bill+fler

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Bill, Bushido, Chakuza, Fler, David, Tom, Georg, Gustav, Sido
Genere: Fantasy, Romantico, Avventura, Drammatico, Humor
Avvisi: Slash
Rating: PG 15
Prompt: Scritta per la seconda edizione del Big Bang Italia
Gift: Lisachan ha creato la cover, il banner e le fan art che si trovano all'interno della storia, e io la amo per questo.
Note: La verità è che l'intera storia è stata scritta per poter utilizzare la parola doppelgänger nello schema. Difatti l'ho fatto due volte.
Scherzi a parte, ho impiegato un'eternità a finirla - e per questo non ho la minima idea di cosa ne abbia scatenato la trama - ma ne sono molto orgogliosa perché è lunghissima e mi piace, due caratteristiche che non vanno quasi mai d'accordo. Quello di questa storia è, credo, il miglior Bill Kaulitz che io abbia mai descritto e prende il nome di Cioèmatiprego!Bill, godetevelo. In quanto all'ambientazione, essa si presta ad essere usata ancora; chissà, magari per il prossimo BBI ;)

Riassunto: Bill si risveglia in una sorta di universo parallelo e futuristico in cui Berlino non è una città ma un insieme di ghetti rivali in guerra da un secolo. Condotto al palazzo presidenziale di Tempelhof scoprirà che tutti i suoi abitanti sono doppelgänger di persone che conosce. Tranne se stesso.

MISPLACED


La prima cosa che Bill vide, quando si svegliò, fu la città sopraelevata e le alte torri di una cattedrale che si stagliavano all'orizzonte appena oltre il nodo confuso dei sovrappassi elevati.
Chiuse gli occhi e subito dopo li riaprì di nuovo ma scoprì che ogni cosa era esattamente uguale a prima. Le stesse due torri, gli stessi palazzi, le stesse strade serpeggianti a mezz'aria. A qualche chilometro da lui, un gigantesco orologio segnava l'ora in maniera alquanto strana; quattro lancette percorrevano a velocità diverse un immenso quadrante, scandendo il tempo con rintocchi cupi e spettrali. Auto volanti, come grossi calabroni, infestavano il cielo con un ronzio continuo e fastidioso.
Bill era sicuro di essersi addormentato nella cuccetta del tourbus solo qualche minuto prima, come Alice sotto l'albero del giardino della zia, ma era palese che quella non fosse la tana del Bianconiglio. Evidentemente se eri una ragazzina bionda con un bel vestitino azzurro finivi a giocare a criquet con mazze fatte di fenicotteri vivi insieme alla Regina di Cuori; se invece eri un giovane tedesco in viaggio tra Roma e Berlino, tutto ciò che ti toccava era una città futuristica probabilmente in guerra.
Prima ci furono i sibili potenti appena sopra la sua testa e poi le esplosioni ovunque sotto di lui. Bill si trovava su una delle strade che collegavano un palazzo all'altro. Da quell'altezza la città era una distesa di luci intermittenti. Le costruzioni si estendevano per centinaia di metri da terra, anche se non poteva vederne le basi dal momento che ogni cosa spariva in una nube nera di smog. Un nuovo, tremendo sibilo scosse l'aria e poi una costruzione a non più di un centinaio di metri da lui si sgretolò, finendo praticamente in polvere.
Il contraccolpo dell'esplosione fece tremare il percorso di cemento sotto ai suoi piedi, costringendolo ad aggrapparsi forte alla balaustra. Altri sibili, altre esplosioni.
Bill non aveva idea di dove fosse finito, e soprattutto di come avesse fatto ad arrivarci. Secondo ogni logica plausibile, quello avrebbe dovuto essere un sogno ma tutto era inquietantemente reale. Non c'era quella sensazione di confusione, come nebbia agli angoli della sua visuale. Non c'era il susseguirsi casuale di eventi uno dietro l'altro. Per qualche strano motivo sapeva di trovarsi dentro qualcosa di reale, così come - al contrario - talvolta si rendeva conto senza ombra di dubbio di trovarsi in un sogno.
La qual cosa, in effetti, avrebbe potuto essa stessa essere caratteristica indicativa di un sogno particolare, e diverso da quelli che di solito faceva. Eppure non lo era.
E in ogni caso c'era poco da vagheggiare, soprattutto non a chissà quanti chilometri da terra, con una guerra in corso. Decise di dirigersi nella direzione da cui provenivano le bombe, se doveva tirare a caso, tanto valeva non sostare nella zona a cui stavano mirando. La strada si snodava in due curve per poi scendere per obliquo, due piani più sotto.
Quando discese, notò che il percorso piegava intorno ad un palazzo e si diresse di corsa in quella direzione, sperando da lì di poter entrare da qualche parte.
Quando svoltò l'angolo, però, fu investito da un vociare indistinto. Cinque persone in divisa - nera e lucida, come certi film di fantascienza che aveva visto e che erano benedetti da un costumista con un po' di stile - ne inseguivano altre due, che sembravano vestite di stracci.
E lui era sulla traiettoria, ovviamente. "Togliti di là!" Gli gridò uno dei due, che era piccolo e biondo, con i capelli corti.
"Levati di mezzo!" Gridò anche l'altro, dopo essersi guardato alle spalle.
Bill sgranò gli occhi, mentre i due quasi lo travolgevano. "Gustav? Georg?"



La sequenza di eventi fu rocambolesca, ma finì con lui, Georg e Gustav in fondo ad una specie di scivolo fangoso, lungo il quale caddero per un fantastiglione di metri. Quella poteva anche essere la tana di un coniglio, ma sul fondo del pozzo non trovarono altro che immondizia. E Bill era molto, molto arrabbiato.
"Okay, io credo che uno di voi due mi debba una spiegazione," sbraitò isterico, visto che dopo un po' di fanghiglia non era già più se stesso. "Anzi, facciamo che me la dovete tutti e due."
I due ragazzi erano ancora in terra, intenti a recuperare le proprie ossa, mentre lui si era sollevato con la forza della diva oltraggiata, pronto con la sua anca sbilenca a dirne quattro al suo bassista e al suo batterista.
"Senti, io non so chi tu sia..." cominciò quello biondo, spolverandosi i pantaloni lisi il cui colore era assolutamente indecifrabile. "Ma di certo non ti devo nessuna spiegazione."
"Per gli Dei Riuniti, che cavolo hai nel cervello, melma? Stare là nel mezzo come un cretino mentre le truppe di West Berlin tentano di farci la pelle."
Bill serrò la mascella. "Io non so neanche di cosa stai parlando, Georg!"
"Come diavolo li sai i nostri nomi tu?"
"Mi prendete in giro?" Chiese. "Suoniamo insieme da sei anni!"
I due sollevarono in sincrono un sopracciglio. "E che cosa di grazia?"
"Tu il basso e lu la batteria," replicò Bill.
"Ma se Georg non saprebbe suonare nemmeno il campanello di casa?"
Bill sbuffò, sollevandosi la frangia di capelli scuri. Mise una mano sul fianco e agitò l'altra in aria. "Sentite, qualunque cosa sia successa non posso essere finito qui da solo."
"No, infatti ci siamo caduti tutti e tre, perché qualcuno ha le caviglie deboli e ci ha tirati dentro un tombino!"
Bill divenne rosso. "Io non ho le caviglie deboli," balbettò. "E comunque non è questo il punto. Il punto è che io non so dove mi trovo e anche se voi due non mi riconoscete - cosa che trovo alquanto maleducata da parte vostra - so che siete Georg e Gustav. E sto palesemente uscendo di testa perché stiamo parlando sul fondo di non so cosa, ricoperti di fango."
Il ragazzo chiamato Georg sembrò trovare quel teatrino piuttosto divertente. "Sei davvero suonato!" Commentò con una risatina. "Comunque queste sono le fogne di Berlino. Benvenuto nel posto più sporco del mondo. Ora muoviamoci, prima che arrivino i topi."
"Topi?"

*


Bill non sapeva esattamente per quale motivo si fosse messo in testa di seguirli ma non doveva sforzarsi neanche troppo per trovarne almeno due. Tanto per cominciare, non aveva idea di come fare ad uscire dalle fogne, dal momento che risalire dal tombino nel quale erano caduti era impossibile; e quei due sembravano sapere la strada verso l'uscita.
Secondo, per quanto si ostinassero a comportarsi da perfetti sconosciuti, quei due avevano almeno la faccia di Gustav e Georg e al momento questo gli bastava: erano la prima cosa che suonasse familiare nei dintorni.
"Quanto manca?" Chiese, appoggiando una mano alla parete scivolosa per aiutarsi a scavalcare l'ennesima tubatura fatiscente.
"Non molto," rispose Gustav, che apriva la fila. "Siamo quasi fuori dal centro."
Bill annuì. "Bene, non ne posso più di questo fango."
Georg ridacchiò. "Fuori non è molto meglio," disse. "Casa nostra è proprio sul confine del Ghetto, terra di nessuno praticamente."
"Il governo dovrebbe fare qualcosa," asserì saggiamente Bill, tanto per darsi un tono nella conversazione. La politica non gli era mai piaciuta ma pensava che certamente un intervento governativo fosse sempre auspicabile in una situazione di degrado. Almeno così gli sembrava di aver sentito dire ad Anis, una volta. Anche lui quando parlava della periferia di Berlino diceva sempre che era colpa del governo che lasciava gli immigrati a loro stessi.
Gustav sbuffò una risata di scherno, mentre svoltavano ancora. "Il governo ha già fatto abbastanza, grazie," commentò, agitando una mano.
"perché?" Chiese Bill.
Georg gli lanciò di nuovo un'occhiata stupita. "Ma allora davvero non sai niente!"
"No! Te l'ho detto che non so come ci sono arrivato qui. Non so nemmeno dov'è qui!".
Gustav li condusse tutti lungo una scala di metallo a pioli e con una spallata aprì la botola che c'era sul soffitto. Una luce grigia e polverosa filtrò fino all'interno, costringendoli a chiudere gli occhi. "Questa, caro il mio svampito, è Berlino," rispose.
Quando Bill si issò all'esterno, il paesaggio che lo accolse era vagamente diverso da quello che si era ritrovato intorno arrivando lì. Le strade sopraelevate, gli altissimi palazzi e le macchine volanti c'erano ancora, ma erano molto più in alto. O meglio, erano loro tre ad essere molto più basso. "Questa non può essere Berlino," commentò, guardandosi intorno. La zona era di uno squallore deprimente. I pochi palazzi, bassissimi e fatiscenti, erano grigi o bianchicci, provvisti di piccoli giardini altrettanto grigi pieni di vecchi oggetti inutilizzati e scheletri di biciclette senza le ruote. "Io vengo da Berlino e non è di certo così."
Gutav si strinse nelle spalle. "Non so cosa dirti."
"Non ci sono macchine volanti da dove provengo io!" Protestò Bill, rincorrendo i due ragazzi che si erano già incamminati.
"E' un posto ben strano questa tua Berlino, allora." Commentò Georg.
Gustav, intanto, stava scrutando il cielo, con l'orecchio teso, pronto a captare qualunque minimo suono. Bill lo notò e si mise ad imitarlo. "Le esplosioni sono cessate."
Il biondo fece un cenno impercettibile, gli lanciò un'occhiata dubbiosa che Bill non colse.
"Non durano mai più di mezz'ora," lo informò Georg. "E' l'unica benedizione per noialtri dei livelli inferiori."
"Come fanno sempre a durare allo stesso modo?"
"Sono i mortai," spiegò Georg. "Vanno ricaricati ogni trenta minuti circa. E ci voglio ore. Quindi una volta che iniziano i bombardamenti sappiamo esattamente quando finiranno. E' una magra consolazione, ma ci permette di evitare i pericoli più grandi."
Si avviarono lungo un vicolo completamente deserto. La cosa che colpì Bill più di ogni altra fu il silenzio, come se nelle case intorno non abitasse nessuno. "Dove sono tutti?"
"Dentro le case, ben rintanati come topi," rispose Gustav, calciando un sasso. "Hanno paura. Ad ogni modo, che cosa intendi fare?"
Bill si strinse nelle spalle. "Non ne ho idea," ammise sconcertato. E all'improvviso si rese conto di trovarsi in un posto sconosciuto, per un motivo sconosciuto e, date le esplosioni di prima, anche potenzialmente mortale.
Prima che potesse farsi prendere dal panico, però, Gustav venne in suo soccorso. "Puoi stare da noi per un po', almeno finché non ci capisci qualcosa."
"Viviamo in un buco," annuì Georg. "Ma di questi tempi è più che abbastanza."
Bill sorrise.

*


La casa di Gustav e Georg non era davvero una casa ma era decisamente spaziosa per due persone. I due vivevano nella soffitta di uno stabile abbandonato, appena sopra una macelleria che sembrava passarsela ancora peggio di loro.
Dal pavimento al soffitto non c'erano più di tre metri, parte dei quali occupati dalla struttura triangolare di travi che reggeva il soffitto. L'unico enorme spazio era diviso solo in parte da una tenda, che delimitava la zona del bagno, il resto era un po' messo dove capitava: compresi i due letti singoli da una parte e una specie di piccolo fornello da campo dalla parte opposta. "Puoi farti una doccia se vuoi," lo informò Georg, indicando la tenda lercia a fiorelloni.
Bill si chiese come potesse esserci una doccia in quel posto e la sua domanda dovette comparirgli ben chiara sul viso, perché l'altro ragazzo sorrise: "Gustav ha deviato parte della grondaia e ha costruito un serbatoio per l'acqua piovana con un bidone sul tetto. Un lavoro di fino, davvero," spiegò. "E i tubi di alimentazione delle ventole dissipa-smog passano proprio qui di fianco. E' bastato deviare anche quelli per avere l'acqua calda."
"E hai fatto tutto da solo?" Commentò sconvolto Bill.
Gustav si strinse nelle spalle, mentre Georg gli dava un'amichevole pacca sulla schiena. "E' un piccolo genio, il mio amico."
Bill sorrise, quindi prese gli asciugamani puliti che Gustav gli porgeva, ed entrò in quel surrogato di bagno, sorprendendosi di trovarlo assurdamente pulito per il luogo che era. C'era davvero uno spazio per farsi la doccia, con lo scarico che gettava acqua direttamente dalla finestra. E c'era anche un water.
Cercò di lavarsi il più velocemente possibile, non sapendo quanta acqua ci fosse a disposizione, ma non poté fare a meno di crogiolarsi per molti lunghi istanti sotto il getto caldo, scoprendo di essere molto più stanco di quel che pensava. Quando uscì, indossando abiti che Gustav gli aveva prestato e che non stavano affatto meglio dei suoi ma per lo meno erano puliti, li trovò che parlottavano tra di loro. Si interruppero all'istante, non appena lo videro arrivare.
"Porco. Cazzo." Esclamò Georg, con gli occhi sgranati su di lui come un invasato. Bill sollevò un sopracciglio: fra tutte le accoglienze che aveva previsto, quella proprio non gli era passata per l'anticamera del cervello.
"Tutto a posto? La doccia ha funzionato?" Chiese invece Gustav, parandosi davanti all'amico che continuava a sbirciare Bill da dietro il suo corpo.
"Oh sì," sorrise il moro, inclinando leggermente la testa di lato. "Tutto perfetto. Spero di non aver finito l'acqua."
"Non c'è problema, in caso ne abbiamo dell'altra. Ho molti bidoni sul tetto dell'appartamento," Gustav sorrise per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. "Perché non ti siedi? Ti va una tazza di té? L'ho appena fatto."
"Sì, grazie." Bill si sedette al vecchio tavolo che i due dovevano aver risistemato a mano con vecchie assi di legno, inchiodate il meglio possibile. Gustav sembrava stranamente gentile, ma la cosa non lo metteva a disagio come il modo in cui Georg aveva preso a guardarlo. Come se non credesse alla sua esistenza. Il che, in effetti, era anche plausibile, lui per dire cominciava a dubitarne.
"Immagino che vorrai capirci qualcosa," stava dicendo Gustav, mentre scaldava l'acqua sul fornellino. "Riguardo alla città, intendo."
"Magari," sorrise il moro. "Ad esempio, che cosa sono tutte queste esplosioni?"
"La guerra civile," rispose Georg che continuava a scrutarlo di tanto in tanto ma per lo meno si era messo ad apparecchiare e questo rendeva la cosa un po' più sopportabile.
"Tra il governo e...?"
Gustav scosse la testa. "No, niente governo," rispose. "Sono i ghetti a farsi la guerra."
"Quanti sono?"
"Sei all'ultima conta, ma i confini diventano sempre più labili. C'è sempre qualcuno che vuole il potere per sé e tenta di farsi un regno per conto suo."
Bill aspettò che Gustav gli versasse il suo tè e strinse le mani intorno alla tazza per riscaldarsi un po'. "Ma è assurdo. E nessuno fa niente? Il Cancelliere che cosa dice?"
Gustav emise uno sbuffo. "Si vede che vieni da fuori," commentò bonario. "Qua non ci sono Cancellieri da almeno.... hum, Georg?"
"Saranno due secoli," annuì convinto il ragazzo. "L'ultimo fu eliminato con un colpo di stato e la città divisa in varie zone, ognuna affidata ad un Presidente diverso. E quello che vedi è il risultato."
"Guerra continua," commentò Bill. Non era un mago di storia, ma a questo tipo di meccaniche poteva arrivarci anche lui.
Gustav si strinse nelle spalle. "Più o meno. La maggior parte dei ghetti si è stabilizzata. Tempelhof e West Berlin invece no. E' da quando sono nato che questa guerra va avanti, non ho mai visto la città senza i bombardamenti."
"Quindi qui siamo a Tempelhof?" Chiese Bill.
Gustav annuì, mentre rovistava nell'unico armadietto presente alla ricerca di qualche biscotto.
Bill sorrise, in maniera un po' stupida e Georg gli domandò cosa c'era da sorridere. "Niente, una cosa sciocca," rispose. "Anis, il mio ragazzo, è di Tempelhof. La mia, intendo."
Gustav e Georg si scambiarono un'occhiata poi, prima che Bill potesse accorgersene o Georg potesse tirare un altro dei suoi magnifici Porco cazzo, Gustav prese la parola. "E la tua Tempelhof è molto diversa da questa?"
"Auto volanti e strade aeree a parte, no," ammise Bill. "Beh, magari un po' meno diroccata. Noi non siamo in guerra."
"Dev'essere un bel posto, allora," commentò Georg.
"Oh lo è. Berlino è un posto bellissimo da dove provengo io. E anche tutta la Germania," annuì Bill. "Voi perché rimanete? Magari potreste trovare un posto migliore in cui vivere."
"Magari, commentò Gustav, sedendosi finalmente con loro e portando con sè un vassoietto di vecchi biscotti secchi. "Ho soltanto questi, mi dispiace," si giustificò. "Ci piacerebbe andarcene, sai, ma non possiamo. I confini sono chiusi."
"I confini della città?"
"I confini del ghetto," lo corresse Georg. "Nessuno può entrare e nessuno può uscire da cinque anni a questa parte. Se vuoi passare la frontiera ti serve un foglio di via firmato dal Presidente in persona."
"E perché non provate a farvelo dare?"
"perché il Presidente è impazzito," tagliò corto Gustav, cambiando perfino umore. "Non concede più permessi, non concede niente di niente."
Nella stanza calò un silenzio peso, che sapeva di molti tentativi andati molto male. Bill nascose il viso nella sua tazza di té, aspettando pazientemente che quell'aria inopportuna si dissipasse. Fu Georg, qualche minuto dopo, a rompere il ghiaccio. "Non ti abbiamo ancora chiesto come ti chiami," disse.
Il moro sorrise. "Mi chiamo Bill."
Ancora una volta, i due si guardarono in maniera strana.

*


Erano le quattro del pomeriggio quando Bill era arrivato in quella Berlino parallela fatta di ghetti che si dichiaravano guerra tra loro. Durante il té, Gustav e Georg avevano raccontato gli ultmi dieci anni della storia di quella città sconosciuta, rivelandogli anche che si trattava del 2010: lo stesso anno, lo stesso mese e lo stesso giorni in cui Bill aveva vissuto prima di ritrovarsi lì.
Quindi, i due lo avevano tenuto ore e ore a raccontare la sua Berlino e la sua vita. Bill aveva parlato dei Tokio Hotel e dei loro due alterego. Gli aveva detto di Tom, di tutti i premi che avevano vinto e dei concerti che avevano fatto. Gli aveva detto di Anis, che gli mancava da morire e che probabilmente lo stava aspettando per cenare con lui quella sera. Durante tutto il racconto, i due lo avevano ascoltato in silenzio ma interessati; Bill aveva visto gli occhi di Georg farsi sempre più larghi ed increduli mentre Gustav si faceva più serio e perplesso, come se quelle cose avessero potuto interessarlo in prima persona.
Dopo tutto quel gran parlare, Bill era crollato esausto e Gustav gli aveva ceduto il letto, andando a dormire sull'unico divano sbrindellato davanti ad uno scatolotto nero che Bill aveva supposto essere la televisione, anche se non era ben sicuro che esistesse qualcosa come la televisione in quel posto.
La mattina dopo si era svegliato alla luce polverosa del sole che entrava dalla finestra e adesso era intento a inzuppare pane del giorno prima in un po' di latte scaldato sul fornellino.
"Mi dispiace poterti offrire soltanto questo," si scusò Gustav. "Sarai abituato a mangiare molto di più se sei una persona ricca e famosa."
Bill scosse la testa con un sorriso. "Oh non preoccuparti, va benissimo così," commentò. "Piuttosto, dovrei trovare un modo per tornare da dove sono venuto."
"A tal proposito," s'intromise Georg, che si stava strafogando esattamente come il Georg che Bill conosceva, "avremmo pensato una cosa."
"E sarebbe?"
Gustav sospirò. "Io e Georg pensavamo di tornare di nuovo al palazzo del Presidente, e chiedere il permesso di lasciare il ghetto."
"Non che speriamo di ottenerlo, ben inteso," s'intromise Georg. "Ci abbiamo già provato dodici volte e non è servito a niente, ma la speranza è l'ultima a morire."
"E dal momento che andiamo là, magari potresti venire con noi. Forse lì qualcuno ne sa qualcosa di questa tua città. E si dice che nel palazzo del Presidente ci siano dei maghi, magari loro possono aiutarti."
Bill si prese quei due minuti di tempo per riflettere, più per darsi un tono che per vera e propria necessità dal momento che non aveva molta scelta trovandosi nella sua situazione. "Il palazzo è molto lontano?" Chiese.
"No, non molto," rispose Gustav, "ma dovremo muoverci con cautela per via delle ronde, delle incuriosioni e dei bombardamenti."
"Questo sì che mi consola," commentò Bill con un sospiro.

*


Venne fuori che i ghetti di quella Berlino erano molto più grandi di quelli della città dalla quale Bill proveniva e che si estendevano per decine e decine di chilometri come vere e proprie città stato. "Come ci muoveremo?" Chiese il moro, mentre lasciavano l'appartamento.
Gustav si sistemò lo zaino sdrucito di pelle sulle spalle. "Raggiungiamo la stazione. Attendiamo uno dei tempi di ricarica dei mortai e prendiamo la monorotaia fino alla Piazza D'Armi. Da lì sono circa venti minuti a piedi."
Bill annuì convinto, non sapendo bene cos'altro fare.
Georg e Gustav lo condussero per l'intricato labirinto di stradine che costituiva quella parte di Tempelhof. Nonostante fossero molto in basso rispetto alle sopraelevate, il cielo si vedeva ancora ed era di un blu grigiastro, ma non triste e depresso come Bill si era aspettato di vederlo. La strada, stavolta, era piena di gente; di donne, soprattutto, con lunghi grembiuli bianchi sulle gonne ancora più lunghe. Bill le osservò attentamente perché ad una prima occhiata c'era qualcosa di strano in loro e poi si rese conto che erano tutte molto coperte. Anche quelle più giovani avevano le maniche lunghe e il colletto abbottonato.
E tutte ma proprio tutte, bimbe comprese, avevano la testa coperta; alcune da un velo, altre da un bonnet che lasciava scoperta solo la frangia.
Erano vestite come nel passato. Il suo passato.
Niente a che vedere con la moda del suo 2010, il che era decisamente qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da un luogo così tecnologicamente avanzato. O forse avrebbe dovuto, ne aveva degli esempi lampanti anche dal luogo in cui lui stesso proveniva.
Al loro passaggio, le ragazze si scostarono tutte di lato, la testa bassa. Solo quando toccò a lui attraversare la strada, alcune di loro sollevarono gli occhi e incontrarono i suoi. Sui loro visi, Bill trovò lo stesso sguardo che aveva visto su quello di Georg, il giorno prima.
"E' meglio se tiri su il cappuccio," lo avvisò Gustav. "Svelto."
Bill si affrettò ad obbedire e allungò il passo per raggiungere il biondo. "perché?" Chiese poi, incuriosito da tanta segretezza.
"Non ti hanno mai visto in giro e gli stranieri non sono visti di buon occhio," rispose Gustav, senza degnarlo di uno sguardo. "A Tempelhof entrano solo due tipi di persone: i tagliagole e gli uomini di Sido. E nessuna delle due categorie è la benvenuta."
Georg ridacchiò. "Qualcuno ti direbbe che la categoria è una sola, in effetti."
"Chi è Sido?" Chiese Bill mentre si immettevano sulla strada principale che ospitava il mercato. Lì la gente era molta di più e i venditori non facevano che urlarsi da una parte all'altra e chiamare le clienti che andavano in giro col paniere.
In realtà avrebbe voluto chiedere: Che cosa fa Sido qui da voi? Ma decise che non aveva alcun senso dimostrare nuovamente che conosceva ogni singolo nome. Tanto valeva fare finta di niente.
"Abbassa la voce," gli ordinò Georg, affiancandoglisi e guardandosi intorno con aria sospetta. Il ragazzo aspettò che fossero usciti dalla calca prima di riprendere il discorso. "Sido è il Presidente di West Berlin. E' salito al potere circa sei anni fa. Prima stavano a Tempelhof entrambi."
"Entrambi chi?"
"Lui e Fler."
Bill sgranò gli occhi e andò immediatamente contro la politica decisa due secondi prima. "C'è anche Fler?" Chiese.
Georg aprì bocca per rispodendere, ma Gustav lo anticipò, schiarendosi la gola per attirare la loro attenzione. "Signori, la monorotaia."

*


Georg fu spedito a recuperare i biglietti, mentre gli altri due aspettavano sull'unica banchina presente in stazione. Indicando la cartina appesa al muro, Gustav spiegò a Bill che la monorotaia si snodava per tutta Tempelhof, toccando tutte le zone principali.
Era il mezzo di trasporto più comune per chi non possedeva la macchina, cioè per chiunque venisse da quella parte del ghetto dalla quale provenivano loro.
"Le auto sono molto care?" Chiese Bill, mentre con il ditino ungulato seguiva la linea tortuosa della rotaia disegnata sulla carta.
"Non sono le macchine che costano, è il carburante. Tempelhof non lo produce, e dobbiamo comprarlo da fuori," rispose il biondo. "Ti lascio immaginare come West Berlin ci faciliti le operazioni di importazione."
Bill odiava parlare di economia, quindi lasciò cadere il discorso e ne riprese un altro che gli interessava molto di più. "Parlami un po' di questo vostro Presidente," disse infatti. "Com'è che è diventato pazzo."
Gustav si irrigidì. "Ha perso una persona alla quale teneva molto. Da quel momento non è più stato lo stesso."
Bill sbatté gli occhioni, improvvisamente partecipe di un dolore che non avrebbe dovuto toccarlo a quel modo. "E chi era?"
"E' una storia piuttosto lunga," commentò Gustav.
"Beh abbiamo tempo," Bill guardò l'orologio sul muro, che come al solito aveva più lancette del necessario. "Almeno credo. Che ore sono?"
"Sono le undici meno venti," rispose Gustav.
"E le altre due lancette?"
"Segnano l'ora approssimativa del prossimo bombardamento. Al quale per altro, manca pochissimo. Vieni, raggiungiamo un posto più sicuro."
I due recuperarono Georg e raggiunsero gli altri passeggeri, tutti stipati in una specie di bunker appena sotto la stazione. "Vi va di fare uno spuntino?" chiese Georg, spezzando un panino in tre parti e consegnandone un po' agli altri.
Il suono della prima esplosione li raggiunse mentre Bill addentava la sua parte. Nella stanza nessuno sembrò scosso dal rumore o dalle pareti del bunker che si mossero in maniera preoccupante. "Per voi questa è normale routine?"
"Oh, assolutamente sì," rispose Georg, con un tono quasi orgoglioso. "Una delle migliori, anche. Stanno bombardando a nord, dove ormai non c'è praticamente più niente."
"E quando si sposteranno?"
"Vedremo," rispose Gustav. E poi, quando Bill fece per tirarsi giù il cappuccio scosse la testa: "Tienilo su, c'è sempre troppa gente."
Ci fu il sibilo di un secondo sparo e poi di un terzo. Secondo la percezione di Bill gli schianti delle bombe si facevano sempre più vicini eppure nessuno stava avendo paura quanto lui. C'erano anche un paio di bambini, non più grandi di quattro o cinque anni, che giocavano a rincorrersi ridendo come se nulla stesse accadendo.
I bombardamenti andarono avanti per circa mezz'ora, proprio come Gustav aveva detto il giorno prima. Poi, lentamente, i sibili si fecero sempre meno frequenti, gli scoppi più diradati e infine calò il silenzio. La gente iniziò a sciamare all'esterno e un quarto d'ora più tardi, la monorotaia era al suo posto, pronta ad accogliere le centinaia di persone in attesa di partire.
Il treno era enorme e formato da forse quindici vagoni. All'interno però non c'erano nè sedili nè seggiolini, solo casse stivate lungo le pareti.
"Prima la Monorotaia la usavano solo per trasportare le merci," gli disse Gustav, leggendo la domanda sul suo viso. "Da quando hanno bombardato l'altra stazione, due anni fa, usiamo questa anche per muoverci."
Poi il biondo andò a sedersi in fondo al vagone sopra il proprio zaino. La monorotaia sussultò emettendo un cigolio sinistro, poi con uno sbuffo e uno stridio lancinante si mise in moto.
Bill raggiunse uno dei finestrini e si fece spazio tra la gente per osservare l'immensa distesa della città che si parava di fronte ai suoi occhi. Molti palazzi erano crollati, e dalle macerie invisibili salivano colonne di fumo nero. Sentì qualcuno gridare ed indicare ognuno di quei palazzi con un nome preciso. L'unico che lui conoscesse, la torre con l'orologio, era ancora in piedi, prepotentemente nera contro l'azzurro opaco del cielo.
Sospirò e si voltò, appoggiandosi di schiena contro il vetro. Tirò fuori il cellulare dalla tasca anteriore dei pantaloni, controllando il display per la milionesima volta. La batteria era carica, ma ovviamente non c'era segnale. Ovunque fosse finito, non era il suo mondo - questo era chiaro - quindi era normale che il suo gestore telefonico non captasse proprio un bel niente. Emise un altro sospiro affranto. Se aveva fatto bene i conti, e c'erano buone probabilità che li avesse sbagliati, erano passate più di 32 ore dall'ultima volta che era stato a casa.
Provò ad immaginare che cosa dovesse essere successo quando Bushido non lo aveva visto arrivare all'ora prestabilita. Probabilmente aveva chiamato Tom per sapere dov'era e quando si erano accorti di non sapere niente in due, Anis aveva probabilmente spedito la crew a cercarlo in ogni luogo possibile.
Bill era certo che il suo compagno si fosse arrabbiato quando i ragazzi erano tornati a mani vuote: aveva la tendenza a sfogarsi su di loro quando era particolarmente preoccupato e doveva esserlo se lui era sparito nel nulla. Immaginò le loro facce mentre borbottavano fra di loro che la Principessa era sparita. Sorrise a quel soprannome che di solito lo faceva irritare ma che adesso - lontano da chi lo pronunciava - sembrava la cosa più bella del mondo. Con una fitta di nostalgia, aprì la cartella delle immagini e guardò le foto una per una. C'erano quasi tutti, là sopra, così gli sembrava di essere un po' a casa.
Anis aveva un album tutto per sé, come suo fratello Tomi e i Tokio Hotel. Poi c'erano gli amici, con un milione di foto di Andi, e quelle della crew - principalmente Kay One, Eko e Chakuza perché gli altri a farsi fotografare dal fidanzato effeminato di Bushido non ci tenevano proprio.
"Nostalgia di casa?" Gli chiese dolcemente Georg, accosciandosi di fronte a lui.
Bill annuì, chiudendo di scatto il telefono. "Un po'," si strinse nelle spalle. "Ma credo sia normale, no? Non so neanche quanto disto da casa!"
"Immagino parecchio," ragionò Georg. "E dimmi, in questa tua Germania che tipo sono io? Voglio dire, sono figo...?"
Bill ridacchiò divertito. "Beh, diciamo che te la cavi," rispose diplomatico. "Sei un buon avversario per mio fratello."
"Siamo amici?"
"Tu e Tom? Assolutamente sì," sorrise Bill. "Passate un sacco di tempo insieme e vi divertite a fare scherzi idioti. Siete due imbecilli, fondamentalmente."
Georg sorrise. "Incredibile. Io e Tom amici," mormorò. "Non potrebbe mai succedere qui. Lui è lassù e io sono tipo... beh, qui. Sarebbe una cosa fighissima, però."
Bill smise immediatamente di ridere. "C'è un Tom anche qui?" Esclamò, rendendosi improvvisamente conto che era perfettamente logico che ci fosse. Se esistevano un altro Georg, un altro Gustav e un Sido e un Fler nuovi di zecca. perché non un Tom?
Fu lì che si rese conto che se c'era tutta questa gente, allora forse c'era anche lui.
"Ecco... magari ne parliamo un'altra volta, va bene?" Balbettò Georg, alzandosi immediatamente in piedi.
"Aspetta! C'è un Tom anche qui?" Chiese, ma non fece in tempo a fare due passi che il treno dette un enorme scossone e lui si schiantò violentemente contro Georg, che lo prese al volo solo per riflesso. L'esplosione fu contemporanea, ma per qualche motivo, le sue orecchie la percepirono un secondo più tardi. Georg si gettò in terra all'istante, portandoselo dietro e coprendolo istintivamente col proprio corpo mentre tutti, chi più chi meno, facevano lo stesso.
"Non dovevamo essere fuori dai bombardamenti?" Chiese Bill, con una punta di isteria che gli venava la voce già tremula.
"Infatti," sibilò Georg tra i denti, cercando una causa fuori dal finestrino. Per qualche secondo ci fu silenzio, poi cominciarono i mormorii e i pianti dei bimbi. Georg lo tirò su quasi di peso, sempre guardandosi intorno in maniera circospetta. "Dobbiamo uscire di qui," sussurrò, incontrando lo sguardo di Gustav. Si fecero un cenno. "Comincia a muoverti verso il fondo del treno."
Bill non capiva, ma fece come gli era stato detto. Avanzò tra la folla e raggiunse la porta interna del vagone che dava su quello precedente, seguito da Georg e Gustav subito dietro. "Che cosa sta succedendo?" Chiese in un mormorio, senza azzardarsi a guardare alle proprie spalle.
I due non risposero. Continuarono a spingerlo con una certa premura. Bill chiese di nuovo, più forte e, quando non ottenne risposta per la seconda volta, si bloccò tra le porte di due vagoni e si voltò di scatto, impedendo loro di proseguire oltre. "E va bene, adesso basta. Si può sapere che succede?" Chiese imbestialito. "Che cos'era quell'esplosione? Perché il treno si è fermato? perché stiamo andando a ritroso?"
Gustav aprì bocca per rispondergli, ma non ebbe il tempo. Una seconda esplosione fece saltare in aria il vagone dove si trovavano prima. E un terza devastò quello che lo precedeva. "CORRI!" Gridò spingendolo con forza.
Bill questa volta non discusse. Si voltò e prese a correre, tra la gente che ancora non capiva cosa stesse succedendo ed era ancora tutta in terra, con le mani a proteggersi la testa. "Che cosa succederà quando arriveremo alla fine?" Sbraitò, voltandosi a scorgere il fumo nero che proveniva dalle altre carrozze e che scuriva i finestrini.
"Salteremo!" Replicò Gustav, che chiudeva la fila.
"E' una fottuta città aerea!" Sibilò Bill di rimando, passando a forza tra le persone e aprendosi la strada con gomiti e ginocchia.
Sentì Georg ridere alle sue spalle. "La Principessa non dice parolacce!" Poi si schiantarono entrambi contro l'ultima porta. Che era chiusa. "Cazzo, è chiusa! E adesso?"
"Che cos'hai detto?" Scattò subito il moro, con gli occhi sgranati.
"Ho detto che è chiusa!"
"No, l'altra cosa!"
Georg divenne rosso, ma Gustav fu più svelto di lui. Li superò entrambi, scostando Bill da Georg quasi violentamente. "Vi dispiace? Una serie di esplosioni a catena sta devastando il treno alle nostre spalle!" Li riprese entrambi e poi scalzò con un coltellino la placca di ferro che copriva il pannello di comando della porta.
"Gusti, sbrigati," mormorò Georg che fissava con orrore la fiammata roboante farsi strada verso di loro.
"Ci sto provando."
Il biondo tagliò via due cavi e li spellò velocemente con la lama del coltello, quindi se la infilò in bocca per traverso e prese a fare scintille, come certi ladri d'auto con i fili d'accensione.
"Gustav..." mormorò Bill.
Dal biondo arrivò un mugolio contrariato, l'ennesima scintilla e infine un calcio ben assestato. La porta emise uno sbuffo d'aria compressa e infine si aprì di scatto, sbattendo un paio di volte prima di spalancarsi del tutto. "Fuori! Fuori! Fuori!"
Gustav gettò praticamente Bill fuori dal portellone. Bill gridò, convinto che sarebbe caduto, per poi rendersi conto che avevano superato una stazione prima di fermarsi, e qualche centimetro di banchina era ancora a portata di mano. Si gettò alla cieca, cadendo in terra non appena mise i piedi su i mattoni e spostandosi in tempo per non farsi schiacciare da Georg, sceso subito dopo di lui. "Correte!" Urlò Gustav, alle sue spalle.
Bill obbedì ma qualcosa colpì la sua attenzione dopo soli due metri. Sentì Georg che lo superava, urlandogli di muoversi ma si fermò lo stesso. Sul tetto dell'ultimo vagone c'era qualcuno completamente vestito di nero e accucciato sul bordo, pronto a calarsi con un discensore. Quando si voltò, Bill incrociò lo sguardo di due occhi così azzurri da togliere il fiato e pensò che li aveva già visti a qualche parte. Lo sconosciuto sembrò pensare la stessa cosa, perché ebbe un sussulto. Fu solo un istante, ma Bill fu sicuro di vederlo, poi l'uomo si gettò nel vuoto e Bill rimase quasi incantato a fissare il volteggiare della corda che si srotolava ad una velocità impressionante. Dove aveva già visto quegli occhi?
"Bill!" Gustav lo afferrò un secondo prima dell'esplosione.
Bill sentì la vampata di calore prima della spinta dell'aria, che fu quasi fisica, come una potente folata di vento che riuscì a sollevarli da terra. Sentì le braccia di Gustav stringersi intorno al suo corpo e poi l'esplosione che gli tolse l'udito. Vide il treno a pezzi e poi calò il buio.

*


Quando Bill si svegliò, la prima cosa che vide fu la meraviglia di un lucernario aperto sulla distesa bluastra di una notte piena di stelle.
A dire il vero all'inizio non capì che si trattava di un soffitto trasparente, né capì di essersi svegliato. Fu come riapre gli occhi un attimo dopo che la bomba era esplosa ma non trovò affatto la monorotaia in fiamme e la stazione aerea come si aspettava, bensì una stanza enorme e ben arredata, di cui non riusciva a vedere tutto perché un armadio gigantesco, di un nero lucido e laccato, la divideva a metà, impedendogli la visuale.
Bill era disteso su un letto che aveva le lenzuola più morbide che avesse mai visto, più morbide perfino di quelle in casa di Anis che se le faceva arrivare a posta da un qualche microscopico paese indiano, famoso per la seta finissima che costava un occhio della testa. E il letto era posto direttamente sotto il lucernario, così che la luce della luna, filtrando attraverso il vetro scendesse a pioggia in tutta la stanza. Bill si chiese vagamente come si potesse non svegliarsi alle prime luci dell'alba, ma poi accantonò il pensiero, incuriosito da quel luogo nuovo.
Scivolò fuori dal letto, scoprendo di indossare un pigiama color panna dal taglio stranissimo. La lunghezza delle gambe era asimmetrica: la sinistra gli cadeva perfetta, mentre l'altra era tagliata per arrivargli appena sotto al ginocchio e la maglia, che aveva uno scollo triangolare e spostato verso destra, aveva maniche a campana che partivano dal gomito per poi slargarsi fino alle mani. Chiunque fosse lo stilista era sicuramente sotto l'effetto di droghe pesanti e, tuttavia, avrebbe fatto una fortuna nel suo mondo.
Non c'erano scarpe ad attenderlo fuori dalle coperte, ma il pavimento era ricoperto di legno e camminarci sopra scalzo era piacevole. Come scoprì qualche secondo più tardi, la stanza era rotonda e l'armadio la divideva in due metà perfette. La parte da cui proveniva era una specie di stanza da letto, con una bella toeletta dall'aspetto antico e uno specchio dalla cornice in ferro battuto. Dall'altra parte, invece, Bill trovò una specie di studiolo, arredato in maniera altrettanto curata. C'erano divanetti morbidi e un basso tavolino da té. Una scrivania riordinata di tutto punto e una libreria piena fino a traboccare di vecchi libri e pergamene arrotolate. Quello che catturò la sua attenzione però, fu la parete bombata che era fatta di vetro e che si affacciava sul bellissimo vuoto della città aerea.
La raggiunse e vi appoggiò le mani e il naso, osservando Berlino distesa ai suoi piedi. La torre dell'orologio non era che a qualche metro da lui e intorno ad essa centinaia e centinaia di palazzi che spuntavano dal vuoto, circondati dallo snodarsi sinuoso delle strade.
Era così preso da quella vista mozzafiato che l'ennesima voce familiare lo colse assolutamente di sorpresa, facendolo trasalire. "Sei sveglio!"
Sussultò, voltandosi di scatto e il suo cervello ci mise qualche secondo a registrare il viso, gli occhi e i dreads biondi di suo fratello. "Tom!" Esclamò, quasi più felice di quanto pensava di poter essere. Gli gettò le braccia al collo, nascondendogli il viso nel petto. "Dio, quanto mi sei mancato."
Il biondo sorrise, accarezzandogli la schiena. "Anche tu. Pensavo di averti perso," gli sospirò nei capelli. "... per sempre."
Solo allora Bill ricordò com'erano andate le cose, che si era trovato in quel posto senza sapere come, che quello non era il suo mondo. E quel Tom non era il suo Tom.
Anche la divisa che indossava ne era un chiaro segno. Innanzi tutto Tom non avrebbe mai indossato qualcosa che fosse della sua taglia, anzi che gli calzasse a pennello come quella marsina blu, così scura da sembrare nera. Gli ampi pantaloni dello stesso colore erano infilati dentro gli anfibi e c'erano dei gradi sulle sue spalle, anche se Bill non avrebbe saputo riconoscerli dal momento che non s'intendeva di eserciti e di marina. O di aviazione. Qualunque cosa fosse, insomma. I suoi dreads erano legati come al solito però.
Si scostò un po', senza riuscirci veramente: la mancanza di suo fratello era tanto forte che poteva accontentarsi della sua copia, per il momento. "T...Tom, io... ci sono cose che devo spiegare," espirò piano, anche se non aveva idea di cosa potesse dire esattamente. "Non sono chi pensi che io sia."
Tom si limitò a sorridere e a guardarlo con amore. "Non c'è fretta, Bill," disse dolcemente, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio. "Ci sarà tempo più tardi per le spiegazioni. Ora devi riposarti e rimetterti in sesto. Non vedono l'ora di vederti, tutti quanti."
Tom lo condusse nella stanza da letto, spingendolo gentilmente alla base della schiena. Bill lo seguì solo perché non fece in tempo a fare nient'altro.
"Come ti senti?" Chiese il biondo.
"Bene," si ritrovò ad ammettere Bill. "Anche se non so perché sono qui."
"Ti abbiamo trovato tra le macerie della stazione Sud," rispose Tom, accompagnandolo fino al letto e facendocelo sedere sopra. "Io e la mia squadra siamo arrivati sul posto dieci minuti dopo lo scoppio delle bombe ma non c'era traccia dei responsabili."
"Ma non ero da solo!" Realizzò all'improvviso Bill. "C'erano Gus...due ragazzi con me! Uno alto e castano e l'altro piccolo e biondo."
Tom annuì. "Georg Listing e Gustav Schäfer, stanno bene. Entrambi miracolosamente illesi. Come te, per fortuna."
Bill tirò un sospiro di sollievo. "Dove sono adesso?"
"Nella sala delle udienze. Sono mesi che chiedono un permesso per lasciare Tempelhof e credo che questa volta il Presidente glielo concederà. Non appena gli avremo detto che sei qui, naturalmente."
"Posso vederli?"
Tom sorrise e gli accarezzò la testa. "Non dire sciocchezze," mormorò, scuotendo la testa. "Non sono che due poveri disperati dei livelli inferiori. E tu devi mangiare per rimetterti in forze."
"Ma Tomi..." protestò Bill, alzandosi in piedi. "Sono stati loro a recuperarmi e a portarmi in salvo, dovrò almeno ringraziarli!"
"Faremo avere loro la tua gratitudine a mezzo di un servo," annuì Tom. Poi estrasse dalla tasca dei pantaloni un vecchio orologio a cipolla e controllò l'ora, accigliandosi. "E' tardi, mi aspettano altrove."
Fece per dirigersi verso la porta, ma Bill lo fermò. "Tomi aspetta. Io... devo parlarti, davvero! Non è il mio mondo questo!" Buttò lì disperato. "Non so... non so nemmeno dove mi trovo adesso!"
"Sei nel Palazzo Presidenziale, e questa è la tua stanza personale." Tom gli dedicò uno dei suoi sorrisi migliori e tornò indietro per baciarlo in fronte. "Sei solo un po' confuso, fratellino. Tutto qui. E' normale: hai battuto la testa a causa dell'esplosione. David aveva previsto un po' di amnesia. Vedrai che ti rimetterai presto."
"Che cos'è David in questo mondo?"
"Beh, quello che è sempre stato direi," ridacchiò Tom. "Il nostro alchimista."
Bill aprì la bocca per dire qualcosa, ma questo era davvero troppo per trovare una risposta sensata. "Il nostro... alchimista?" Balbettò.
"Ora devo proprio andare," Tom si avviò verso la porta e si fermò un secondo prima di superarla, solo per dirgli: "Manderò un servo con il pranzo. E-"
"Tom, davvero, io..."
"Tu non devi preoccuparti. C'è qualcuno che si occuperà di te, sei a casa ora."

*


La serva che si era presentata in camera qualche minuto dopo era vestita esattamente come le donne che aveva visto. Aveva bussato e atteso che le desse il permesso di entrare quindi, senza dire una parola o alzare lo sguardo, aveva appoggiato il pranzo sul tavolo ed era uscita, augurando un Che gli Dei Riuniti vi benedicano, Luce di Tempelhof.
Bill era rimasto vagamente sconvolto, ma anche molto lusingato. Nonostante la sua tragica situazione di disperso in un mondo parallelo, il suo enorme ego non aveva potuto fare a meno di sentirsi enormemente compiaciuto per tutta quella adorazione. "Luce di Tempelhof," aveva mormorato tra sé, mordendosi un labbro. "Chissà poi che cosa significa."
Il vassoio era pieno di cibo e lui aveva mangiato soltanto un pezzo di pane e del tè in più di ventiquattro ore, quindi aveva ripulito tutto con grande gioia.
Adesso che il vassoio era vuoto, però, non sapeva bene cosa dovesse fare. Decise che non poteva rimanere in quella stanza ad aspettare chissà cosa. Doveva vestirsi e trovare Tom o David, magari! Sempre che non fosse impegnato a trasformare il piombo in oro...
Ridacchiò mentre faceva scorrere in orizzontale la porta dell'armadio. All'interno vi trovò tanti di quei vestiti da far impallidire il suo vero armadio di Berlino.
Una persona normale avrebbe afferrato il primo vestito plausibile e sarebbe uscito da quella stanza, ma lui era Bill Kaulitz e non usciva col primo straccio che si trovava sotto mano. Neanche se si trovava in un palazzo sconosciuto, con persone sconosciute, in un mondo che non era il suo e che non aveva idea di come abbandonare per tornare dalla sua gente.
Così cominciò a tirare fuori pantaloni e maglie una dietro l'altra e a stenderle sull'enorme letto alle sue spalle, con aria critica. Alla fine, scelse un paio di pantaloni neri e aderenti, fatti di un materiale lucido che sembrava pelle ma non lo era; e una maglia alquanto strana, che però era la meno peggio tra tutte le altre. Aveva lo scollo a barca e le maniche corte, composte da due quadrati di stoffa sottile appena cuciti tra loro, che sfarfallavano ogni volta che si muoveva. Si guardò allo specchio, trovandosi bizzarro ma presentabile.
Fu allora che bussarono alla porta in modo particolare. La serva aveva battuto due colpi ed era poi rimasta in silenzio, in attesa del suo comando. Qui i colpi erano stati quattro, in successione secondo un certo ritmo che sapeva di già sentito.
"Avanti," mormorò il ragazzo, risistemandosi i capelli.
Doveva ammettere che a questo punto era curioso di sapere chi sarebbe entrato da quella porta. Provò mentalmente a prevedere il viso che sarebbe apparso da lì a qualche istante: Anis? Sua Madre? ... Andi?
"Chakuza?" Esclamò, sgranando gli occhi.
L'uomo sembrava sconvolto tanto quanto lui. "Sei davvero tu..." sussurrò, venendo avanti con tanta veemenza che Bill quasi si fece indietro. "Non ci credo." Si fermò a qualche centimetro da lui, sfiorandolo senza toccarlo. "Sei proprio tu?"
"Più o meno," mormorò il moro, con un mezzo sorriso incerto, mentre seguiva con lo sguardo Peter che gli girava intorno incredulo.
Aveva abiti strani, anche lui, decisamente pittoreschi. I pantaloni erano simili a quelli di Tom, ma neri e arabescati. Chakuza non indossava marsina, aveva solo un maglioncino a collo alto senza le maniche. Era chiaro che lui e Tom avessero ruoli diversi.
"Tu non capisci!" Esclamò l'uomo. Allungò di nuovo una mano verso di lui, ma la ritrasse e se la passò sulla bocca senza mai staccare gli occhi da lui. "Credevamo... credevo," espirò e scosse la testa. "Quando Tom me lo ha detto non c'ho creduto."
"In quanto a questo, in effetti..."
"E Lui l'ha appena saputo," commentò ancora Chakuza, scuotendo la testa. "Vuole vederti, e dobbiamo andarci subito o darà nuovamente di matto."
"Lui chi?"
"Il Presidente, Bill," sbuffò l'uomo. Afferrò una mantella tra gli abiti appoggiati sul letto e ce lo avvolse, di fretta. "Questa andrà bene, adesso andiamo."
Bill lo seguì, come aveva seguito tutti gli altri, incerto e confuso. "Chaku?" Chiese quando, dopo quindici metri di corridoio, l'uomo continuò a stargli dietro di tre passi. "Devi proprio starmi alle spalle?"
"E' la procedura," mormorò Chakuza. "Credimi, la eviterei se potessi."
"Ma io non so dove sto andando," commentò Bill.
Chakuza si fermò. "Oh," commentò. "Oh! L'amnesia, certo. Tom me lo ha detto. Per di qua, faccio strada."
"Non è amnesia. Io non ho mai vissuto qui."
"E stato confusionale," concluse Chakuza. "David ci aveva avvertiti anche di questo; ma non preoccuparti, si risolverà tutto. Io sono qua apposta, per accompagnarti ovunque. L'ho sempre fatto, d'altronde."
Ripresero a camminare. "E' questo il tuo compito qui? Accompagnarmi?"
"Sono consigliere del Presidente, carpentiere e tuo... campione."
Bill ci rimuginò sopra per almeno due rampe di scale prima di chiedere: "E cosa diavolo fa un campione, esattamente?"
Chakuza gonfiò le guance, mentre valutava la situazione. "In tempo di pace, quasi niente. In tempo di guerra, come questo, sono la tua protezione in assenza del Presidente," spiegò.
Bill sollevò un sopracciglio. "Una specie di Lancillotto?"
La risata di Chakuza fu piena e sincera, del tutto simile a quella che Bill era abituato a sentire. Cominciava a cogliere tutti quei minuscoli dettagli che si ripetevano identici a distanza di chissà quante dimensioni e a custodirli, perché erano le uniche schegge di casa che aveva al momento. "Direi esattamente come Lancillotto," confermò l'uomo, mentre svoltavano nell'ennesimo corridoio. "Sai, è strano doverti dire queste cose, voglio dire: le sai già."
"Siamo amici?"
Il sorriso di Peter si fece più caldo. "Ti verrà in mente," disse.
Bill emise un profondo respiro frustrato, qualcuno lo avrebbe mai fatto parlare?
"Ad ogni modo, eccoci qua," disse l'uomo, fermandosi di fronte ad una porta scura, con una grossa testa di leone incisa proprio nel mezzo. "Lui è qui dentro."
Bill annuì, aspettando ulteriori istruzioni che non tardarono ad arrivare. "Entrerai da solo, lo saluterai come si conviene e lascerai che ti guardi. Deve riconoscerti, dagliene il tempo."
"D'accordo."
"Rimani a distanza, non ti avvicinare finché lui non te lo dirà. Diventa violento, a volte," continuò Chakuza, con la faccia seria. "Qualunque domanda ti faccia, qualunque cosa ti chieda, dagli una risposta chiara e concisa. Non mentire, potresti pentirtene poi."
Bill iniziava a preoccuparsi. "No, ascolta: aspetta un secondo," lo fermò alzando un braccio. "Sembra pericoloso e, da quanto ne so, quell'uomo è pazzo. Io non entro lì dentro senza una protezione."
"Bill, sai che non c'è alternativa."
"L'alternativa c'è: rimango fuori," s'intestardì.
Chaku sospirò, come dovesse spiegare una cosa ovvia ad un bambino. "Sei la Luce di Tempelhof, Bill," esclamò, come se quella fosse la risposta per ogni cosa. Poi cercò di sorridergli rassicurante. "Non ti succederà niente," esclamò, questa volta allungando una mano e accarezzandogli la guancia. "E poi io sarò qua fuori, per qualsiasi cosa."
Bill rimase immobile, sotto le dita dell'uomo che sembravano conoscere il suo viso molto bene. Percepì brividi non suoi sotto la pelle e dovette scuotere la testa per ritornare presente a se stesso.

*


Quando vi entrò, Bill scoprì che la stanza era immensa. La luna, attraverso le tre finestre, non riusciva ad illuminare che una parte del pavimento di marmo. Tutto il resto era avvolto in un'ombra scura e pastosa nella quale il ragazzo non riusciva a distinguere assolutamente niente. Fece solo qualche passo e poi si fermò a fissare Berlino - bellissima e aerea - aldilà dei vetri. Sapeva di trovarsi più in alto rispetto alla stanza in cui si era svegliato. Le punte dei palazzi sembravano così lontane.
"Vieni avanti."
La voce fu come una stilettata. Uno di quei momenti chiave nei film, in cui mille immagini si sommano insieme ad uno schiocco di dita, o al tintinnio di un campanello. Bill rivisse gli ultimi due giorni in una sequenza di fotogrammi. Berlino. Gustav. Georg. Tom. Chakuza. Il Presidente. Si rese conto che non aveva mai pensato veramente a chi fosse quest'uomo, a chi potesse essere. Aveva dato per scontato che non potesse essere la copia di qualcuno che già conosceva, eppure era così palese. Così incredibilmente facile.
Il Presidente del Ghetto non poteva che essere Anis.
Strinse i pugni e deglutì, iniziando a camminare lentamente. Mano a mano che avanzava, il resto della stanza si faceva vagamente più nitido mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità. C'era una poltrona, a qualche metro da lui. Due lunghe gambe distese pigramente e solo il profilo di una mano sul bracciolo. Bill deglutì di nuovo e fece un altro passo, finché il volto di Anis non comparve dall'ombra e gli mozzò il fiato in gola. I lineamenti erano indubbiamente quelli squadrati e spigolosi del viso che conosceva, ma gli occhi erano più scuri. Più tristi e senza dubbio più cattivi. Fece un passo avanti, poi si ricordò le parole di Chakuza e rimase dov'era. "... Anis," pronunciò incerto.
L'uomo sembrò non reagire. "Continua a parlare," disse.
Bill si strinse nelle spalle. "Non so che cosa dire," ammise, rendendosi conto, ora che aveva la parola, che non aveva idea di come spiegare un bel niente. Non quando gli era stato detto di avere davanti una persona probabilmente violenta, tra l'altro.
"Qualunque cosa, voglio sentirti parlare," insistete l'uomo, entrambe le braccia a riposo e lo sguardo fisso su di lui.
"Io..." Bill inspirò profondamente. "... io non sono chi crede che io sia. Ci assomiglio soltanto."
L'uomo rimase in silenzio, così Bill continuò: "Non ho idea di come io sia finito qui. Un attimo prima ero... da un'altra parte, e l'attimo dopo ero qui. Non so cosa sia successo, ma non sono io la persona che ha perso."
Bushido si alzò di scatto, tanto che Bill fece un passo indietro e continuò ad arretrare quando l'uomo si fece ancora più avanti. Si fermò solo quando la luce della luna li illuminò entrambi e allora il viso dell'uomo fu così visibile, che non ci fu nient'altro da pensare se non che era esattamente quello che conosceva. E non sembrava volergli fare del male, nonostante quella durezza così strana nei suoi occhi. Esitò. Perché sembrava lui, come lui doveva sembrare Bill ai suoi occhi. "...Anis."
"... Sei tornato," fu tutto ciò che disse l'uomo, prima di chinarsi a baciarlo.
Il cervello di Bill pensò che non era giusto permetterglielo. Il cervello di Bill pensò anche che non vedeva Anis da giorni e che quello, in fondo, era Anis. Quando dischiuse le labbra e permise al Presidente di baciarlo, si giustificò dicendo che non avrebbe potuto fare altrimenti e poi si sciolse, perché erano le labbra di Anis. Erano come le sue.
Il bacio fu lungo, lento e dolce e Bill quasi decise che non gli importava niente di dove si trovasse, perché alla fine non c'era un altro posto migliore delle braccia di Bushido. Qualunque Bushido fosse. "Pensavo che non ti avrei più rivisto," sospirò l'uomo.
Fu a quelle parole, le parole di tutti, che Bill si risvegliò e si scostò gentilmente. "Io credo che dovremmo parlare," disse.
"Sì, dovrai dirmi le cose che hai fatto e dove sei stato," annuì il Presidente. "Dove ti hanno tenuto."
"Da nessuna parte, io.. non sono-"
"In te, lo so," L'uomo annuì di nuovo e se lo strinse addosso. E come a casa, Bill non era capace di scappare molto a lungo a quell'abbraccio. "Domattina, come prima cosa, ti farai visitare da David e poi decideremo il da farsi."
A Bill non rimase che annuire.

*


La mattina dopo, Chakuza venne a prenderlo ad un'ora quasi indecente.
Bussò nel solito modo e poi entrò, prima ancora che gli dicesse di farlo. Bill avrebbe dovuto ragionare sul significato intrinseco di un'azione simile, ma era troppo impegnato a provare allo specchio il discorso da fare al falso-Anis per potersene preoccupare a dovere.
Chakuza lo trovò che blaterava di fronte alla propria immagine, con addosso un altro vestito, ancora più assurdo del giorno precedente. A parte i pantaloni, sempre più aderenti, la maglia gli arrivava sotto il sedere e aveva maniche ben più lunghe, che non gli avevano reso per niente facile il compito di truccarsi, quella mattina.
"Buongiorno, Principessa."
Bill si voltò e fece un mezzo sorriso. "Ciao Peter." L'uomo sussultò leggermente, Bill sollevò un sopracciglio. "Non ti chiami così?"
Chakuza annuì. "Era da tanto che non ti sentivo pronunciare il mio nome."
A Bill non sfuggì la nota d'affetto nelle sue parole e si sentì inspiegabilmente a disagio. "Già," mormorò, non sapendo cos'altro dire.
Dopo qualche istante di silenzio, Chakuza si decise a darsi una mossa. "D'accordo, siamo già in ritardo. Sei atteso nello studio di David e ti assicuro che non è mai una buona idea farlo aspettare." Sorrise e quando Bill non accennò a muoversi, sospirò. "Devi precedermi."
Bill alzò gli occhi al cielo. "Ancora. Non so dove andare!"
"A diritto nel corridoio, su per la rampa di scale, seconda porta a destra, prima a sinistra e oltre il giardino sospeso."
"Cosa?"
Chakuza sorrise. "Te lo ripeto mentre andiamo."

*


Bill era abituato ad un solo David: quello piccolo e magro che si vestiva come un ragazzino di quindici anni pur avendone trentasette. Il David che per quattro anni della sua vita era stato una specie di secondo - anzi terzo - padre e che aveva aiutato lui, suo fratello e i suoi due migliori amici a sfondare nel mondo della musica. Lo stesso David che un anno prima si era accollato l'onere di coprire, pubblicizzare ed infine proteggere la relazione con l'uomo più importante della sua vita.
Quello che aveva davanti adesso non era niente di tutto questo. Era un certo tipo di David, sicuramente, ma non il suo. In qualche cosa ci assomigliava, era piccolo e magro per esempio. E aveva gli occhioni azzurri e la faccia del suo manager, quello sì.
Per tutto il resto, però, era un'altra persona.
Innanzi tutto era vestito in maniera indecente, Bill davvero faticava a rimanere serio. I pantaloni erano i soliti pantaloni a sbuffo, ma aveva una palandrana blu scura, lunghissima, che gli strisciava dietro la schiena come un mantello. Poi aveva un cappello, floscio, che gli pendeva giù lungo fino a metà schiena. E portava gli occhiali, al posto dei quali il suo David avrebbe preferito la morte. Inoltre, e qui stava il bello, il David in questione - di qualunque benedetto mondo fosse - era immerso fino alla cintura dentro un macchinario di cui, francamente, Bill ignorava il funzionamento e sbraitava anatemi contro viti e bulloni.
Bill era molto perplesso sulla porta dello studio dell'alchimista. Chakuza lo superò, chiedendo compitamente permesso e aspettando che si spostasse prima di passare. "Signor Jost?" Chiamò incerto, avvicinandosi al macchinario, ma non troppo.
"Chi è?" Chiese lui da dentro.
"Chakuza, signore" l'uomo attese, le mani dietro la schiena ma non arrivò risposta, quindi si schiarì la voce con un colpetto di tosse molto discreto. "Le ho... le ho portato la Principessa, signore."
A quelle parole, l'uomo salta fuori dal macchinario rotondo. "Cosa? Di già? E' già sveglio?"
Chakuza annuì, facendosi di lato per indicare la figurina minuta di Bill, ancora sulla porta. "Come può vedere sembra in salute ma il Presidente ha ordinato una visita. Ha un po' di amnesia, signore, come avevate -"
"Sì, sì, ragazzo, non ripetermi quello che ho detto, non sono mica un cretino," bofonchiò l'alchimista, issandosi fuori dal marchingegno. "Piuttosto, non eri carpentiere, tu, prima di entrare a far parte di questo manicomio?"
"Mastro meccanico, signore."
"Quello che è," gli lanciò una chiave inglese mentre scendeva la scaletta sulla fiancata del macchinario. "Vedi che cos'ha questo trabiccolo, si è bloccato di nuovo. Credo sia la leva del cambio. O lo spinterogeno. E' sempre lo spinterogeno."
Chakuza scosse la testa sorridendo, quindi salì agile le scalette e sparì all'interno nella cassa rotonda e metallica di quell'affare. Bill lo seguì con lo sguardo finché nel suo campo visivo non apparve, a sorpresa, il sorriso tirato di David. "In quanto a te," stava dicendo. "Vediamo quali danni hai riportato."
"A dire il vero signor... alchimista," a Bill suonava strano chiamarlo David. "Io sto bene, anzi direi benissimo. Il problema è un altro."
"Si, all'esterno ma la confusione sta all'interno," commentò l'uomo, avvicinandosi. "L'ultima volta era tutto un labirinto di organi. Povero topo."
"Topo?" La voce di Bill si alzò di un'ottava mentre si spostava lentamente, man mano che David si faceva più vicino.
"Non penserai mica che abbia cominciato con te?" Esclamò l'alchimista, anche un po' oltraggiato. "Comunque è pur vero che il piccolo incidente con gli organi interni può esser riconducibile alla natura di topo del topo. Capisci?"
Bill lo guardò, la fronte aggrottata a metà tra la pietà e la paura di fronte al pazzo schizoide. Lanciò un'occhiata a sinistra, nella speranza di poter chiedere aiuto a Chakuza ma quello fischiettava - fischiettava! - e faceva Dio solo sapeva cosa in quella specie di bollitore gigante. "Senta, io sto bene, d'accordo. Niente... niente cuore a destra o cose simili. Davvero," si batté una mano sul petto. "Visto? Il problema è che questo non è il mio mondo."
"Lo so, ti ho portato io qui," esclamò candido David. "Che discorsi... forza, siediti sul lettino."
Bill rimase così sconvolto dalla risposta che obbedì senza fiatare e lo seguì fino ad un angolo del laboratorio dov'era allestito un piccolo studio medico, con tanto di lettino e dispositivi di diagnosi. David lasciò che si sedesse e tirò la tenda che, una volta chiusa, avrebbe isolato il piccolo spazio. "Togliti la maglietta, per favore," chiese, recuperando un piccolo attrezzo di ferro con due inquietanti lucette lampeggianti, rosa e azzura, in cima.
"Che cos'è?" Chiese subito Bill.
David non rispose e si limitò a farglielo scorrere addosso. Era gelido e al contatto con la pelle di Bill emetteva un ronzio basso e costante. Rimase in silenzio anche quando recuperò lo stetoscopio e gli ebbe auscultato il cuore con un certo interesse.
"E' tutto apposto?" Chiese Bill, a quel punto un po' preoccupato.
"I pezzi sono tutti andati al loro posto," annuì l'uomo e poi fece un mezzo sorriso sghembo. "Si potrebbe dire che ti hanno rimontato secondo le istruzioni."
D'accordo, quell'uomo usava parole tremende. "Rimontato?"
L'alchimista annuì, convintissimo e anche vagamente euforico. "Si, si si, vieni, ti faccio vedere," gli disse, facendogli segno di seguirlo. "E rimettiti la maglietta. Qua la visione della tua nudità è punibile con la morte."
Bill obbedì ancora una volta. Rimise la maglietta e quindi seguì l'uomo fino al centro del laboratorio dove c'era un enorme cerchio in ferro e lamina. L'oggetto somigliava ad una di quelle porte dimensionali che aveva visto nei film di fantascienza, solo messa molto, molto peggio.
"Qui, giovanotto! Ti distrai con una facilità impressionante," l'alchimista lo richiamò verso un piccolo tavolo che ospitava il modellino di quello stesso cerchio in lamina. "Niente a che vedere con la nostra Principessa originale. Studiava per ore, sai?"
"Studiava cosa?"
"Oh ma tutto! Tutto!" L'uomo annuì con un sospiro, trafficando intorno al tavolo e recuperando oggetti uno dietro l'altro e mettendoli in fila, sul modellino. "Storia, arte, geografia, passava le ore sui libri, nel giardino. Hai visto il giardino?"
"Soltanto un attimo. Vuole spiegarmi, ora?"
L'uomo stava unendo gli oggetti recuperati, che non erano affatto oggetti distinti ma pezzi di un oggetto solo, una bambola, e lui la stava rimettendo insieme. "Distratto e anche impaziente. Il tuo tutore non ti ha insegnato niente."
"Se le dicessi chi è il mio tutore, non le piacerebbe per niente," borbottò di rimando Bill, un po' offeso.
David finì di trafficare, quindi si schiarì la gola. "Sai come funziona la teoria dei mondi paralleli?" Chiese.
"No."
"Pessimo inizio," ragionò l'uomo. "Come posso spiegartelo? Prendi un libro, ad esempio. Ci sono libri nel tuo mondo vero?"
Bill annuì, anche con una certa soddisfazione immotivata. Come se i libri nel suo mondo li avesse inventati lui.
L'uomo ne prese uno e lo aprì nel mezzo, sollevando una sola pagina. "Tu hai una pagina e hai il retro di quella pagina, dico bene?" Bill annuì di nuovo. "Se metti questa pagina controluce, a volte, sei in grado di vedere le lettere dall'altra parte del foglio. E così è anche con i mondi. Ogni mondo ha un parallelo, da qualche parte. Se riesci a metterlo in controluce, per così dire, nella maniera giusta, vedrai il suo doppio apparire. Un po' sbiadito, forse, ma visibile."
"Ed è questo che ha fatto lei? Ha messo il suo mondo in controluce?"
David era molto euforico. "Si può dire così, sì. Proprio così. Ho creato un passaggio: questo," indicò il modellino dell'enorme cerchio in lamina, "e ho fatto in modo che la luce attraversasse il tempo e lo spazio e un sacco di altre cose che è inutile che ti spieghi tanto non le capiresti e... sono arrivato fino a te. Non fisicamente certo, ma... " il tipo annuì, tra sé e sé "... insomma. Eccoti qua."
"Eccomi qua," Bill era poco convinto.
"Sì!" David sollevò entrambe le braccia. "Non è stupendo? Il fascio di luce ti ha prelevato e ti ha smembrato in milioni di minuscoli pezzi senza che tu nemmeno te ne accorgessi," smontò la bambola di legno molto velocemente e fece passare tutti i pezzi attraverso il cerchio per poi correre dall'altra parte del tavolo, recuperarli e rimetterli insieme. "Quindi, lo stesso fascio, ti ha rimontato. Fortunatamente nell'ordine giusto! Et voilà!"
Bill guardò sconvolto la bambola con le gambe al posto delle braccia.
"Beh, più o meno," commentò David, con un colpetto di tosse imbarazzato, lanciandosi la bambola alle spalle. "In ogni caso era soltanto una ricostruzione imprecisa."
Il moro rimase a fissare il plastico per qualche istante poi aprì la bocca e non trovando parole la richiuse. Ci riprovò di nuovo e quindi sollevò lo sguardo sull'uomo con l'unica domanda che aveva voglia di fargli da quando era arrivato. "perché?"
"Hai già avuto modo di conoscere il Presidente?"
Bill ripensò al bacio, alle braccia di un Anis che non era il suo. "Sì, ha voluto vedermi ieri."
"Quello non è che un ricordo del nostro Presidente," mormorò l'Alchimista, con un sospiro. "Un tempo era un uomo buono e allegro e pieno di vita. Poi però tu sei morto. O meglio, la persona che sei tu, in questo modo, è morta e da allora ha perso la testa. Ma adesso che sei arrivato, le cose cambieranno!"
"Prego?" E il suono della voce di Bill fu palesemente inorridito.
"Stanno già cambiando! Non capisci? Tu sei qui, certo non mi aspetto che ti adatti all'istante, capisco che qui sia tutto diverso, e comunque dovrai dirmi in che modo è diverso, e ci sono un sacco di cose che devi imparare. Hai un ruolo importante qui, sai? Ti piacerà!"
"Aspetti! Aspetti un attimo!" Bill sollevò una mano e con l'altra si pinzò la radice del naso perché quel tipo parlava troppo veloce, era pazzo e a lui stava venendo mal di testa. "Io non rimarrò qui. Non ci rimarrò proprio per niente. Io voglio tornare a casa."
"Richiesta ragionevole, posso capirlo."
"Allora mi riporti indietro."
"Temo che questo sia impossibile," mormorò l'uomo.
Bill lo guardò come guardava suo fratello quando aveva passato tre ore a farsi le unghie e lui arrivava, lo urtava e la bella riga bianca della sua french veniva storta. Georg lo chiamava lo sguardo della morte imminente. "Cosa?"
"Il problema è che tu sei più grosso. Del topo, intendo," spiegò David con una mezza risatina, che gli morì in gola. "Sei passato attraverso il cerchio ma c'è voluta un sacco di energia e questa energia, una volta che sei passato ha, diciamo, distrutto il cerchio."
"Nel senso che si può riparare?" Bill provò a dargli una possibilità.
"Nel senso che il ferro che lo costituisce non è più buono per farci neanche una caffettiera, temo."
Bill gli saltò letteralmente alla gola. Da fermo che era, si gettò su di lui e gli strinse le mani alla gola nel tentativo di strangolarlo. "Tu mi hai portato via dal mio mondo, dal mio uomo, dalla mia gente, senza chiedere il mio permesso e adesso mi dici che non posso tornare indietro?" Gridò, così forte che lo sentì perfino Chakuza, nonostante i rimbombi dei suoi colpi di martello.
David avrebbe voluto rispondere che poteva spiegare ma le dita di Bill lo stringevano troppo forte.
"A me non interessa se il vostro Anis non può superare il lutto, chiaro? Il mio mi starà cercando e io sono ancora vivo, per lui, quindi farai funzionare questo schifoso macinino e mi riporterai indietro! Adesso!"
"Non posso," gracchiò l'alchimista, disteso in terra, con tutto il peso di Bill sullo stomaco e le sue unghie pericolosamente puntate alla carotide. "Il cerchio è rotto per sempre, non saprei come ripararlo!"
"Non me ne frega niente!" Urlo Bill, sbattendogli, già che c'era, la testa in terra. "Lo farai funzionare, non importa come!"
"Principessa!" Chakuza si era avvicinato sentendolo urlare, ma era convinto di trovare un ragazzino isterico e in lacrime per qualche motivo che avrebbe faticato a comprendere, non una furia omicida che tentava di strangolare l'Alchimista. "Che cosa stai facendo?"
"Lo sto strangolando!" Ripose chiaramente il moro.
"Ma sei impazzito? Ma che ti prende!" Chakuza lo afferrò per la vita e lo tirò su di peso, cercando di allontanarlo dall'uomo.
Bill si mise a scalciare agitando le braccia. "Lasciami andare Chakuza! Lasciami immediatamente! Devo farlo a pezzi!"
Chakuza strinse la presa, cercando di compensare i movimenti convulsi di Bill. In anni che era convinto di conoscerlo, non lo aveva mai visto comportarsi in maniera tanto sguaiata. "Dico ma ti vuoi calmare?"
"Lasciami!"
"Non ci penso nemmeno!" Chakuza lo rimise in terra, quindi lo tenne fermo per i polsi. "Cos'è successo?"
"Tu non puoi capire, Peter. Lasciamelo ammazzare."
"Dubito di poterlo fare, credo ci sia qualche legge al riguardo," ammise lui, anche con una certa tranquillità. Poi rise. "Guardati, sei tutto scomposto. Sembri una verduraia del mercato."
"Gliela faccio vedere io la verduraia!"
"Okay, okay, calmati," Chakuza gli prese la mano prima che potesse avventarsi di nuovo sull'alchimista. "Vuoi che ti riporti nelle tue stanze?"
"Voglio che lo dica a quell'uomo," Bill parlò direttamente a David. "Mi ha capito? Deve sapere chi sono e deve disporre di rimandarmi a casa. Il come, non ha nessuna importanza."

*


Bill era oltre la rabbia.
Si arrabbiava se prendeva una stecca, se Bushido posava gli occhi su una donna un po' più del dovuto, se David decideva arbitrariamente che dopo due mesi di lavoro ininterrotto li aspettavano altri due mesi di lavoro ininterrotto. Questi erano i motivi per arrabbiarsi.
Essere trasportati contro il proprio volere in un mondo parallelo senza nessuna possibilità di tornare a casa era una ragione valida a giustificare un omicidio. Ed era quello che avrebbe fatto - uccidere David, piano e dolorosamente - se Chakuza non lo avesse allontanato dal laboratorio e condotto di nuovo nella sua stanza, dove ora si trovava, intento a camminare avanti e indietro come un leone in gabbia di fronte all'enorme vetrata.
"Bill, ti prego, calmati," mormorò Chakuza, appoggiato al letto, le braccia incrociate.
"No, non mi calmo affatto," sbottò il moro e non gli importava che quell'uomo non fosse quello identico che conosceva. A casa sua, con il suo Chakuza, lui faceva esattamente questo: sfogava la rabbia repressa, urlando improperi all'universo mondo che lo aveva fatto infuriare, quindi la copia poteva ben prendere il posto del vero Peter Pangerl.
"D'accordo. Allora continua pure ad andare avanti e indietro," concesse l'uomo con un mezzo sorriso, "Ti riprenderò al volo quando cadrai in terra per la stanchezza."
"Io non cadrò in terra per la stanchezza," puntualizzò il ragazzino. "Né cadrò in terra per qualsiasi altro motivo. Sai cosa farò, invece? Tornerò a casa."
"Sei a casa," commentò Chakuza.
Bill sospirò esasperato ma quando Chakuza si staccò dal letto per stringerlo in un abbraccio si lasciò andare perché, come tutti là dentro, anche lui profumava di casa. E anche se non era quello vero, Bill poteva chiudere gli occhi e fingere di essere nella Villa Gialla, in attesa del ritorno di Bushido, schiacciato sul divano tra Eko e Chakuza a guardare un film stupido. Chakuza aveva proprio quel profumo lì. Appoggiò la fronte alla sua spalla, inspirò ed espirò. Di certo c'era un modo per invertire il processo che lo aveva condotto lì. Forse David su due piedi non lo aveva trovato ma ci avrebbe pensato meglio e ci sarebbe riuscito ora che sapeva come stavano le cose, che lui voleva tornare a casa e, soprattutto, che lo avrebbe ucciso se non ce lo avesse rimandato.
Cercò di calmarsi, le braccia di Chakuza sembravano un buon posto per farlo. In fondo gli erano sempre piaciuti i suoi abbracci perché erano pieni ed avvolgenti - non perfetti come quelli di Anis ma premurosi. Forse lo sarebbero stati anche questi. Chiuse gli occhi, le labbra dell'uomo appena appoggiate sulla tempia erano piacevoli e lui davvero si stava calmando. Come a casa. A quanto pareva, i Pangerl funzionavano bene anche attraverso le dimensioni.
Si scostò di scatto quando le labbra di Chakuza scesero a baciarlo.
"Peter, che fai?" Esclamò sorpreso, facendosi indietro.
Chakuza continuò a trattenerlo per la vita ancora qualche istante prima di lasciarlo andare, le braccia immobili lungo i fianchi. Sembrava ferito. "Allora davvero non ricordi niente."
"Non sono io!" Bill esplose, esasperato. Quante volte ancora avrebbe dovuto dirlo? Quante perché questa gente capisse? "Qualunque cosa tu ricordi della persona che mi somiglia, io non c'entro niente. D'accordo? Io vengo da un'altra parte, da un altro mondo! Forse perfino da un altro universo. Non sono quello che pensi."
Chakuza, però, sembrava aver smesso di ascoltare. Era arretrato e si era seduto sul letto, a fissare il vuoto.
"Chaku?"
"Tu non gli somigli," mormorò. "Tu sei esattamente uguale a lui."
Bill annuì comprensivo e gli si sedette a fianco. "Lo so. Anche tu sei uguale al Peter che conosco io ma non sei lui."
L'uomo scosse la testa. "Io non capisco, com'è possibile?"
Bill tentò di spiegargli cos'era successo, anche se aveva dei problemi a ripetere di nuovo tutta la questione dei mondi che si toccavano appena, delle pagine di libro e dell'energia che lo aveva portato lì distruggendo il portale. Disse solo che il suo mondo era tutto diverso ma che c'erano dentro le stesse persone. Una volta che ebbe finito, però, sembrò che Chakuza si fosse perso, Bill non sapeva se nei ricordi o nel presente, di certo nella difficoltà di accettare quel rifiuto che, evidentemente, non era mai arrivato dalla persona che aveva il suo viso.
"Che cosa siamo io e te nel mondo da cui provieni? Tu mi conosci, no?"
"Siamo amici," rispose Bill. "Tu sei il migliore amico dell'uomo che amo."
Peter sorrise, un po' amaramente. "Allora io e il tuo Chakuza non siamo molto diversi."

*


Bill avrebbe pensato che la cosa più strana di ritrovarsi in un mondo parallelo completamente diverso dal suo nel quale però c'erano copie di persone che conosceva, fosse appunto la possibilità stessa di un viaggio interdimensionale e invece, a quanto pareva, era molto più strano ciò che veniva dopo.
La conversazione con Chakuza era stata imbarazzante, perché era chiaro che il Bill che lui aveva conosciuto aveva un posto speciale nel suo cuore se baciarlo aveva rappresentato la normalità. Passato l'attimo di smarrimento, Bill si era anche chiesto quanto sapesse Bushido di questa cosa perché se il presidente di Tempelhof era geloso anche solo la metà del suo Anis e fosse stato informato dell'affetto – Bill non ne sapeva abbastanza per essere scortese e chiamarlo in altro modo – che legava il proprio compagno e il campione di corte, allora forse Chakuza non sarebbe stato vivo per raccontarlo. O per tentare di baciare lui, se era per questo.
Bill guardò il proprio riflesso nell'enorme specchio della camera che era stata del suo alter ego e si sfiorò le labbra con due dita; era una sensazione strana perché aveva baciato Chakuza, ma non si sentiva davvero di averlo fatto perché non riusciva a ricondurre ciò che era successo all'immagine del Peter che conosceva. Scosse la testa, cercando di scuotere via i pensieri: andando di questo passo, sarebbe senz'altro uscito di testa.
Ad ogni modo, nei giorni che avevano seguito quella discussione, non aveva visto né sentito nessuno. Anche avventurandosi per quei due corridoi che conosceva, aveva incrociato solo la servitù e né Chakuza né David sembravano più trovarsi da nessuna parte. Aveva pensato di rivolgersi direttamente a Bushido, ma aveva ancora in testa gli avvertimenti che Chakuza gli aveva dato la prima volta che lo aveva condotto di fronte alla sua porta e il solo pensiero gli mandava i brividi lungo la schiena. Se l'uomo non lo aveva mandato a chiamare, allora forse non era il caso di presentarsi nelle sue stanze di propria iniziativa; non era certo che la sua presenza lì a palazzo lo avesse fatto rinsavire, ancora.
Inizialmente aveva preso la cosa di buon grado ed era rimasto nella sua stanza a rimuginare sugli ultimi avvenimenti e, soprattutto, a convincersi che strangolare David non era una buona cosa anche se oggettivamente lo sembrava, ma poi aveva cominciato ad annoiarsi. La stanza di questo misterioso se stesso che si era preso la sanità mentale di Bushido e di cui tutti parlavano un gran bene – ma di questo non si stupiva, d'altronde si trattava di un Bill – era enorme e la vista era stupenda, ma più che girarla in lungo e in largo, guardare dalla finestra e poi ricominciare a girarla in lungo e in largo non poteva fare. C'era sì una gigantesca libreria, piena di libri fin quasi a scoppiare ma a lui leggere non piaceva e anche quando, per la disperazione, aveva pensato di iniziare, aveva scoperto che il suo alter ego era un amante dei romanzi strappalacrime in cui giovani donzelle dalle caviglie fragili si facevano salvare da aitanti principi in armatura scintillante. Ora, lui era uno che piangeva sui film romantici, ma c'era un limite al miele che poteva sopportare. In più questi libri erano enormi, pesantissimi e polverosi. Tomi di cinque o sei chili, come se i tascabili non fossero mai stati inventati e, a ben pensarci, forse era così. Non aveva idea di come funzionassero le cose da quelle parti.
E poi, naturalmente, c'erano le cameriere. Quelle lo facevano davvero impazzire. Il problema con queste signorine velate era che sembravano programmate soltanto per bussare alla sua porta, posare un vassoio straripante di cibo sul tavolo più vicino e quindi andarsene augurando ogni benedizione alla Luce di Tempelhof, ossia a lui o a quello che lui sembrava, per lo meno. Qualunque tipo di avvenimento che deviasse il loro percorso prestabilito sembrava mandarle nel panico più totale. Bill aveva tentato di parlarci ma c'era mancato poco che una di loro non se ne andasse urlando e agitando le braccia; aveva dovuto smetterle di fare domande per paura che le venisse un infarto. Era scoraggiato, davvero. Ma che razza di posto era?
Era per questo che ne aveva abbastanza: di belle stanze, di libri impossibili e di passare le giornate da solo, anche. Sarebbe uscito da quella stanza e si sarebbe avventurato ben oltre i due corridoi che aveva già visto e se alla Luce di Tempelhof non era permesso avventurarsi per i cavoli suoi – chissà magari anche Bushido aveva una stanza piena di mogli sgozzate o una in cui teneva la sua rosa che perdeva i petali in cui all'altro Bill era vietato andare – che lo fucilassero, o qualunque cosa si facesse da quelle parti per punire le disobbedienze. Un'altra giornata come le ultime appena trascorse, e avrebbe pensato personalmente a rimuoversi da questo e da tutti gli universi conosciuti.
Aveva appena spalancato la porta come se fosse pronto a scardinarla e portarsela dietro come trofeo di guerra, quando si ritrovò davanti Chakuza con gli occhi sgranati, che lo guardava con perplessità mista a grosse tracce di sano terrore.
“Ah, sei qui,” commentò Bill, secco. Lo guardava senza rendersi effettivamente conto di averlo ancora davanti. Era stato un po' come in quei vecchi giochi di scatoline con il doppio fondo che le aprivi una volta e non c'era niente, poi facevi scorrere il fondo senza farti vedere e quando le riaprivi ecco che era comparsa la pallina. Bill aveva spalancato quella porta una sacco di volte e finalmente il gioco di prestigio aveva funzionato. La Chaku-pallina era magicamente comparsa. “Dov'eri?”
Chakuza si riprese con un colpo di tosse e mise le mani dietro la schiena, in una posa che gli ricordò il vero Peter in un video tremendo per il quale, ancora oggi, si vergognava per lui. “Avevo degli affari da sbrigare per conto del presidente,” commentò, un po' perplesso. “Qualcosa non va?”
“Qualcosa non va?” Ripeté Bill, a dir poco sconvolto dall'ottusità dell'uomo che aveva davanti. “Mi chiedi se qualcosa non va? E' una settimana, anzi più di una settimana, che sto chiuso qui dentro ad ammuffire e tu mi chiedi se qualcosa non va?”
“Non si sono occupati di te?” Esclamò subito l'uomo. “Avevo esplicitamente ordinato che ci fossero almeno due serve al tuo servizio ad ogni ora del giorno e della notte.”
“Ecco, parliamo delle serve!” Sbottò Bill. Ora che le aveva nominate, gli sembravano un buon punto di partenza per iniziare a lamentarsi come solo un Kaulitz minore sapeva fare.
“Hanno commesso qualche errore?” S'informò. “Immagino che sia stato un disagio, ma devi anche capire che le tue serve personali... beh, quelle di Bill sono state fatte allontanare subito dopo la disgrazia. Bushido non sopportava nemmeno la loro presenza.”
“No! No! Tu non capisci!” Strepitò. “Queste entravano qui, lasciavano il cibo e se ne andavano. Due volte al giorno, per tutti i giorni e se provavo a parlarci... morte e distruzione! Si può sapere che gente assumete da queste parti? David, il mio David, affida a degli psicologi i colloqui per la gente che sta dietro a noi, insomma, non è che puoi prendere tutti i pazzi che si presentano alla tua porta. Ecco perché poi la gente muore! Perché non si controllano le referenze!”
Chakuza aveva capito ben poco dell'intero discorso, ma la cosa che sembrava premergli era una sola. “Hai parlato con le serve?”
“Eh?”
“Tu hai...” Chakuza fece un gesto vago con la mano, di fronte a sé, come cercando di esprimere meglio il concetto con disegni invisibili nell'aria. “... hai cercato di parlare con le serve.”
“Lo avrei fatto se si fossero abbassate a rispondermi invece di farsi prendere dal panico!”
“Tu non puoi parlare alle serve, Bill!” Esclamò l'uomo, con un tono misto tra il rassegnato, l'incredulo e qualcosa che Bill non seppe ben identificare. “Non se lo aspettano!Non... non è previsto che tu lo faccia!”
“Non è previsto da cosa?”
“Dal regolamento!” Esclamò l'uomo. “E' una delle prime regole e sono quasi certo che ci sia anche qualche altra postilla dedicata, da qualche altra parte! E'... no, non si fa!”
Bill pensò tre o quattro risposte differenti, ma alcune erano poco diplomatiche e quelle rimaste, nella loro curiosità, assecondavano la follia dell'uomo che aveva davanti ed era quasi certo che non fosse una grande idea farlo. “C'è un regolamento?”
“Certo che c'è un regolamento,” rispose Chakuza, annuendo vigorosamente. “Ed è anche piuttosto specifico. La servitù non può parlarti direttamente. Tu puoi, volendo, ma sarebbe inutile giacché nessuno può risponderti se non attraverso una terza persona che non può essere un servo.”
“Questo non ha alcun senso.”
“Non ho scritto io il regolamento,” si difese Chakuza.
“E quindi io come dovrei comunicare, di grazia?”
“Puoi conferire con tutte le persone del tuo stesso rango e di quelli inferiori fino ad un certo grado,” spiegò, annuendo e citando a memoria. Poi inclinò la testa di lato. “Beh quasi tutti in realtà, tranne i servi. E in ogni caso ci sono altre specifiche. E' una cosa complessa.”
“Voi siete pazzi,” commentò Bill.
Chakuza incassò in maniera diplomatica. “Sono le nostre leggi,” come a dire che visto che erano leggi, bisognava che fossero per forza anche sensate.
“Ma io sarei un personaggio importante qui, no?” S'informò, tanto per essere sicuro. “Voglio dire, al fianco del Presidente e tutto...”
Chakuza annuì. “Sei la Luce di Tempelhof.”
“Ecco sì, questa cosa poi me la spiegherai.” Bill tossì. “Comunque sia, avrò del potere immagino. Ecco, potremmo allora cambiare questa stupida regola della gente muta? Non posso vivere qua dentro chiedendomi costantemente chi manderò nel panico parlando, ti pare? E poi è oggettivamente una stronzata. Quindi cancelliamola, che ne dici?”
Bill immaginava che mettere le mani sulle leggi di un universo parallelo fosse la prima cosa da non fare assolutamente sulla lista del buon viaggiatore dello spazio-tempo e che forse la sua richiesta suonasse un po' presuntuosa alle orecchie di Chakuza, ma l'espressione assolutamente orripilata che stava ora sconvolgendo i lineamenti dell'uomo gli sembrava francamente troppo esagerata, anche per una mancanza di diplomazia extra-dimensionale come la sua. “Chaku, seriamente,” iniziò. “Okay, mi dispiace, non volevo essere troppo invadente. E' solo che davvero mi trovo a disagio con la gente che sta zitta.”
L'uomo scosse la testa. “No, scusa,” balbettò. “E' che è la prima volta che ti sento imprecare. Ammetto che è un po' disturbante.”
Bill cercò di afferrare quello che stava dicendo e, ripercorrendo la sua ultima frase, si rese conto di aver detto una parolaccia. Okay, sarebbe stata una permanenza più lunga del previsto.

*


“Quindi, in pratica, sarei un bel soprammobile,” commentò Bill.
Chakuza l'aveva convinto a fare un giro del palazzo, probabilmente con l'idea di distrarlo e farlo così smettere di inveire contro il sistema e i fondatori della costituzione; ma non stava andando un granché bene.
“No, non è affatto così. Tu sei–“
“La Luce di Tempelhof, ho capito. Ma se non ho nessuna voce in capitolo sulle questioni amministrative e governative di questo posto, allora significa che sto qui a fare scena e basta. Come una specie di First Lady.”
“Una cosa?”
“La moglie di un capo di governo, però senza nemmeno gli impegni mondani. Immagino che il vostro Bill non facesse beneficenza, o organizzasse balli all'ambasciata o cose simili.”
“Intendi fuori dal palazzo?”
Bill annuì, guardando questo Chaku senza cappellino e rendendosi conto che non aveva mai immaginato il proprio senza. Era strano sapere cosa si nascondesse sotto la visiera senza averla mai tolta.
“No, Bill non poteva uscire dal Palazzo se non accompagnato,” Chakuza scosse la testa. “E comunque le questioni diplomatiche non spettavano a lui.”
“C'era qualcosa che gli spettasse?” Chiese Bill ironico. “Che cosa faceva tutto il giorno?”
Chakuza s'illuminò tutto, come qualcuno gli avesse acceso una lampadina dietro le orecchie. “Vieni, ti faccio vedere.”
Bill si aspettava che il campione, carpentiere, o qualunque altra cosa fosse, partisse in quarta per fargli strada ma ovviamente quello non si mosse neanche, così si ricordò di dover camminare per primo. “Che direzione?” Sospirò rassegnato, allargando le braccia.
“Davanti a te,” rispose Chakuza.
L'uomo lo condusse oltre una porta che non aveva ancora mai superato, e quindi aldilà di una sala stupenda che avrebbe voluto fermarsi a guardare ma per la quale non ebbe tempo, perché Chakuza lo indirizzò subito oltre. Alla fine, dopo due rampe di scale durante le quali l'uomo gli chiese premurosamente se volesse una mano e rischiò di farsi mandare a quel paese con parole che avrebbero fatto sicuramente svenire l'altro Bill per la loro crudezza, raggiunsero una specie di studiolo grande complessivamente come tutta la sua vera casa a Berlino. Chakuza si fermò proprio accanto alla porta e, naturalmente, gli fece segno di entrare.
Bill premette piano sulla maniglia e lasciò che la porta scivolasse all'interno, lentamente. C'erano vetrate immense, come quelle della sua stanza, ma ora che il sole calava all'orizzonte, la luce che filtrava era rosata e morbida e gli sembrava di guardare una stanza che non era realmente lì, come se la stesse sognando, piuttosto che averla davanti.
“In realtà non dovresti essere qui,” mormorò Chakuza alle sue spalle, e il tono della sua voce era diverso, più distante, tanto che Bill ebbe l'impressione che non fosse più lì con lui. “Il Presidente ha proibito l'accesso a chiunque.” Bill si fermò sulla soglia ma Chakuza gli sorrise. “Ma immagino che questo non valga per te. Sarebbe sciocco proibire a Bill di entrare, ti pare?”
Bill fece qualche passo incerto all'interno della stanza e si guardò intorno con quel misto di ansia e di voglia che ti prende quando sai di essere circondato da cose potenzialmente meravigliose e non vuoi scoprirle tutte insieme per un'occhiata sfuggita al controllo che rivelerebbe troppo e rovinerebbe la sorpresa. La prima cosa che vide fu il pianoforte a coda sulla sinistra, appena davanti alla finestra e gli venne da appoggiarci sopra la mano, accarezzando appena i tasti che erano un po' ingialliti dal tempo. Quando vi premette sopra con l'indice, lo strumento emise un suono basso e un po' stonato che si propagò nella stanza meravigliosamente.
Chakuza aspettò che l'ultima eco si spegnesse prima di dar voce al proprio sorriso. “E' scordato,” mormorò, avvicinandosi e scostandolo appena. Sollevò il coperchio e cavò fuori dalla cintura un affare che Bill non avrebbe saputo identificare nemmeno volendo e quasi sparì all'interno dello strumento. “Prova ora,” disse, quando riemerse. Bill premette di nuovo lo stesso tasto e stavolta il suono fu più limpido e, soprattutto, intonato.
“Wow,” commentò Bill.
Chakuza si strinse nelle spalle. “Una volta lo facevo quasi tutte le settimane. Questo affare è molto più vecchio della stanza che lo contiene. Il Presidente la fece costruire apposta con un'acustica perfetta, così che Bill potesse suonarci dentro quanto voleva.”
Bill suonò altre tre note in scala e poi indicò il panchetto. “Posso?”
Chakuza gli fece segno di accomodarsi. “Prego.”
“Io non sono molto bravo,” ammise il cantante, scrocchiandosi le dita.
L'uomo appoggiato al pianoforte ridacchiò. “Non preoccuparti, non lo era nemmeno lui,” ammise. “Lo prendevamo sempre in giro.”
Bill cercò di strimpellare qualcosa che suonasse anche solo vagamente più serio di quella musichetta che lui e suo fratello erano in grado di riprodurre insieme. Ricordava che David gli aveva insegnato qualcosa un pomeriggio che era annoiatissimo, anche se non è che lo avesse ascoltato poi molto. A Bill piaceva imparare cose, purché non ci volesse più di dieci minuti per impararle; gli era sempre bastato così poco per fare benissimo l'unica cosa in cui era bravo – cantare – che pretendeva di diventare abile in qualunque altra cosa allo stesso modo. Così quando David aveva tentato di spiegargli quella che aveva definito come la canzone che tutti i bambini imparavano nell'ora di musica, lui ci aveva rinunciato quando al secondo tentativo aveva sbagliato più di due note.
“Voi chi?” Chiese, mentre cercava il tasto successivo e poi sorrise. “Il regolamento non prevede la lapidazione pubblica per vilipendio?” Quando alzò lo sguardo, però, Chakuza gli fece un mezzo sorriso storto ma poco partecipe, quindi Bill pensò che non fosse il caso di scherzare sul morto. Tossicchiò. “Quindi suonava il pianoforte.”
“E disegnava, sì,” annuì Chakuza, indicando un tavolo con ancora decine e decine di fogli di pergamena arrotolati o stesi, c'erano ancora perfino i pesi che il ragazzo doveva aver usato per fissarli contro il tavolo.
Bill passò in rassegna i disegni. Erano tutte figure singole, come figurini. “Sono abiti?” Chiese.
“Sì. Li faceva realizzare lui, secondo i suoi disegni,” spiegò l'uomo. “ Anche quelli che indossi tu vengono dal suo armadio.”
“Eh, per forza, non c'era altro,” commentò Bill, sospirando all'idea di avere addosso qualcosa che gli avrebbe fatto guadagnare un numero considerevole di punti nella classifica delle persone peggio vestite dell'universo. Ma d'altronde un po' tutti lì sembravano vestire in maniera assurda. Il vero Chakuza, per dire, si sarebbe fatto ammazzare a sprangate da Anis piuttosto che mettersi un paio di pantaloni a sbuffo. “A proposito, mi chiedevo se non potrei avere qualcosa di più.... di meno..... insomma, qualcosa che assomigli anche vagamente ai vestiti che avevo addosso quando sono arrivato. E magari un paio di anfibi, come i tuoi, non ne posso più di queste scarpette di tela.”
Chakuza guardò prima i propri piedi infilati in un paio di stivali neri alti allo stinco e poi il paio di similpantofole in seta calzate da Bill sotto i pantaloni stretti al polpaccio, quindi iniziò a nicchiare. “Non so, forse dovremmo sentire il Presidente,” mormorò confuso. “C'è un protocollo da seguire.”
“Non sto chiedendo la luna, solo un paio di scarpe!” Sbottò il moro. “Possibile che ogni cosa sia così difficile da queste parti?”
“Vedrò cosa posso fare, d'accordo?” Esclamò alla fine l'uomo, rassegnato. “Certo che sei ingovernabile. E' incredibile che siate così diversi quando vi assomigliate in questo modo. Lui non avrebbe mai...”
“Mai cosa?” Lo incalzò.
Chakuza si grattò la nuca. “Non sono sicuro di volertelo dire.”
Bill ridacchiò. “Avanti, cosa?”
“Protestato. Bill non protestava mai per nulla.”
Il cantante rimase ad osservarlo in silenzio per qualche istante, incapace di dire qualcosa che non suonasse molto cattivo; l'idea che esistesse da qualche parte – o che fosse esistito, meglio – un se stesso che non avesse mai sentito il bisogno di ribaltare il mondo per un qualcosa che non gli tornava era inammissibile. Se poi pensava che questo Bill aveva praticamente passato la vita a conversare da solo senza mai uscire da quelle quattro mura, non si capacitava. Lo sapevano tutti che lui era un viziato di prima categoria, si sarebbe aspettato le sue stesse pessime abitudini dalla sua copia ultra-dimensionale. Fu a quel punto che gli venne la curiosità di capire meglio che razza di creatura fantasiosa dovesse essere questo prezioso Bill che si stancava facendo le scale e che non diceva mai parolacce. “Perché non mi parli di lui?” Chiese, sedendosi a gambe incrociate su un divanetto. “Che tipo era? Voglio dire, a parte le scarpe di tela e il voto del silenzio.”
“Non era voto di silenzio,” rise Chakuza, scivolando a sedere sul panchetto del pianoforte e intrecciando le dita delle mani tra le ginocchia. “Seguiva solo le regole.”
“Okay, allora parlami di questa noiosissima copia di me stesso che non faceva mai confusione!” Insistette. “Sono curioso.”
Chakuza sembrò pensarci su, come dovesse trovare il punto giusto dal quale iniziare. Bill ne approfittò per liberarsi delle odiose scarpe di tela, che oltre ad essere oggettivamente tremende erano anche scomode e avrebbero finito per fargli del male ai piedi. “Lui era...” iniziò Chakuza e Bill si affrettò a tornare composto e ad infossare le scarpe sotto al divano. “Lui era buono, ed era sempre allegro e convinto che le cose potessero risolversi nel modo migliore.”
Noia, noia, noia, pensò Bill. Eppure, copia o non copia, era pur sempre un Bill Kaulitz, quindi qualcosa di interessante doveva pur averlo. Inspirò. “E questo oltre a suonare il piano e disegnare?” Chiese. Non voleva essere ironico, davvero, solo che era frustrante. Se avesse dovuto dare un giudizio su questo fantomatico ragazzino, non sarebbe stato per niente positivo. In più Chakuza continuava a dargli sui nervi e non sapeva se fosse per tutto il miele che stava sbrodolando sulla buonanima o perché la cosa più carina che il suo Chakuza avesse detto a lui era stata complimentarsi del suo nuovo taglio di capelli, che almeno lo faceva sembrare quasi maschio. E al quasi, Anis aveva riso come un coglione.
“Non capisco perché devi essere così caustico,” commentò Chakuza, ma sorrideva, non sembrava affatto arrabbiato per l'atteggiamento. E forse era anche per questo che Bill cominciava a trovarlo insostenibile. Innervosisciti, cazzo. Perché siete tutti così buoni? Le serve obbedienti, la dama del castello buona, dolce e docile e il cavaliere dall'armatura scintillante che ne parla trasognato come se fosse una dea celeste. Senza contare un Bushido che nel perderla diventa un animale. Bill si chiese vagamente se non fosse finito in uno dei romanzi rosa di sua madre.
“Perché tu non hai idea del mondo da cui provengo io,” fu la sua risposta. “E giuro che pensavo non avrei mai detto una cosa simile perché a casa mia sarebbe molto ridicola.”
Quando gli parlava, Chakuza sembrava sempre capire solo la metà delle cose che diceva, il che era perfettamente comprensibile perché anche lui si trovava nella stessa situazione. “Perché, che mondo è il tuo?”
“Uno in cui io non sono fatto di cristallo,” precisò. “E' snervante, sai, sapere che un qualche improbabile me stesso è vissuto qui sopportando con pazienza certosina cose per le quali io ammazzerei bambini innocenti.”
Chakuza rise, cogliendolo un po' di sorpresa e interrompendolo nell'impeto di raccontare come avrebbe reagito rispetto a questa o all'altra cosa. “Allora raccontamelo com'è questo mondo,” esclamò allargando le braccia e scuotendo la testa. “Come funziona da dove vieni tu?”
“Tanto per cominciare io...” Bill ci pensò un secondo, rendendosi conto che non aveva mai pensato a come raccontarlo. Non aveva mai dovuto farlo in effetti perché in genere l'intero pianeta sapeva chi fosse lui e quale fosse la sua vita. “Beh, io sono famoso. Molto famoso. E canto. Sì, insomma, sono un cantante famoso.”
Chakuza stava per rispondere quando qualcosa nella sua tasca si mise a brillare, attirando la sua attenzione e anche quella di Bill che lo osservò sconvolto estrarre un vecchio orologio a cipolla grande quanto il pugno della sua mano che risplendeva di una luce vagamente dorata. Il pensiero che un uomo come Peter potesse indossare un aggeggio del genere era talmente surreale che poteva mandargli in tilt il cervello più dell'idea che esistessero diversi mondi, tutti col loro bel Bill Kaulitz dentro.
Il carpentiere o quello che era, intanto aveva premuto l'enorme pulsante sulla testa del cipollotto e quello si era aperto con un scatto discreto. Il quadrante trasparente lasciava intravedere il meccanismo interno fatto di tante piccole ruote dentate color rame che si incastravano le une nelle altre uno scatto dopo l'altro. Le cifre erano scritte nella stessa strana calligrafia che Bill aveva trovato nei libri dell'altro Bill; i simboli erano gli stessi, ma tracciati in un carattere che non aveva mai visto. Si vedevano sullo sfondo trasparente solo perché pulsavano di luce anche loro. “E' un orologio bellissimo,” mormorò affascinato, senza rendersi conto di essersi sporto in avanti per guardarlo meglio. Pensò che fosse abbastanza vintage da stare benissimo attaccato ad almeno sei paia dei suoi pantaloni.
“E' anche un enorme fastidio,” sbuffò Chakuza. “E come tutti gli oggetti veramente fastidiosi di questo palazzo, è una creazione di David.”
“David ha creato gli orologi?” Commentò Bill, con il suo sopracciglio sollevato.
“Naturalmente no,” precisò Chakuza, osservando un ultima volta il quadrante e poi chiudendo l'orologio che smise di brillare. “Ha creato questi orologi.”
“Sarebbe?”
“Registrano le cose che devi fare, all'ora che devi farle e continuano a segnalartele finché tu disperato non gli dai ascolto e, possibilmente, non le fai.”
Il sopracciglio sollevato di Bill rimase lì dov'era. “Fantastico. In questo mondo, David ha inventato le agende elettroniche.”
Chakuza però non lo stava ascoltando, si era rimesso l'orologio in tasca e ora era in piedi, la mano già tesa verso di lui. “Il che mi ha appena ricordato perché ero venuto a trovarti e quello che dovevo dirti. Il Presidente ti vuole a cena con lui questa sera.”
Bill rimase seduto dov'era, le gambe un po' larghe e le braccia incrociate al petto. “E immagino che non sia esattamente un invito.”
“Lui non ha bisogno di invitarti, Bill,” gli fece notare l'uomo.
“Beh, qualcuno dovrebbe dirgli che io apprezzo che mi si lasci la scelta ogni tanto. Sono un grande fan del libero arbitrio.”
Chakuza si limitò a sospirare, la mano sempre tesa.
“Se non rimetti subito in tasca quella mano rimarremo così per sempre,” commentò Bill. “Oppure in alternativa ti staccherò un dito a morsi.”
Chakuza obbedì all'istante e Bill si alzò, sorridendo compiaciuto. “Fammi indovinare,” buttò lì mentre si avviava a casaccio prima di lui. “Niente pericolo di denti col tuo Bill, vero?”
Sentì Chakuza tossire imbarazzato e prese nota.

*


La cena con il Presidente, naturalmente, non poteva essere un pasto informale con indosso il primo paio di pantaloni a sbuffo e di babbucce pescate a caso dall'armadio, ma una processione di serve, stanze, trucchi e generale preparazione da fare invidia ad un matrimonio.
“Tutto questo per una cena?” Chiese Bill da dietro la tenda della doccia, in cui era stato infilato con gentilezza ma grande perseveranza da due serve mute. “Cosa succederebbe se ci sposassimo?”
“Vi siete sposati,” commentò Chakuza, dall'altra stanza.
Bill smise di insaponarsi, colto di sorpresa. “Davvero?” Sorrise perché in qualche modo l'idea di sposare Anis gli metteva tenerezza. Era bello pensare che almeno da qualche parte, nell'universo, Bushido fosse suo marito. “E quanto sono durati i preparativi?”
“Quasi un anno e mezzo,” rispose Chakuza. “Il matrimonio vero e proprio due settimane.”
“Cazzo!”
Dalle parti del carpentiere arrivò un borbottio contrariato.
“Scusa.”
Chakuza sospirò. “Non fa niente. Piuttosto, stavi dicendo di essere un cantante famoso.”
“Ho una band,” confermò il moro. “Siamo in quattro. Io e mio fratello e...” ci pensò su “...i due ragazzi che erano con me quando è scoppiata la bomba alla stazione del treno.”
“I due disperati dei livelli inferiori?”
“Anche tu con questa storia!” Sbottò Bill, chiudendo l'acqua e avvolgendosi un asciugamano in vita per uscire dalla doccia. “Sono due persone, d'accordo?”
“Okay, d'accordo, non ti arrabbiare,” Chakuza cercò di placarlo, c'era sempre una nota vagamente tranquillizzante nella sua voce quando lo faceva e Bill era quasi certo di trovarla fastidiosa. Evidentemente Chakuza era abituato a trattarlo come se fosse scemo. “Comunque non ce lo vedo tuo fratello a cantare.”
“No, infatti suona la chitarra,” rispose, entrando nella stanza mentre si asciugava i capelli.
“E Bushido? Tu e lui... state insieme?”
Bill annuì, cercando un elastico sul piano della toletta. “Da un paio d'anni,” aggiunse. “Ma è un cantante, non un Presidente.”
Chakuza lo guardava, gli occhi persi e un po' increduli. “Non riesco ad immaginare niente di quello che mi stai dicendo. Mi sembra tutto...impossibile.”
Bill gli sorrise. “Benvenuto nel mio mondo. Io ci sono finito in mezzo a questa assurdità, sto messo peggio di te,” commentò. Per qualche strana ragione, era quasi certo che Chakuza non avesse assolutamente il permesso di vederlo così svestito, date le regole ferree che vigevano sulla sua persona in tutte le altre situazioni, ma che fosse molto abituato a farlo comunque visto che guardarlo non sembrava creargli alcun imbarazzo. “Dovrei vestirmi,” esclamò ad un certo punto, quando la discussione non proseguì e l'uomo non accennò a togliersi di mezzo. “O devi supervisionare l'operazione?”
L'aveva buttata sul ridere, ma per Chakuza non sembrava particolarmente divertente.
Gli riservò comunque un mezzo sorriso confuso e si alzò in piedi, grattandosi la fronte. “No, naturalmente. Ti aspetto fuori per darti le istruzioni.”
Istruzioni. Bill si chiedeva se ci fosse un aspetto della vita del suo alterego che non fosse regolata in un modo o nell'altro. Se non trovava il modo di tornarsene a casa velocemente, avrebbero preso la loro costituzione e l'avrebbe data alle fiamme sulla pubblica piazza. Lo avrebbero ricordato come una figura invasata e malvestita che correva ridendo intorno alle ceneri delle loro leggi.
I vestiti per la serata erano improponibili e non aveva idea del criterio con il quale erano stati scelti, né perché qualcuno lo avesse fatto al posto suo. Così li ripiegò per bene e li rimise nell'armadio, il più nascosti possibili, e cercò qualcosa che non gli facesse venire voglia di rimettere prima ancora di sedersi a tavola.
Quando alla fine uscì da quella stanza era un po' più se stesso e molto poco la Luce di Tempelhof, e Chakuza si coprì gli occhi con una mano, sfinito. “Come sei vestito? Dov'è la tua mantella?”
“Niente mantella. Ho una felpa, vedi?” Disse indicando l'unico capo di vestiario che gli fosse rimasto. Tutto il resto era sparito per essere lavato e non era ancora tornato indietro. Si tirò su il cappuccio. “Ho anche la testa coperta e non un centimetro di pelle esposto agli avidi occhi del popolo.”
“Che ne è dell'abito che c'era in camera?”
Bill faticava a descriverlo tale. “Ho dei problemi con le lunghe tuniche con lo strascico,” rispose ironico. “Dev'essere qualcosa che ci mettono dentro.”
Chakuza lo guardò storto.
“Che c'è? Non sono indecente. Sono coperto. Sono carino e sono pronto ad incontrare il Presidente.”
“Ma non sembri tu.”
“Meglio così,” concluse, piccato. “perché non lo sono.”

*


Bill era stato portato in una stanza diversa, anche questa immensa, anche questa con una gigantesca vetrata che mostrava quella strana Berlino in tutta la sua gloria aerea. Si era aspettato di trovare il freddo scostante di mobili asettici, come nello studio in cui si erano incontrati la prima volta, ma la stanza aveva qualcosa di familiare.
Bill affondò i piedi nel tappeto e fece qualche passo incerto, osservando ciò che lo circondava.
C'era profumo di spezie che saliva da grandi vassoi dorati al centro del tavolo basso in mezzo alla stanza e in un angolo, un mucchio di cuscini scuri ammonticchiati gli uni sugli altri lo invitava a sedersi sotto le tende damascate, puntellate al soffitto. Quando posò gli occhi sul narghilè, il cuore mancò un battito.
Era quasi come trovarsi nello studio del suo Anis, mancavano solo il mixer e il microfono, con i computer e il disordine di bottiglie di birra vuote che c'era sempre intorno.
Deglutì perché l'idea di sentirsi a casa non gli piaceva, lo rendeva vulnerabile e quello era esattamente il tipo di atteggiamento che voleva evitare. Chakuza gli aveva ricordato di non parlare se non interrogato e di obbedire alle richieste, ma erano tutti suggerimenti che non era intenzionato a seguire. Se voleva far capire a quest'uomo che lui non era Bill, la prima cosa da fare era smetterla di assecondarlo.
“Sei qui.”
Il difficile era mantenere fede ai buoni propositi quando la sua voce gli mandava i brividi lungo la schiena ed era capace di avvolgerlo come quella di Anis.
Si voltò lentamente, più per avere il tempo di scrollarsi di dosso quelle sensazioni che non per gli avvertimenti di Chakuza e annuì. “Presidente...”
“Perché non hai addosso il vestito che avevo ordinato?”
Perché faceva schifo, Anis. Se fosse stato a casa, avrebbe risposto questo. Ma se fosse stato a casa, Bushido non avrebbe mai scelto un vestito per lui. Sospirò. “Non ero a mio agio. E credo che dovremmo-”
“Siediti.”
Bill serrò la mascella, ma si sedette. Un punto per lui, dannazione.
L'altro Anis rimase fermo di fronte alla finestra, le mani infilate nelle tasche del completo scuro. “David dice che stai bene, tutto considerato. Tu come ti senti?”
Bill si sistemò una ciocca dietro l'orecchio e guardò stancamente la tavola apparecchiata. “Sto bene, tutto considerato,” ripeté. “Vorrei soltanto tornare a casa.”
Bushido non rispose, ma andò a sedersi proprio di fronte a lui. Si sistemò il tovagliolo sulle gambe, prima di continuare. “La camera da letto è di tuo gradimento?”
Bill sospirò, rassegnato. Non c'era modo di fuggire ai convenevoli. “Sì, è perfetta. Grazie.”
Non c'erano servi e il cibo era già presente sul tavolo.
Fu l'uomo a servire entrambi, decidendo le quantità e cosa servire. Quando ebbe finito, gli fece cenno di iniziare a mangiare e quando lui ebbe messo in bocca il primo pezzo di carne, allora anche il presidente fece altrettanto. Da quel momento e per i minuti a seguire, calò fra loro un silenzio pesantissimo, che però sembrava dare fastidio soltanto a Bill. Bushido, infatti, mangiava tranquillamente, gli occhi bassi sul piatto e la schiena dritta, come se quella situazione fosse perfettamente normale.
Bill fu preso da un moto di stizza e allungò una mano verso la caraffa di terracotta al centro del tavolo. Non aveva idea di cosa ci fosse dentro, ma voleva berlo e solo perché Bushido non gliene aveva versato nemmeno una goccia.
L'uomo però gli strinse subito una mano intorno al polso, impedendogli di farlo. “Questo no,” esclamò guardandolo con serietà.
“Scusa?” Bill spalancò la bocca, incredulo. Cercava disperatamente di essere educato, gli aveva dato anche del lei la prima volta, ma c'erano cose che proprio non sopportava. Tipo che lo si invitasse a cena e poi gli si impedisse di servirsi di ciò che preferiva, e con quella sufficienza poi. “Non mi è permesso neanche scegliere cosa mangiare o cosa bere?”
“E' succo di mela,” esclamò l'uomo, con lo stesso tono. “Sei allergico.”
Bill lasciò la presa sulla brocca e Bushido quella su di lui, riprendendo a mangiare.
Il ragazzino era talmente sconvolto dal fatto che quell'Anis sapesse anche questi dettagli, che non riuscì a staccargli gli occhi di dosso e, visto che non smetteva di fissarlo, Bushido s'irritò e posò di scatto le posate.
“Che cosa c'è?”
Bill deglutì. “Io non pensavo... che lo sapesse.”
Bushido sospirò, guardando il proprio piatto prima di rispondergli. “Non ti piacciono gli asparagi e le zucchine, per questo non le hai nel piatto. La torta è di panna, perché la cioccolata ti nausea e hai una passione poco sana per le caramelle. Devo continuare?”
Il moro boccheggiò qualche istante, sentendosi molto stupido ad aprire e chiudere la bocca come un pesce, senza trovare le parole da dire. Lo sguardo dell'uomo, ora, sembrava molto più sicuro del suo.
“E' questa la cosa più assurda,” mormorò alla fine il presidente, mentre la linea delle sue labbra si addolciva nell'ombra di un sorriso. “Siete identici, eppure non sei lui.”
Bill sollevò lo sguardo, stupito nel sentire quelle parole, visto che l'uomo, più di chiunque altro, sembrava convinto di aver davanti la persona che aveva perduto. Invece, adesso, sembrava perfettamente consapevole di avere davanti qualcuno che non era ciò che si aspettava, e Bill lo capiva dall'espressione che c'era nei suoi occhi, che nonostante tutto erano gli occhi di Anis.
“Se ti guardo, è facile ingannarmi,” disse il presidente, alzandosi in piedi. Bill lo seguì con gli occhi mentre faceva il giro del tavolo, il completo elegante tagliato su misura che si adattava ai movimenti del suo corpo. “Me lo ricordo benissimo, sai? Il suo viso non è mai sparito dai miei ricordi come succede dopo qualche anno, quando una persona muore. Lo vedo ancora chiaramente. E' qui, dentro di me.” Il presidente si premette l'indice contro la testa e il cuore di Bill esplose, perché era come il suo Anis.
Non alzò la testa per non guardarlo mentre si avvicinava. Lo sentì dietro le spalle e socchiuse gli occhi, deglutendo quando lui gli scostò i capelli dal collo e gli annusò piano la pelle, sfiorandolo ma senza toccarlo veramente in un gesto rispettoso ma così pieno di bisogno che Bill fu attraversato da un brivido. “Avete anche lo stesso profumo”, mormorò.
Ci volle tutta la sua forza di volontà per recuperare le parole dal fondo dello stomaco, liberarle dalla stretta di quei brividi ed in fine lasciarle uscire dalle labbra. “Non sono io, però.”
“No, non lo sei,” ripeté il Presidente, con lo stesso tono dolce ed indulgente, ma era a se stesso che parlava e non a lui.
Bill provò un vago senso di delusione per questa ammissione. Era stupido, naturalmente, perché se il Presidente accettava quella verità, forse sarebbe stato più facile tornare a casa, ma una piccola parte del suo cuore s'incrinava, sentendosi privato del suo uomo una seconda volta. Sembrava impossibile mettere d'accordo quello che provava e quello che sapeva, l'energia che tratteneva il Presidente era la stessa che tratteneva lui.
“Girati,” ordinò l'uomo. “Per favore.”
Bill obbedì e quando lo fece e sollevò la testa, Bushido era così vicino che le sue labbra gli sfiorarono la pelle della guancia, ma non ne fu sorpreso. Chiusero gli occhi in due, in due si lamentarono piano.
La stanza era così silenziosa che Bill sentiva soltanto il proprio respiro spezzato e quello di Bushido che faticava a trasportare le sue parole. “Tu mi conosci già, non è così?” Chiese. “Tu mi appartieni, nel tuo mondo.”
Bill annuì, rendendosi conto che non lo aveva mai detto all'unica persona a cui sarebbe stato importante dirlo, fargli sapere che capiva il suo dolore e il suo bisogno più di chiunque altro.
Bushido gli accarezzò il collo con una mano e Bill lo sentì perdersi immediatamente, come si stava perdendo lui. Alla stessa pericolosa velocità.
Quando le loro labbra si sfiorarono, Bill iniziò a scuotere la testa, violentemente, impaurito da quello che gli sarebbe uscito di bocca se si fosse permesso di parlare. Cercò di allontanarsi, ma in realtà non si mosse affatto e mentre si scuoteva forte, Bushido gli afferrò la nuca e lo tirò a sé, appoggiando la fronte alla sua.
“Guardami, Bill,” lo chiamò. “Guardami, ti prego.”
Il ragazzo sospirò, già sapendo che una volta alzato la testa, lo sguardo che si sarebbero scambiati era destinato a portarli in una sola direzione.
Avrebbe dovuto dirgli che lui non era quel Bill, che non era giusto e che non sarebbe servito a colmare i loro vuoti; ma non ci riuscì, perché quando chiuse gli occhi, quelle erano davvero le labbra di Anis, il sapore di Anis e le sue braccia che lo stringevano forte e con lo stesso, identico amore.
Immaginò di poter essere il suo Bill, se lui poteva essere il suo Anis.
Se entrambi, alla fine, ne avevano bisogno.



*


“Chaku!” Il nome gli uscì di bocca troppo di fretta e troppo sorpreso per poter nascondere l'imbarazzo, mentre sgattaiolava fuori dalla stanza con la felpa stretta per il cappuccio e le scarpe in mano.
Si sentiva come quando, da piccolo, rubava i biscotti prima di pranzo e sua madre lo beccava sulla porta della cucina. “Che... che ci fai qui?”
L'uomo era fermo in mezzo al corridoio, le braccia rigide lungo i fianchi e lo guardava, dando segno di non aver frainteso la situazione neanche un po' e di non apprezzarla affatto.
Bill si sentì molto a disagio sotto quell'espressione severa.
“Stavo andando dall'Alchimista e ti ho visto uscire,” rispose.
Bill si passò una mano fra i capelli spettinati, consapevole del proprio aspetto scompigliato. “Capisco,” balbettò. “Io stavo... ecco, la cena è finita.”
Chakuza non mosse nemmeno un muscolo. Il suo viso rotondo rimase immobile ed indecifrabile, tanto che Bill sentì il bisogno di mettersi la felpa e poi, quando si rese conto che questo avrebbe attirato l'attenzione sulla sua persona, si limitò a stringersela addosso, cercando di essere disinvolto nell'incrociare le braccia. Non ci riuscì per niente. “Io stavo... andando in camera,” insistette. Non aveva idea del perché avesse sentito il bisogno di dirglielo o quello di giustificarsi. Forse perché, anche nel suo mondo, quando qualcuno lo beccava per caso uscire seminudo dalla stanza di Bushido finiva sempre per sentirsi in imbarazzo o loro ce lo facevano sentire prendendolo in giro, per cui generalmente tentava di dissimulare.
Chakuza annuì di nuovo. “D'accordo,” commentò. “Anche se non dovresti girare da solo per il castello.”
“Farò in fretta, non mi vedrà nessuno,” lo rassicurò Bill annuendo freneticamente.
“Bene.”
Bill rimase lì impalato perché non sapeva cosa dire e non sapeva nemmeno come fosse finito in quella situazione o come gestire l'improvvisa severità di Chakuza. Alla fine pensò che sarebbe stato ancora più imbarazzante starsene lì in piedi a non dire nulla, così si avviò a caso nella direzione opposta a quella dell'uomo e si fermò circa quattro passi dopo.
Sentì Chakuza sospirare alle sue spalle. “Non sai dove andare, vero?”
Bill si girò molto lentamente e arricciò il naso. “No.”
Chakuza socchiuse gli occhi un istante e si massaggiò la fronte, cercando probabilmente la pazienza o Dio solo sapeva cosa sul pavimento. “Vieni, ti accompagno.”
“Non c'è bisogno, davvero,” saltò subito su Bill, rendendosi conto che era il caso di perdersi, piuttosto che costringere Chakuza a passare del tempo con lui. “Io...”
“Tu ti perderesti appena girato l'angolo,” commentò Chakuza, guardandolo rassegnato. “Coraggio, vai avanti, ti seguo.”
Bill si avviò alla cieca e imboccò il corriodio che aveva davanti, quando quello si divise a destra e a sinistra, prese a sinistra e Chakuza lo fermò fischiando. Si voltò e l'uomo gli indicò dall'altra parte con un cenno della testa, aspettando che passasse prima di seguirlo. Ci vollero circa cinque minuti di fischi e cenni di testa prima che arrivassero di fronte alla porta della stanza che Bill conosceva.
“Grazie,” mormorò Bill, sfiorando il legno con il palmo della mano. Poi prese un respiro profondo e si girò, incerto su cosa dirgli esattamente. “Senti, è evidente che questa cosa ti dia molto fastidio e io posso solo immaginare perché, ma...”
“Sono stato inopportuno,” lo interruppe Chakuza. “E' una tua scelta e... non sono affari miei.”
Bill si torse la maglia fra le mani. “Non c'è stata nessuna scelta,” balbettò confuso e, quando Chakuza alzò lo sguardo sgranando gli occhi, si rese conto di essere stato ambiguo e aggiustò il tiro: “Cioè, è stata una scelta, ma limitata. Non si ripeterà. Non credo. Non lo so e comunque, a giudicare dalla faccia che hai, parlandone sto solo peggiorando le cose, vero?”
“E' solo che è molto....” Chakuza sbuffò incerto. “E' frustrante e non sai quanto.”
“Io non sono lui,” mormorò Bill, dispiaciuto. Sperava che ripetere il già ampiamente ripetuto, potesse in qualche modo servire a qualcosa.
Chakuza sospirò rassegnato e quando sollevò di nuovo gli occhi su di lui, lo fece con tenerezza. “Lo so. E' proprio per questo che è frustrante,” poi rise fra sé per quello che aveva detto. “Ma non importa, davvero. Mi dispiace se... ti ho fatto sentire in imbarazzo. Devi avere pazienza con me, non sono molto bravo ad abituarmi alle cose nuove.”
Bill sorrise, pensando alla battaglia che da anni il suo Chakuza combatteva contro la tecnologia. “Lo so,” ridacchiò. Quindi, cogliendolo di sorpresa, si allungò ad abbracciarlo stretto e gli lasciò un bacio sulla guancia. “Grazie per avermi riportato in camera.”
Chakuza ricambiò la stretta e sorrise.

*




Nel suo mondo, la prima cosa che gli uomini di Bushido avevano imparato quando avevano conosciuto Bill, era che non si arrendeva mai e che, se voleva qualcosa, in un modo o nell'altro la otteneva sempre.
Bill pensava che anche le copie di quegli stessi uomini dovessero prendere familiarità con il concetto e quindi aveva trovato il modo di chiarire fin da subito che la propria determinazione a tornare a casa non avrebbe mai vacillato, né dopo un giorno, né dopo dieci, né dopo cento.
Per raggiungere questo obbiettivo, aveva stabilito una routine giornaliera secondo la quale ogni mattina si presentava nello studio di David e pretendeva da lui dei progressi riguardo al suo macchinario per rispedirlo sulla terra e, se l'uomo non gliene forniva, lo minacciava per ore di morti orrende finché Chakuza non lo trascinava di peso fuori dal laboratorio dell'alchimista, il quale era ogni giorno sempre più spaventato.
Quella mattina non era diversa dalle altre e l'ombra di Bill si allungò sul pavimento alle dieci e mezzo spaccate, mentre l'ultimo rintocco dell'enorme torre dell'orologio risuonava lugubre per tutto il palazzo. David era impegnato in un calcolo che ricopriva le otto lavagne sulle pareti e quando la cresta leonina di Bill coprì la metà di equazione che stava cercando di risolvere, deglutì rumorosamente e si affrettò a mettere il gessetto in tasca prima di perderlo in terra per i tremori. “Bill,” salutò, con un sorrisetto nervoso.
“David,” il sorriso del mattino di Bill non era mai rassicurante. Lo guardavi e pensavi che sarebbe potuto saltarti al collo da un momento all'altro.
“Come va? Dormito bene?” Chiese l'alchimista, facendo due passi di lato quando Bill venne avanti per frugare con disinteresse tra le cianfrusaglie che l'uomo teneva sul tavolo lì di fianco.
“Non c'è male, grazie,” rispose il cantante e poi, annoiandosi di ciò che aveva per le mani, si diresse spedito verso la poltrona in fondo alla stanza. “Ho delle cose da discutere con il Presidente, quindi facciamo così: ora io mi siedo dieci minuti e tu mi racconti che cos'hai scoperto sul mio ritorno a casa, ti va?”
David lo osservò lasciarsi andare seduto e far girare la sedia su se stessa un paio di volte, come fosse il padrone della stanza, del palazzo e probabilmente dell'intero quartiere.
“Ogni dannatissimo giorno,” borbottò a bassa voce. “Questa è tortura.”
Chakuza si avvicinò all'alchimista, che era sbiancato leggermente, e si chinò verso di lui sussurrando: “Se vuole un consiglio, signore, farà meglio ad avere buone notizie perché la Luce di Tempelhof non ha ancora fatto colazione ed è molto, molto irritabile.”
“Sto aspettando!” Arrivò la voce di Bill, che mandava la sedia avanti e indietro come un bambino impaziente.
“Sì, dunque,” vagheggiò l'alchimista, torturandosi le mani e avvicinandosi a Bill con la schiena un po' ingobbita. “Come ti ho già detto, la situazione non è delle migliori, Bill. Con il tuo passaggio, il cerchio che ti ha portato qui è andato distrutto irreparabilmente.”
Bill non si disturbò nemmeno ad alzare la testa, continuò ad impilare uno sull'altro i bulloni che aveva trovato girando un contenitore. “Queste sono tutte cose che so già, David,” gli fece notare. “Dimmi qualcosa di nuovo.”
“Ho studiato ancora una volta gli schemi del teletrasporto e potrei aver trovato una soluzione, diciamo, temporanea al tuo... al nostro problema.”
Bill lo guardò, attento ma apparentemente non impressionato. Una parte di lui non voleva alimentare false speranze per poi vederle frantumarsi all'ultimo istante. Era più semplice immaginare che la soluzione fosse ancora lontana, piuttosto che riprendersi dalla delusione. “E sarebbe?”
“Io non posso ricostruire il portale,” ribadì l'alchimista, come se fosse l'unica conclusione a cui era arrivato nonostante tutto quel rimuginare per giorni. “Però ho pensato che potremmo fare una cosa diversa. Prendiamo ad esempio questo libro.”
Bill sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Come mai non mi stupisce?”
L'alchimista lo guardò storto, ma non disse nulla. “Dunque, io ti ho portato qui sbirciando nella trasparenza delle pagine,” esclamò, sollevandone una e facendoci passare la luce in mezzo. “Ma se io piego questa pagina su se stessa, la piega appena formata lacera la carta e la rende più sottile, portando le due facciate più vicine di un micron.”
Bill lo osservò piegare la pagina per lungo e premere forte lungo la piega, in modo da creare una profonda riga scavata.
“Se la mia pagina fosse questa realtà e io riuscissi a piegarla sul punto esatto della tua realtà dal quale ti ho strappato, questa piega virtuale creerebbe una micro-lacerazione, per così dire, tra le due realtà, permettendoti il passaggio dall'una all'altra.”
Bill si prese qualche minuto per riflettere. In pratica si trattava di creare uno strappo, attraverso il quale passare per raggiungere il retro di un foglio. Aveva senso. “Perché non creare direttamente un foro?” Chiese, bucando la pagina con una matita.
“Perché se facessi questo, il foro creato risucchierebbe in sé entrambe le realtà chiudendosi su se stesso, come un buco nero!” Protestò l'Alchimista, interdetto. “Lo saprebbe anche una capra. Si può sapere che cosa fai nel tuo mondo a parte gonfiarti i capelli con la lacca e impiastricciarti la faccia in quel modo?”
Bill aprì bocca per mangiarselo vivo e fece anche per saltargli al collo, ma Chakuza gli appoggiò le mani sulle spalle e lo tenne seduto. “E piegando la pagina, invece?” Chiese, per deviare gli istinti omicidi della Principessa.
“E' proprio questo il punto,” commentò David, pensieroso. “Piegare la realtà potrebbe essere semplice, trovare il punto esatto in cui farlo non lo è altrettanto. Inoltre sarebbe una cosa temporanea, perché non possiamo certo mantenere la piega per sempre, il che significa che avremmo un tempo limitato per fare tutto: piegare, trovare il punto e far passare Bill dall'altra parte. Senza contare che arrotolare lo spazio su se stesso interferisce col tempo, il che significa che potremmo essere sbalzati indietro nel tempo, senza la minima possibilità di calcolare i danni in anticipo o di ripristinarli in seguito. Le incognite sono troppo numerose e i rischi troppo alti.”
“Procediamo,” commentò Bill, alzandosi.
“Che cosa non hai capito di incognite troppo numerose e rischi troppo alti?” Volle sapere David.
“Abbastanza per sapere che non m'interessa assolutamente niente,” rispose Bill. “Se c'è anche solo il cinquanta percento di possibilità di tornarmene a casa, a me sta bene.”
“Io parlerei più che altro del dieci percento,” balbettò confuso e agitato l'alchimista, seguendo Bill che, a grandi passi, si dirigeva verso la porta. “Anzi, il cinque... magari il tre. E' una percentuale molto, molto bassa.”
“Ce la faremo bastare,” insistette Bill.
“No.”
Bill si fermò sulla soglia e per un attimo rimase immobile, quindi si girò molto lentamente e lasciò che la propria ombra infinita si allungasse sull'uomo di fronte a lui che sembrava improvvisamente più piccolo di prima. “Non credo di averti sentito,” commentò e fece una gran fatica a mantenersi completamente serio mentre lo diceva, perché gli veniva in mente il suo Bushido quando qualcuno dei suoi diceva qualche idiozia: lui lo guardava storto e poi sosteneva di non aver sentito bene e quello, generalmente, cambiava la frase in modo che gli piacesse.
“Ho detto no,” ripeté l'alchimista, forte e chiaro. “Non farò nessun tentativo. Non prima di aver fatto tutti i calcoli che sono in grado di fare e anche un paio che potrei imparare a fare per l'occasione.”
A Bill si illuminarono gli occhi.
“E soprattutto...” aggiunse David, serissimo. “Non farò niente senza l'autorizzazione del Presidente. Dovrà darmi il permesso per ogni singolo movimento di questa realtà e anche di tutte le altre, se ce ne sarà bisogno.”
“Nessuna responsabilità, nessun danno,” commentò Chakuza, con un'alzata di sopracciglio. “Se io facessi così quando riparo gli automezzi giù in garage, la mia vita sarebbe molto più facile.”
David lo liquidò con un gesto della mano, senza nemmeno voltarsi. “Mi dispiace Bill,” disse contrito, probabilmente convinto per qualche assurdo motivo che il ragazzino non si sarebbe mai avventurato fino a chiedere a Bushido di essere l'artefice della sua partenza.
Quello che David non aveva calcolato erano gli sviluppi dei quali, per altro non era a conoscenza. In più, era abituato ad avere la capacità di far desistere il suo Bill dal fare qualsiasi cosa, se era necessario e, ingenuamente, pensava di essere l'unico là dentro – con la sua straordinaria intelligenza e il suo inestimabile acume, probabilmente – a poter gestire allo stesso modo anche questo nuovo Bill. Si sbagliava, naturalmente.
“Tu lascia a me il Presidente,” esclamò il moro, con un ghigno che era tutto un programma. “A farti avere i permessi ci penso io. Tu piega questo foglio e rimandami a casa.”
La mascella di David arrivò fin quasi al pavimento, mentre lo guardava uscire tranquillo dalla stanza e poi fermarsi, canticchiando, in attesa della sua guida.
“Non è possibile,” mormorò.
Chakuza lo oltrepassò battendogli una mano sulla spalla con fare compassionevole. “Lei non ha idea di quante cose sono diventate possibili da quando è qui.”
Bill aveva deciso di fare determinate cose a modo suo, ma sapeva anche che per farle e perché gliele lasciassero fare, doveva anche cedere un po' di terreno, così aveva imparato a non partire in quarta per i corridoi – nemmeno per quei pochi che riconosceva – e ormai aspettava più o meno compostamente che Chakuza lo seguisse; la cosa, stranamente, gli aveva fatto guadagnare una serie di vantaggi con le serve, le quali non lo guardavano più tanto male e, fintanto che lui si ricordava di non parlare loro direttamente, stavano andando d'amore e d'accordo.
“Dove ti porto?” Chiese Chakuza, che a sua volta si stava abituando a convivere con un Bill che non si faceva più decidere la giornata da altre persone.
“Nelle stanze del Presidente,” rispose Bill, osservandosi con attenzione le unghie e notando che lo smalto stava iniziando a scheggiarsi.
Chakuza svoltò a destra di colpo e, come aveva previsto, Bill andò dritto perché non lo stava guardando. Lo recuperò al volo per una manica e se lo tirò dietro. Il cantante inciampò per due o tre passi ma rimase in piedi e, per una volta, l'uomo accanto a lui non fece nessun tentativo per recuperarlo al volo. Stava davvero imparando.
“Pensavo che con tutte le volte che hai fatto avanti e indietro, in questi giorni, sapessi dov'è la camera del Presidente,” commentò e anche se il tono era divertito, c'era una nota acida che era difficile non notare.
“Chakuza...” lo rimproverò Bill, alle sue spalle, sfiorando con le dita le rose ai lati del sentiero mentre attraversavano l'enorme giardino aereo del palazzo.
“Lo so, lo so! Non sono affari miei se hai una storia con il Presidente!” L'uomo alzò le mani in segno di resa.
“No, non sono affari t...e no che non ho una storia con Bushido!” esclamò Bill, la voce un po' troppo stridula. Tra l'altro era assurdo perché, nella sua verità, quella frase era la cosa più falsa che avesse mai detto. Insomma, lui aveva una relazione con Bushido, solo non quel Bushido. Poteva sostenere di non avere nessun rapporto con quell'uomo senza mentire in un modo o nell'altro?
“Quindi è solo una storia di sesso,” commentò Chakuza.
“Sì!” Esclamò Bill, di getto. “Cioè no!... Sì. No. No, okay?”
Chakuza lo aveva osservato con un sopracciglio sollevato mentre farfugliava indeciso. “Si o no?”
“Sì facciamo sesso ma no, non è una storia di sesso,” fu la risposta e poi aggiunse piccato: “E non è nemmeno una storia!”
Chakuza incrociò le braccia al petto e lo guardò, se possibile, ancora più dubbioso. “Quindi mi stai dicendo che non avete una storia di nessun tipo ma che occasionalmente andato a letto insieme?”
“Sì. Credo.” Anche Bill sembrava dubbioso.
“E come credi che questo potrebbe essere meglio che averci una storia?” Protestò Chakuza, che nel frattempo lo aveva anche portato dall'altra parte del palazzo, verso le stanze del Presidente.
“Non lo so!” Esclamò esasperato Bill. “E' successo...” fece una pausa “... un po' di volte.”
Chakuza si limitò a sbuffare senza dire niente, ma i suoi sbuffi avevano un tale carattere che sapevano perfettamente come farsi capire.
Bill lo seguiva guardandosi intorno nel tentativo disperato di creare dei punti fissi da recuperare in un secondo momento. L'ultima volta che si era mosso da solo, contravvenendo alle regole e rischiando, probabilmente, la lapidazione su pubblica piazza, si era perso quattro volte, una delle quali era finito nelle cucine, dov'erano tutte donne e nessuna, naturalmente, aveva aperto bocca.
Alla fine, visto che era calato il silenzio, si decise a romperlo lui. “Avanti, che cosa c'è?” Chiese.
“Niente.”
“Certo, come no. Niente,” lo prese in giro. “Prima mi fai la paternale e poi di colpo la pianti lì e ci facciamo mille chilometri in silenzio. A proposito, dove diavolo è questo posto? In un altro stato?”
“Siamo quasi arrivati. E comunque non ti sto facendo la paternale,” borbottò l'uomo. “Puoi fare quello che vuoi, tu.”
“Esatto.”
“Quindi se vuoi infilarti nel suo letto sono affari tuoi.”
Bill alzò gli occhi al cielo. “Chakuza, mi spieghi qual è il problema?”
“Io non ho nessun problema,” si difese l'uomo, allargando le braccia con aria malamente disinteressata. “Dico solo che se, come dici, c'è un Bushido nel tuo mondo e state insieme, allora forse non dovresti andare a letto anche con questo.”
Come ogni volta che qualcuno aveva ragione e lui torto, Bill perse la pazienza. “Di che cosa stiamo parlando, esattamente, Chakuza?” Sibilò fermandosi e costringendo lui a fare lo stesso. “Del fatto che io vado a letto con un Bushido che non mi compete o che ci andava il tuo Bill?”
Chakuza era già pronto a difendersi, ma rimase a bocca spalancata, incapace di articolare più di qualche suono confuso. “Io... che cosa ti fa pensare che...”
“Oh ma ti prego, Chaku!” Bill lo guardò esasperato. “Non fai che guardarmi con gli occhi da triglia, sai qualunque cosa del mio doppio e non ti imbarazza vedermi nudo, cosa che presumo derivi dal fatto che ci sei abituato... e poi mi hai baciato! Tu andavi a letto con lui!”
Chakuza si guardò intorno allarmato e poi gli fece segno di abbassare la voce. “E' molto più complicato di così,” sibilò.
“Ah, adesso è complicato,” esclamò testardo Bill.
“Molto più che complicato, credimi,” annuì l'uomo, gli occhi sgranati e molto nervoso.
“Non ci sono molte possibilità, sai?
“Bill, ascolta...”
“E' così oppure no?” Insistette.
Chakuza si passò una mano sulla faccia. “Ascolta...”
“Andavi o no letto con la Luce di Tempelhof?” Esclamò Bill a voce più alta.
Chakuza lo incollò al muro di schianto, tappandogli la bocca con la mano. “Sei impazzito per caso?” Esclamò, sconvolto, guardando il corridoio prima da una parte e poi dall'altra per assicurarsi che non l'avesse sentito nessuno. Poi lo fissò dritto negli occhi, prima di liberarlo.
“Rispondimi o mi metto ad urlare.”
Chakuza sospirò, rassegnato. “Sì. Contento?”
Bill ghignò.
Il carpentiere lo guardò storto. “Che c'è, ancora?”
“Adesso voglio i dettagli.”
“Ah no, te li puoi scordare! Ora fila dal Presidente,” lo liquidò, spingendolo un po' lungo il corridoio.
Bill si voltò a guardarlo. “Tanto te li chiederò quando esco.”
“E io non mi farò trovare.”
“Certo, già ti vedo che mi lasci solo a vagare senza meta per questo palazzo lugubre.”
Chakuza si fermò davanti alla porta. “Potrei farlo,” minacciò a vuoto. Poi tossì, grattandosi la nuca. “Comunque...riguardo a quello che ti ho detto...”
Bill sorrise, smettendo di fare l'infame. “Tengo la bocca chiusa, non preoccuparti. Ma ti costerà un sacco di dettagli.”
L'uomo alzò gli occhi al cielo mentre Bill gli faceva la linguaccia ed entrava nella stanza.

*


Bill entrò negli uffici del Presidente quasi fischiettando.
Si chiuse la porta alle spalle e non si arrabbiò nemmeno quando una delle ampie maniche dell'abito gli rimase incastrata nella porta, come per altro succedeva spesso perché continuava ad essere vestito in maniere indecenti, nonostante fosse lì da settimane, perché non riusciva a far capire alle sarte che cosa volesse senza che quelle cucissero cose improponibili di testa loro.
“Ti vedo allegro, stamattina,” commentò Bushido.
Bill si guardò intorno, individuandolo seduto alla scrivania che, data la grandezza di quell'ufficio, era circa all'altro capo del mondo.
“Lo sono,” annuì per poi sedersi sulla poltrona di fronte alla sua. “Volevi vedermi?”
Il passaggio tra il lei e il tu era stato inevitabile e anche necessario. Bill non sapeva come si comportasse con lui l'altro Bill, ma di certo lui non avrebbe accettato di dividere saltuariamente il letto con quell'uomo dandogli del lei, sarebbe stato ancora più imbarazzante di quanto già non fosse, a volte. E comunque, adesso che sapevano entrambi la verità, era tutto un po' meno drammaticamente formale.
“In effetti sì, c'è una cosa che devo chiederti.”
Bushido alzò lo sguardo su di lui e gli sorrise, riuscendo ad inchiodarlo là dov'era. I suoi occhi non erano più scuri e impenetrabili com'erano stati all'inizio, il che era ancora peggio perché adesso lo turbavano in tutt'altro modo. Erano sinceri e divertiti, ma anche molto imbarazzati, il che lo rendevano simile non al Bushido che conosceva, ma a quello un po' più giovane e insicuro. Quello di Tempelhof, quello prima del rap e prima di lui, che avrebbe tanto voluto conoscere. Scosse la testa per togliersi strane idee dalla testa e annuì. “Certo, dimmi pure.”
Bushido lasciò perdere quello che stava facendo ossia, per quanto ne capisse, scrivere paginate intere con una stilografica vecchio stampo su un enorme quaderno in pelle rilegato a mano, e si alzò in piedi, aggirando la scrivania con le mani dietro la schiena. Bill ne rimase impressionato, doveva essere un discorso importante.
“Tu sai come funziona questo posto, Bill? Te lo hanno detto?” Chiese.
“Non esattamente,” ammise. “So che la città fu divisa in zone dopo che il Cancelliere fu ucciso con un colpo di stato e che, da allora, i ghetti si fanno la guerra.”
Bushido annuì. “Inizialmente i ghetti erano soltanto tre, affidati ognuno al figlio dell'uomo che aveva assassinato il Cancelliere. Poi, naturalmente, quei figli ebbero a loro volta dei figli che litigarono per il potere e divisero ulteriormente la città. Io ho ereditato questo regno da mio padre, circa quindici anni fa.”
Se Bill faceva bene i conti, e se questo Bushido era identico al suo anche per età, allora il presidente era diventato tale a quindici anni. Impressionante, se pensava che lui a quell'età era appeso a testa in giù a cantare di monsoni.
“Allora Tempelhof era molto più grande ma le cose erano un po' diverse e la guerra non era così violenta. Tutto è peggiorato da quando Sido ha deciso di diventare un mio nemico. Quando si è rivoltato, con alcuni dei suoi, è riuscito a portarsi via un gran pezzo di Tempelhof e aspira a prenderla tutta, ma non c'è ancora riuscito.”
A Bill quasi venne da ridere mentre si chiedeva se c'era un posto nell'universo in cui Bushido e Sido non volessero accopparsi a vicenda, realmente o metaforicamente parlando. Era chiaro che certi punti chiave dell'esistenza di ognuno non cambiavano mai.
“Nel periodo più violento del nostro scontro, io ho conosciuto Bill,” la voce del presidente si fece più morbida e nostalgica. Un po' come tutte le voci di quelli che gli avevano parlato dell'altro Bill fino a quel momento, il che aveva contributo a renderlo particolarmente odioso ai suoi occhi. “E quando l'ho sposato, la gente di Tempelhof ne fu molto felice. Quel matrimonio era la prima cosa bella che capitava nel ghetto da quasi cinquant'anni, era un segno di speranza, in qualche modo.”
Bill aveva un po' di confusione nel cervello, o meglio non ce l'aveva ma quello che gli ronzava in testa era talmente poco lusinghiero per la sua persona, che preferiva pensare di non averci capito niente. Quest'uomo era palesemente innamorato del morto, in un modo triste e dolce che un po' spezzava il cuore anche a lui – probabilmente il suo Anis sarebbe diventato come questo se lui fosse morto. Forse lo era già, visto che ormai, nel suo mondo, era scomparso da mesi – ma se le cose stavano così, dove si collocava in tutto questo, la relazione che Bill aveva con Chakuza?
“Quando lui è morto...” la voce di Bushido si spezzò di netto, tanto da costringere Bill a voltarsi verso di lui e ad osservarlo mentre deglutiva e stringeva il pugno, guardando il pavimento nel tentativo di trovarci sopra la forza per continuare. “Quando lui è morto,” riprese dopo qualche secondo, con un po' più di convinzione, “il mio popolo ha perso la voglia di continuare a sperare. Bill era la loro luce e Fler gliel'aveva portata via. Il fatto che il suo omicida fosse uno del regno, uno dei miei, non ha fatto che peggiorare le cose. Se c'era anche una sola speranza che questa guerra finisse, è morta con lui.”
“Che cosa?” Sbraitò Bill, sconvolto. Bushido si voltò verso di lui, un po' sorpreso di sentirlo urlare e, di fronte al suo sguardo interrogativo, Bill aggiunse: “E' stato Fler ad uccidermi?”
“Lo conosci?” Il presidente sbatté le palpebre un paio di volte e poi le sue labbra si aprirono inaspettatamente in un sorriso mentre scuoteva la testa. “Certo, naturalmente. Ce n'è uno anche da dove vieni tu.”
“Sì e non mi metterebbe mai le mani addosso,” puntualizzò Bill.
Bushido strinse i pugni. “Lo pensavamo anche noi,” disse. “Ma, io... Beh, non era questo di cui ti volevo parlare, in ogni caso. Il punto è che il popolo è stanco e sfiduciato e le sommosse si stanno facendo sempre più violente e più organizzate. Questa mattina il capo delle guardie mi ha informato che un gruppo di rivoltosi ha aggredito una squadriglia, giù al mercato. Sono morti quattro dei nostri.”
“Mi dispiace,” commentò Bill, che non era troppo sicuro di doversi dispiacere. Non sapeva abbastanza del popolo e dell'esercito per sapere se quest'ultimo fosse stato davvero attaccato gratuitamente. Decise che poteva pur sempre dispiacersi per i morti in linea generale.
“E sono settimane che il popolo protesta o si rifiuta di lavorare. Sto perdendo il controllo del ghetto e questo è inaccettabile,” concluse il presidente, voltandosi di scatto. Il sole di mezzogiorno si stagliava alle sue spalle attraverso la vetrata, rendendo l'intera scena molto drammatica. “La gente ha bisogno di ritrovare la speranza, Bill, e voglio essere io a ridargliela.”
Bill corrugò la fronte e annuì molto lentamente. “Non so esattamente di cosa stiamo discutendo qui, senza offesa, ma immagino che il discorso abbia un senso,” commentò. “Che cosa c'entro io?”
“Tu sei uguale alla vera Luce di Tempelhof,” rispose Bushido. “E per loro significherebbe molto vederti sorridere dopo due anni. Sono certo che ritroverebbero la forza di sopportare questa situazione.”
Il cantante provò due volte a rispondere prima di riuscirci davvero. “Sì, ma io sono morto,” commentò, sentendosi ridicolo a doverlo dire ad alta voce. “Non posso saltare fuori dal nulla dopo due anni e sorridere senza scatenare il panico. Che cosa gli dirai?”
“Che ti abbiamo riportato indietro.”
“Da dove? Dal regno dei morti?” Chiese Bill, ironico. “Non è un tantino inquietante?”
“Io non devo dare delle spiegazioni, sono il Presidente.”
Bill si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli. “Sì, d'accordo, non devi dare spiegazioni se decidi di andare in guerra, di fare una legge o di spianare ettari di foresta per farci un centro commerciale, ma la gente vorrà sapere perché un ragazzo morto da anni sta ora salutando amorevole dal balcone, non credi?”
Bushido si strinse nelle spalle. “Non avrà importanza da dove vieni, quando ti vedranno.”
“Okay, allora mettiamola così: io me ne andrò di nuovo. E molto presto, anche. Non sarà peggio se mi vedranno per poi vedermi sparire di nuovo? Tutto questo dare e togliere speranza potrebbe provocare una rivolta ancora più grossa, non credi?”
“Bill non si mostrava spesso. L'illusione del suo ritorno durerà molto oltre la tua partenza,” esclamò Bushido. “Se mai avverrà.”
“Sì che avverrà,” borbottò Bill e sentendo lo sguardo di Bushido su di sé, aggiunse: “David ha trovato il modo.”
“Oh.”
“Già.”
Sulla stanza calò il silenzio. L'intera situazione aveva avuto la capacità di ammazzare sul colpo tutto l'entusiasmo che Bill aveva avuto entrando. Non aveva idea di come avesse potuto pensare di dare quella notizia a Bushido senza innescare la tragedia.
“Era di questo che volevi parlarmi quando sei entrato?”
Bill annuì.
“In che modo vuole rispedirti a casa? Il passaggio era rotto, a quanto mi ricordo.”
Il ragazzino sospirò. “Sì, ma lui crede di aver capito come piegare la realtà su se stessa e creare un passaggio per me da attraversare. So che può sembrare assurdo ma...”
“No, ha perfettamente senso,” concordò Bushido. “Una piega nello spazio tempo potrebbe funzionare, anche se metterebbe a rischio la nostra esistenza e i due universi in cui viviamo.”
Bill lo guardò ad occhi sgranati.
“Non mi guardare in quel modo,” Bushido sbuffò una risata. “So come funzionano queste cose. Diciamo che David è stato il mio precettore, prima di essere il tuo.”
Il ragazzo non era molto convinto, ma non era quello il momento di preoccuparsene. “Ad ogni modo,” tossicchiò per darsi un contegno. “Non farà un bel niente se prima non ha il tuo permesso, quindi...”
“Eri qui per chiedermi di darglielo, sperando che ti avrei lasciato andare.”
Bill lo guardò storto. “Sì, era più o meno l'idea.”
Il presidente si mise a ridere. “Quell'uomo è furbo. Conta sul fatto che io ho bisogno di te,” esclamò. “Però possiamo fare un accordo, principessa.”
Bill si lasciò attraversare dal brivido che quel soprannome gli procurava e poi lo guardò interessato. “Sarebbe?”
Il presidente si staccò dalla vetrata, proprio mentre in lontananza ricominciavano i colpi di mortaio. Bill sentì le pareti tremare e deglutì. Chakuza gli aveva spiegato che erano al sicuro e che non c'era possibilità che il palazzo venisse colpito, ma quando vedevi il lampadario dondolare come un'altalena, tendevi a fidarti poco delle parole di un carpentiere.
“Io sono disposto a dare a David i permessi che gli servono per rispedirti a casa,” disse l'uomo, sedendosi sulla propria scrivania, a qualche centimetro da Bill. “Tu però dovrai comparire come Luce di Tempelhof per calmare il popolo.”
Bill non avrebbe dovuto pensarci su neanche un istante: era quello che voleva contro ciò di cui non gli fregava niente. Eppure l'idea di andare là fuori, alzare le braccia e far urlare la folla di giubilo non lo allettava per niente e gli sembrava sbagliato, come giocare con i morti o qualcosa di simile. Quando aveva detto a David che ci avrebbe pensato lui a Bushido, sperava che gli bastasse mostrare il muso, facendo leva sul cuore affranto del presidente – e, a ben pensarci, nemmeno questa era una cosa granché edificante – ma a quanto pareva, pur soffrendo ancora per la sua perdita, Bushido era ben lontano dal dolore e dalla pazzia in cui lo aveva trovato arrivando. Sembrava quasi che l'arrivo di Bill lo avesse convinto definitivamente della morte dell'altro e che questo, in qualche modo, lo avesse aiutato a superarla. Ora era nostalgico e addolorato, ma non più illuso. Questo rendeva più difficile a Bill rimanere distaccato, dal momento che tutta questa determinazione rendeva il presidente molto più simile al suo Bushido invece di differenziarlo.
“Allora?” Lo incalzò l'uomo. “Non è un'offerta senza scadenza.” Stava scherzando, ma non troppo. Bill se ne rese conto dalla piega delle sue labbra che erano più tese di quanto sarebbero state se il sorriso fosse stato vero.
“D'accordo,” concesse alla fine “Affare fatto.”
Si strinsero la mano e Bill pensò che, alla fine, ingannare tutte quelle persone era un prezzo che poteva e avrebbe pagato volentieri per poter tornare a casa.

*


Bill sapeva che per apparire di fronte alla folla non sarebbe bastato uscirsene sul balcone in pigiama e dire “Ehi, sono risorto, siate felici!” e si era aspettato dei preparativi, magari anche eccessivi visto che in quel palazzo tutto sembrava portato all'esasperazione, ma di certo non aveva previsto la follia che gli si chiedeva di assecondare.
Bushido aveva stabilito che l'uscita pubblica si sarebbe svolta da lì ad una settimana e aveva rilasciato una serie di comunicati video e radio in cui annunciava il proprio discorso, nel corso del quale ci sarebbe stata un'importante rivelazione.
La rivelazione, al momento, stava litigando con Chakuza e, a giudicare dalle rughe sulla sua fronte, che erano andate moltiplicandosi nel corso delle ultime tre ore, l'uomo era più propenso a strangolarlo che non a starlo a sentire. “No, no, no, così non va,” sospirò, passandosi una mano sugli occhi.
Bill sbuffò e si lasciò andare di colpo sulla poltrona, incurante dello strascico del proprio vestito che si allungava alle sue spalle per almeno tre metri. “Certo che non sei mai contento tu!”
“Non devo essere contento io!” Protestò Chakuza. “E stai attento a quel vestito, finirai per strapparlo.”
Bill lo guardò dritto negli occhi e poi tirò a sé lo strascico con una serie di strattoni decisi, per ripicca. “Se si strappa, uscirò sul balcone nudo. Quando mi avranno visto il culo, non gli importerà di come ballo la quadriglia... o qualunque cosa sia che devo fare!”
“Il tuo culo è senza dubbio un bel vedere, ma non lo mostrerai in giro. Quindi adesso ti alzi e ricominciamo da capo.”
Bill lo guardò con un sopracciglio sollevato. “E questa era una frase tanto per dire, o sono informazioni di prima mano, le tue?” Lo prese in giro.
Le guance di Chakuza divennero istantaneamente rosse. “Alzati,” sibilò, spostando a caso delle sedie che erano già fuori dai piedi da secoli.
“Prima o poi dovrai dirmelo, sai?” Commentò Bill, tirando su le gambe per accucciarsi nella poltrona. “Quando voglio sapere una cosa, io non mollo tanto facilmente.”
“Staremo a vedere,” bofonchiò l'uomo e poi lo afferrò per un polso e lo costrinse a districarsi e a tirarsi di nuovo su in piedi. “E ho detto alzati. Non abbiamo tanto tempo.”
Bill inciampò nelle sue gambe, nello strascico e nelle gambe di Chakuza, al quale pestò i piedi, prima di stabilizzarsi. “Ehi! Dov'è finita tutta la gentilezza di quando sono arrivato? Non lo vedi il faccino? Sono Bill,” esclamò.
Chakuza sistemò lo strascico e gli girò intorno per raddrizzargli la schiena e fargli tirare su le spalle. “Lo sarai quando avrai imparato a stare in piedi per bene,” commentò. “Al momento sembri solo un attaccapanni. Questo vestito dovrebbe caderti per bene.”
“La vogliamo smettere di offendere?” Protestò il cantante, cercando di seguirlo con lo sguardo mentre gli trafficava intorno. “Ce la sto mettendo tutta.”
“No, ti stai solo lamentando.”
“E si può sapere perché ci sei tu qui ad insegnarmi? Non sei un carpentiere? Non dovresti... riparare caldaie o cose simili?” Bill incrociò le braccia al petto, imbronciato, e Chaku gliele disincrociò immediatamente.
“Tienile lungo i fianchi, con un po' di grazia,” commentò. “Per tua informazione non riparo le caldaie. Io co-ordino la squadra di operai che lo fa.”
“Una grande differenza. Questo però non spiega perché mi stai dando lezioni di postura.”
“Perché David non può farlo, essendo impegnato a devastare per te lo spazio-tempo. Sorridi.”
Bill tese le labbra in un ghigno. “E non c'era nessun altro di più qualificato di un caposquadra di carpentieri?”
Chakuza sospirò. “Ti ricordo che ero anche il tuo campione e il tuo custode, il che significa che dovevo stare attento che tu non ti comportassi in maniera sbagliata. Io so cosa devi e puoi fare e cosa no. In più non sono una serva, il che mi permette di parlarti e spiegarti come comportarti.”
“Hai sempre la risposta pronta,” borbottò il ragazzino. “Allora che cosa devo fare esattamente?”
Chakuza si mise in piedi al suo fianco. “Il primo ad uscire sarà il Presidente, farà quasi mezz'ora di discorso e poi annuncerà la tua entrata. Si volterà verso di te, quindi saprai perfettamente quando entrare. E poi io sarò lì accanto, quindi non ci saranno problemi. A quel punto la folla sarà in silenzio e tu avanzerai sul terrazzo, con passi brevi e lenti,” lo istruì, avanzando con lui per dargli il tempo. “E tieni la testa bassa. Uscirai con il velo sul viso, quindi di te non si vedrà praticamente niente.”
“Fantastico, così potrò fare le smorfie,” commentò il ragazzino, chinando la testa sommessamente.
Chakuza lo ignorò e continuò la spiegazione. “Ti fermerai al fianco del presidente e rimarrai lì finché lui non farà il grande annuncio e non ti toglierà il velo.”
L'uomo gli sollevò il velo e di certo non sarebbe riuscito a staccargli gli occhi dal viso se Bill non avesse avuto l'espressione meno convinta dell'universo. “Che cosa c'è?”
“C'è che questa cosa è ridicola,” commentò il moro. Portò subito le mani ai fianchi e spostò l'anca, così che la sua bella postura andò a farsi benedire nel giro di due secondi. “Non sono una sposa e non sono donna. Sono... sono un redivivo portatore di speranza e non ti dirò che cosa mi fa venire in mente perché sono tante cose ma non sono blasfemo!”
Chakuza lo guardò sconvolto mentre si toglieva il velo e anche lo strascico, avanzando verso la specchiera in una scia di tulle, stoffa e chincaglieria varia ed eventuale.
“Ne ho abbastanza di questi veli e degli inchini e di essere obbediente,” si lasciò andare ad un ringhio di frustrazione e poi si voltò verso di lui, quasi tremando dal nervoso. “Non ci credo che lui non esplodesse! A meno che non fosse sotto sedativi! Dio! Come si fa a vivere così?”
Chakuza aspettò che si calmasse, finendo per sedersi sul panchetto di fronte allo specchio, quindi lo raggiunse e gli lasciò un bacio sulla tempia. “Hai finito?”
Bill lo guardò storto, attraverso lo specchio. “Sì,” sibilò.
“Bene. Sarà molto più facile ora che hai scaricato tutta questa rabbia repressa.”
“Che cosa sei un carpentiere o un maestro Zen?”
Chakuza rise. “Sono un uomo dalle mille risorse,” rispose tirandolo quasi letteralmente su in piedi. “Forza, manca davvero pochissimo.”
Il moro sospirò, quindi si alzò dal panchetto e si concentrò, per recuperare l'atteggiamento più virginale che poteva – una cosa per la quale il suo Bushido avrebbe riso fino a farsi saltare una vena del collo. “D'accordo, passo lento, testa bassa, sollevamento del velo... poi?”
“Poi, molto probabilmente, il popolo darà di matto. Qualcuno sverrà, molti urleranno e non escludiamo che gran parte della popolazione s'inginocchi ed inizi a pregare.”
“Cosa?”
“Qualsiasi sia il caso, tu rimani impassibile,” si raccomandò Chakuza. “Eri un cantante famoso, giusto?”
Sono un cantante famoso,” puntualizzò Bill.
“Okay, quanto famoso?”
“Molto. Mi conoscono in tutto il mondo,” rispose orgoglioso.
“Ottimo, quindi hai familiarità con le folle urlanti. Immagina di essere ad un concerto, va bene? Guarda tutti con eterno amore e meraviglia, ma con l'unica differenza che non sono loro ad essere lì per te, ma tu lì per loro. Sei felice che siano accorsi sotto quel balcone, la loro presenza ti riempie di gioia, ma ricorda che sono loro che devono ringraziarti per essere presente. Chiaro?”
Bill aprì la bocca per protestare ma Chakuza sollevò un indice per zittirlo.
“Lo so, lo so. Questo non è giusto e dal mondo da cui provieni tutti hanno diritto di tirarti i sassi quando non sono d'accordo e i capi di stato non sono dittatori egocentrici travestiti da democratici condottieri, ma qui non siamo nel tuo mondo, d'accordo?”
Bill sollevò un sopracciglio. “Veramente volevo chiederti se dovrò fare un discorso,” commentò incerto. “Ma... d'accordo, terrò in mente anche questo. Sento dell'astio nei confronti del Presidente, o sbaglio?”
“Sbagli,” rispose di fretta Chakuza. “E riguardo alla tua domanda: no, non dovrai fare nessun discorso. Il vero Bill avrebbe detto qualche parola, ma con te eviteremo, per limitare i danni. Tra le altre cose, il tuo registro non va bene e non basterebbe una settimana per rimetterlo a posto.”
“Tipo? Cioè, che cavolo vuol dire che il mio registro non va bene?”
“Ecco appunto,” sospirò Chakuza. “Lasciamo perdere, d'accordo? Non parlerai. Tanto se il presidente non ti dà il permesso, non potrai farlo comunque. A tal proposito, ricorda che se Bushido vorrà farti qualche domanda, e non so se succederà perché non è stato chiaro sul punto e quando è molto nervoso è meglio non chiedergli le cose due volte, tu risponderai chinandoti piano verso di lui e sussurrandogli la risposta nell'orecchio. La tua voce dev'essere udibile soltanto a lui.”
Bill annuì. “C'è altro che devo sapere o posso andare a chiudermi nelle mie stanze a tremare di paura, in attesa che qualcuno mi salvi?”
“Continua a camminare,” lo rimproverò scherzosamente Chakuza, facendogli cenno con la testa di non smettere di sfilare, col suo bel tomo in testa. “Sai, anche lui aveva difficoltà, a volte.”
Bill girò appena la testa, giusto per riuscire a guardarlo. Rischiò di far cadere il libro, così tornò a fissare davanti a sé. “Ma non mi dire, Miss Perfezione?”
“Guarda che non era nato per fare la Luce di Tempelhof!” Esclamò Chakuza. “Ha dovuto imparare anche lui.”
“E che cosa faceva? Voglio dire, prima di sposare Bushido.”
“Viveva in città. Lui e suo fratello erano arrivati due anni prima, insieme alla madre che era una pittrice,” rispose l'uomo. “Vivevano in una specie di carrozzone semovente che cadeva a pezzi. Sua madre era arrivata a Tempelhof seduta a cassetta di quell'affare che sembrava sempre sul punto di ribaltarsi. Aveva finito per parcheggiarlo a due passi da casa mia, per questo li ho conosciuti.”
“Tu non vivevi qui nel palazzo?”
Chakuza rise. “No, era il tempo in cui davvero riparavo caldaie,” spiegò. “Facevo il carpentiere giù in città e avevo questa catapecchia devastata dai bombardamenti di tre anni prima. Quando pioveva entrava l'acqua e dovevo spargere tinozze un po' ovunque. L'idea era quella di riparare il tetto, naturalmente, ma trovare un'asse di legno che non costasse cifre assurde cominciava ad essere impossibile.”
“E come sono andate le cose? Lui coglieva margherite nei campi, è passato Bushido sul suo cavallo bianco e ha detto che voleva fare di lui la sua regina?”
Chakuza fece una smorfia. “Più o meno, sì. Era il giorno della parata presidenziale, la città era tutta riunita per assistervi. Lui è passato sul suo carro, lo ha visto fra la folla e qualche giorno dopo i suoi funzionari si sono presentati per prelevarlo da casa sua.”
“Aspetta un secondo,” Bill si fermò e recuperò il volume al volo, quando gli cadde dalla testa. “Vuoi dire che lui se ne stava lì tranquillo in mezzo alla folla, ad applaudire sventolando bandierine e Bushido ha semplicemente deciso che da quel momento in poi sarebbe stato roba sua?”
“Più o meno sì.”
“Secondo quale legge?” Chiese Bill. “Cioè, voglio dire, le persone di questo posto avranno dei diritti, un qualcosa che li tuteli, no?”
“Certo, finché questo non contrasta con il volere del Presidente,” annuì Chakuza. “La sua parola è legge.”
“E com'è che sei finito qui?”
“Ho fatto domanda per lavorare a Palazzo non appena Bill è stato trasferito lì e avevo... dei contatti all'interno, quindi è stato abbastanza facile,” spiegò. “Mi hanno passato subito di grado e, visto che conoscevo già Bill e lui ha insistito, sono stato nominato suo campione.”
“E come ci sei finito a letto?”
Chakuza sussultò. “Non come pensi tu,” borbottò.
“Oh, ma io non penso proprio niente,” sorrise Bill. “Ti avrò chiesto di raccontarmelo almeno duecento volte, ormai.”
“E non ti viene in mente che, se non l'ho ancora fatto, magari non voglio farlo?”
Bill ci pensò su. “No,” concluse scuotendo la testa. “Andiamo! Sono curioso! E poi in qualche modo è come se parlassi di me, quindi ho il diritto di sapere.”
Chakuza lo guardò con gli occhi sgranati. “Non peggiorare le cose, è già abbastanza imbarazzante così com'è! Non c'è bisogno di tener presente che Bill era uguale a te.”
“Allora?” Lo incalzò il moro, del tutto indifferente alle sue proteste. “Com'è andata? Rinchiuso dentro il palazzo contro la sua volontà, lo sfortunato piccolo fiore si è innamorato del suo amico d'infanzia, così diverso dal suo aguzzino? Oppure, il compagno del presidente, trascurato dall'impegnatissimo marito, ha cercato un brivido di avventura con il cavaliere in scintillante armatura che lo proteggeva ogni giorno dalle perfide scalinate di marmo del Palazzo?”
L'uomo sospirò, rassegnato. “Io e Bill stavamo già insieme quando Bushido lo ha scelto,” esclamò con voce tetra.
Bill era stato già pronto a dire l'ennesima scemenza ironica, ma tacque, la bocca aperta per la sorpresa e l'incredibile senso di inadeguatezza che lo colpì tutto insieme, quando si rese conto di quanto era stato imbecille. “Mi dispiace,” balbettò. “Io non pensavo...”
“Qualunque cosa avessimo progettato di fare, lui è arrivato e ha deciso per tutti che così non poteva essere,” continuò l'uomo.
“Lui lo sapeva?”
Chakuza scosse la testa. “Ma anche se lo avesse saputo, le cose non sarebbero cambiate. Non c'era modo di opporsi comunque.”
“E' una cosa orribile,” mormorò il ragazzino “... che abbiate dovuto separarvi per il volere di qualcun altro.”
“Già. Beh, abbiamo fatto quello che abbiamo potuto,” sospirò Chakuza. Poi si batté le mani sulle cosce e fece un gran sospiro. “Ora forza, ricominciamo. C'è un sacco di lavoro da fare e siamo molto indietro.”
Bill si sentiva in colpa, così annuì e tornò immediatamente a sfilare. Non aveva avuto idea di quanto fosse doloroso vederlo ogni giorno, dopo quello che aveva passato e ora capiva perché si arrabbiasse tanto nel vederlo andare da Bushido.
Avrebbe voluto poter riavvolgere il tempo ed evitare di fare domande.
Il fantasma che avevano appena evocato non se ne sarebbe più andato; sarebbe rimasto ad aleggiare fra loro, imbarazzante e doloroso, come tutte le cose a lungo sepolte quando vengono riportate alla luce per sbaglio. Non avrebbe fatto domande, decise, a meno che Chakuza non avesse di nuovo affrontato il discorso per primo.

*


Sei giorni dopo, Bill era nervoso come non lo era mai stato nemmeno per il primo grande concerto della sua vita. Forse perché questa volta David era chiuso a doppia mandata nel suo laboratorio e non voleva ricevere nessuno, invece che essere lì accanto a lui ad incoraggiarlo. Senza contare che non aveva idea di che cosa gli sarebbe apparso davanti, una volta uscito sul balcone. Era abituato a folle di ragazze in lacrime che gridavano isteriche e tentavano di strapparsi i capelli l'un l'altra, quindi il fanatismo non lo preoccupava troppo; era tutta la questione in generale a metterlo a disagio, perché avrebbero messo in scena una menzogna bella grossa e lui non era molto d'accordo a riguardo. Era convinto che se Bushido fosse finalmente sceso dal suo metaforico trono e avesse parlato alla sua gente con sincerità, anche se significava dire cose pessime, forse questa sarebbe stata più disposta a seguire le sue scelte, evitando magari di sovvertire il sistema nonostante i bombardamenti. Ma d'altronde anche il suo Bushido era un cocciuto egocentrico presuntuoso, convinto che il mondo dovesse girare come voleva lui. Era un bene che gestisse solo un'etichetta e non una città.
Dalle sei di quella mattina aveva iniziato a radunarsi gente e, adesso che era quasi mezzogiorno, la piazza antistante il palazzo era gremita fin quasi ad esplodere. C'erano persone perfino nelle vie laterali, per questo erano scese le guardie a tenerle a bada, tanto per stare tranquilli. C'erano alcuni striscioni poco lusinghieri tra le ultime file, ma niente disordini.
“Qualche ripensamento?” Chiese Chakuza, cogliendolo di sorpresa.
Bill sorise prima di staccare lo sguardo dalla vetrata della sua stanza e voltarsi verso di lui. “Una lista infinita,” ripose.
“Non preoccuparti. Andrà tutto bene. Devi solo...”
“Camminare piano, parlare poco ed essere pudico. Lo so.” Bill sospirò. “Comunque grazie per avermi fatto da maestro.”
Chakuza si strinse nelle spalle e assunse un'espressione molto piena di sé. “Figurati, non sei la prima piaga che mi capita di dover tenere sott'occhio,” gli fece l'occhiolino.
“Grazie, sempre molto gentile,” il ragazzino fece una smorfia e poi si lasciò andare seduto su una poltrona, in uno sbuffo di tulle e veli.
“Dovere.”
“Bushido è già uscito?”
Il carpentiere annuì. “Da poco. Toccherà a te fra qualche minuto. E' tutto pronto.”
“Manca solo il dannato velo.”
Chakuza si guardò intorno per individuarlo. “Parla per bene,” lo ammonì, scherzando. “Vieni, ti aiuto a metterlo.”
Bill si sottopose di malavoglia alla tortura e lasciò che l'uomo fissasse le due mollette che tenevano fermo il velo e, dopo aver visto come cadeva, lo sollevasse di nuovo per dargli modo di parlare. Lo fissò per qualche secondo e sorrise. “Sei bellissimo.”
“Grazie.”
Chakuza si schiarì la voce. “Scommetto che li stenderai tutti. Li vedremo cadere tutti a terra uno dopo l'altro e dovremo mandare tuo fratello e la sua squadra a raccoglierli con scopa e paletta.”
Bill colse il tentativo di sviare l'attimo di adorazione e seguì quella linea, atteggiandosi esageratamente. “Lo so, sono uno schianto... anche con questo tremendo affare addosso.”
“Che cos'ha che non va il vestito?”
“Ne ha così tante che non saprei da dove cominciare, Chakuza,” commentò Bill, alzandosi in piedi e raggiungendo lo specchio. “E' una tunica maglia-pantalone con un taglio talmente triste che fa piangere d'orrore anche i bambini poveri. Per non parlare della mantella con strascico plurichilometrico bi-colore panna-pesca. Il pesca non è un colore serio, e i ricami in fondo fanno così tanto sposa in disgrazia! E tutto questo bianco mi sbatte un casino. Non potevo avere qualcosa di nero?”
“La Luce di Tempelhof non può vestirsi di nero.”
“Perché?”
“Perché è la luce di Tempelhof!” Esclamò Chakuza ridendo. “Dev'essere luminosa.”
Bill emise un verso frustrato e finì per sbuffare in maniera poco elegante. “Sono tremendo! Ringrazio che non ci siano i fotografi. Io sono uno che si veste bene,” puntualizzò.
“Mi piacerebbe vedere uno di questi tuoi fantomatici e strepitosi completi.”
“Ne rimarresti abbagliato. So far luce anche al buio, io!”
A quel punto, Chakuza lo aveva invitato a dirigersi verso il balcone che si trovava nell'ufficio del presidente e, stranamente, Bill aveva sbagliato strada soltanto due volte.
Quando arrivarono, la porta dello studio era aperta e dentro c'era un gruppo di guardie. Bushido era sul balcone di fronte ad una struttura in rame che assomigliava vagamente a quella dei comizi politici. Al posto di un normale microfono moderno, però, ce n'era uno di quelli vecchissimi e rotondi, che sembrava uscito direttamente dagli anni venti. Bill lo sentì parlare di speranza, di forza interiore e di un futuro migliore che li attendeva da quel giorno in poi e rabbrividì al pensiero di dover rappresentare tutto ciò con un paio di babbucce di tela ai piedi.
“Oh, bene, siete qui! Tra poco tocca a lui.” Tom si avvicinò e gli sistemò anche lui il velo e l'ampia maglia che scendeva sui pantaloni fin quasi a coprirli. “Chakuza ti accompagnerà fino alla finestra, da lì sono quattro passi fino a Bushido. Tutto chiaro?”
Bill annuì da sotto il velo. Di tutte le persone del Palazzo, Tom era quella con cui era entrato meno in contatto, ma non era poi così strano. Tom lo aveva accolto come fosse suo fratello, ma Bill ora intuiva che lo aveva fatto solo perché sapeva di doverlo fare. Non c'erano dubbi che avesse sentito a pelle che non si trattava davvero di lui, perché anche Bill lo percepiva. Era una questione gemellare. Da qui il distacco quasi gelido con cui lo aveva affrontato all'inizio, quando tutti lo credevano l'altro Bill, e con cui a maggior ragione lo affrontava adesso che era quasi per tutti un doppione.
Bushido smise di parlare e Tom indicò con un cenno il balcone. “Vai!”
Il moro inspirò profondamente e poi s'incamminò mentre Bushido guardava nella sua direzione, la mano tesa e un sorriso così sincero che Bill poteva anche decidere di credergli in quei pochi minuti. E a dire il vero un po' gli credeva. In fondo c'era ancora una parte di quell'uomo che stava tentando disperatamente di farsi bastare lui, anche se non era quello che voleva. A volte il Presidente chiudeva gli occhi, mentre gli accarezzava la schiena e allora Bill sapeva che in quel letto l'uomo era da solo con i suoi ricordi. Lo lasciava fare perché, certe volte, lo faceva anche lui. Era perché le sue mani, ad occhi chiusi, sembravano le mani di Anis che si era permesso di cedere. Non poteva certo biasimarlo se ora sorrideva alla sua figura velata come se fosse quella vera.
Chakuza si fermò un passo prima di lui e lo spinse leggermente avanti, ricordandogli dov'era. Guardò dritto davanti a sé e coprì la distanza che lo separava dalla balaustra dove si fermò, per poi voltarsi verso Bushido che lo aveva preso per mano.
“Perché possiate ritrovare la speranza che avete perduto,” annunciò Bushido, sollevandogli lentamente il velo. “La Luce di Tempelhof è di nuovo tra noi.”
Quando Bushido gli ebbe tolto il velo, Bill si voltò verso la folla, osservando lontano però, oltre i confini della città che si scorgevano appena nel cielo terso. Per un lungo istante elettrico ci fu un silenzio quasi fisico, che si posò su tutti loro, morbido ma pesante. E poi la folla esplose. Il boato partì dal basso e lì investì con la violenza di migliaia di persone che gridavano tutte insieme. Bill non si mosse. Bill sorrise perché era una sensazione familiare. Era l'inizio di un concerto. Era una cosa che sapeva gestire.
Da lì in poi fu tutta in discesa. La folla gridò e invocò il suo nome, qualcuno si sentì male come in effetti Chakuza aveva previsto, ma lui si limitò ad osservarli benevolo e quando Bushido gli chiese di dire due parole alla sua gente, chinò pudicamente il capo verso di lui e gli sussurrò. “Non ho idea di che cosa rispondere, inventa,” per poi sorridere dimesso e imbarazzato verso la folla.
Bushido annunciò al popolo che Bill era vicino a loro e che se avessero trovato la forza, presto avrebbero visto un futuro migliore. Una cosa che Bill trovava assurda e poco adatta alla sua persona ma annuì, quindi stese le braccia davanti a sé, con i palmi rivolti verso l'alto, poi le mosse in un ampio cerchio per riportarle al cuore, secondo la benedizione che il suo carpentiere campione e virtualmente amante gli aveva spiegato negli ultimi due tremendi e disperati giorni di allenamento. La folla si inchinò alla sua persona, pronunciando una litania che non comprese minimamente ma che si concluse con Luce di Tempelhof, cosa che gli fece pensare di aver fatto abbastanza bene. Allora Bushido lo invitò a ritirarsi e a quel punto l'unico problema fu non farlo mettendosi a correre a perdifiato.
Chakuza lo accolse compiaciuto e orgoglioso non appena fu avvolto dal buio della stanza. “Ottimo lavoro, principessa.” Quindi lo riportò in camera e lasciarono a Bushido e ai suoi il compito di chiudere quella farsa.



*


Nei giorni seguenti la dichiarazione pubblica, nel regno non s'era parlato d'altro che di Bill e della sua resurrezione. La stampa aveva fatto a Bushido ogni genere di domanda, alla quale lui si era guardato bene dal rispondere. In una perfetta imitazione del se stesso che regnava indiscusso in una villa gialla a Berlino, il Presidente aveva rilasciato una serie di dichiarazioni, una più inutile dell'altra, in cui sostanzialmente aveva detto che potevano anche smettere di chiedergli come Bill potesse essere ancora vivo, dopo che il suo corpo era stato esposto per tre giorni e poi seppellito nell'enorme mausoleo presidenziale, perché tanto lui non avrebbe dato alcuna risposta. Qualcuno aveva provato a riesumare la salma, ma siccome la tomba della Luce era sempre sorvegliata, il tentativo si era trasformato nell'arresto di cinque persone e nient'altro.
Bushido si era quindi chiuso nel suo palazzo, parlando solo attraverso i media e alimentando la curiosità col proprio silenzio sull'argomento.
La notizia aveva, in effetti, sollevato più dubbi di quanti ne avesse eliminati ma la novità aveva distolto l'attenzione di tutti dai bombardamenti, dalla scarsità di cibo e dalla generale voglia di vendetta e rivolta che aveva smosso gli animi nell'ultimo periodo. Un piccolo gruppo, che si stava per altro allargando, aveva addirittura dichiarato l'avvenimento un miracolo divino e rischiava di trasformare quella mossa azzardata in un successo colossale.
Bushido ne era talmente orgoglioso che sarebbe potuto esplodere per tutta la presunzione che si portava appresso. L'intera situazione lo aveva rimesso di buon umore e ora la sua presenza nel Palazzo era più evidente e, in qualche modo, anche più rumorosa. Lo si incontrava molto più spesso nei corridoi, aveva smesso di mangiare nelle sue stanze e, di tanto in tanto, aveva addirittura ospiti, anche se probabilmente quello era solo per potersi compiacere di non rispondere alle loro domande su Bill. In quelle occasioni, naturalmente, Bill aveva l'ordine di starsene buono nelle sue stanze e, dimostrando una grande fiducia in lui, Bushido gli mandava alle calcagna Chakuza, il quale era ben lieto di stare con lui oltre le solite diciotto ore giornaliere.
Bill, comunque, tendeva a non prendersela perché conosceva abbastanza Bushido – tutti i Bushido dell'universo – per sapere che aveva bisogno di crogiolarsi un po' nella propria supremazia. Inoltre, per lui era un sollievo non dover essere presente ad una cena con altri capi di stato, funzionari o qualunque altra persona di una certa importanza, perché era consapevole di non poter stare zitto con la testa china a sorridere timido come una monaca di clausura per più di, diciamo, dieci minuti senza saltare al collo di qualcuno. E, in quanto alla poca fiducia di Bushido, la riteneva sensata. Se Chakuza non fosse stato lì ad ogni ora del giorno e buona parte della notte, sarebbe sgattaiolato subito in giro, probabilmente alla ricerca di David che si negava spesso e volentieri per impedirgli di assillarlo con domande sui suoi studi in corso.
Quella era una di quelle serate in cui Bushido aveva invitato un gran numero di gente a cena, solo per poter parlare per ore di tutto tranne che della ritrovata Luce di Tempelhof. I cuochi avevano preparato un banchetto lussuoso e Bill ne aveva ricevuto ben più che un assaggio, grazie alle serve che avevano portato in camera a lui e Chakuza ogni singola portata, in quantità tale da poter sfamare un esercito. Lui e il carpentiere avevano passato la serata a chiacchierare, mentre Chakuza cercava di insegnargli un assurdo gioco di carte dal nome impronunciabile che aveva troppe regole perché Bill potesse anche solo pensare di mettersi lì ad impararle tutte. Senza contare che il mazzo di carte che Chakuza aveva prodotto con un mezzo gioco di prestigio tirandolo fuori dalle maniche dell'abito di Bill come fosse un bambino di cinque anni era composto da figure sconosciute e simboli invece che numeri, così che prima di imparare davvero le regole, Bill aveva dovuto imparare a leggere le carte e l'impresa aveva portato via gran parte del dopo cena. Alla fine Bill aveva chiesto a Chakuza se invece non gli andava di guardare la città dalla vetrata con lui e spiegargli quello che stava guardando. L'uomo aveva accettato più che volentieri e in due si erano seduti a terra su dei cuscini, a guardare la notte di Tempelhof e le sue luci. Bill aveva scoperto molte cose interessanti. Ad esempio che il grande orologio che gli piaceva tanto, era più vecchio del ghetto e che, anzi, esso era stato costruito tutt'intorno alla torre dell'orologio. Per questo Bushido faceva in modo che fosse sempre ben oliato e non sbagliasse mai l'orario; era il simbolo del ghetto per eccellenza, e come tale andava rispettato. Aveva fatto istituire una squadra speciale che lo presidiava e se ne occupava, in modo che non mancasse mai di cure e di attenzioni. E quando tre diversi bombardamenti lo avevano colpito e guastato, Bushido aveva tagliato i fondi sui suoi stessi rifornimenti di cibo per ripararlo più in fretta. Chakuza ricordava ancora con orrore le quattro settimane che avevano passato mangiando soltanto gallette e acqua, praticamente.
Chakuza gli aveva poi mostrato in lontananza tutte le stazioni della monorotaia, anche quelle che ora non funzionavano più e, siccome il palazzo del Presidente era più alto di qualunque altra cosa, Bill aveva potuto vederle benissimo. Tempelhof di notte era così ferma e silenziosa da sembrare finta, soltanto i bombardamenti la scuotevano ogni mezz'ora e quello era l'unico istante in cui, nel buio, sembrasse ancora viva. Perché tremava.
All'una, Bill aveva deciso che poteva anche andare a dormire e aveva invitato Chakuza a fare lo stesso. L'uomo, naturalmente, aveva ricevuto ordini diversi e sebbene, a quanto pareva, era abituato a fare la guardia dentro la stanza, aveva avuto la cortesia di posizionarsi fuori, appena accanto alla porta. E Bill aveva avuto abbastanza tatto da non fare battutine, perché si sentiva ancora in imbarazzo per ciò che aveva detto ogni volta che Chakuza nominava l'altro Bill con un sorriso.
Le prime notti addormentarsi in quel letto era stato complicato e non perché fosse un letto nuovo, Bill era abituato a non dormire mai due volte di seguito sullo stesso materasso, ma proprio perché non sapeva quando avrebbe potuto appoggiare la testa su un altro cuscino o dormire in una stanza che conoscesse. Quel gigantesco letto matrimoniale e semicircolare era diventato da subito il simbolo della sua lontananza da casa. Certe volte dormirci sopra gli era sembrato quasi un tradimento, come se si fosse rassegnato a non rivedere più casa sua; ma aveva scoperto che dormire sul tappeto, sulla poltrona, o in piedi come un cavallo, non giovavano comunque alla sua situazione e quindi aveva concluso che il letto non era un male più grande degli altri. Col tempo si era anche abituato e aveva imparato a dormire tranquillo, anche se si ostinava a non chiudere gli occhi se prima non aveva ripetuto ad alta voce che presto se ne sarebbe andato via di lì.
Quando il rumore lo aveva svegliato, stava facendo un sogno confuso ma bellissimo. Si trovava ancora lì, in quell'universo, ma al comando del ghetto c'era il suo Anis e aveva provato una grande gioia nel rendersi conto che lo aveva riconosciuto solo guardandolo e che, anche se i due uomini erano praticamente identici, lui era ancora perfettamente in grado di notare quelle minuscole differenze nello sguardo e nel modo di muoversi che rendevano Anis il suo Anis e che non potevano ripetersi uguali nel Presidente perché nascevano da esperienze che lui non aveva mai avuto. Nel sogno, lui e Bushido stavano cercando qualcosa che l'uomo aveva perso e proprio un attimo prima di ritrovarla e di capire che cosa fosse, Bill si era svegliato per un suono fuori posto, che aveva dissipato il sogno e lo aveva costretto ad aprire gli occhi quasi contemporaneamente.
All'inizio Bill non aveva visto niente nella stanza, eppure aveva saputo che c'era qualcuno, perché qualcosa era fuori posto anche se in quel momento non riusciva a capire cosa. Aveva scrutato nel buio con attenzione, come faceva da piccolo quando si svegliava di notte e doveva controllare che suo fratello fosse ancora dall'altra parte della stanza, sotto le coperte. Quindi era scivolato silenziosamente fuori dal letto e aveva afferrato la lampada sul comodino, avvicinandosi a passi lenti verso la vetrata, dalla quale filtrava chiarissima la luce della luna. In effetti non aveva idea di cosa potesse fare con i suoi quaranta chili e una lampada se davvero ci fosse stato un intruso, ma in quel momento non ci stava davvero pensando. “Chakuza, sei tu?” chiese, incerto.
In risposta, un'ombra scura uscì da dietro la libreria, atterrandogli addosso di peso e senza che lui potesse fare niente per difendersi. La lampada gli cadde di mano e quando provò ad urlare, si ritrovò una mano premuta contro la bocca, mentre entrambi cadevano a terra con un tonfo. Batté la testa sul pavimento e per un attimo non vide altro che stelle poi, strizzando gli occhi la sua vista tornò a fuoco. La persona sopra di lui aveva il viso coperto e, anche se era chiaro che lo stesse guardando dritto in faccia, Bill non avrebbe saputo distinguerne neanche il colore degli occhi.
Si scosse sotto il corpo dell'intruso, agitando le braccia nel tentativo di colpirlo. Urlò qualcosa che uscì soltanto come un mugolio, ovattato dalle dita che gli premevano sulle labbra.
L'uomo sollevò la mano libera che impugnava un coltello e Bill ne vide la lama risplendere nel buio; d'istinto piegò un ginocchio verso di sé e tirò un calcio nello stomaco dell'assalitore. Non fu abbastanza forte per mandarlo a sbattere come avrebbe voluto, ma lo fu abbastanza per toglierselo di dosso e poter così urlare a squarciagola.
La porta della sua stanza si spalancò all'istante. “Bill, che succede?”
Il cantante tirò un altro calcio alla cieca, senza colpire nulla stavolta e si alzò da terra velocemente, ansimando e artigliando la moquette con le dita per fare presa. “C'è qualcuno nella stanza,” urlò, mentre l'intruso si rialzava allo stesso modo. “E' armato!”
Ma Chakuza lo aveva già individuato e aveva superato Bill, spingendoselo dietro le spalle con un gesto deciso. “Stai indietro,” gli ordinò, avanzando.
L'intruso si era fermato a fronteggiarlo, le gambe divaricate e il coltello sollevato. Chakuza portò una mano al fianco, sganciando il grosso martello dalla cintura. Fendette l'aria un paio di volte di fronte a sé, e l'attrezzo sibilò in maniera inquietante.
I due si guardarono per un tempo infinito, finché Chakuza non finse un lento passo in avanti e allora l'aggressore sfruttò quel movimento per attaccare per primo. Affondò il pugnale ma, a quel punto, Chakuza fu più veloce, brandì il martello e lo colpì al polso e poi al gomito. L'azione fu tanto veloce che tutto ciò che Bill vide fu l'intruso che attaccava e poi, l'attimo dopo, il coltello era volato a terra e stava strisciando fino ai suoi piedi mentre l'aggressore urlava, tenendosi il braccio ferito.
“Stai bene?” Chiese Chakuza, lanciandogli un'occhiata mentre rimetteva il martello al suo posto e, non contento tirava un calcio all'aggressore, che aveva cercato di strisciare lontano. “Sta' giù.”
“Credo di sì,” deglutì Bill.
“Passami qualcosa con cui legarlo,” esclamò sbrigativo, tornando a guardare il loro attuale problema. Bill si aggirò inutilmente per la stanza per qualche minuto prima di posare gli occhi su una vestaglia orribile che non aveva mai messo ma che le serve si ostinavano a lasciargli in bella mostra, come se fosse un pezzo unico di alta moda di cui andare fieri e orgogliosi. Recuperò la cintura da lì e la passò a Chakuza che la prese senza nemmeno guardarla e poi legò le mani all'intruso, incurante del fatto che probabilmente il tipo aveva più di un paio di ossa rotte dopo la sua martellata. Difatti lui si lamentò parecchio, ma Chakuza lo mise a tacere con uno scappellotto prima di togliergli la calza che gli copriva la testa. “Non ti lamentare, te lo sei meritato,” commentò. “Ora fammi vedere che faccia hai.”
L'uomo si divincolò infastidito, ma la calza gli fu tolta comunque.
Bill si avvicinò per vederlo. Era spaventato all'idea di scoprire quale delle persone che conosceva in un mondo avesse tentato di ucciderlo in un altro, ma rimase sorpreso quando si rese conto che non conosceva affatto quell'uomo. Naturalmente era una cosa del tutto normale, d'altronde c'erano miliardi di persone al mondo e niente escludeva che il suo possibile assassino potesse essere fra queste, tuttavia, si era ormai così abituato a incontrare solo gente che conosceva da non aspettarsi di veder spuntare da sotto la calza un volto che non gli diceva assolutamente niente.
In compenso diceva qualcosa a Chakuza. “Tony, naturalmente,” esclamò con disprezzo. “Non poteva trattarsi che di un bastardo come te.”
“Ciao nano,” sorrise quello. “Anche per me è bello rivederti.”
Chakuza lo ignorò ed estrasse dalla cintura un altro affare che Bill non sapeva identificare. Era sottile come un pezzo del domino ma due volte più grande e aveva un unico piccolo bottone in cima. A vederlo così sembrava il telecomando di un cancello automatico o quello per aprire le portiere dell'auto ma, a meno che quella stanza non potesse trasformarsi in un'astronave o fosse in realtà un garage, Bill dubitava che si trattasse di una delle due cose.
“E così è vero. La vostra Principessa è ancora in piedi,” esclamò Tony, ridacchiando mentre scrutava Bill dalla testa ai piedi. “E come ci siete riusciti? Quel vostro minuscolo alchimista si è dato alla negromanzia?”
“Nessuno ti ha dato il permesso di parlare, Tony” commentò Chakuza, che aveva preso a girare per la stanza, ormai incurante dell'uomo a terra. L'unica cosa che aveva fatto era stato portare Bill lontano da lui, tirandoselo dietro per un avambraccio, per poi lasciarlo nei pressi della porta. “Lo farai quando te lo dirò io.”
Bill fece qualche passo verso Chakuza, intento a scostare i chili di tende sparsi un po' ovunque nella camera principesca. “Tu lo conosci?” Sussurrò.
“Tu no?” Rispose l'uomo, spostandosi verso la parte della stanza che conteneva lo studio, con il ragazzo che lo seguiva come un'ombra.
“No, o almeno non mi sembra,” ragionò mentre, da qualche parte alle loro spalle, Tony cantava solo per il gusto di innervosirli. “Immagino che mi ricorderei di un energumeno a malapena evoluto con un pessimo taglio di capelli e stonato come una campana.”
“Stai zitto o giuro che ti rompo anche i denti,” sbraitò Chakuza, spettinando Bill nel mentre. Tony tacque.
“Non sembra starti molto simpatico,” commentò il ragazzino, sempre a bassa voce.
Chakuza sospirò. “Ha tentato di ucciderti, tu che cosa dici?” Commentò. “Ed era là quando Fler c'è riuscito.”
Bill spalancò gli occhi, ma non ebbe tempo di chiedere niente perché sentirono dei passi avvicinarsi di corsa e Chakuza spostò la sua attenzione verso la porta. “Alla buon'ora,” sibilò, infilandosi in tasca il piccolo pezzo del domino. “Questo affare non funziona mai.”
L'attimo successivo, la stanza era già piena di gente. Una squadra di guardie presidenziali era appena sciamata all'interno, capitanata dalla copia di suo fratello Tom. “Che diavolo è successo? Lui dov'è?”
“Sono...”
“E' qui,” rispose Chakuza a voce più alta, scortandolo delicatamente fino a Tom, sotto gli occhi dell'aggressore, che li seguì con lo sguardo incollato a lui. “Sta bene, è solo un po' scosso.”
Tomi annuì. “Che diavolo è successo?”
“Il bastardo ha cercato di ucciderlo,” rispose Chakuza, accennando al loro prigioniero ancora a terra.
“Tony D,” ringhiò Tom. “Portatelo nella sala degli interrogatori e non statelo a sentire, qualunque cosa vi dica. Arriviamo tra un attimo.”
“Ehi, Kaulitz, nemmeno mi saluti?” Chiese l'uomo, esplodendo in una grassa risata odiosa mentre lo portavano via.
Il capo delle guardie aspettò che il prigioniero fosse lontano prima di attaccare Chakuza. “Come diavolo è entrato? Non c'eri tu davanti alla porta?”
Chakuza serrò la mascella. “Che cosa vorresti insinuare?” Sibilò. “Nessuno è passato da quella porta a parte voi.”
“Le vetrate di questa stanza non si aprono!” Insistette Tom. “Il ricambio d'aria è affidato al sistema di areazione dove quel gigante non poteva passare. Quindi, a meno che non si sia materializzato dal nulla-”
“Ragazzi!” Bill si mise in mezzo e loro si zittirono. “Non è entrato dalla porta, veniva dallo studio. Mi ha assalito da lì.”
“Potrebbe essere entrato dalla porta ed essersi poi diretto lì,” gli fece notare Tom.
Bill scosse la testa. “No, io l'ho sorpreso ad entrare perché ho sentito dei rumori. E lui era da quella parte. Se davvero era qui per uccidermi, non avrebbe perso tempo a nascondersi nello studio visto che stavo dormendo, ti pare?”
Tom non poteva negare che Bill avesse ragione, ma in ogni caso non lo ammise. “Da qualche parte sarà pure entrato,” commentò burbero. “Di certo non può essere apparso dal nulla.”
Si allontanò da loro per raggiungere un gruppo di soldati che stava perlustrando la camera come fosse il luogo di un delitto. Bill quasi si aspettò di vederli tirare fuori pennelli per le impronte digitali e luminol, anche se dubitava che ci fosse un qualcosa di anche solo simile alla polizia scientifica in quell'universo. In ogni caso, si irritò nel vederli mettere le mani tra le sue cose, anche se non erano esattamente sue quanto dell'altro Bill. Pensò che in fondo era un po' la stessa cosa in quel preciso frangente.
“Potreste non...” iniziò e le guardie si fermarono, attendendo il resto della frase. Bill rimase così colpito dalla loro attenzione istantanea che ci rimase un po' di sasso. Generalmente, a casa sua, doveva parlare su tutto e su tutti per farsi davvero ascoltare. “Ehm... potreste non mettere tutto in disordine?”
“Stanno cercando di capire da dove è entrato il tuo aggressore,” commentò Tom. E poi, rivolto a Chakuza aggiunse: “Forse potresti portarlo dal Presidente. Ha bisogno di riposo.”
“No, io voglio stare qui,” s'impuntò Bill. “E parlare con quell'uomo. Voglio sapere perché era qui.”
“Io non credo che sia...”
“Non te lo sto chiedendo,” commentò Bill, portando le mani sui fianchi. “Forse lo avrai notato dal fatto che non c'era nessun punto interrogativo in fondo alla mia frase.”
Tom rimase a fissarlo a lungo e cominciò a mordersi un labbro esattamente come il vero Tom faceva quando Bill gli faceva notare che della sua opinione in quel momento non gliene fregava assolutamente niente e faceva bene a non fregargliene. Generalmente il vero Tom faceva un passo indietro e anche quello finto non si dimostrò da meno. “Vado a vedere che cosa stanno facendo quegli idioti laggiù,” sibilò. “Con permesso.”
Bill sorrise trionfante per il punto segnato a favore della propria emancipazione e di quella virtuale del proprio alterego, quindi si voltò verso Chakuza e notò che stava guardando il pavimento con un misto fra il disgusto e incertezza. “Cos'è successo?” Gli chiese avvicinandosi.
L'uomo sussultò. “Bill! Sei tu.”
“Non c'eravamo già passati?” Chiese il moro, sarcastico. “Sono io, ma non sono esattamente io. So che adesso sei tutto un vorticare di sentimenti ma–“
“Mi hai solo spaventato,” puntualizzò Chakuza.
“Oh,” Bill tossicchiò. “Che cosa stavi guardando?”
Chakuza si guardò alle spalle e poi abbassò la voce. “Penso di sapere da dove è passato Tony,” mormorò.
“E allora perché non lo dici a Tom?”
“Perché se glielo dico...” Chakuza lasciò passare uno dei soldati che era troppo vicino “...dovrei dirgli anche una serie di cose che vorrei non sapesse.”
Il sopracciglio sollevato di Bill riuscì ad essere molto incerto ma anche molto esigente, così il carpentiere fu costretto ad esplicitarsi. Si avvicinò alla libreria di fronte alla quale sostavano entrambi e trascinò Bill a fare lo stesso. Poi, con una lieve spinta, la spostò di lato di appena qualche centimetro, rivelando uno spazio vuoto dietro di essa. Quindi la lasciò andare e quella tornò a posto.
“Cosa?” Esclamò sconvolto il ragazzino.
Metà delle guardie si girarono e Chakuza lo spinse piano ma con decisione. “So che vi sembra di stare bene, ma siete chiaramente provato da quello che è successo,” esclamò a voce alta in modo che lo sentisse anche Tom dall'altra parte della stanza. “Vi scorto nelle stanze del Presidente.”
“Chaku!” Protestò il moro, mentre l'uomo continuava a spintonarlo con disinvoltura.
“Non dovete preoccuparvi. Aumenteremo la sicurezza e nessuno potrà più tentare di farvi del male,” continuò a delirare il carpentiere.
“Peter, piantala!” Gli occhi di Bill saettarono come la sua voce.
“Un buon té è proprio quello che vi ci vuole.”
Chakuza lo spinse finché non arrivarono nel corridoio, girarono l'angolo e furono finalmente lontani dalle guardie di Tom. A quel punto Bill lo allontanò con due sberle sulle dita e portò pericolosamente le mani sui fianchi per la seconda volta in dieci minuti. “Si può sapere che accidenti ti prende? Sei impazzito per caso?”
“Non posso dirgli di quel passaggio.”
“Questo l'ho capito, ora dimmi perché!” Replicò il moro.
Chakuza tentennò un po' più che qualche istante e finì per abbattersi contro un muro prima di rispondere. “Il passaggio che hai visto conduce all'esterno del palazzo,” sospirò alla fine. “Solo io, Bill e Fler ne eravamo a conoscenza.”
Bill sbuffò e si lasciò andare contro una delle colonne di marmo che si susseguivano lungo il corridoio. “E a cosa serviva?” Chiese.
“A uscire dal palazzo,” rispose ovviamente Chakuza. “Non è che Bill potesse attraversare il portone principale quando e come gli pareva. Ogni tanto avevamo bisogno... di allontanarci.”
Bill stava già annuendo. “E tu non puoi dire che quel passaggio esiste perché altrimenti dovresti spiegare anche perché lo conoscevi e comunque l'intera faccenda getterebbe una strana luce sulla figura di Bill. Chiaro.”
“Già.”
“E' un bel casino,” sospirò Bill. “Se Tony parla, non avrà importanza che lo faccia tu.”
“Lo so.”
“Quindi?”
“Non ne ho idea.”

*


Gli uomini di Tom avevano frugato ovunque per capire come Tony D si fosse introdotto nella camera da letto di Bill e, non avendo trovato il passaggio segreto, cominciavano a prendere in considerazione che fosse passato dal camino anche se, vista la stazza, era altamente improbabile che ciò fosse anche solo immaginabile. Questo dava a Chakuza una speranza, anche se non particolarmente solida.
Tom aveva informato Bushido dell'accaduto e poi aveva subito preparato la stanza degli interrogatori. Nessuno aveva pensato di chiamare Bill, naturalmente, per questo lui aveva pensato bene di presentarsi da solo, al fianco di Chakuza che era ormai così rassegnato alla sua testardaggine da non sprecare più tempo a contrastarla.
Bill non aveva idea di cosa aspettarsi da quella stanza, visto che non aveva ancora ben capito quanto quel mondo fosse avanzato. Da una parte c'erano le strade sopraelevate e i passaggi interdimensionali, dall'altra però andava quasi tutto a vapore, e le due cose insieme non erano nemmeno contemplabili nella sua testa. Quindi, per quanto ne sapeva, potevano interrogare quel tipo legandolo ad una sedia da immergere nell'acqua, come nel medioevo, oppure con uno scanner del cervello come in un film di fantascienza.
Alla fine scoprì che quella degli interrogatori era una stanza molto simile a quella che si aspettava, ma al posto dello specchio finto c'era soltanto una lastra di vetro a dividere Tony, legato ad una sedia, da Bushido e da lui che avrebbero assistito all'interrogatorio.
“Non sei costretto ad assistere,” gli disse piano l'uomo, senza voltarsi a guardarlo.
Bill sospirò e si sedette quando qualcuno gli portò cavallerescamente una poltrona. “Sono curioso di sapere come sono andate le cose.”
“Potrebbe non essere piacevole,” lo avvertì Bushido, intrecciando le mani dietro la schiena.
“Correrò il rischio,” rispose il cantante, osservando mentre una delle guardie all'interno della stanza apriva la porta per fare entrare Tom e Chakuza. “Che cosa c'entra Peter?”
Bushido lanciò un'occhiata alla sua sinistra e bastò quella perché qualcuno portasse una sedia anche a lui. Si sedette, tirando appena i pantaloni e accavallò le gambe in una posa rilassata. “Generalmente i prigionieri sono più propensi a parlare quando vedono qualcuno pronto a schiacciargli le dita con un martello da mezzo chilo.”
Bill rabbrividì involontariamente. Aveva visto con quanta violenza Chakuza si era avventato sull'intruso e, già la prima volta, il rumore delle ossa del polso che si rompevano non gli era piaciuta per niente, non ci teneva a sentirlo una seconda volta. Soprattutto quando non si trattava di auto-difesa ma di tortura.
Al contrario di lui, comunque, Tony sembrava assolutamente a proprio agio, a parte il braccio che si stava gonfiando a vista d'occhio.
“Non lo avete medicato?” Chiese Bill.
“Lo faremo quando ci avrà detto quello che vogliamo sapere,” fu la risposta, con tanti saluti ai diritti del prigioniero.
A quel punto, Chakuza chiuse la porta e badò bene di farlo sbattendola, in modo che il suono fosse il più forte e il più improvviso possibile. Bill sussultò e anche Tony, che però si voltò verso l'uomo e gli sorrise spavaldo.
“Io fossi in te non riderei,” commentò Chakuza. “Sei nella merda.”
Tom si sedette sul tavolo, a qualche centimetro da lui. “La tua è una pessima posizione, Tony,” intervenne con voce più conciliante. “Sei accusato di infrazione, di aggressione e di tentato omicidio. E siamo in guerra. Sai questo cosa significa?”
“Che mi darete una bella coccarda colorata?” Chiese quello, con strafottenza.
“No, che rischi la fucilazione,” sospirò Tom. Era così teatrale mentre gli parlava con quella finta vena comprensiva, che a Bill quasi venne da ridere. “Ma potremmo trovare un accordo, se sarai collaborativo.”
Tony scoppiò in una risata piena e roca, che lo squassò tutto, come se quella che aveva appena sentito fosse una storiella davvero divertente. Arrivò perfino ad asciugarsi una finta lacrima, prima di concludere. “Per quanto ancora deve andare avanti questa pantomima, Kaulitz? Devo anche saltare nel cerchio per intrattenere il tuo ridicolo Presidente e la sua dolce metà? A proposito, Bushido, dove lo hai trovata questa copia? Puzza di frode dalla testa ai piedi.”
Bill sussultò e provò una strana sensazione quando Tony spostò lo sguardo su di lui e sorrise scuotendo la testa, come si fa quando si trova ridicolo qualcosa.
“Fatelo parlare,” sibilò Bushido, senza nemmeno muovere un muscolo.
Chakuza si staccò dal muro al quale era appoggiato ma Tom sollevò una mano, fermandolo a metà strada. “Tony, facciamo così, tu parli e Chakuza evita di spezzarti anche l'altra mano.”
“Forse,” borbottò il carpentiere.
“Che ne dici?” Aggiunse il capo delle guardie.
“Dico che se ti rispondo, tu mi spezzerai le dita comunque,” ghignò Tony. “Ci siamo già passati, ricordi?”
Bill si voltò istintivamente verso il Presidente che dovete percepire la sua domanda. “Qualche anno fa, lo catturammo mentre tentava di sabotare una delle mie auto. Lo interrogammo, non voleva parlare e così Chakuza gli ruppe un caviglia.”
“Cosa?”
Ma Bushido non rispose.
Bill si voltò mentre la copia di suo fratello diceva a Tony che poteva sempre tentare la sua fortuna.
“Tentatela voi, magari vi rispondo. Chissà?” Disse l'uomo.
“Perché Sido ti ha spedito qui?”
“Per uccidere la Luce di Tempelhof,” rispose Tony, osservando Bill, attraverso il vetro. “Chiunque sia, naturalmente.”
“Perché?”
“Posso avere un po' d'acqua?”
“No,” Chakuza incrociò le braccia al petto, guardandolo fisso. “Rispondi alla domanda.”
“Neanche un goccio? Non bevo da ieri e sono ferito. Potreste anche farlo uno strappo alla regola, no?”
“Perché volete ucciderlo?” Chiese di nuovo Tom, quando Chakuza slacciò le cinghie con le quali teneva il martello appeso alla cintura.
Tony sospirò, come se l'intera faccenda fosse solo una grande seccatura. “Perché ci piacciono i lavori fatti bene,” rispose. “Ed evidentemente la prima volta il lavoro non era perfetto.”
“Perché la Luce di Tempelhof?” Chiese Chakuza.
Tony spostò lentamente lo sguardo su di lui. “Non vogliamo che il popolo si esalti troppo. Quel suo figurino esile agita gli animi e Sido crede che – come dire? - la piccola questione fra i due ghetti debba essere risolta senza l'intervento mistico del vostro angelo del focolare.”
“Cosa?”
“E naturalmente è un avvertimento,” Tony sorrise serafico a Bushido. “Non sentirti troppo al sicuro, vecchio mio.”
Bushido strinse i pugni, ma non disse niente.
“Da dove sei entrato?” Chiese Tom.
Gli occhi di Bill saettarono a cercare quelli di Chakuza, che però era abbastanza bravo da non dare a vedere che, probabilmente, stava sudando freddo.
“Non ha nessuna importanza da dove sono entrato,” commentò Tony. “Sono entrato.”
“Rispondi alla domanda,” insistette Tom. “Chi ti ha fatto entrare?”
Tony si appoggiò meglio allo schienale e fece una smorfia quando dovette spostare un po' la mano ferita. “Nessuno mi ha fatto entrare.”
“E allora come mai eri in quella stanza?”
“Magari sono comparso dal nulla,” commentò con tono mistico, sgranando gli occhi e agitando le dita in aria in maniera esagerata. “Un po' di abracadabra e via. Voi resuscitate i morti, del resto...”
Chakuza si avvicinò facendo roteare il martello. Bill immaginò che lo facesse per non dare a vedere che non voleva sentirlo rispondere, ma era rischioso. Se Tony si fosse spaventato davvero al punto di aprire bocca, non voleva sapere che cosa sarebbe successo dopo.
“E' proprio necessario?” Sussurrò a Bushido, appoggiandosi al suo braccio per distrarlo più che poteva.
“Ti do un'altra possibilità,” chiese Tom. “Poi dirò a Chakuza di procedere. Da dove sei entrato?”
Tony a quel punto si fece serio e per un lunghissimo minuto Bill pensò che lo avrebbe detto.
“Sai cosa faremo, invece, Kaulitz? Tu hai bisogno di questa informazione, ma io non te la dirò finché non sarò stato curato e liberato. Voglio andarmene da qui. Prendere o lasciare.”
Chakuza lanciò un'occhiata al Presidente.
“Non se ne parla, Tony. Siamo noi che dettiamo le regole, qui,” protestò Tom.
“E allora sarete voi che passerete i prossimi mesi a setacciare questo palazzo che ha più buchi di un groviera,” concluse l'uomo. “Sta a voi decidere se vi conviene.”
A quel punto Bushido si alzò in piedi ed era già girato verso la porta quando parlò. “Non sa niente e se sa non parlerà. Non ha più niente da dirci. Bill, vieni.”
Bill si alzò in piedi prima di rendersi conto di farlo. “Ma...”
“Tom, liberatene.”
“Anis!” Bill fece appena in tempo ad allungarsi verso di lui che il colpo di pistola risuonò nella stanza, forte, netto e metallico quando colpì il ferro di cui era fatta la porta.
Bill si girò lentamente e la prima cosa che vide fu lo spruzzo di sangue sul vetro divisorio, poi lentamente mise a fuoco anche la figura di Tom con il braccio ancora alzato e la vecchia pistola che fumava. Chakuza era immobile, gli occhi sgranati sul cadavere riverso. Il cervello di Tony ricopriva gran parte del muro dietro di lui.
Bill si voltò e rimise il pranzo lì sul posto; nel silenzio più totale, i suoi conati sembrarono ancora più forti e violenti.
“Mandatene un pezzo a Sido e gettate il resto nel canale,” concluse Bushido, mentre una serva si affrettava a raggiungere Bill con asciugamano. “Se vuole giocare pesante, non sarò certo io a tirarmi indietro.”

*


Bill non aveva più visto il presidente dopo l'interrogatorio. Anzi, a dire la verità non aveva più visto nessuno, nemmeno Chakuza. Era stato scortato in una delle stanze degli ospiti da un paio di guardie e lì era rimasto per ore, con una caraffa d'acqua e uno straccetto imbevuto di Dio solo sapeva cosa per frizionarsi la fronte, straccetto che Bill aveva annusato e poi lanciato a caso il più lontano possibile. Qualunque cosa fosse con la quale avevano pensato di fargli passare la nausea, di certo lo avrebbe fatto uccidendolo.
Per i primi minuti aveva vomitato un altro po', poi si era disteso sul letto e aveva cercato di togliersi dalla mente l'immagine di Tony D sparso per ogni dove e, quando la testa aveva smesso di girargli vorticosamente, aveva cominciato a passeggiare avanti e indietro nella stanza, chiedendosi cosa stava succedendo nel resto del Palazzo. Aveva provato ad aprire la porta, naturalmente, ma qualcuno aveva pensato di chiuderlo dentro quindi non aveva potuto fare nient'altro che agitarsi inutilmente in tondo nell'attesa che qualcuno si ricordasse della sua esistenza dopo aver fatto a pezzi un cadavere.
Il primo a comparire, manco a dirlo, fu Chakuza quasi quattro ore dopo. Aprì la porta e se la richiuse alle spalle con un sospiro prima di cercarlo con lo sguardo e trovarlo in piedi, con aria poco amichevole.
“Ti senti meglio?”
“Oh divinamente,” rispose ironico. “Cosa c'è di meglio di uno straccio imbevuto di trielina per farti passare gli urti di vomito?”
“Quella non era trielina era...”
“Sono sarcastico, Chakuza,” lo liquidò Bill. “E per rispondere alla tua domanda, ho smesso di vomitare ma non sto affatto bene perché voi siete pazzi e quel povero disgraziato è morto in un modo atroce.”
“Poteva ucciderti,” commentò Chakuza, severo.
“Questo non vi dava il diritto di sparargli alla testa come a un cavallo,” replicò il ragazzino. “Nemmeno le bestie si comportano così.”
Per qualche istante Chakuza non disse niente, quasi fosse offeso e Bill si guardò bene dal cambiare idea sulla faccenda o da cambiare tono, così rimasero in silenzio, a guardare uno il pavimento con aria accigliata e l'altro fuori dalla finestra.
Alla fine, Bill sospirò. “Che cosa ci fai qui?”
“Mi manda il Presidente.”
“Il quale poteva ben degnarsi di venire di persona,” protestò Bill.
Chakuza si massaggiò le tempie. “E' impegnato ad organizzare l'esercito,” cercò di spiegare. “Ma lo vedrai prima di partire.”
“Partire per dove?” Bill sollevò un sopracciglio, con cautela. Voleva capire se c'era da arrabbiarsi oppure no.
Il carpentiere dovette intuirlo perché deglutì. “Il Presidente pensa che tu non sia al sicuro qui, quindi ha disposto che tu venga scortato in un luogo segreto che-”
“Ha disposto?” Chiese. “Che in altre parole significa che ha già deciso e tu mi stai solo informando?”
“In pratica sì.”
“E se io non volessi venire?”
Chakuza apparve improvvisamente a disagio, anzi sembrò proprio uno che non è stato per niente addestrato per un'evenienza simile. “E' per il tuo bene,” tentò. “Qualcuno potrebbe tentare di nuovo di ucciderti.”
“Utilizzando un passaggio segreto di cui tu conoscevi perfettamente l'esistenza e la pericolosità?” Chiese ironico.
“Ehi, non metterla su questo piano adesso.”
“Chiudi quel maledetto passaggio e festa finita. Con tutte le guardie che ci sono in questo palazzo, nessuno potrà avvicinarsi al sottoscritto se non gli indichiamo come fare con una scritta al neon.”
“Non abbiamo più la certezza che il palazzo sia sicuro.”
Bill sbuffò. “Ci sono altri passaggi di cui il mio adorabile alter-ego si serviva per sfuggire con te fra i boschi?”
“No, ma loro sanno che sei qui, potrebbero mandare qualcun altro e questa volta potrebbero riuscire nel loro intento. Dobbiamo nasconderti.”
Bill emise un verso frustrato e poi urlò forte, per liberarsi del nervoso. “Quando?”
Chakuza tossicchiò. “Subito,” rispose. “Le serve stanno preparando le tue cose.”
“Figurarsi...”
“Partiamo fra qualche minuto con la carrozza. Io verrò con te,” spiegò. “Ti porterò al sicuro e rimarrai lì finché non si saranno calmate le acque. Una serva si occuperà dei tuoi pasti e di qualsiasi altra cosa ti serva.”
“Ah beh, allora posso stare tranquillo: avrò una serva,” commentò.
Chakuza sospirò. “Potresti smetterla con il sarcasmo? Non è di nessun aiuto.”
“Neanche seppellirmi in mezzo al nulla lo è,” replicò Bill. “E comunque mi riporterai qui se David trova il modo di rimandarmi a casa. Anzi, appena lo scopre tu verrai ad avvertirmi e già che sei lì mi riporterai a Palazzo. E non provare a rifiutarti, perché non ti piacerà dove ti metterò quel martello se lo farai.”
Chakuza rimase così sconvolto dalla risposta che restò zitto e lo seguì in silenzio anche quando infilò il corridoio senza sapere bene dove andare, come al solito.
La carrozza era davvero una carrozza. Bill aveva pensato che si trattasse di qualcosa di un po' più futuristico, qualcosa sulla falsa riga della monorotaia aerea o qualcosa di simile e invece no, era una vera carrozza, stondata, con enormi ruote cerchiate e un vero, tremendo, favolistico tiro a quattro di cavalli bianchi con le criniere ben pettinate e paramenti in grande stile. C'erano anche i pennacchi.
“Stai scherzando, spero!” Esclamò
“Cosa c'è adesso?” Chiese Chakuza, esasperato.
Bill era così sconvolto che non si accorse nemmeno della reazione insolita del suo carpentiere. “E' una dannata carrozza!” Protestò. “Una carrozza vera, con i cavalli.”
“E' la tua carrozza, per la precisione,” spiegò l'uomo, accarezzando il collo di uno dei cavalli.
“Ci sono delle macchine nella rimessa,” esclamò Bill, allucinato. “Io le ho viste. Perché non usiamo quelle? Ci lavori su quelle auto, no? Sono roba tua.”
Chakuza montò a cassetta. “Quelle sono per la città. Non sono adatte allo sterrato,” spiegò. “Si romperebbero dopo qualche chilometro.”
“Ma ci metteremo una vita così!”
“Due giorni, massimo tre,” disse Chakuza, forse convinto di rassicurarlo. “Non te ne accorgerai nemmeno.”
Bill stava ancora fissando senza parole quel residuato bellico probabilmente comprato a metà prezzo da qualche principessa in rovina, quando Bushido uscì sullo spiazzo nel quale si trovavano. Sembrava di corsa.
“E' tutto a posto, qui?” Chiese.
“Sì, Presidente,” rispose Chakuza.
Bill si voltò con un sospirò. “E' proprio necessario?” Chiese.
Bushido gli si avvicinò e se lo strinse contro finché il ragazzino non si sciolse in quell'abbraccio. “La situazione sta per peggiorare e, quando succederà, tu sarai più al sicuro lontano da qui,” mormorò, lasciandogli un bacio sulla testa.
“Io preferirei...” Bill cercò le parole più adatte. “Non allontanarmi dal palazzo.”
Bushido sorrise e gli accarezzò i capelli. “Non ho dimenticato il nostro accordo,” esclamò. “Ti rimando a casa, promesso. Ma voglio che tu ci arrivi intero.”
Bill fu costretto a sorridere perché, a conti fatti, era esattamente quello che si sarebbe aspettato da Bushido se solo si fosse preso il tempo di ragionare. “D'accordo,” acconsentì con rassegnazione.
Bushido gli tirò su il cappuccio della mantella e gli posò un bacio sulle labbra, al quale Bill non si sognò nemmeno di sottrarsi.
“Stai attento,” lo ammonì Bushido.
“Anche tu.”
Bill si fece aiutare a salire in carrozza e lasciò che Bushido gli chiudesse la porta, quindi rimase a guardare fuori dal finestrino finché non si furono allontanati dal Palazzo così tanto che non ne vide più nemmeno la cima.

*


Il primo giorno di viaggio era stato raccapricciante.
La carrozza sobbalzava in maniera insopportabile e anche quando Bill si era abituato a battere la testa e poi il sedere e poi la testa e poi il sedere all'infinito e si era quindi messo a guardare il panorama, quello era rimasto invariato per un trilione di chilometri. C'erano solo alberi o alternativamente palazzi in rovina. O palazzi in rovina invasi dagli alberi. Allora aveva iniziato a lamentarsi, prima in maniera timida, poi sempre più fastidiosa, fino a diventare un rumore perpetuo di sottofondo, per estinguere il quale Chakuza aveva deciso di accamparsi in anticipo di almeno due ore sulla tabella di marcia. Ad un certo punto la carrozza aveva subito un violento scossone, i cavalli avevano nitrito tutti scompigliati e Bill si era ritrovato tutto accartocciato su un lato.
Quando si era affacciato per capire cosa diavolo fosse successo, Chakuza lo aveva informato che forse era meglio accamparsi per la notte, anche se il sole era ancora alto.
L'uomo aveva montato una tenda per Bill a ridosso di alcune rovine e, quando era stato il momento, si era messo di guardia di fronte al fuoco. Per tutta la notte, Bill se lo era immaginato dormire con un occhio chiuso e uno aperto e, per qualche motivo, la cosa lo aveva fatto molto ridere.
Il secondo giorno, il viaggio era stato ancora più raccapricciante.
Bill pensava che si sarebbe abituato agli scossoni, al paesaggio, alla noia ma questo non stava affatto accadendo. Percorrevano da ore quella che sembrava una vecchia autostrada in disuso piena di buche. I grattaceli di Tempelhof sembravano lontanissimi, come se la città si fosse sviluppata verso l'alto soltanto al centro. Gli scoppi delle bombe si sentivano ancora ma erano sommessi e lontani.
“Posso almeno venire a cassetta?” Chiese a Chakuza, attraverso la piccola apertura che comunicava con l'esterno.
“E' meglio di no, Bill,” rispose l'uomo. “Potrebbero vederti.”
“Posso tenere il cappuccio,” si offrì il ragazzino. “O una maschera. Un sacchetto in testa. Qualunque cosa. Peter, ti prego, fammi uscire.”
Bill lo sentì esitare e pensò di essere riuscito a convincerlo. D'altronde il nome di battesimo ci riusciva quasi sempre, ma dovette ricredersi.
“Non ora, Bill. Tra un paio d'ore raggiungeremo la periferia e potrai scendere e sgranchirti le gambe prima che passiamo il confine.”
“Pensavo che fossimo già in periferia,” esclamò Bill. “Non c'è niente, qui.”
“Perché adesso lo vedi così”, fu la risposta. “Prima questo posto era stupendo. Avresti dovuto vederlo.”
Bill lanciò un'occhiata fuori dal finestrino, dove il paesaggio traballante si srotolava tra le rovine e tra vecchie casupole fatte di lamiera. Ogni tanto vedeva passare degli uomini con vecchi carri di legno e donne velate come quelle che aveva intravisto in città.
“Cos'è successo?”
“La guerra,” fu la risposta. “Ti sembrerà strano, visti i bombardamenti continui che hai sentito, ma è quasi come se fossimo in pace adesso. Quando la guerra infuriava davvero, lo vedi da te quello che è successo. Non è rimasto in piedi più niente.”
“Di quando stiamo parlando?”
“Sei o sette anni fa, forse anche dieci,” fu la risposta.
“La guerra non si è mai spinta fino al palazzo del Presidente?” Chiese Bill.
Chakuza incitò i cavalli. “Sì, naturalmente,” rispose. “Tutto il ghetto ne è stato vittima. Il Palazzo è stato abbattuto una volta e colpito altre due dopo la ricostruzione, ma adesso c'è una grossa differenza fra la zona presidenziale e questa.”
Bill si affacciò al finestrino, appoggiando la testa sugli avambracci piegati. “Vale a dire?”
“Non ci sono abbastanza fondi per ricostruire l'intero ghetto. Senza contare che ad ogni bombardamento viene giù qualcosa di nuovo. Dobbiamo fare delle scelte quando decidiamo di intervenire.”
“Quindi questa gente è stata abbandonata.”
Chakuza rimase in silenzio per un po'. “Cerchiamo di fare il possibile. I viveri sono razionati e spediti un po' ovunque, ma per quanto riguarda tutto il resto, non possiamo farci niente.”
“La gente non può spostarsi verso la zona del palazzo?”
“Lo fa, ma lo spazio non è illimitato. E in generale, non si sta tanto meglio. I due che ti hanno portato a palazzo non se la passavano poi tanto bene, no?”
Bill ripensò a Gustav e Georg e a quella loro casa messa insieme praticamente col nulla. “No, non molto,” ammise. “Loro dicevano che non si può passare il confine.”
“Abbiamo un permesso Presidenziale, tu che ne dici?” Scherzò Chakuza.
“E non controlleranno la carrozza?”
“Non se ci sono io sopra.”
Bill alzò gli occhi al cielo. “E poi? Dove siamo diretti?” Chiese.
“Anche se te lo dicessi, che differenza farebbe? Non hai idea di dove siamo nemmeno ora!”
Il ragazzino si strinse nelle spalle, anche se il carpentiere non poteva vederlo, visto che teneva gli occhi fissi sulla strada. “Era tanto per fare conversazione, mi sto annoiando.”
“Porta pazienza.”
La carrozza si fermò di colpo. Bill si puntellò con le braccia per attutire lo scossone e fu anche abbastanza orgoglioso di se stesso per esserci riuscito. Sentì di nuovo scalpitare i cavalli. “Chakuza, che succede?” Chiese.
“Resta dentro,” sibilò il carpentiere, prima di scendere con un balzo.
Bill sentì la tensione nella sua voce e decise che disubbidire all'ordine non fosse affatto saggio, ma gli restava la curiosità, così decise di sporgersi appena oltre il finestrino per vedere cosa diamine fosse successo. Escludendo per ovvie ragioni che avessero bucato o che dovessero fare benzina, non erano molte le motivazioni per cui una carrozza dovesse fermarsi nel bel mezzo del nulla.
Un'imboscata, per esempio.
“Non ci credo,” sibilò, mentre osservava un numero imprecisato di uomini uscire dalle rovine che stavano attraversando. C'era un grosso legno rovesciato sulla strada, che era probabilmente il motivo per cui Chakuza era stato costretto a fermarsi, rendendo la carrozza un bersaglio fermo e facilmente accerchiabile dai tipi in questione. “Ci mancavano solo i banditi,” esclamò spalmandosi una mano sul viso.
Chakuza mise mano alla spada che aveva attaccata alla cintura e che gli era stata data giusto per l'occasione. Se n'era lamentato per tutto il viaggio, dicendo che non sapeva che farsene lui di gingilli simili. D'altra parte, aveva pensato Bill, se era la sua guardia del corpo doveva pur averla una spada, una pistola, un'arma, insomma qualcosa con cui potesse abbattere la gente senza dover per forza avvicinarsi troppo. Tipo il martello, per dire, che era un sacco scenico e dannoso, ma molto poco pratico.
A quanto pare la spada sarebbe tornata utile, anche se Chakuza era un tantino in svantaggio.
“Non abbiamo del denaro da dargli?” Chiese
Chakuza dava le spalle alla carrozza e non si girò per rispondergli. “Sono uomini di Sido, Bill,” sospirò.
“Oh.”
Gli uomini in questione erano vestiti di nero dalla testa ai piedi, compreso il passamontagna che lasciava scoperti soltanto gli occhi. Bill non aveva idea di come Chakuza fosse riuscito a capirne la provenienza, ma visto che erano armati e malintenzionati, voleva credergli. Non dissero nulla prima di cominciare ad attaccare, per questo Bill se ne accorse solo quando Chakuza emise un grido animalesco e si gettò sui primi due con la spada impugnata a due mani. Era così abituato al suo Chakuza – il quale, al massimo, faceva le risse per accaparrarsi più pizza degli altri a tavola – che si convinse istantaneamente che il carpentiere sarebbe morto, lasciandolo in balia di loschi figuri che avrebbero preso possesso della scalcinata carrozza per guidarla su due ruote fino al covo di Sido, dove Sido probabilmente se ne stava nell'ombra con le punte delle dita unite a meditare vendetta. Forse lo avrebbe steso su un altare e sacrificato ad un Dio cornuto di nome Khmet, utilizzando le oscure forze del male per distruggere Bushido una volta per tutte. Era un piano ragionevole.
Comunque, mentre lui si faceva i filmini, Chakuza aveva abbattuto i due uomini e ne stava ora affrontando altri tre che gli davano del filo da torcere. Al contrario del suo Peter, questo sembrava cavarsela piuttosto bene, il che non avrebbe dovuto sorprenderlo ma lo faceva comunque. Quando uno dei tre si ritrovò trafitto da parte a parte, gli altri due si fecero indietro un solo istante per riordinare le idee e Chakuza ne approfittò per sganciare il martello dalla cintura e poi avventarsi su di loro con entrambe le armi in pugno.
Bill sentì la sua mascella sganciarsi dal resto del cranio e poi cadere virtualmente a terra con un vago suono di plastica da due soldi. Cos'era esattamente quest'uomo alto un metro e cinquanta che assomigliava tanto al suo Chakuza ma stava spaccando teste umane a martellate?
Domande simili si sarebbero senza dubbio accavallate le une sulle altre se, mentre Chakuza roteava le braccia ululando, due uomini non avessero aperto la porta della carrozza per estrarne Bill a braccia.
Solo che lui non aveva alcuna intenzione di farsi sacrificare su un altare, tanto più che era fuori moda e lui doveva anche tornare a casa, perciò si mise a scalciare e urlare come un indemoniato, colpendo a caso chiunque gli si parasse davanti. I due uomini che tentavano di trattenerlo scoprirono che le sue quattro ossa facevano male quando le usava per colpirli in faccia.
“Lasciatelo andare!” Chakuza urlò da qualche parte alla sua destra. Ne seguì il suono strozzato e poi lo spruzzo viscido del sangue dell'aggressore che aveva per le mani in quel momento.
Subito dopo il martello colpì al collo uno dei due che tenevano Bill e quello gorgogliò lasciando la presa.
“Sei impazzito per caso?” Sbraitò Bill. “Potevi prendere me!”
Chakuza lo afferrò per la vita e lo strappò dall'altro uomo prima di colpire anche lui. “Se colpisco te, vuol dire che sono diventato cieco, Bill,” replicò stizzito. “E ora lasciami lavorare vuoi?”
Bill si lasciò spingere di nuovo contro la carrozza, mentre il carpentiere dava prova ancora una volta di non esserlo affatto, e boccheggiò un paio di volte, prima di decidersi a stare zitto.
Si schiacciò contro la carrozza, senza sapere bene cos'altro fare. Chakuza stava andando alla grande, ma questi continuavano ad uscire da tutte le parti e prima o poi sarebbero stati più veloci di lui. Difatti sussultò quando uno degli assalitori riuscì a oltrepassare per un attimo la sua difesa e sospirò quando l'uomo deviò il colpo all'ultimo con la spada di piatto.
Ne caddero altri due, colpiti da una martellata alle ginocchia, prima che il cerchio si chiudesse intorno alla carrozza, a Bill e a Chakuza senza via d'uscita. Il carpentiere arretrò, per essere più vicino al suo protetto, la spada e il martello sollevati e lo sguardo che saettava da una parte all'altra, forse contando il numero dei nemici rimasti.
“Andrà tutto bene,” mormorò.
Bill annuì, al vuoto. “Certo. Lo vedo,” commentò. “Siamo solo trenta contro uno.”
“Un po' di ottimismo?” Chiese Chakuza, roteando un polso per scioglierlo. “Potevano essercene degli altri.”
Qualcosa di grosso e pesante atterrò sul tetto della carrozza con un tonfo sordo. Gli aggressori sollevarono lo sguardo esattamente come loro. Un uomo si era appena calato con una fune da ciò che rimaneva dell'arcata di un ponte qualche decina di metri sopra le loro teste. Era vestito di nero dalla testa ai piedi, passamontagna compreso, come gli altri.
“Fantastico. Contento adesso?” Sibilò Bill.
Ancora legato alla fune, il nuovo arrivato estrasse dallo zaino una bomba, tirò via la spoletta con i denti la lanciò.
Chakuza si gettò a terra insieme a Bill, rotolando con lui sotto la carrozza. “Chiudi gli occhi,” gli ordinò, serrando i propri e proteggendogli il viso con le braccia. Il ragazzino obbedì mentre sentiva la bomba emettere un leggero suono metallico prima di esplodere. Si aspettò di sentire l'onda d'urto, ma in realtà non ci fu nessuno scoppio, solo una gran luce di cui intuì la potenza dietro le palpebre chiuse.
Quando sentì che Chakuza si allontanava, accarezzandogli piano la testa, si azzardò a guardare e vide che i loro assalitori si rotolavano a terra con le mani sugli occhi, lamentandosi per il dolore.
“Stai bene?” Sussurrò Peter. Bill annuì. “Ok. Resta qui.”
Il nuovo arrivato era sceso dalla carrozza e stava già legando uno degli altri quando si fermò per girarsi verso Chakuza che gli si avvicinava lentamente, il martello sollevato sopra la testa e la spada in avanti.
Il tipo alzò entrambe le braccia, guardandolo dritto negli occhi.
“Chi diavolo sei tu?” Chiese il carpentiere. L'altro accennò a togliersi il passamontagna, ma si fermò immediatamente quando Chakuza lo minacciò con la spada. “Lentamente e tieni le mani bene in vista.”
Bill vide il tipo sbuffare sotto la stoffa che gli copriva il viso.
Con calma, tra i rantolii della gente a terra, il tipo si tolse il passamontagna e Chakuza gli fu addosso il secondo dopo.
“Fler...” mormorò allucinato Bill dal suo nascondiglio.
Fler non era armato, così si limitò a schivare i colpi dell'altro. Era piuttosto agile ma, più che bravo, sembrava anticipare le mosse di Chakuza una dopo l'altra, come se le conoscesse a memoria. “Chaku, lascia che ti spieghi!” Disse, mentre si tirava indietro di fronte ad un'altra martellata.
“No!”
“Dammi una possibilità, va bene?” Tentò ancora. “Una sola e se non ti convinco, allora puoi fracassarmi la testa a martellate!”
“Te la fracasso subito, così risparmio tempo.”
“Oh andiamo,” Fler saltò, aggrappandosi al ramo basso di un albero e cercò di disarmarlo con un calcio ma evidentemente erano in due a conoscersi alla perfezione perché Chakuza non si lasciò cogliere di sorpresa. Mentre scivolava fuori da sotto la carrozza, Bill ebbe come l'impressione che, di questo passo, sarebbe stata una battaglia ben noiosa se si anticipavano a vicenda.
“Non fare l'idiota, posa quell'affare!” Fler si dondolò sul suo ramo e poi si dette la spinta per salirvi sopra, accucciato. “Voglio solo parlarti.”
“Vieni giù, fatti spaccare la faccia.”
“Possiamo almeno discuterne prima?”
“No,” rispose l'uomo tirando il martello.
Il lancio fu tanto veloce che Fler fece appena in tempo a gettarsi a terra per schivarlo. Quindi sfruttò l'occasione per girarsi e colpire il carpentiere alle caviglie, mandandolo lungo disteso a terra. “Cazzo, che testa dura che sei,” sbraitò. “Quando ti metti in testa una cosa non capisci più una sega.”
Chakuza borbottò qualcosa, ma Fler sollevò la spada da terra pestandola ad un'estremità e puntandogliela alla gola. “Rimani a terra o giuro che ti faccio la sfumatura ancora più alta, chiaro?”
Il carpentiere sbuffò, ma annuì.
“Bene,” Fler si girò verso Bill e gli accennò lo zaino che aveva lasciato vicino alla carrozza. “Tu, c'è della corda lì dentro. Lega questa gente.”
“Non hai intenzione di... farmi del male o roba simile?” Chiese il ragazzino, un po' perplesso.
Fler sollevò un sopracciglio. “No, ma mi fa piacere che tu abbia sollevato l'argomento perché è esattamente quello che tento di spiegare da dieci minuti mentre questo coglione cercava di accopparmi. Ora, per cortesia Bill, fai quello che ti ho detto.”
Bill annuì, quindi tirò fuori la corda e cominciò a legare gli uomini rantolanti a gruppi di due. Solo quando ebbe finito e fu tornato vicino alla carrozza, Fler lasciò Chakuza libero di alzarsi, minacciandolo ancora con un'ultima alzata di sopracciglio prima di trascinare gli uomini legati come sacchi di immondizia sotto un albero e lì lasciarli, accatastati gli uni sugli altri che ancora si lamentavano. Qualcuno stava ricominciando a vedere, ma non molto a quanto sembrava dai goffi tentativi di alzarsi calpestando gli altri.
“Allora!” Esclamò Fler, pulendosi le mani sui pantaloni mentre tornava indietro. “Possiamo parlare con calma, o no?”
“Con che faccia ti ripresenti qui dopo quello che hai fatto?” Sibilò Chakuza, avvicinandosi istintivamente a Bill che li guardava più curioso che spaventato.
“Prima di tutto: qui dove, Chakuza? In mezzo ad un campo, sotto un ponte? Dove esattamente? Perché non è che io mi sia presentato a Palazzo, cosa che ti avrebbe, forse, dato il diritto di farmi una domanda del genere. E, secondo: se non te ne sei accorto, ti ho salvato il culo. Quindi, tutto sommato, è un bene che io mi sia presentato qui. Ne convieni? Per finire. Io non ho fatto niente e, se il cielo vuole, forse dopo anni riuscirò a spiegartelo. Ma non qui e non ora, non abbiamo tempo.”
“Mi sono perso,” esclamò Bill, con tutta la calma del mondo. “Mi hanno detto che sei stato tu ad uccidere... me.”
“Perché è stato lui,” ringhiò Chakuza.
“No,” insistette Fler.
“Eri accanto al cadavere quando ti abbiamo trovato!” Sbraitò Chakuza, avventandosi con tanta foga che Fler pensò bene di tirare su al volo una delle tante spade nemiche che erano a terra e prepararsi a parare con quella. “Avevi tanto di quel sangue addosso che non ti si vedeva la faccia.”
“Ma non sono stato io,” la voce di Fler si abbassò di un tono, diventò molto più seria e molto più triste.
Chakuza però non lo ascoltava, ed era evidente da come continuasse ad avanzare verso di lui, con i pugni alzati. “Non negarlo, maledizione! Eri lì con lui! Avresti dovuto proteggerlo!” Ringhiò e si gettò su di lui, sbattendolo contro il primo tronco d'albero. Lo colpì alla faccia senza che Fler riuscisse a reagire, anche se probabilmente non voleva farlo visto che non si mosse nemmeno quando arrivarono il terzo colpo e poi il quarto. “Come hai potuto?”
“Non sono stato io!” Fler urlò, lasciando andare la spada di lato. Chakuza si fermò, così vicino a lui da respirargli in faccia e lo guardò dritto negli occhi.
“Non sono stato io,” ripeté Fler, stavolta mormorando.
Chakuza colpì con forza il tronco ad un centimetro dalla testa dell'altro, poi si voltò per tornare indietro.
“E' stato Tony,” mormorò allora Fler, deglutendo.
Chakuza si fermò, senza voltarsi. Il suo viso era immobile mentre quello di Bill, poco distante, rappresentava la sorpresa di entrambi, con la bocca aperta e gli occhi sgranati.
“Bill voleva porre fine a quella guerra e pensava che parlando con Sido avrebbe risolto le cose. Voleva incontrarli e io l'ho aiutato a farlo,” continuò Fler. “Sono stato un cretino, ma non l'ho ucciso. Tony lo ha colpito prima che potessi rendermene conto. Ho cercato di fermare il sangue ma non è servito a niente. E... e quando sei arrivato, non mi hai lasciato spiegare.”
“Ed eri così affranto che sei passato dalla loro parte,” lo accusò. “Sei vissuto finora con loro, come puoi pensare che io ti creda?”
Fler si staccò dall'albero e lo raggiunse, incurante del fatto che Chakuza fosse probabilmente pronto a farlo a pezzi a mani nude. “Io non ho fatto vissuto con loro, Chaku!” Esclamò. “Io sono stato per conto mio tutto il tempo!”
“Fler...”
“Ho passato gli ultimi due anni ad impedire che Sido facesse saltare in aria il ghetto di Bushido. Ho sabotato quasi tutti i suoi attentati.”
“Eri sulla monorotaia,” realizzò Bill all'improvviso, ricordando gli occhi azzurri che aveva intravisto prima dell'esplosione. Ecco perché gli erano sembrati tanto familiari. “E la monorotaia è saltata in aria.”
“Ho detto quasi tutti,” puntualizzò Fler. “Ma non è questo il punto.”
“Direi che è il punto, se dici che eviti le esplosioni e poi fai saltare in aria una monorotaia,” replicò Bill, punto sul vivo e con le mani sui fianchi.
“Io non ho fatto... ma si può sapere chi ti ha interpellato?”
“Okay basta così,” Chakuza s'intromise secco nella discussione e andò in giro a recuperare le sue armi. Fler e Bill lo guardarono con aria interrogativa, così fu costretto a fermarsi e sospirare. “Io non so se crederti o no Fler.”
“Dovresti,” insistette lui. “Perché mi conosci.”
“Non so se voglio farlo,” precisò Chakuza, a fatica. “E al momento non mi importa. Devo continuare il mio viaggio. Grazie per l'intervento... l'aiuto... quello che era, ma stai lontano d'accordo? Bill, vieni.”
Chakuza prese il ragazzino per un polso e lo condusse verso la carrozza.
“Peter aspetta. Ascolta!” Fler lo fece voltare a forza e non fu contento finché non si fece anche guardare. “Ti spiegherò ogni cosa, va bene? Tutto quanto. E se quando lo avrò fatto non sarai ancora convinto, allora potrai prendermi a martellate. Ma adesso, metti da parte tutto quanto e stammi a sentire. Sido non ha mandato da voi soltanto Tony. Lui era un diversivo. Sono molti di più e attaccheranno presto. Dobbiamo impedire che prendano il Palazzo o sarà la fine per il ghetto.”
“Anis...” mormorò Bill.
“E chiunque viva a Palazzo,” precisò Fler. “Dobbiamo tornare indietro.”
“Quando attaccheranno?”
“L'attacco era previsto due giorni dopo l'arrivo di Tony e contando che sono quasi passati, abbiamo appena il tempo di invertire la marcia.”
Chakuza scosse la testa. “No, devo prima portare Bill al sicuro.”
“Io vengo con voi.”
“Tu non vai da nessuna parte,” risposero i due in coro.
“O vengo con voi o vengo con voi,” concluse Bill, incrociando le braccia. “Scegliete pure quello che vi torna più comodo.
Fler strinse un pugno e poi si voltò verso Chakuza. “Di questo qui ne parliamo dopo,” sibilò. “Venite, ho mezzi migliori di questa carretta.”



*


I mezzi migliori di cui parlava Fler consistevano in quello che, dall'esterno, sembrava un enorme modello di carroarmato, solo che aveva tre enormi ruote per lato al posto dei cingoli e nessun cannone montato sopra. Il muso era rettangolare, con un a striscia di vetro trasparente per permettere la visione verso l'esterno.
Era un affare talmente strano che Bill, colto di sorpresa, lasciò perfino che Chakuza lo aiutasse ad entrarci, tenendolo per la mano mentre saliva i tre gradini che portavano all'abitacolo.
L'interno era diviso in due parti dai sedili anteriori e, nella seconda metà, c'era spazio per fare entrare comodamente almeno dieci persone.
“E questo che cosa sarebbe?” Chiese Bill, accomodandosi su uno dei divanetti anteriori e guardandosi intorno, tastando le pareti di ferro.
“Un prototipo,” rispose burbero Chakuza, sedendosi al posto del passeggero. “Del quale qualcuno non avrebbe dovuto usare i progetti.”
Fler chiuse la propria portiera e cominciò a premere pulsanti da tutte le parti, perfino sul tettuccio. “Farò incidere il tuo nome da qualche parte sulla carrozzeria, va bene?” Lo accontentò, senza nemmeno guardarlo. “E quando metterò su la mia concessionaria di questi cosi, non mancherò di dire a tutti che il modello è tuo. Glielo dirò quando entrano, quando pagano, quando escono e ogni volta che pagheranno una rata.”
“Fanculo, Fler,” sbottò a ridere Chakuza. “Non so nemmeno dove li hai trovati tutti i materiali per metterlo insieme.”
“Li ho presi dai convogli Presidenziali,” fu la riposta. “E non fare quella faccia, non ho assaltato i camion uccidendo chiunque mi si sia parato davanti e ballato nel sangue delle mie vittime mentre trasportavo l'intero carico altrove per rivenderlo agli altri ghetti. Ho preso solo quello che mi serviva e non ho ammazzato nessuno.”
“Non stavo pensando a niente del genere,” replicò Chakuza, girando una manopola sull'enorme plancia.
“Certo, come se non ti conoscessi,” commentò Fler mentre tirava un paio di cloche e metteva in moto quel trabiccolo. Ci fu un rumore inquietante e metallico, un gorgoglio d'acqua e un fischio prolungato e assordante, poi l'affare fece un balzo in avanti e lì rimase a ronzare.
“Ci siamo!” Annunciò Fler, tirando un altro paio di leve e mettendosi in strada.
Bill decise di lasciare il suo comodo divano per avvicinarsi ai due. Aggrappato com'era ai sedili davanti, si sentì improvvisamente molto piccolo e di nuovo in macchina con i suoi genitori.
“Ti rendi conto, vero, che per quanto ne sappiamo questo affare potrebbe anche esplodere?” Chiese Chakuza, che si teneva ben stretto al sedile e guardava la strada come se si aspettasse di vederla per l'ultima volta.
“Rilassati, non lo ha fatto in due anni, vuoi che lo faccia adesso? E' solido, funziona,” replicò Fler, tranquillissimo. “E poi lo hai progettato tu, il che per quanto ti riguarda dovrebbe essere una garanzia sufficiente.”
“Non l'ho assemblato, però,” Chakuza sussultò quando il trabiccolo emise un brontolio inaspettato. “Vai più piano, prima che si sfasci qualcosa.”
“Riesce a reggere i cento chilometri orari, ma poi i pannelli laterali si staccano. Ho provato. Comunque se ci teniamo sugli ottanta, non dovremmo avere problemi. Piuttosto, parliamo di cose serie.” Fler indicò Bill alle sue spalle. “Questo qui, esattamente, chi è?”
“E' una lunga storia,” sospirò Chakuza.
“Hai tutto il tempo di raccontarmela. Sono curioso perché ha la faccia di Bill e il corpo di Bill ma palesemente non è Bill.”
“Sei il primo che se ne accorge,” commentò il diretto interessato.
Fler gli lanciò appena un'occhiata. “Perché hai incontrato solo gente cieca e sorda?”
“No, perché nessuno ha pensato a come parlava o si muoveva. Aveva quella faccia, quindi era lui,” protestò Chakuza. Poi sospirò. “Volevamo crederci.”
Fler si strinse nelle spalle. “Forse ad una prima occhiata, ma quando apre bocca...” fece una smorfia. “Comunque, questa lunga storia?”
“Sono davvero Bill, solo che vengo da un altro universo,” riassunse il cantante.
Fler non fece una piega. “Okay, quella vera, ora.”
“E' quella vera,” esclamò Chakuza, con una voce talmente lugubre che Bill quasi si sarebbe offeso se non fosse stato tanto felice di vederlo accettare con tale consapevolezza il fatto che non era lui l'amore della sua vita. Anzi, a ben pensarci era quasi orgoglioso del suo carpentiere. “David è riuscito ad attraversare lo spazio-tempo e ha trovato una specie di universo parallelo o qualcosa del genere in cui esisteva una copia esatta di Bill. Pensava che in questo modo il Presidente sarebbe rinsavito.”
“E l'ha fatto, immagino,” mormorò Fler, per nulla sconvolto dalla notizia. “Il bastardo lo adorava.”
“Ehi!” A Bill venne automatico tirargli una botta sul braccio.
Fler rise e alzò gli occhi al cielo. “E' un bastardo, tu non lo conosci.”
“Questo Bill ha un suo Bushido nel suo universo,” spiegò Chakuza. “E pare sia uguale al nostro.”
“Più o meno. Anche voi lo siete.”
“Un altro Chakuza, non oso immaginare,” sospirò Fler, prendendosi un pugno anche dal carpentiere. Poi si schiarì la voce. “Ed è tutto quanto... uguale a qui, nel tuo mondo?”
Bill scosse la testa e gli raccontò a grandi linee quello che aveva detto anche a Chakuza. Gli raccontò del suo lavoro e dei rapporti che intercorrevano tra loro nel proprio mondo. Quando finì, Fler e Chakuza si erano improvvisamente adombrati e avevano la stessa espressione tesa.
“Cosa c'è?” Chiese Bill, bloccandosi a metà di una frase quando si rese conto che i due guardavano ostinatamente la strada davanti a loro come persone molto impegnate a non fare vedere quanto erano arrabbiate.
“Stai insieme a lui anche nell'altro universo,” commentò Fler, con una risatina ironica. “A questo punto mi chiedo se questa catastrofe si possa impedire in qualche modo o se è destinata a ripetersi per sempre in ogni possibile mondo esistente.”
Bill esitò quei due o tre secondi, giusto per processare quello che gli era stato detto, quindi lanciò un'occhiata a Chakuza che continuava a guardare ostinatamente la strada deserta e quindi fece una smorfia incerta. “Perché avete tutti un problema con questa cosa?” Esclamò. “Cioè sì, d'accordo, posso capire Chakuza ma...senza offesa, tu cosa c'entri?”
“Se puoi capire Chakuza, immagino sia perché lui ti ha spiegato e....” Fler inchiodò di colpo, mandando Chakuza a sbattere la testa contro il parabrezza con un assolo di bestemmie. Bill avrebbe fatto lo stesso se Fler non lo avesse fermato al volo con un braccio, quasi con noncuranza. “Tu non gliel'hai detto!” Sbraitò in direzione del carpentiere.
“Cazzo....” Chakuza si tastò la fronte un paio di volte, gemendo. “Ma sei scemo o cosa? Frenare in quel modo.”
“Tu non gliel'hai detto,” ripeté Fler, tra lo sconvolto e l'incredulo. “Non posso crederci.”
“Non era così necessario,” protestò l'altro.
“Non era necessario?”
“Lui viene da un altro mondo e tu eri l'assassino. Anzi, per quanto ne so potresti esserlo ancora. Non ho ancora detto di crederti.”
“Però sei seduto sul mio carrarmato come se niente fosse! Cazzo, sono senza parole.”
“Questo non è il tuo carrarmato,” puntualizzò Chakuza.
“Non tentare di cambiare discorso con me, sai?” Fler alzò la voce. “Tu non gliel'hai detto. Hai veramente la faccia come il culo, Chakuza.”
“Ascolta...”
“Cosa ti passava per quel cervello? Giuro che non voglio nemmeno pensare a quello che ho in mente in questo momento perché farebbe di te una persona tremenda!”
Le guance di Chakuza si infiammarono mentre borbottava qualcosa di incomprensibile in direzione del pavimento.
Bill tossicchiò, un po' per l'imbarazzo e un po' per richiamare la loro attenzione visto che fino a due minuti prima stava parlando e lui non era abituato ad essere ignorato quando teneva i suoi comizi, fossero anche sui deodoranti del cesso. “Scusate, ma sarei ancora qui.”
Fler sbuffò e si appoggiò allo schienale del proprio sedile. “Avresti potuto dirglielo,” ripeté ancora.
“Come?” Esclamò Chakuza, rassegnato. “Come diavolo potevo dirgli una cosa del genere?”
“Beh com'è che gli hai detto di te, tanto per cominciare?”
“Non gliel'ho detto, infatti.”
“Ci sono arrivato da solo,” s'intromise Bill. “Ha provato a baciarmi, quindi mi sembrava chiaro che fosse abituato a farlo. E poi ha quell'occhio da triglia che...”
“Sì, posso immaginare.”
Chakuza aprì la bocca per difendersi, ma Fler lo zittì sollevando un indice. “Stai zitto. Zitto, ho detto. Qualunque cosa ti uscirà da quella bocca renderà ancora più imbarazzante la tua posizione, quindi taci finché non te lo dico io, che è meglio.” Quindi si girò bene sul sedile e appoggiò le braccia incrociate sul poggiatesta. “E quando gli hai detto di aver capito, lui come te l'ha spiegata, esattamente?”
“Posso almeno difendermi?” Tentò Chakuza.
“No,” sibilò Fler.
Bill sollevò un sopracciglio. “Beh mi ha detto che lui e Bill stavano insieme prima che Bushido decidesse di fare di lui la Luce di Tempelhof.”
Fler annuì copiosamente. “E basta?”
“Sì.”
“Chakuza, vuoi sopperire, per cortesia?”
“Perché non lo fai tu?” Sbottò il carpentiere, quasi incrociando le braccia al petto.
Fler si schiarì la voce. “La verità è che stavamo insieme,” chiarì Fler. “Io, Bill e lui.”
Qualunque cosa Bill avesse intenzione di dire – e non sapeva nemmeno lui cosa fosse – risalì velocemente la sua gola ma poi gli morì sulla lingua, senza un avvertimento, così tutto ciò che fece fu aprire la bocca ed emettere un suono gutturale e incomprensibile. Imbarazzato, si schiarì la gola e riprovò. “Cosa?” Chiese, con una vocetta stridula e strozzata.
“E' una storia complicata,” intervenne Chakuza.
“No, non lo è affatto,” lo liquidò subito Fler, inframezzandosi tra lui e Bill, così che il ragazzino potesse prestare attenzione solo a lui. “Ti ha raccontato la storia del carrozzone sul quale la tua copia è arrivata?”
“Sì, qualcosa del genere.”
“Okay, io conosco questo stronzo qui da una vita. L'ho conosciuto tirandogli una palla in testa, probabilmente è per questo che è scemo, non lo so. Comunque quando Bill è arrivato, noi ci conoscevamo già.”
“Ma non stavamo insieme!” Esclamò Chakuza.
“No, assolutamente no,” Fler scosse la testa con un certo impeto. “Anzi, prima che tu me lo chieda, io e lui non stiamo insieme, non stavamo insieme nemmeno quando c'era Bill. Era più una cosa io e Bill e lui e Bill, dove tutti erano presenti contemporaneamente, mi segui?”
“Sì e non so se voglio,” commentò Bill.
“Bene, dunque, Bill arriva su questo enorme carrozzone e si mette a vivere vicino a noi. Sua madre era matta come un cavallo, ma tanto gentile e suo fratello.... io non so come sia tuo fratello, ma il suo Tom era un cane da guardia, non lo lasciava da solo un attimo. Dovevamo, tipo, rapirlo per stare con lui. E Bill! Bill era una cosa deliziosa...”
Bill, quello vero, non poté fare a meno di darsi una certa importanza a quelle parole.
“Ci siamo innamorati entrambi all'istante. Capisci? A quel punto era chiaro che potevamo solo litigare e ammazzarci di botte perché né io né lui volevamo cedere. E siamo arrivati a quella soluzione.”
“E' stato Bill a decidere, naturalmente.”
“Naturalmente,” annuì Fler.
Quel qualcosa che era morto sulla lingua di Bill, improvvisamente, si risvegliò e rotolò fuori senza controllo. “E tanti cari saluti alla vergine dalle guance rosse e dalle caviglie fragili,” commentò con gli occhi sgranati.
Nel carrarmato calò un silenzio vagamente imbarazzato, finché Bill non cercò di ricomporsi e si schiarì la voce un paio di volte. “E insomma, poi è arrivato Bushido e ve lo ha portato via. Questo è molto triste.”
“Lui non ce lo ha portato via,” mormorò Fler. Chakuza tossicchiò per fermarlo, ma lui non lo sentì. “Bill non ha mai voluto stare con Bushido, era costretto. Gli unici momenti in cui non fingeva, erano quelli in cui stava con noi.”
Chakuza abbassò la testa, borbottando a bassa voce. “Avevo saltato anche questa parte.”
Fler guardò prima il carpentiere e poi Bill che si grattava vagamente la nuca.
“Okay, basta così,” deglutì il cantante, che non voleva dar loro modo di parlare oltre, rischiando di veder passare il numero degli uomini da tre a chissà quanti contemporaneamente. “Troppe informazioni su di me, credo, non ero pronto. Tutti questi uomini – cioè problemi! - problemi di relazione e... non dovevamo andare a palazzo?”
“Sì, naturalmente,” Fler si voltò, riavviò il motore e ingranò la marcia, il tutto in quattro secondi.
“A palazzo!” Esclamò convinto Chakuza, riprendendo improvvisamente a respirare.
Il silenzio calò di nuovo ricoprendoli tutti quanti con un velo di clamoroso imbarazzo, per eliminare il quale Fler si mise a fischiettare, Chakuza gli accese sopra la radio e Bill indicò oggetti a caso fra quelli che di tanto in tanto vedeva spuntare: una casa, un palo della luce, o ma che bel ponte laggiù.
“Comunque...” esclamò Bill dopo un po', costringendo Fler ad abbassare la radio per sentirlo “tanto per chiarire, io non ho intenzione di...”
“No, certo che no!” Replicò Fler.
“Ci mancherebbe!” Fece eco Chakuza.
Poi calò ancora altro silenzio.
Fler tornò ad alzare la radio. “Arriveremo fra un paio d'ore,” comunicò.
E quella, fortunatamente, fu l'ultima cosa che dissero per tutto il viaggio.



*


Con il prototipo di carrarmato e con la tendenza di Fler a superare i limiti consentiti dalla stessa struttura del mezzo la strada del ritorno fu molto più breve di quella dell'andata, il che fu un bene perché un altro paio d'ore rinchiusi dentro una scatola di latta a guardarsi in faccia senza la possibilità di ripensare a ciò che era stato detto e aleggiava tra loro pesantemente e, con ogni probabilità, si sarebbero impiccati.
Non è che Bill fosse scandalizzato dalla questione in sé, naturalmente, non sarebbe stato un buon cantante rock se si fosse lasciato sconvolgere da cose del genere, ma era comunque disturbante pensare alla relazione di quei due – e di Bushido – con quel ragazzo rendendosi conto che aveva la sua faccia. Era un po' come leggere in rete una fanfiction dove lui si faceva ogni singolo personaggio maschile presente nella storia; magari non lo lasciava turbato, però lo coglieva di sorpresa, ecco. Ci avrebbe messo un po' di tempo ad abituarsi a quest'ennesima versione di se stesso. Dover accettare che una sua copia necessitasse di un cavalier servente anche per salire e scendere le scale era stato già abbastanza complesso, ma dover cambiare idea per scoprire che sotto il velo e due metri di strascico aveva una vita più interessante della sua, cominciava ad essere fastidioso. Urgeva tornare il prima possibile a casa, dov'era l'unico e solo.
“Sembra che siamo arrivati in ritardo,” commentò Fler, chiudendo la portiera.
Le bandiere con il simbolo di Bushido sul tetto del palazzo presidenziale erano state sostituite con quelle che recavano la maschera di Sido, argentata in campo nero. La luna appena sorta, rotonda e pallida, rendeva lo skyline della città ancora più tetro ora che si apriva sotto l'ombra di quel simbolo nemico.
“Che significa?” Chiese Bill.
“Sido ha preso possesso del palazzo,” rispose Chakuza, aiutando Fler a scaricare l'attrezzatura che aveva previsto di usare. “Dobbiamo entrare.”
Bill iniziò diligentemente a rimboccarsi le lunghe e fastidiose maniche della maglia. “Bene. Qual è il piano?”
“Sarebbe meglio che tu restassi qui,” gli disse Fler, legando i rampini alle corde.
Bill non gli rispose nemmeno, si limitò solamente a guardarlo e l'altro capì che non ci sarebbe stato modo di convincerlo se non colpendolo ripetutamente alla testa e tramortendolo. Fler ci pensò anche un istante ma poi capì che, così facendo, Chakuza avrebbe faticato ancora di più a crederlo innocente. Così si rassegnò e gli passò l'imbracatura. “Tieni, mettiti questa.”
Bill se la rigirò tra le mani molto attentamente ma dopo due minuti di scrupolosa analisi non gli trovò il verso e Fler fu costretto a sospendere quello che stava facendo per vestire lui. “Saranno cinque anni che non lo facevo,” rise, indicandogli dove infilare le gambe e le braccia.
“Troppe informazioni,” lo avvertì, cercando di capire perché fosse legato come un salame.
Chakuza si avvicinò con aria competente e gli agganciò addosso tre moschettoni. “Okay, ci siamo,” commentò mentre insieme a Fler gli giravano intorno per controllare.
“Qualcuno mi dice cosa stiamo per fare? Giusto così per sapere,” commentò Bill ironico.
Fler agganciò la propria imbracatura. “La via più facile per entrare nel palazzo non visti è dal tetto,” spiegò Fler. “C'è un passaggio che porta direttamente ai generatori. Da lì possiamo raggiungere praticamente qualunque altro luogo.”
“Non sarebbe più facile usare il passaggio usato da Tony?”
“L'ho murato dopo l'interrogatorio,” rispose Chakuza, mentre tutti e tre si allontanavano dall'auto, verso un vicolo dietro il palazzo.
Fler si voltò verso Chakuza. “Tony è entrato dalla stanza di Bill?”
“E ha tentato di nuovo di ucciderlo, sì,” sibilò l'altro.
“Perché non hai chiuso quel passaggio subito dopo la sua morte?”
Chakuza sospirò. “Perché non ce n'è stato il tempo. Dopo il funerale e la sepoltura e tutto quanto il resto, Bushido fece sigillare la stanza prima che potessi metterci mano. L'abbiamo riaperta quando è arrivato lui e a quel punto me n'ero dimenticato.”
“Bill decise di far passare Tony e Sido da quel passaggio, in modo da non farlo sapere a Bushido prima del tempo,” spiegò Fler in favore di Bill, ma anche un po' di Chakuza che in effetti non conosceva tutti i dettagli di quel giorno tremendo. “Pensavo di murarlo io stesso una volta che tutto sarebbe stato a posto ma, ovviamente, niente è andato come doveva.”
“Quindi se Tony l'ha riutilizzato è colpa tua,” lo accusò il carpentiere. “Sei stato tu a mostrarglielo.”
“Sì, Peter. E' stata colpa mia,” mormorò tetro l'altro, mentre li guidava tutti all'interno di un caseggiato abbandonato proprio sul retro del palazzo presidenziale. Il loro obbiettivo era troppo alto perché potessero raggiungerne il tetto da terra, così l'unica era salire sul tetto più vicino e lanciarsi da lì. “Sei contento, adesso?”
Chakuza ci ragionò sopra per due rampe di scale prima di rispondere: “No, non proprio. Pensavo che sentirlo mi avrebbe fatto sentire meglio e invece non è successo.”
“Perché non funziona così,” lo liquidò Fler. “Dirlo ad alta voce ti aiuta solo a renderlo più sopportabile.”
Rimasero in silenzio finché i due uomini non ebbero finito di sistemare tutta l'attrezzatura, quindi Fler sparò uno dei rampini sulla cima quasi invisibile del palazzo presidenziale e fece cenno a Bill di avvicinarsi.
“Tu vieni con me,” gli spiegò, agganciandolo a sé tramite i moschettoni. “Tieniti.”
Bill non fece in tempo neanche ad annuire, che Fler premette un bottone su quella specie di pistola che teneva in mano e quella riavvolse da sola la corda, tirandoli verso l'alto ad una velocità spropositata. Bill cacciò un urlo di sorpresa e poi lo soffocò nascondendo il viso contro il petto di Fler. L'attimo dopo stavano poggiando entrambi i piedi sul tetto e Chakuza li raggiungeva altrettanto velocemente.
I due uomini si sganciarono in fretta l'imbracatura e liberarono Bill, quindi se lo tirarono dietro verso l'unica costruzione presente sul tetto, ossia un piccolo casottino circondato di antenne, esattamente quello che Bill si aspettava di trovare là sopra.
Oltrepassata la porta e una prima rampa di scale, si fermarono di fronte ad una parete di lamiera esattamente uguale a tutte le altre, ma Chakuza svitò i quattro bulloni di uno dei pannelli che copriva un passaggio segreto grande abbastanza per farli gattonare comodamente, ma di certo non per farli stare in piedi.
“Da qui in poi, non una parola,” disse Chakuza. “Questi sono i condotti dell'aerazione e attraversano tutte le stanze. I rumori vengono amplificati.”
Fler entrò per primo, seguito da Bill e da Chakuza che richiuse il pannello dietro di sé.
Bill si era aspettato di morire di claustrofobia molto in fretta, ma il percorso fu più facile del previsto. Nonostante le mille svolte che furono costretti a fare, Fler sembrava sapere perfettamente dove stava andando e dopo una decina di minuti, svitò un altro pannello e saltò fuori, allungando le braccia per aiutare Bill che lo lasciò fare, non troppo sicuro di poter saltare giù da un condotto dell'aerazione senza cadere di testa.
La stanza in cui erano arrivati era buia, con una sola minuscola finestra che proiettava sul pavimento una striscia di luce appena sufficiente perché si vedessero tra di loro e in sottofondo il costante ronzio di quelli che dovevano essere i generatori del palazzo.
Fler avanzò verso la porta e si mise in ascolto, quindi li chiamò con un cenno. Gli altri due si avvicinarono mentre apriva la porta e controllava il corridoio.
“Via libera,” sussurrò.
Bill non era mai stato in quella parte del palazzo e anzi, a ben guardare, non aveva mai superato il decimo piano. Era molo curioso di capire che cosa ci fosse da quelle parti.
Percorsero in fretta il corridoio, sempre con Fler ad aprire la fila e Chakuza a chiuderla, camminando di tre quarti per controllare la direzione da cui provenivano.
Scesero di quasi cinque piani senza incontrare nessuno, finché Fler non li fermò a metà di una scala, sollevando la sinistra e portandosi la destra alla bocca per dirgli di fare silenzio. Si appiattirono tutti e tre contro il muro, nel cono d'ombra in cima alla rampa. Sotto di loro passava un corridoio illuminato, a differenza di quelli che avevano percorso fino a quel momento. Sentirono delle voci avvicinarsi e poi l'ombra di due uomini si proiettò sul pavimento. Rimasero col fiato sospeso finché i due non furono passati, quindi Fler li riportò su di qualche gradino. “Okay, questo è il quindicesimo piano,” bisbigliò. “Supponendo che abbiano preso per prime le stanze presidenziali e siano poi saliti verso l'alto, hanno in mano almeno cinque piani, compresa l'armeria.”
“No. Abbiamo spostato l'armeria nel sottolivello, due anni fa,” lo informò Chakuza. “Con un po' di fortuna non sanno ancora che si trova lì.”
“Ottimo, se riusciamo a raggiungere l'armeria e a trovare qualcosa di più pericoloso di una spada e un martello da mezzo chilo, forse abbiamo una speranza di recuperare questo posto,” ragionò Fler. “Ma da qui all'armeria ci sono quindici piani sorvegliati.”
“Possiamo facilmente evitarli con i percorsi alternativi,” gli fece notare Chakuza. “Ci metteremo solo di più.”
Fler sospirò. “Speriamo che Sido si faccia prendere come al solito dalla sua vena epica e annoi Bushido con uno dei suoi discorsi chilometrici sul destino e i grandi piani di conquista, questo ci darà del tempo utile.”
“E speriamo che Bushido non faccia il coglione,” commentò Chakuza. “O Sido vorrà ammazzarlo in cinque minuti.”
Bill sospirò perché, in effetti, entrambe le cose sembravano molto probabili.
I percorsi alternativi previsti da Chakuza si rivelarono un groviglio tortuoso di passaggi segreti, scale ripide, condotti di areazione e scivoli per l'immondizia. Dopo essersi infilati nel primo passaggio disponibile, che era poco più di un buco nel muro e che costrinse Bill quasi a strisciare per terra, i tre si ritrovarono in una stanza gigantsca praticamente vuota se non per una lunga fila di librerie piene di volumi tutti uguali ed etichettati. Da lì, spostando una delle librerie, s'infilarono in un breve passaggio ricoperto di mattoni e infilarono in una stanzetta piena di cianfrusaglie che costrinse Bill ad operazioni circensi per muoversi senza inciampare portandosi dietro cataste di ciarpame rumoroso che avrebbe probabilmente richiamato non solo le guardie del palazzo ma anche quelle sparse per il quartiere. Non contenti, dovettero raggiungere l'entrata di un secondo condotto di aerazione posto talmente in alto che Fler dovette prima arrampicarsi fin quasi al soffitto, quindi tendere le braccia per prendere Bill che Chakuza dovette praticamente sollevare di peso. Dopo altri quattro corridoi talmente stretti che Fler dovette passare di traverso e uno scarico dell'immondizia che li proiettò dritti dietro le cucine del secondo piano, Bill stramazzò a terra e chiese mezzo secondo di pausa, quel tanto che gli bastava per lamentarsi.
“Non ti mettere comodo, c'è ancora un piano prima dell'armeria,” gli ricordò Fler, lanciando un'occhiata fuori da una finestra. Nella piazza sottostante il palazzo l'esercito di Sido stava radunando la gente e il palco di legno proprio al centro non prometteva niente di buono.
“Dammi solo un attimo, d'accordo?” Sbuffò Bill. “Questi passaggi sono un inferno. Si può sapere chi diavolo li ha costruiti?”
Fler rise. “Lui, no?” Indicò Chakuza, che però lo liquidò alzando il medio e guardando anche lui dalla finestra.
“E' un palco da impiccagione quello?”
“Bingo,” sospirò Fler, passandosi una mano sulla faccia. “Molto epico.”
“Vecchio stile,” borbottò Chakuza. “Sido è rimasto a trent'anni fa.”
Bill si alzò da terra e corse alla finestra, spostando il carpentiere quasi di peso per vedere anche lui. “Vogliono impiccare Bushido?”
“Sido vorrà spettacolarizzare la sua morte. Farlo sulla pubblica piazza darà risonanza al gesto.”
“E poi potrà lasciarlo lì a dondolare in modo che tutti possano vederlo,” si aggiunse Fler. “A Sido sono sempre piaciute queste manifestazioni di potere alla vecchia maniera.”
Bill si staccò dalla finestra con una faccia allucinata. “Volete piantarla, per favore?” Esclamò, guardandoli entrambi severamente. “Come fate a parlarne con tanta tranquillità? Stanno per impiccarlo.”
I due si guardarono senza capire. “Che cosa dovremmo fare?” Chiese Chakuza.
“Non lo so, preoccuparvi? Potrebbe morire.”
“Probabile,” annuì Fler. “Ma non subito. Il palco non è ancora pronto, non c'è pubblico e penso che Sido aspetterà comunque un momento più scenico. L'alba, per esempio. Quindi direi che per quello c'è tempo. Noi dobbiamo solo concentrarci per arrivare all'armeria.”
“E se questo non bastasse?”
Chakuza lo tirò via dalla finestra e lo spinse verso l'ennesima scala, dietro l'ennesimo muro. “Ricordi cosa ti ho detto sull'ottimismo?”
Bill sbuffò, ma si rimise in marcia.
Quando arrivarono alle prigioni, Bill si rese conto che non solo non c'era mai stato ma che non era mai sceso al di sotto del piano in cui si trovavano le stanze presidenziali, il che in sostanza significava non essersi mai mosso più di un piano sopra e sotto dalle sue stanze. C'era un mondo, in quel palazzo, e lui non sapeva nemmeno della sua esistenza.
Quello delle prigioni, naturalmente, era uno dei piani più sorvegliati che avessero visto fino a quel momento, escluse le stanze del presidente dove le guardie erano così tante che Fler aveva concluso di doverci entrare con un carroarmato per avere la meglio. C'erano circa una trentina di celle, con otto guardie a fare la spola tra i due corridoi principali. L'idea era quella di approfittare del breve lasso di tempo in cui uno dei due corridoi era vuoto per raggiungere il passaggio per l'armeria, e tutto avrebbe funzionato alla grande se Tom non fosse stato in una delle celle e Bill non ne avesse riconosciuto la voce.
“C'è Tom,” sussurrò, fermandosi in mezzo al corridoio e affacciandosi dietro l'angolo per sbirciare la copia del fratello, seduto in una delle celle.
“E questo è molto bello,” esclamò Chakuza, contando mentalmente i secondi che li separavano dall'arrivo del secondo gruppo di guardie. “Ma ci penseremo dopo.”
“Lui può aiutarci,” insistette Bill. “E' il capo delle guardie. Abbiamo bisogno di aiuto.”
Fler tornò indietro di qualche passo. “Il ragazzino ha ragione, Peter. Più gente abbiamo e meglio è. Liberalo, io penso alle guardie.”
“E io?” Chiese Bill.
“Tu stai buono. E non lamentartene perché non ho tempo,” concluse Fler, sparendo in fondo al corridoio.
Bill sbuffò e si avviò di malavoglia verso Chakuza che nel frattempo aveva raggiunto Tom.
“Cosa ci fai tu qui... Cosa ci fa lui qui?” Esclamò indicando alle spalle del carpentiere, il punto in cui Bill lo stava salutando con la mano. “Dovevate essere già molto lontani a quest'ora.”
“Siamo tornati indietro perché abbiamo saputo dell'attacco,” spiegò Chakuza, che aveva infilato due grimaldelli nella serratura della cella e ne teneva un terzo in bocca.
“Con lui?”
“Lui voleva venire,” tagliò corto Chakuza, facendo scattare la serratura. “Ora forza, muoviti. Abbiamo...”
L'esplosione di luce arrivò più debole, ma pur sempre visibile, e poi Fler comparve nel corridoio facendo loro cenno di muoversi. “Venite, via libera. State attenti a questi bastardi per terra.”
“Volete riprendere il palazzo, non è così?” Chiese Tom.
“Sì.”
“La guardia di Bushido è imprigionata su questo piano. Sono dieci uomini, ma meglio di niente,” suggerì.
Fler ringhiò qualcosa che somigliava vagamente ad un'offesa pesante verso il cielo perché non aveva mai tempo di fare le cose con calma e poi annuì. “D'accordo ma muoviamoci, quelli non rimarranno ciechi in terra per sempre.”
“Sei fissato con quelle bombe luminose,” commentò Chakuza, passandogli uno dei grimaldelli, mentre già lavorava ad una delle serrature delle celle.
“No, è che ho solo quelle,” puntualizzò Fler, facendo lo stesso. “Per questo voglio andare all'armeria.”
Bill, nel frattempo, andava avanti e indietro senza niente da fare. “La prossima volta che decidiamo di prendere un palazzo, voi mi aspettate in macchina. Almeno mi diverto,” protestò.
Per liberare le guardie ci volle più tempo del previsto perché le serrature erano vecchie e l'unico che riuscisse davvero ad aprire alla svelta era Chakuza; Fler cominciò ad agitarsi e Bill perse la pazienza molto prima di lui, ma alla fine, in quattordici infilarono il montacarichi nascosto – di cui Chakuza era molto orgoglioso, senza motivo visto che era comunque un catorcio – per raggiungere il sottolivello dell'armeria.
Tom aveva naturalmente sbraitato nel vedere Fler e aveva tentato di attaccarlo, così come avevano tentato di fare tutte le guardie contemporaneamente ed era stato lì che Bill era esploso e per non perdere tempo aveva detto a tutti di stare zitti e di obbedire, che se si fidava lui di Fler che era il suo assassino, potevano ben fidarsi tutti loro. E con questo erano andati avanti.
Fler si era gettato nell'armeria di testa, per uscirne ricoperto di bombe vere, pugnali da lancio e qualche altra cianfrusaglia che Bill non riconosceva. Chakuza ne aveva approfittato solo per prendere un martello più grande e Bill non sapeva se questo lo rendeva un uomo coerente o privo di fantasia. Le guardie si erano solo riprese quello di cui erano state private, millantando la necessità di dover essere sobri in battaglia. Necessità che gli altri due non sembravano sentire affatto.
E quindi era cominciata.

*


Bill non aveva mai partecipato alla presa di un palazzo, naturalmente, ma, nonostante Fler e Chakuza si fossero messi di grande impegno a non fargli fare assolutamente niente, lui stava cominciando a pensare che la cosa potesse piacergli. Chissà che cos'avrebbe detto Bushido se, una volta tornato a casa, avesse espresso il desiderio di imparare a menare la gente? Probabilmente lo avrebbe fatto sedere da una parte dandogli un bacino in fronte e promettendogli un paio di stivali nuovi se avesse smesso di pensare a queste stronzate, il che a ben pensarci era una bella soluzione anche quella. Poteva minacciare di gettarsi in una rissa rischiando la vita per farsi comprare vestiti nuovi.
“Come pensavo. Sta facendo il suo discorso sulla conquista dell'universo,” sospirò Fler, affacciandosi per controllare il corridoio di fronte alla sala presidenziale. C'erano due guardie davanti alla porta e, dall'interno, arrivava la voce di Sido, intento ad illustrare con toni marziali come il mondo sarebbe finito nelle sue mani.
Bill sollevò un sopracciglio. “E' pazzo,” commentò, quando lo sentì parlare di far diventare i ghetti un unico grande e illimitato regno sotto il comando della sua illustre persona.
“Molto,” annuì Fler.
“Quanti sono là dentro?” Chiese Chakuza.
“Una ventina di uomini, più la guardia di Sido e Sido,” rispose Tom. “Questo almeno quando sono stato rinchiuso. Potrebbero essere di più.”
“Siamo due a uno, forse tre. Ci serve un diversivo.”
“D'accordo, facciamo così,” propose Fler. “Io e Chakuza pensiamo alle guardie di fronte alla porta. Una volta aperta, Bill penserà ai fumogeni...”
Il cantante sgranò gli occhi. “Io?”
“Sì, tu,” annuì Fler. “Così la smetti di lamentarti che il mondo non ti fa fare mai niente. Cerca solo di non soffocarti mentre lo fai, perché spiegare a Bushido come sei morto stavolta sarebbe surreale. Poi, a quel punto Tom, guiderà l'irruzione.”
“D'accordo,” Il capo delle guardie annuì convinto e si alzò in piedi. “Pronti al vostro segnale.”
Fler consegnò i fumogeni a Bill mentre la squadra di guardie indossava le maschere antigas, quindi lui e Chakuza svoltarono l'angolo come se stessero facendo una passeggiata.
I due uomini di guardia alla porta li notarono subito ma furono troppo lenti a reagire e caddero a terra prima ancora di aver detto una parola completa. Fler emise un fischio breve e netto e Bill sgattaiolò fuori giusto in tempo per gettare nella stanza i fumogeni mentre gli altri due spalancavano la porta.
Vide Sido guardare nella sua direzione e inorridire, quindi l'attimo dopo la stanza fu invasa dal fumo e dalle guardie armate di maschera.
Bushido si accorse di quello che stava succedendo con quell'attimo di anticipo che gli serviva, così sfruttò la sorpresa dei presenti e tirò una testata al tipo che lo teneva fermo, coprendo la bocca e il naso per non soffocare.
Per un tempo lunghissimo si sentì solo il cozzare delle armi e le urla della gente e su tutto quanto Sido che urlava ordini a destra a manca, nel tentativo di recuperare il controllo della situazione. Se ne stava vicino all'enorme vetrata, con due dei suoi uomini a proteggerlo.
“Prendete Bushido!” Ringhiò, la voce ovattata dalla maschera e dalla tosse. Si piegò in due mentre lo diceva ma nessuno lo stava a sentire, tutti troppo impegnati a lottare con le guardie del presidente nonostante il respiro corto.
Il sistema di areazione si era messo in moto per cambiare l'aria, così il fumo andava diradandosi, ma molto, molto lentamente.
Il presidente si girò per piantare il gomito nello sterno di un uomo che lo stava attaccando alle spalle, ma quando si guardò intorno, ne aveva altri tre pronti a farlo fuori.
Chakuza vide la scena con la coda dell'occhio, ma era impegnato anche lui. “Fler!” Gridò, falciando gente con il martello. “Il presidente!”
Fler colpì un uomo alle sue spalle col dorso del pugno chiuso, quindi saltò sui mobili per evitare la rissa e coprire più velocemente la distanza che lo separava da Bushido. “Anis!” Gridò “Prendi! Ti spiego dopo!”
Bushido si vide arrivare due scimitarre da parte di Fler e le prese al volo, colpendo al collo e al busto chi gli stava davanti nel momento stesso in cui le impugnò. “Sarà bene che sia una bella spiegazione, Patrick,” ringhiò severo, girando su se stesso per abbattere un'altra guardia. “O giuro che ti faccio a pezzi.”
“Ti stupirò!” Urlò l'altro, per poi gettarsi nella mischia ed abbassarsi al momento giusto per evitare la rotazione del martello di Chakuza.
C'erano uomini che combattevano ovunque ormai perché, finiti quelli della stanza, erano arrivati anche quelli dagli altri piani. Sido continuava a sbraitare, ma si faceva sempre più indietro man man che i suoi perdevano e Bushido riprendeva il comando di ogni cosa. Quando vide che nella stanza i suoi uomini erano più distesi che in piedi, cominciò ad arretrare verso una porta laterale, guardandosi intorno per vedere se qualcuno lo stesse notando.
“Vai da qualche parte?” Gli chiese qualcuno.
Sido si girò colto di sorpresa, per ritrovarsi davanti Bill, con una mano su un fianco e l'altra a stringere un fioretto dritto davanti a sé.
Più rilassato, l'uomo sogghignò. “Principessa,” esclamò sussiegoso. “Posa quella spada, potresti farti male.”
“O potrei sbudellarti,” suggerì Bill.
“Non ne saresti capace,” commentò Sido, facendosi avanti con spavalderia.
In tutta risposta Bill gli premette la punta del fioretto sul petto, senza nessuna paura. “Vogliamo provare?” Chiese. “Io non ho niente da perdere, Sido. Quanto ci tieni ai tuoi intestini?”
“Non potresti mai uccidere un uomo.”
“Un uomo no, ma te sì,” concluse Bill, spingendolo indietro con lo spadino. “Vai in quell'angolo, muoviti. E fuori i polsi, devo legarti.”
“Adoro questo Bill,” commentò commosso Fler, osservando la scena mentre schiacciava a terra col piede l'ultimo uomo che aveva avuto la forza di aggredirlo. “Possiamo tenerlo, Chaku?”
Il carpentiere tirò un'ultima martellata, quindi strusciò la testa del martello sulla camicia dell'uomo ai suoi piedi e ragionò. “E' troppo impegnativo,” rispose. “Finirei per dovermene occupare da solo perché tu ti stuferesti.”
Fler si voltò a guardarlo storto. “Sei un deficiente,” commentò.
“E' colpa tua e della tua palla,” gli ricordò Chakuza ed entrambi scoppiarono a ridere.
Incurante del teatrino che stava avvenendo alle sue spalle, Bill continuò diligentemente nel suo lavoro e legò Sido come un salame, forse più del necessario, quindi si spolverò le mani felice.
Bushido lasciò le due scimitarre a terra e lo raggiunse abbracciandolo stretto. “Ottimo lavoro, principessa,” gli sussurrò contro l'orecchio.
Bill lo strinse forte e si lasciò coccolare un po'.

*


“D'accordo, bene così. Siamo pronti,” annunciò David, girando intorno alla pulsantiera e premendo tasti e leve apparentemente a casaccio. Di fianco ai comandi c'era una mezzaluna in metallo che emise una scarica elettrica azzurrognola e vagamente minacciosa.
Bill deglutì, ma poi si costrinse a chiudere gli occhi, inspirando ed espirando per trovare la calma. Quello era il suo passaggio per tornare a casa. Avrebbe funzionato, non c'era niente di cui preoccuparsi.
Dopo l'arresto di Sido, David aveva impiegato altre tre settimane per trovare il modo di costruire un portale, seppur parziale, che fosse in grado di piegare la realtà su se stessa e di rispedire Bill a casa sua.
In questo tempo, il Presidente aveva ripreso il controllo sul suo ghetto, annunciando la fine della guerra e la volontà di collaborare con gli altri capi di stato per ricostruire tutte le città colpite dagli scontri. Fler aveva chiarito la propria posizione – non tutta, naturalmente – ed era stato reintegrato nell'organico, al suo vecchio posto che, con grande sorpresa di Bill, era quello di consigliere strategico del Presidente. Chakuza sembrava credergli, alla fine, e a Bill piaceva vederli scherzare insieme, come se non avessero fatto nient'altro fino al giorno prima. A vedere il carpentiere sorridere in quel modo, si aveva come l'impressione che fossero due le persone che gli erano mancate in tutti quegli anni e Bill era contento di aver contribuito a riportargliene intera almeno una, visto che con l'altra proprio non poteva aiutare.
E, dal momento che ormai tutti avevano compreso che la persona che avevano davanti non era quella che conoscevano e amavano ma un'altra a cui volevano bene per quella che era, quelle erano state tre settimane felici e divertenti; per questo, adesso, la nostalgia lo mordeva alla pancia e alla gola, affondando i denti fino in fondo per farlo piangere. Quando Chakuza e Fler – che si muovevano in coppia sempre ma a maggior ragione quando si trattava di lui –, erano venuti a dargli la bella notizia, quella mattina, l'euforia che lo aveva tirato fuori dal letto aveva vacillato sullo sguardo intenerito ma un po' triste dei due uomini ai piedi del suo letto, per poi morire definitivamente nell'ultimo abbraccio di Bushido prima di spronarlo delicatamente verso il portale.
Sapeva che dall'altra parte c'era un altro Anis – il suo Anis – ad aspettarlo, eppure era spaventosamente triste lasciare questo indietro. E lasciare anche tutti gli altri che in quei pochi mesi avevano tentato di essere il suo mondo come lui aveva tentato ad essere il loro.
David abbassò l'ultima leva, la macchina emise un ruggito potente che si intenerì fino a diventare un ronzio sommesso, quindi un altra scarica elettrica disegno uno strappo nell'aria. Dall'altra parte c'era solo un vorticare violaceo di nubi e stelle. Niente che potesse riconoscere, niente che potesse fargli credere che ci fosse qualcosa di solido dall'altra parte. Doveva fidarsi. “Puoi andare, ora,” mormorò David. “Quando vuoi.”
Fece un respiro profondo e si avvicinò con lentezza al portale che emetteva un calore strano e attraente.
Chiuse gli occhi e avanzò senza guardarsi indietro per la paura di non avere poi la forza di tornare a casa.
Non fu doloroso, ma caldo e consolante. Gli sembrò di essere altrove, senza nemmeno essersi mosso.
Scomparve prima che le sue lacrime toccassero terra.
E fu tutto ciò che in quell'universo rimase di lui.
Personaggi: Bill, Fler, Bushido
Genere: Malinconico, Romantico
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: NC-17
Serie: Stages of Grief
Prompt: Storia scritta per la maritombola di Mari di Challenge (prompt nr.82: "Chiacchiere in chiaroscuro").
Note: Questa storia era nata per essere una storia BillxTutti, ma poi Fler se l'è portato via per farlo soltanto suo e io gliel'ho lasciato fare perché Fler mi fa cose (tanto per auto-citarmi sempre e comunque). Ed era nata anche come una one-shot che si apriva e si chiudeva qui, per non venire mai più riaperta, crollasse il mondo; ma queste cose non vanno mai come le programmi e arriva sempre qualcuno che ti suggerisce che forse ci sono anche altre cose da dire. Forse, vedremo. Intanto c'è questa ;)

Riassunto: Bill sapeva che Bushido non aveva alternative. Con il film in uscita, la vecchia e la nuova casa di produzione, i concerti e i nuovi album da preparare, avrebbe dovuto essere Dio per avere altro tempo da dedicare ad un’attività qualsiasi. Sapeva che, se avesse potuto, avrebbe dilatato le ore per lui, solo che non poteva. Bill però si conosceva anche troppo bene per poter fingere di non aver bisogno d'altro.
1. DENIAL
(Stages of Grief)


La villa gialla era completamente avvolta di luci, quella sera.
Un’altra delle esagerazioni di Bushido per riscattarsi dal buio della propria adolescenza e contemporaneamente l’ennesimo regalo per scusarsi della sua quasi costante assenza.
Bill poteva contare sulle dita le volte che si erano svegliati nello stesso letto, negli ultimi sei mesi. E gli bastava una mano sola per ricordarsi quante di quelle volte avevano fatto sesso.
Si era così abituato a dover buttare intere cene intatte nel cestino, alle telefonate di giustificazioni e ai regali per compensare trovati sul cuscino in scatole di raso, che ormai non si arrabbiava nemmeno più. Era diventata la routine, lo stato normale delle cose.
Non aveva idea di quando la discesa fosse iniziata, non c’era un confine netto fra quando Anis passava tutto il suo tempo con lui e quando aveva iniziato a passarlo altrove. Era successo, lentamente, una trasformazione lieve ma costante, finché un giorno si era svegliato nel letto della villa e si era reso conto che ci viveva da solo da quasi due settimane e che poteva fare soltanto due cose: fare le valige e andarsene, oppure aspettare.
Bill sapeva che Bushido non aveva alternative. Con il film in uscita, la vecchia e la nuova casa di produzione, i concerti e i nuovi album da preparare, avrebbe dovuto essere Dio per avere altro tempo da dedicare ad un’attività qualsiasi. Sapeva che, se avesse potuto, avrebbe dilatato le ore per lui, solo che non poteva. Bill però si conosceva anche troppo bene per poter fingere di non aver bisogno d’altro.
Le feste alla villa gialla erano eventi di rilevanza quasi nazionale.
Tutto lo star system tedesco entrava in fibrillazione alla sola idea di passare qualche ora a ballare sui pavimenti lucidi di casa Ferchichi. Gli inviti erano elargiti con parsimonia e si faceva la guerra per ottenerli. Chi non ci riusciva, finiva comunque per presentarsi, tirato a lucido, sperando in un po’ di fortuna o nel buon cuore del padrone di casa che alle volte scendeva magnanimo le scale e faceva passare qualcuno che non era in lista. Bill, generalmente, gli camminava di fianco, sorridendo ai fotografi che avevano superato l'euforia di vederli insieme almeno due anni prima e adesso non facevano che cercare lo scandalo, le tracce di qualcosa di torbido sui loro visi. Erano mesi che cercavano gli amanti dell'uno e dell'altro ma Bushido non aveva tempo per la propria vita, figuriamoci per averne un'altra, e Bill nascondeva la propria intimità da troppo tempo per preoccuparsi di un paio di uomini di mezz'età costantemente appostati nel suo giardino.
Quella sera però, era da solo a scendere le scale, perché Bushido aveva dovuto trattenersi ovunque fosse ed era chiaro che gli onori di casa toccassero a lui. Sarebbe arrivato solo con un paio d'ore di ritardo, aveva detto. Era una promessa.
Bill sospiro e si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio mentre quell'ennesima promessa, già infranta mentre veniva pronunciata, andava a depositarsi sul fondo della sua testa, con tutte le altre cose poco importanti.
Nella stanza che si apriva davanti a lui c'erano centinaia di persone che bisognava intrattenere. Produttori con cui parlare, uomini carichi di soldi a cui sorridere, dando l'impressione che qualsiasi cosa volessero fosse possibile. Era stato divertente, i primi tempi, recuperare contatti per Anis, semplicemente sbattendo le palpebre, perché poi ne ridevano insieme, nella vasca da bagno, tra quintali di bollicine e lo champagne più costoso a cui Bill riuscisse a pensare. Adesso era solo un'incombenza che doveva sbrigare da solo e che tendeva a togliersi di mezzo in fretta. Scandagliò la stanza con lo sguardo, osservando di fretta ogni volto che gli capitasse a tiro, così allenato ad incontrare umanità che gli bastava uno sguardo per riconoscere ogni singolo ospite. Quella non era che una metà degli invitati e fra loro non c'erano altro che conoscenti e gente di spettacolo. I ragazzi non c'erano ancora.
Chakuza aveva chiamato nemmeno mezz'ora prima per avvertirlo che stavano arrivando e, dalla voce, Bill poteva ben intuire che avevano tutti già bevuto abbastanza birra da non essere esattamente adeguati alla serata che Bushido aveva voluto mettere su. Bill non capiva come si potesse pretendere di rinchiudere nella stessa stanza i suoi amici del ghetto e i figli di papà che si era fatti amici nell'ambiente con la sua bella faccia e la sua parlantina. Chakuza e gli altri non erano come lui. Erano fidati, simpatici e tutto il resto ma erano indisciplinati e Bushido tendeva ad ignorare la loro volgarità, coprendola con il suo modo di fare. Bill aveva una mezza idea di come sarebbero andate a finire le cose se Bushido non si dava una mossa, e non voleva essere lì se quella mandria di animali avesse cominciato a comportarsi come suo solito proprio quella sera. Lui poteva ben avere due modi di porsi col mondo, loro però ne avevano uno solo e non era il caso di renderlo pubblico. Le feste private della crew non erano esattamente un esempio di educazione e buona società, per dire.
Due Gin Tonic e un Mojito dopo, la folla era aumentata, Bushido non si era ancora visto e lui aveva già parlato con almeno un centinaio di persone di troppo rispetto alle previsioni. Si appoggiò al bancone del bar e sorrise al barista che gli aveva chiesto se volesse qualcos'altro. "Sono a posto così, grazie," rispose sollevando il bicchiere con le ultime gocce di menta.
Sospirò cercando con lo sguardo suo fratello, ma era una mera illusione sperare di trovarlo ancora in pista a due ore dall'inizio della festa. Qualunque fosse la sciacquetta poco famosa che aveva rimorchiato, poteva scommettere che era già distesa su uno dei letti al piano di sopra. Si appoggiò al bancone di schiena e piegò la testa all'indietro, finendo il suo cocktail. Attraverso il fondo opaco del bicchiere vide il gruppo di uomini attraversare le porte della sala e sospirò.
"Sperare che non facciano troppo casino è del tutto inutile, lo sai," disse una voce alla sua sinistra.
Bill sorrise, senza voltare la testa e osservando Saad, in lontananza, prepararsi a tradire la moglie con una bionda qualsiasi fra quelle che avrebbe trovato nel corso della serata. "Non posso fare molto altro," rispose. Sentì lo sguardo dell'uomo al suo fianco percorrere tutto il profilo del suo corpo, lo sentì fermarsi sul collo, sul mento e sulle labbra prima che l'indice di una mano grande e forte percorresse delicatamente la stessa identica strada.
"Patrick..."
Fler aveva in mano una bottiglia di birra e se la portò alle labbra prima di accomodarsi di fianco a lui e guardare la folla. "Anis dice che ne avrà ancora per un'altra ora."
"E poi per quella successiva, fino alla fine della notte," mormorò il moro.
"Bill..."
Il cantante si voltò e si strinse nelle spalle. "Dimmi almeno se sta davvero lavorando."
"Tu non sei nella condizione di poter parlare."
"E tu in quella di farmi la predica, ti pare?" Chiese il moro, togliendogli la birra dalle mani e bevendone un sorso. "E poi io credo che lo sappia."
Fler sbuffò una risata che gli uscì dalle labbra appena dischiuse. "Oh, non credo," disse. "Lui..."
"Vieni?"

*


“Chiudi la porta."
Bill gli dava le spalle, in piedi contro l'enorme vetrata nella camera sua e di Bushido.
Fler rimase sulla soglia, la luce del corridoio lo rendeva un'ombra scura. "Bill, io non credo che sia una buona idea."
Il moro si voltò e sorrise, anche se i suoi occhi sembravano guardare altrove. "Non è la prima volta che lo facciamo qui."
"Non è questo..."
"Non è la prima volta." Insistette. Allungò una mano a sfiorarlo appena e solo quando Fler non si scostò, si permise di appoggiare il palmo della mano sul suo petto. Alzò il viso a sfiorargli piano una guancia, sorridendo fra sé al pensiero che Patrick fosse l'unica persona che lo costringesse ad alzarsi sulle punte dei piedi per essere baciata. Gli lasciò scorrere le mani lungo le braccia, fino ai polsi forti.
Infilò le dita magre sotto il cinturino d'acciaio e lo sganciò con un movimento secco nell'esatto istante in cui chiudeva le labbra intorno sul suo collo. "Rilassati, ok?"
Fler lasciò che gli togliesse l'orologio e che lo appoggiasse là dove dopo non lo avrebbero trovato e lui sarebbe impazzito a cercarlo, per non lasciarlo dov'era e poi dover spiegare ad Anis per quale motivo il suo orologio fosse nella sua stanza e per nascondere il segreto suo e di Bill che non sembrava farsene un problema.
Provò a fermarlo di nuovo ma Bill poggiò le labbra sulle sue, la lingua sulla sua e non lo lasciò parlare. Gli passò le braccia intorno al collo e pressò il proprio corpo contro quello massiccio di Fler, lasciò che sentisse la sua eccitazione contro la gamba mentre si tirava su, aggrappandosi alle sue spalle, e Fler non poté fare altro che afferrarlo saldamente sotto le ginocchia.
“Mi spogli?" Ridacchiò, guardandolo dritto negli occhi, la fronte appoggiata alla sua.
Fler sapeva che quello era il momento in cui avrebbe dovuto dire di no, scostare Bill dal proprio corpo e allontanarsi, magari perfino abbandonare la festa per evitare di peggiorare una situazione che aveva iniziato ad essere grave quand'erano andati a letto la prima volta e che si era fatta disastrosa quando poi avevano continuato. Fler era consapevole che qualunque fosse il meccanismo che li portava a dividere il letto ogni volta che erano soli doveva interrompersi il prima possibile, ma non aveva abbastanza forza d'animo per resistere alle tentazioni e Bill era ingovernabile, capriccioso e ostinato come solo un bambino poteva esserlo.
Credere alla scusa che fosse colpa dell'irruenza di Bill era l'ultima cosa che in genere faceva prima di spogliarlo e sentirlo sotto le mani, caldo e morbido e bellissimo, nonostante il dettaglio – quasi morboso – che fosse steso tra le lenzuola da centinaia di euro di Bushido.
Fler registrò vagamente il rumore ovattato della festa oltre la porta chiusa mentre gli sganciava i pantaloni, fra le risatine di Bill che teneva le braccia appoggiate ai cuscini e gli porgeva il bacino per facilitargli l'operazione. “Sbrigati,” gli respirò nell'orecchio. “Non abbiamo molto tempo.”
“Non dire cose del genere,” gli disse.
“Ma è vero che non ne abbiamo,” Bill rise ma la sua risata era priva di allegria, piena della stessa disperazione che riempiva anche i suoi baci e le sue carezze. Come se avesse bisogno di toccare, baciare e premersi senza soluzione di continuità, perché sapeva che il vuoto tra un'azione e l'altra si sarebbe colmato di ragionamenti da fare e decisioni da prendere. I loro incontri erano composti in realtà da quell'unica sola carezza che affondava tra le sue gambe e lo derubava di tutti i pensieri.
Fler non voleva essere la mano che gli concedeva quella liberazione, ma non aveva avuto scelta. Non quando Bill aveva deciso che tutta la sua disperazione dovesse iniziare e finire con lui.
Seguì con lo sguardo l'inarcarsi morbido del corpo di Bill quando le sue dita scesero a prepararlo. Si concentrò sulle sue unghie che gli affondavano senza pietà nelle spalle e su quel lieve dolore, mitigato soltanto dal brivido di aspettativa e piacere che gli si attorcigliava intorno alla spina dorsale quando Bill gettava la testa all'indietro e mugolava il suo consenso all'intrusione, puntando i piedi fra le lenzuola, a disfare un po' di più quel territorio vietato.
Bill gemette impaziente, con la voce liquida che si scioglieva in mugolii ogni volta che spingeva più a fondo le dita. “Scopami,” gli lasciò sulle labbra un bacio appena accennato, il tempo di esalare quell'unica parola in un respiro che gli andasse dritto in bocca e togliesse ossigeno più che darlo. “Ora, non farmi aspettare.”
Quelli di Bill non erano ordini, ma suppliche al sovrano che si era scelto per quei pochi attimi. Chiedeva per il solo fatto che ormai sapeva che Fler non era mai in grado di dirgli di no. Non poteva farlo. Avrebbe dovuto essere abbastanza maturo da negargli questa follia, e invece gli divaricò le gambe ed entrò in lui, gli strinse i polsi magri e lasciò che gridasse, che chiamasse il suo nome in un urlo che non aveva quasi niente di liberatorio e che era sempre stato pieno di lacrime di rabbia.
Quando si stese su di lui, Bill lo accolse soltanto per l'attimo che gli serviva a riprendere fiato, poi si liberò da quella stretta e si stese sulla sua metà di letto. Non voleva essere abbracciato.
Fler aspettò che i suoi respiri avessero smesso di sfuggirgli e quindi voltò la testa, seguendo il profilo del corpo di Bill nella penombra della stanza. Dalla sua spalla, fino alla curva appena accennata del fianco, c'era un percorso che adesso gli sarebbe piaciuto seguire con le dita, per vedere dove conducesse, come se quella strada immaginaria disegnata sulla pelle del ragazzo racchiudesse una qualche soluzione al loro attuale problema, invece di rappresentarlo. Ma non si mosse.
“Perché lo fai, Bill?” Chiese invece, con un sospiro quasi stanco.
“Non mi sembrava di essere da solo, poco fa,” rispose Bill e si voltò su un fianco, lontano da lui.
Anche questo faceva parte della loro inconsueta routine. Dopo la voglia, veniva il rifiuto. E dopo il rifiuto, soltanto chiacchiere, nascoste nel chiaroscuro di una stanza mai illuminata, per non vedere quello che avveniva e lasciare che restasse il ricordo di odore e sapori senza immagini.
“Ora non metterla in questo modo.”
“Non la sto mettendo in nessun modo,” insistette il moro.
Fler lo guardò, senza sapere bene cosa fare, come ogni volta che succedeva e, probabilmente, ogni altra volta ancora che li aspettava. Chissà in quale stanza, in quale casa e a quante ore dal ritorno di Bushido. Avrebbe fatto la doccia un attimo prima che arrivasse, come al solito. “Vorrei solo che non dessi a me la colpa, dopo.”
“Non lo sto facendo.”
Fler allungò una mano, ma la lasciò sospesa sulla sua pelle. “Posso toccarti?”
“No.”
Mentre ritraeva la mano, però, Bill si voltò e gli si arricciò contro, come se, allontanandosi, avesse tirato un filo. Gli nascose il viso nel petto per non fargli vedere le lacrime, così a Fler non restò che accarezzargli i capelli e pensare che si ritrovava tra le mani un ragazzino tutto diverso da quello che gli aveva chiesto di essere spogliato. Non sapeva se preferiva quello o l'altro, però.
Lo lasciò piangere per un po', quindi gli sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. “Calmati,” mormorò e, quando Bill alzò gli occhi, Fler già non lo stava più guardando. Aveva lo sguardo perso oltre la finestra, sul giardino della villa di cui non vedeva che le cime degli alberi sotto la luna. “Non ha senso piangere adesso.”
“L'ho fatto anche prima.”
“Sai perfettamente che cosa voglio dire.”
Bill rimase in silenzio ancora a lungo e Fler lo sentì quasi immobile contro il proprio corpo. “Non verrà stasera,” disse alla fine.
“Lo farà, te l'ha promesso.”
“Come promette tutto il resto,” mormorò il moro.
“Dovresti avere fiducia in lui,” Fler guardò gli alberi muoversi appena, nel vento notturno. “Lui ce l'ha in te.”
“Te l'ho detto, io credo che lo sappia.”
“Questa è la scusa che ti sei inventato, ragazzino. Non lo sa. Lui non ha la minima idea di quello che succede qui e tu... noi dovremmo smetterla.”
Bill si districò dall'abbraccio che aveva cercato e rabbrividì non appena la sua pelle si allontanò da quella di Fler. “Devo tornare alla festa,” mormorò di fretta, avvolgendosi nel lenzuolo.
“Bill...” Fler, sospirò e si alzò per andargli dietro.
“Ho capito,” lo anticipò subito lui, gli occhi serrati, come se avesse mal di testa. Gli agitò una mano davanti, per non farlo avvicinare. “Ho capito, ci penserò. Ora lascia...”
“Aspetta.” Per Fler fu facile afferrargli le dita e portarsele piano alle labbra e poi al naso. “Hai il mio odore addosso,” mormorò. “Non farti trovare così.”
Bill annuì, incerto.
“Bill?”
Il moro evitò il suo sguardo con un sospiro, ma annuì. “Ho degli ospiti di cui occuparmi.”
Fler lo osservò un'ultima volta, prima di lasciare la stanza.

*


La festa sembrava essere rimasta al punto esatto in cui l'aveva lasciata, se non per il fatto che adesso la metà dei ragazzi di Bushido non si vedeva ed era probabilmente dispersa nello scandaloso numero di stanze da letto libere presenti nella casa. Solo Eko Fresh si aggirava intorno al tavolo del buffet e lanciava agli altri invitati qualche occasionale occhiata come a chiedersi cosa ci trovassero di tanto interessante nel ballo quando c'era una tavola così piena di cose buone. Bill provava una gran voglia di raggiungerlo perché, in quel preciso momento, Eko rappresentava quello stralcio di normalità – lì col suo piattino in mano – che lui stava disperatamente cercando di riconquistare. Solo che non poteva, dopo essere sparito per quasi un'ora, farsi nascondere in un angolo dal turco, così mise su il suo sorriso collaudato e si lisciò la maglia, gettandosi nella folla.
Lasciò che fossero le chiacchiere degli altri a trascinarlo da una parte all'altra per tutta la sera e tentò di ignorare il fatto che Fler stesse cercando di togliersi il suo odore di dosso, abbracciato ad una bionda dall'altra parte della stanza. Bill lo vide infilarsi una mano in tasca per recuperare il telefono e leggere un messaggio. Si scambiarono un'occhiata aldilà del corpo di lei e Fler gli fece segno che il re stava arrivando. Bill controllò sul cellulare, il cuore che gli batteva più forte di quanto credeva possibile: c'era un messaggio anche per lui.
Chiese scusa alla persona con cui stava parlando, chiunque fosse dal momento che non le aveva prestato la minima attenzione, e si allontanò a grandi passi in direzione di Fler, invitandolo con gli occhi a liberarsi della troia di turno. L'uomo sospirò e si scostò gentilmente dalla ragazza, raggiungendolo, proprio mentre la porta si apriva per lasciar passare il padrone di casa, scintillante Dio solo sapeva come, anche dopo ore di lavoro.
Ci volle qualche minuto prima che Bushido fosse effettivamente in grado di raggiungerlo anche se, una volta messo piede nella stanza, lo aveva subito cercato con gli occhi e localizzato, di fianco al suo migliore amico.
“Vedo che questa festa sta andando alla grande anche senza di me,” scherzò, passando un braccio intorno alla vita di Bill e posandogli un bacio sulla tempia. “Che cosa mi sono perso?”
“Niente che tu voglia davvero sapere,” sorrise Bill, a disagio solo la metà di quello che sembrava essere Fler dopo quella frase. “Hai mangiato?”
Bushido fece segno di no con la testa. “Assolutamente no. Ho intenzione di ubriacarmi il più in fretta possibile e il cibo rallenterebbe il processo.” Si guardò intorno e poi recuperò tre flute che gli passavano accanto su un vassoio. “Coraggio, fatemi compagnia.”
Bill non sapeva se la confusione che aveva in testa dipendesse dall'atteggiamento travolgente di Bushido o dallo champagne, ma non importava poi molto.
Quando Bushido se lo strinse al fianco, Bill sentì il suo cuore riprendere a battere e il respiro soffiargli di nuovo tra le labbra come se, fino ad allora, il tempo si fosse fermato, congelato nell'ultimo attimo in cui Anis era stato al suo fianco e sospeso nell'attesa che Anis tornasse.
Ora il sangue scorreva e l'aria gli contraeva i polmoni. Tutto era a posto.
Perché senza il cuore e il respiro, niente contava davvero, non era forse così?
Ignorò volutamente la risposta negli occhi di Fler e portò il bicchiere alle labbra, sorridendo a Bushido.