a recuperarlo, elaborarlo in una sequenza logica e ripresentartelo in modo che tu, coscientemente, sia in grado di afferrarlo.

E a quel punto loro sono già uscite.

In realtà, il mio è un problema di tipo logico.
Ieri sera Tomi e io siamo nella nostra stanza al secondo piano e Tomi mi sta drappeggiato addosso, con la sua bella faccia soddisfatta e la mano sul mio sedere. Se ne sta lì così e io sono portato a credere che per oggi ho finito sia di giocare che di scopare, e che forse posso anche dormire. Sono così felice che mi addormento pure, dalla felicità.

Lui ovviamente mi sveglia, perché ha la stamina. Lui.
Mi pianta nel viso gli occhi da triglia e mi dice: "Domani devo andare allo studio a registrare la linea di chitarra." Agli occhi di un profano che non vive nella nostra condizione, potrebbe suonare come una frase di una banalità imbarazzante. Io sono un cantante, lui è un chitarrista, abbiamo una band: è puramente logico che ogni tanto si registri anche qualche pezzo nuovo invece di continuare a vendere per dieci anni singoli rimasterizzati di Durch den monsun. Cosa che non ci esimiamo dal fare, comunque.

In realtà no. Questa non è una notizia come un'altra, è l'annuncio dell'apocalisse imminente: E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che recavano sette flagelli, gli ultimi, perché con essi si compie l'ira di Dio. Mi libero dalla sua amorevole stretta e lo guardo negli occhi. Chiedo che cos'ha detto e lui ripete - che il cielo abbia pietà di noi tutti - esattamente le stesse parole. Lui va a registrare allo studio.

Se lui non c'è, rimaniamo in tre contro l'Anticristo.

Mi rendo conto che non posso urlare: è una questione di sopravvivenza. Se viveste come vivo io, lo capireste. Se urli, ti sentono. E se ti sentono, la loro percezione distorta del mondo li convincerà che urlare sia giusto. E ti imiteranno, emuli malvagi che tu stesso hai creato.
Così non urlo, annuisco e cerco di riaddormentarmi ma ovviamente la stamina di Tom mi nega anche il più piccolo conforto. Sia mai che oltre ad affrontare l'apocalisse in svantaggio, io possa farlo senza due occhiaie sfiguranti.

Sia mai.

Quindi, tornando al nodo centrale della questione: Tom non c'è.
Da qui se ne deduce che quelle due non possono uscire. Eppure lo hanno fatto. Se loro escono, e Tom non c'è, questo lascia me solo contro l'Anticristo.

Ho appena finito di raggiungere questo alto grado di consapevolezza ascetica che sento la porta chiudersi. Nei minuti che il mio cervello ha impiegato, come dicevo, a propormi questo grande spaccato di verità, Emma e Julie sono uscite.

Mi alzo dal divano e mi getto fuori dalla porta, pregando che le gambe mi reggano quel tanto che basta a gettarmi in mezzo al vialetto di casa. Sono pronto a farmi investire dal SUV ma vi prego non lasciatemi qui. Non da solo. Non sono neanche troppo sicuro di avere qualche responsabilità in tutto questo. La dinamica è sempre stata molto confusa, tutte e sette le volte.

Quando raggiungo l'esterno, però, ci trovo solo le sgommate dell'auto.
E quando avranno terminato la loro testimonianza, la bestia che sale dall'abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà.

***


Sono sette.

Sette sembra un bel numero. Ci sono i giorni della settimana, le note, le meraviglie del mondo. Sono sette i mesi dell'anno con 31 giorni, le vite del gatto, i nani di Biancaneve!

Poi ti viene a mente che sono sette anche i peccati capitali, e in quel momento capisci tante cose. In particolar modo comprendi che la felice idea di bifamiliare, gioiosamente arredata di bambini è una gran vaccata. E che il tuo gusto per il design non potrà mai andare d'accordo con il gusto malsano di tuo fratello di riprodursi.

Quando rientro in casa mi rendo conto che qualcosa ha colonizzato il divano; definire il numero di creature che vi si sono arrampicate sopra potrebbe essere complesso. Vedo braccia e gambe ma niente di numericamente distinguibile.

"Bill!" E' il grido primordiale che mi accoglie non appena entro nella loro visuale. Nessuno che viva sotto questo tetto può sostenere con assoluta certezza che io sia il padre di qualcuno. Nessuno può sostenere la stessa cosa di Tom. Pertanto, la convivenza civile - nella persona del sottoscritto - ha obbligato il resto del parentado all'equo utilizzo dei nostri adorabili nomi propri.

Ora che si sono rotolati in posizioni quasi umanamente vivibili, posso vedere che sono soltanto tre e mi guardano tutti fisso, come bambole di porcellana in casa di una vecchia sciroccata e piena di gatti. Sono quelli della fascia alta d'età. Sei, cinque e quattro anni.

Sembra il conto alla rovescia di Capodanno.

"Ho fame," esordisce il più grande che di nome fa Samuel. E se un giorno si lamenterà per questo gli dirò che poteva andargli peggio e che, se io e sua madre Julie non avessimo insistito, ora avrebbe il nome di un rapper che faceva già schifo quando uno dei suoi possibili padri era ancora minorenne. Se non ci fossi stato io, il primo dei nostri Kaulitz avrebbe avuto DELUXE sul certificato di nascita.

Quando mi espone il suo problema, puntualmente anche le altre due che gli siedono a fianco, e che a tutto pensavano tranne che a riempirsi lo stomaco, scoprono all'improvviso di avere fame. E succede sempre così, con qualsiasi cosa. Quando uno vuole andare in bagno, altre sei persone si pisciano addosso. Quando uno vomita, ci ritroviamo istantaneamente il salotto riverniciato di pezzettoni.

"Anch'io ho fame," proclama con veemenza la più grande delle bimbe. Si chiama Nina, perchè a Nena si sono opposti tutti quanti. E dire che era un gran bel nome.
Sua sorella, di madre diversa, le fa eco. Nei suoi quattro anni, il vocabolario è ridotto alla sola parola fame ma si avvale delle dichiarazioni dei fratelli per dare forza ai propri discorsi.
Ogni volta che la guardo mi viene in mente il volto di mia madre e quello della madre di Emma che si ringhiano l'un l'altra sopra un tavolo da caffé per chiamare quella creatura col proprio nome.

Peccato che abbia finito per chiamarsi Angelina, come la Jolie. E questo perché ho un gemello e una compagna che ancora sbavano dietro a quella donna. Quando li troviamo di fronte alla quarta visione settimanale di Wanted, è sempre un momento molto imbarazzante per tutta la famiglia.

Io non sono mai stato bravo nelle materie scientifiche ma ora so che, da qualche parte, dev'esserci qualche legge fisica che stabilisce esattamente questo: quando sei intento a preparare la colazione per i tuoi tre figli e ad ascoltare ciò che hanno da dirti, uno o più eventi si abbatteranno sulla tua persona e tu non potrai fare niente per fermare nessuno di essi.

Infatti, mentre sto posando sul tavolo un numero sufficiente di waffles a sfamare la corte del sultano del Brunei e il suo popolo tutto, perché i tre pargoli vi si gettino sopra come cavallette, squilla il telefono, suonano alla porta e - tanto per gradire - dai piani superiori urla e strepiti mi ricordano che io e Tomi, forse, dovremmo fare causa alla casa che produce i nostri profilattici.

Il corollario alla legge fisica di cui sopra, in effetti, dice: se quando sei intento a preparare la colazione ai tuoi tre figli ne hai anche altri quattro da qualche parte, sottoponiti a vasectomia.

Nell'aprire alla porta, rispondo anche al telefono, così mi ritrovo a salutare il mio postino con un bel PRONTO! squillante e ad invitare David ad entrare attraverso la cornetta.
Il postino mi guarda basito e non so se lo faccia perché ho appena detto quello che ho detto o perché mi ritrovo addosso un pigiama di Emma che ha la mia stessa taglia ma non i miei stessi gusti e adesso ho elefantini rosa sui pantaloni. Ignoro la mia situazione, prendo la posta con un cenno e gli richiudo la porta sul muso prima che uno dei paparazzi là fuori mi ritragga in questo modo e poi venda la foto a BRAVO. Abbiamo già abbastanza imbarazzanti problemi con il gioco che hanno indetto la scorsa settimana e che, con uno stupro di eleganza non indifferente, invita le adorate lettrici a dare la loro opinione su chi sia figlio di chi.

"Bill?" Dice David.

David è uno di quelli che sta cercando di supporlo da sei anni, ne sono certo. Scommetto che manda anche gli sms a Bravo per dire la sua.

"Sì, ci sono," rispondo mentre lancio occhiate alla cucina dove le tre malattie infettive si stanno facendo lo shampoo con la panna dei waffles. Quando hai sette figli, tutti di età compresa tra lo zero assoluto e i sei anni compiuti da un giorno, arrivi ad un certo punto in cui non te ne importa più niente, neanche se si facessero lo shampoo con il tuo sangue. Intanto salgo le scale, perchè il coretto dei neonati si sente fin troppo forte e chiaro.

"Ci sarebbe un servizio fotografico..." inizia David. Quell'uomo non conclude mai le frasi, le lascia in sospeso. E' un manager allusivo.

"Quando?"

"Oggi."

Rido.

"Magari sul tardi," offre lui.

"Magari quando Samuel parte per il militare," propongo io.

I bambini hanno due stanze. Una per il primo gruppo, una per il secondo. I quattro figli che mancano all'appello sono quelli nella fascia bassa d'età, il che significa due anni e meno di un anno. I gemelli - sì, i gemelli; a quanto pare quella dei gemelli che saltano una generazione è un'altra leggenda metropolitana - hanno due anni e mezzo; si chiamano Jorg, come mio padre. E Gordon, come mio padre, sempre. Mi rendo conto che la nostra situazione assume contorni perversi e contorti anche nei dettagli più smaccatamente normali. Questi due, dei Kaulitz, hanno qualunque cosa: i capelli, il naso, la bocca, la forma assurda delle orecchie. Dalla loro madre hanno preso l'unica cosa che mancava a noi: l'occhio azzurro. E lì un po' t'incazzi perchè, essendo due maschietti, sono praticamente uguali a noi ma sono più belli. Sono una versione aggiornata dei gemelli Kaulitz!

Gli ultimi due hanno sei mesi uno e quattro l'altra. Lei si chiama Simone: mia madre l'ha spuntata perché, nel frattempo, la madre di Emma è morta.
Lui invece si chiama David. Glielo dovevamo, soprattutto quando si è ritrovato coperto dalla testa ai piedi di placenta e liquido amniotico in un claustrofobico ascensore della Universal con Julie che gli stritolava la mano, massacrandogli le dita e dandogli la colpa di ogni cosa che riguardasse noi altri due che eravamo bloccati in sala stampa ad annunciare il nuovo album.

Prendo in braccio David e Simone, mentre libero i gemelli dal loro lettino con le sbarre. Il bello degli omozigoti è che si autogestiscono in quasi tutte le occasioni. So per esperienza personale che nessuno dei due permetterà che l'altro si faccia del male. Molto probabilmente tra qualche anno li troverò a limonare dentro un armadio ma credo proprio che saprò essere comprensivo.

"Ci sei?" Mi dice David. Quello adulto.

"Sì, ma devo cambiare il tuo omonimo."

"Allora niente servizio fotografico?"

Guardo nel vuoto per qualche istante e mi immagino come sarebbe passare il resto della mia vita in galera per aver ammazzato il mio manager che non ha ancora capito che dopo 6 anni e 7 figli sono ben giustificato a dire di no ad un servizio fotografico quando ho due neonati in braccio e altri due che mi corrono tra le gambe urlando parolacce che il padre - o lo zio - ha insegnato loro.

David attende. Non è che gli passa per l'anticamera del cervello che io non possa cambiare idea. Il mio David invece, puzza. E anche tanto. "Dalla cacca che fai, si direbbe che tu sia figlio di Tom," borbotto mentre lo appoggio sul fasciatoio. Simone l'ho messa nel seggiolone e attende paziente che mi occupi anche di lei.
I due gemelli li ho persi di vista ma inizierò a preoccuparmi solo quando ne sentirò piangere uno. Abbiamo dei metodi educativi molto spicci in questa casa.

"Stavi parlando con me?" Mi chiede il mio manager.

"David, se pensi che io possa interessarmi alle tue abitudini intestinali, credo che tu abbia bisogno di rivedere l'opinione che hai di me," dico intanto che cerco di allontanare da mio figlio la quantità industriale di escrementi che ha prodotto nelle ultime cinque ore senza rovinarmi la manicure. Io odio cambiare i pannolini, credo che dovrei avere una dispensa per essere esonerato da una cosa del genere.

Non mi si addice, per la miseria.

Sto vagliando l'ipotesi di riattaccare ed occuparmi della figliolanza, quando sento un gran frastuono provenire dal piano inferiore e allora mi passa di mente sia di spedire il mio manager a farsi benedire, sia il fatto che io una volta ero un giovane efebo, il cui unico compito era quello di ansimare in un microfono per scombussolare gli ormoni di un'orda di ragazzine.

Mi avvio al piano inferiore, stringendomi David contro un fianco e scopro che l'altro, il manager, sta parlando da solo da ore e non se n'è nemmeno accorto. Il che è perfettamente normale: ha passato gli ultimi dieci anni a farlo perché nessuno di noi gli ha mai dato retta. Per non sentirsi solo ha imparato ad ascoltarsi.

"D'accordo, se non riesci proprio a fare un salto qui per le foto, non fa niente," sta dicendo, con il sotto tono di uno che vorrebbe sentirsi rispondere che in realtà mi dispiace molto non esserci e che sono pronto a sacrificare il mio primogenito al demonio pur di essere lì con lui a farmi ricoprire le occhiaie di fondotinta e a posare sensualmente di fronte ad un fotografo quando ho alle spalle un complessivo di 2 ore di sonno... durante le quali non posso garantire che Tom non si sia approfittato sessualmente del mio corpo ormai esanime.

"Ad ogni modo," riprende quando non sente alcuna risposta da parte mia, "c'è questa manifestazione tra un paio di settimane e, calcolando l'uscita del vostro ultimo dvd, sarebbe forse il caso che ci foste tutti e quattro per pubblicizzarlo un po'."

Mentre scendo le scale recupero anche Angelina, che si è seduta in equilibrio precario sul primo gradino. Non ho voglia di vederla ruzzolare di testa per tutte le rampe di scale. Lo ha già fatto Tom il primo anno che eravamo qui: lui, però, una volta disteso, la rampa di scale la copre tutta. Nostra figlia invece rimbalzerebbe ben bene almeno una ventina di volte prima di arrivare in fondo e non credo se la caverebbe con due bernoccoli.

"Chi viene?" Chiedo a David, il manager, mentre faccio il mio ingresso nel mio salotto. O ciò che ne resta per lo meno. "NENA!"

Come dicevo sostanzialmente prima, quando sei impegnato a fare più cose contemporaneamente, è molto più facile che altre cose decidano di capitare proprio in quel momento. E' una legge imperscrutabile dell'universo e nessuno può sfuggire alle leggi imperscrutabili dell'Universo, nemmeno io.

Posso sfuggire abilmente alle leggi umane, e compiere incesto.
Prevenire gli eventi del fato universale, ecco... quello mi viene male.

Ad ogni modo, l'Universo non si fa mai vivo di per sé: salve io sono l'Universo e sono qui a portarti le mie leggi. No. Lo fa attraverso messaggeri di vario genere e forma, in questo specifico frangente lo fa attraverso i cinquecento chili del corpo di Nena, la vacca.

So che in questo momento vi state chiedendo cos'ha spinto me, Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel, famoso per le sue plurime dichiarazioni internazionali in cui sostiene di adorare fin dalla più tenera età Gabriele Susanne Kerner, classe 1960, a dare del bovide al mio mito d'infanzia.

Ora vi spiego.

Si da il caso che noi abbiamo una mucca. Una Pezzata Rossa Bavarese, per la precisione.
E che questa mucca si chiami Nena; ma non per colpa mia, sia chiaro. La nomina di questo animale è sfuggita al mio controllo l'attimo stesso in cui Tom l'ha comprata.

Quel cretino di mio fratello ha pensato di regalarmela già provvista di quel nome.
Pensava di farmi cosa gradita facendomi trovare sotto l'albero di natale un animale di quasi una tonnellata che portasse il nome dell'unica donna al mondo che io vorrei davvero... essere.

Chiunque mi avrebbe regalato un chihuaha. Lui no, la vacca.

Non ho il tempo di soffermarmi a pensare a quanto infelice sia la mia vita con due ragazze, un fratello-amante, sette figli e una mucca perchè Samuel sta strillando e, avendo ereditato la mia voce da usignolo, è probabilmente destinato a farsi venire una cisti alle corde vocali molto, molto presto.

Il pargolo è attaccato alla coda della mucca che, oltraggiata, sta riversando la propria frustrazione in una corsa sfrenata tra i mobili del salotto. "Bill, non riesco a fermarla!" Mi grida il bambino, che si sta facendo trascinare dalla vacca ovunque.

Il piccolo David ride tra le mie braccia mentre sua sorella Angelina pensa bene di spaventarsi come la mucca e mettersi a gridare nelle mie orecchie. In tutto questo, il mio manager non ha capito un accidenti e sembra entusiasta delle mie doti di preveggenza. "Bravo, Nena sarà presente," mi dice, convinto di aver finalmente trovato la motivazione definitiva per convincermi a presenziare ad uno dei suoi stupidi programmi. "Come hai fatto ad indovinare?"

"La vacca!" Sbraito io, col cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre lascio David e Angelina sulla prima superficie libera disponibile e mi lancio all'inseguimento dell'animale e di mio figlio che le struscia dietro.

"Ora, Bill, questa mi sembra una mancanza di educazione," commenta David. E se fossi abbastanza in me mi accorgerei che è un po' interdetto. "E' vero che ultimamente non è stata esattamente disponibile, te lo concedo, ma ha comunque una certa età e le si dovrebbe rispetto."

"Samuel lascia la presa!" Ordino e mio figlio esegue. Non capita spesso, pertanto mi permetto di gioirne interiormente. Nena corre ancora come un'invasata per un paio di metri e poi si ferma, riprendendo a masticare placida erba che probabilmente ha ingoiato ieri. Che schifo, io odio le mucche.

Mio figlio è steso a terra a quattro di bastoni e un po' mi preoccupo perché anche io ho un cuore, alla fine. Sono consapevole di odiare quella piccola miniatura di essere umano per gran parte della giornata perché urla, si muove e produce rifiuti organici, ma vederlo lì, abbandonato a terra come una borsa di Prada dell’anno scorso, un po' mi sconvolge.

In fondo quel cosino lo abbiamo fatto io e Tom.
D’accordo, io o Tom. Vogliamo forse star qui a far le pulci alle congiunzioni quando una mucca corre nel mio salotto?

"Bill, vuoi farmi la cortesia di rispondere?" Mi chiama il manager.

"David non ora. Samuel è morto," esclamo con tono piatto, forse vagamente sotto shock.

"Che cosa?" Mi urla lui nell'orecchio. E me lo immagino che si spettina tutto, perché David ha la tendenza a farsi venire i boccoli fuori posto quando l’isteria lo coglie. “Bill cos’è successo? Vuoi che chiami un’ambulanza?”

Mi avvicino a mio figlio riverso sul pavimento e lui apre gli occhi e mi guarda. Sollevo due dita e gli chiedo quante ne vede. Mi dice “Forse due,” e decido che va bene così: non posso chiedere certezze assolute ad un bambino di sei anni appena travolto da una mucca.

”Bill?” David sembra davvero molto preoccupato.

“Allarme rientrato, è solo un po’ impolverato,” rassicuro il vecchio mentre tiro su Samuel e gli tiro due pacche sul sedere per spolverarlo. “Nena lo ha travolto, ma sta bene.”

David farfuglia qualcosa sul rispetto per gli anziani ma non lo sento perché Angelina richiama la mia attenzione tirandomi la stoffa dei pantaloni. “Che cosa c’è?” Sospiro.

Lei si limita a tapparsi il minuscolo naso e ad indicare perentoria alle nostre spalle.

Ora provate ad immaginarvi il fermo-immagine.
Vedete me, con il telefono ancora incastrato fra la spalla e l’orecchio e vedete una delle mie figlie che si tappa il naso. Quello che troverò lo sapete voi, e lo so io.

E sappiamo tutti che non mi farà affatto piacere.

Nena è un animale esageratamente grosso se paragonato al mio salotto. Ed ella ha l’abitudine di evacuare in quantità direttamente proporzionali a quello che mangia. E a farlo istantaneamente.
Quello che si trova ora accanto al mio divano di pelle non sono escrementi.

E non so cosa sia.
Ma è semplicemente troppa per essere soltanto cacca.
Forse Nena si è sciolta.

Sfortunatamente l’adorabile regalo di natale di mio fratello è ancora lì, in tutta la sua ruminante placidità. In questo preciso frangente, con mezzo chilo di fertilizzante naturale sul mio tappeto persiano Isfahan da 8.000 euro, non mi preoccupo se Nena si è messa a ruminare anche le tende. Cosa può importarmi ormai?
Sono un uomo distrutto.

“Bill?” E’ la voce del manager.

”Davi, ti prego, abbi pietà di me. Nena ha fatto la cacca nel mio soggiorno,” pigolo disperato e non riesco a distogliere lo sguardo dal mucchio di escrementi che, nel buio grigio della mia disperazione, mi appare perfino sorridente. Allegro. Felice di essere stato evacuato. “E’ una cosa tremenda.”

David tace.

E con ogni probabilità lo fa perché nella sua mente, in questo momento, c’è un’immagine che non sono davvero sicuro di voler visualizzare. Io provo del rispetto per la mia cantante preferita: non voglio vederla accovacciata sul mio tappeto, con la carta igienica in mano come la sta pensando lui. Non voglio e basta, ecco. Sono già abbastanza insonne per cause indipendenti dalla mia volontà, per aggiungere anche questo dettaglio raccapricciante alle mie notti. “David… sto parlando della mia mucca,” dico.

Il mio manager è un uomo buono. Dico davvero.

Lo conosco da quando non ero altro che un ragazzino e lo conosco bene, nella sua vita non ha fatto niente di male, a parte aver lanciato sulla scena musicale quattro mocciosi incapaci di mettere insieme due note. Probabilmente si meriterebbe qualcosa di più che stare qui al telefono con il suo frontman ad implorarlo di lavorare almeno una volta al mese come un impresario da quattro soldi qualunque.
E certo non si merita che io lo confonda con tutti i miei figli e la cacca della mia vacca che per altro ha un nome che lui potrebbe facilmente equivocare. Io lo so. Lo so eppure non gli evito mai niente di tutto questo, lo trascino all’inferno con me, sempre. Ledo la sua dignità ogni volta che mi rivolge la parola.

Mi sento un po’ in colpa.

La cacca è pur sempre là, però. E puzza.
Decido che la dignità di David può aspettare le mie scuse ancora un altro po’.
”David, ne riparliamo un’altra volta, va bene?” Gli dico. Mentre chiudo il telefono mi sembra di sentirlo piangere, ma forse mi sbaglio.

Solo quando chiudo la conversazione e la stanza piomba di nuovo nel silenzio – fatto salvo per il borbottio continuo dei miei figli e il macinare dei denti di Nena – che mi rendo conto che quella cacca va spostata.
Ora, tu puoi contemplare gli escrementi del tuo enorme animale da fattoria che staziona erroneamente in salotto e sentire le lacrime che ti salgono agli occhi per il semplice fatto che tutta quella merda non dovrebbe affatto trovarsi dove si trova, e va bene. Quando però ti rendi conto che osservare tristemente quanta sfiga ti abbia colpito tutta quanta insieme non è l’unica cosa che l’Universo ti richiede, capisci che fino a quel momento non hai davvero avuto abbastanza motivi per piangere.

“Chi ha fatto entrare Nena in casa?” Chiedo, senza voltarmi.

”Nessuno l’ha fatta entrare, è entrata da sola,” Samuel mente con una facilità estrema. Le parole gli escono di bocca liquide come acqua. Se non è a te che sta sparando cazzate consapevolmente, lo trovi quasi commovente da quanto è bravo. Un talento naturale.

Mi giro verso di lui con una sguardo e un sopracciglio sollevati costruiti ad arte in quindici anni di onorata carriera e lo osservo. Lui rimane impassibile. “E come avrebbe fatto, di grazia, ad aprire la sua recinzione e il chiavistello della porta d’entrata?”

Samuel sostiene il mio sguardo e tira su il naso. Ha una mano sul fianco e l’anca spostata prepotentemente di lato. “E io come faccio a saperlo, non sono mica una mucca!”

Io voglio strangolarlo.

Il pensiero si palesa nella mia testa con tanta chiarezza che non sono certo di trattenermi dal farlo. “No, sei un bambino che ha fatto entrare una mucca in casa. E per questo pulirai il disastro che ha fatto,” proclamo, recuperando al volo segatura, paletta e cestino.

”Tu non puoi farmi questo!” Esclama Samuel. Spalanca gli occhi e la bocca in maniera così teatrale che mi viene quasi un groppo alla gola. E’ così oltraggiato, così insensatamente offeso e pronto all’autocommiserazione che per la prima volta sento l’orgoglio di padre esplodermi in petto. Se i geni della Diva esistono, come sostiene Tom, allora forse il primogenito di questa casa è opera mia.

Credo che mi vanterò in maniera indecorosa con mio fratello.
Forse ballerò anche. Non so, devo ancora decidere bene i dettagli.

Ad ogni modo, non è questo il punto. Devo concentrarmi. “Oh sì che posso signorino,” commento. E lo faccio proprio così, con queste parole, perché sono quelle che mi sibilava mia madre e io ho aspettato per anni il momento di poterle ripetere. “Tu hai portato la vacca in casa, tu pulisci quell’enorme mucchio di cacca.”

”Io non lo faccio,” proclama Samuel, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente.

”E io non ti porto al cinema a vedere i cartoni animati,” replico io, incrociando le braccia al petto e volgendo lo sguardo seccamente, ma molto meglio di lui. L’età ha un certo peso in queste cose. Significa pratica.

“Sei un uomo orrendo!” Mi sbraita contro, offeso oltre il limite umano.

”E tu un bambino insopportabile!” Replico, con lo stesso tono.

Rimaniamo lì così, decisi a non guardarci in faccia mai più, cadesse il mondo, anche se io fossi l’ultimo padre della terra e lui l’ultimo bambino sul pianeta. Decido che ho altri sei figli da vestire, svestire e truccare, non ho assolutamente bisogno di lui. Sono mortalmente offeso dal suo comportamento.

Lui è mortalmente offeso dal mio, ovvio.
Pensa pure di avere ragione, il nano da giardino.

La cacca invece è lì.
E sembra sempre felice.

Potremmo rimanere in quella posizione per ore.
E' già successo altre volte e nessuno, per altro, ha mai fatto una piega. In questa famiglia il divismo è una malattia ereditaria, come il diabete o i calcoli renali, e di conseguenza la gente ti ignora se tenti di dimostrare la tua indignazione con pose studiate a tale scopo. Trovo tutto ciò discutibile e quasi offensivo ma durante le riunioni di famiglia sono l'unico adulto a pensarla così e la mia minoranza è senza dubbio penalizzante.

Ad ogni modo, io e Samuel non abbiamo abbastanza tempo per orchestrare il nostro melodramma perché la porta di casa si spalanca. O meglio, si spalancherebbe se non fosse già spalancata per via della vacca e di tutto il resto.

Emma e Julie fanno due passi in casa e urlano.
Hanno questo vizio indegno di travolgerti con grida insensate quando trovano qualcosa fuori posto.

"Cosa diavolo è successo qui dentro?" Esclama una.

"Nena!" Esclama l'altra. Poi vede e si disgusta. "Oddio!"

Tutto questo, almeno dieci decibel sopra la norma.
E cosa sarà mai? E' solo un po' di cacca!
Piuttosto, io e mio figlio stiamo girando il remake di Mezzogiorno di Fuoco e non se ne accorge nessuno. Siamo senza pubblico, non è divertente. Voglio dire: tutto questo talento sprecato dove lo vogliamo mettere?

La cacca è qui.
Io sono qui.
Eppure è lei quella più felice.

E lei è una cacca, mentre io sono Bill Kaulitz.

"Bill ma non ti si può lasciare un attimo da solo!" Esclama Julie, raccogliendo David e Simone da terra come se li avessi lasciati in chissà quale luogo pericoloso.

"Beh non ero esattamente da solo, ma con i vostri sette marmocchi!" Puntualizzo io, che a questo punto mi girano anche un po', se permettete.

"Adesso sono i nostri figli?" Esclama Emma, ed è li che mi accorgo che c'è qualcosa di strano perché una frase del genere avrebbe dovuto dirla con un tono infastidito e sul limite dell'incazzatura. E invece lei è serena.

Troppo serena.

Da qualche anno a questa parte ho sviluppato la capacità di prevedere le catastrofi, forse perché vivo in perenne stato di emergenza. Al primo accenno di disastro il mio stomaco si ribalta e capisco che di fronte a me ci sono mesi di disperazione duante i quali la mia persona verrà ripetutamente traumatizzata in qualche modo.

Il mio primo istinto sarebbe quello di fuggire. Afferrare le mie cose, le chiavi della mia auto e infilare l'autostrada nella prima direzione disponibile per non fare mai più ritorno.
Non so neanche da cosa desidero fuggire ma non ha importanza.

So già che è una cosa tremenda.
Lo so perché Emma sorride. Perché Julie sorride. Lo so perché Nena è entrata in casa a brucarmi il divano mentre cinque dei miei sette figli distruggevano il resto della casa, e ne ho persi due che non so dove sono. Questo è il karma che torna indietro.

Ho fatto del male nella mia vita precedente.
O forse perfino in questa.

Karma is gonna get you.
Forse è John Lennon che si vendica per come ho ridotto la sua canzone.

"Abbiamo una bella notizia," esclama quella donna infernale. "Aspettiamo un altro bambino!"

Ora, la mia idea di buona notizia comprende molteplici avvenimenti.
Un disco d'oro è una bella notizia.

Una vacanza alle Maldive. Andi che viene a trovarci.
Io e mio fratello da soli, a limonare lontano dalla pazza folla.
UNA LARINGITE.

Qualunque cosa, ma di certo non la venuta al mondo dell'ottava emanazione dell'anticristo.
Trovo che qui ci si stia approfittando della mia pazienza, andando oltre ciò che Iddio stesso aveva previsto come il male in terra.

"Allora? Non dici niente?" M'incalza l'altra. E sorride. Una donna felice di portare in terra la nuova apocalisse non può che essere malefica quanto la prima.

Vorre dirle che persino le più Grandi Catastrofi Naturali lasciano il tempo all'uomo di illudersi che potrà ricostruire e ricominciare a vivere, perché loro due non possono regalarmi questo piccolo sollievo di tanto in tanto? Sono sei anni che non fanno nient'altro che produrre umanità.

Vorrei dire questo e molto altro ma il mio corpo ha pietà di me. E' l'unico ad averne in questa casa; e prima che tutto si faccia buio e scuro mi rendo conto di quanta tristezza ci sia nel fatto che se desidero un po' di comprensione io debba darmela da solo.

Tutto questo è troppo da sopportare.

La voragine si apre e m'inghiotte, ed è finita, non soffrirò più.
Quelle due, le streghe, non hanno occhi che per se stesse anche nel mio uiltimo istante. Megere, egoiste. "Ma non dovrei essere io a svenire?" Dice una.
"Lo sai quanto è delicato," dice l'altra.

Poi il vuoto.

Sono sicuro che è colpa di Tom.
E' sempre colpa sua.

Svengo.