bill+david

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Bill, David Jost
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo
Avvisi: Slash, Non-con
Rating: NC-17
Note: Vincitrice del PREMIO INTENSITA' del secondo contest della JostFiction. And proudly so.

Riassunto: Stanotte, nella sua doccia, avrei voluto lavarmi via lo schifo delle ultime settimane. Credevo di meritarmelo un po' di riposo, invece il burattinaio ha tirato i fili.
MASTER OF PUPPETS

"Bill, rimani."

Quelle due parole regolano la mia vita. Insieme alle loro varianti, "Bill, stai fermo" e "Bill, non muoverti."
Io non ho potere decisionale da quando ho compiuto quindici anni. Quando mi chiede di rimanere, non è mai per fare due chiacchiere.

David sembra adorabile.
Ha un sorriso delizioso ed è molto abile nei convenevoli. Quando lui fa gli onori di casa, non ti senti mai a disagio; è affabile, cortese, ben educato. Apparentemente timido, risponde a modo ad ogni domanda ed evita di discutere. Accomodante, dicono di lui. Sincero e schietto, lo definisce Saki che è amico suo da quando io ancora nemmeno ero nato eppure non ha mai visto niente. Mi fa da guardia del corpo, ma non mi guarda mai a sufficienza.

Non espiro come vorrei, perché uno sbuffo significherebbe noia.
E la noia significa che non gli dedico abbastanza attenzione. E' lui l'egocentrico, non io. Quando parlano di me, tutti sostengono che io sia una diva. Alcuni lo dicono con affetto, altri con fastidio. Sostengono che io sia viziato e presuntuoso, che mi dia delle arie; ma non è vero. Questa è la maschera che il burattinaio mi ha cucito addosso, perché se faccio un po' lo strafottente, la star che si nasconde dietro gli occhiali scuri, è più facile che la verità non salti fuori.

Il pubblico troppo impegnato a chiedersi se con tutte le mie stupide richieste non mi sono montato la testa, se sono gay, se me la faccio con mio fratello non si accorgerà di nient'altro e vedrà solo quello che vuole.
Non vedrà che se sono un maniaco perfezionista è solo perché ho una paura fottuta di sbagliare qualcosa, che ho paura di prenderle e ancora di più che non mi arrivi neanche un ceffone, perché in quel caso arriva di peggio.

Se mi muovo ondeggiando, se sono ambiguo, è solo perché mi è stato insegnato a farlo. Sono stato ammaestrato ogni giorno, per ore. Ogni mio movimento rispecchia la volontà di un uomo soltanto. Sono una bambola con cui si diverte a giocare.

L'altra bambola, quella bionda, neanche la pettina.
Di Tom non gli importa, non gli é mai importato. Quando è venuto a trovarci a casa, a far scema mia madre con uno dei suoi sorrisi e la faccia da bravo ragazzo, non le disse che ci voleva entrambi perché voleva sfruttare l'effetto gemellare. Le disse che ci voleva entrambi perché lo lesse nei miei occhi che non mi sarei mosso di un passo senza Tom.
E lui voleva me, ovviamente, mica lui.
Per averne uno ne ha mantenuti volentieri due.

D'altronde adesso, come allora, Tom è il mio supporto.
Non mi allontano da lui mai troppo a lungo, e lui da me praticamente mai.
Tom lo sa, lo ha saputo fin dall'inizio, fin da quando trovò David piegato come un animale sul suo fratellino. Non gli rimase che consolarmi e pulire il sangue che era uscito.
Parlare non potevamo perché avevamo paura. Quando sei piccolo ci credi se il tuo manager ti dice che è così che funziona il mondo dello spettacolo.

Non ho scelto io di essere quello che sono, nonostante il mio ufficio stampa mi metta in bocca esattamente il contrario. Bill a cui non importa cosa pensa la gente. Bill che lotta contro i pregiudizi. Bill un cazzo. Io non decido neanche se posso dormire o meno, la notte.

E' lui che mi dice se posso chiudere gli occhi e risposare, o se invece devo scivolare fra le sue lenzuola o fra quelle di qualcun altro. Non sono io che decido.

Come adesso. Bill, rimani.

Rimango e mi siedo mentre lui chiude la porta e mi osserva. Mentalmente prego di non avere neanche un capello fuori posto: l'ultima volta era molto deluso; ha detto che dovrei prendermi più cura di me stesso. Meno male che c’è lui, ha detto.

Meno male.

David parla con tutti, tranne che con me. Ha fatto della sua persona il centro del mio mondo senza dedicarmi veramente neanche una parola. Quando io resto, come stasera, non spreca il fiato a cercare di illudermi che sta facendo qualcosa per me. Io lo so a che cosa servo nella sua vita, è così che me l'ha sempre proposta: non sei qui perché canti bene, sei qui perché hai un bel visino. E delle belle mani. E una bella bocca.

A sentire lui sono perfetto, eppure nemmeno mi guarda quando mi tocca.
Io vedo solo le coperte, lui soltanto la mia schiena.

In ogni caso non parla.
Le uniche volte che pronuncia delle parole lo fa per dirmi dove devo mettermi e come. Mai perchè, ovviamente. Quello è sottinteso.

Piega le gambe alla Barbie, così può stare seduta dove vuole lui.
Non si diverte neanche a spogliarmi; lo faceva quando avevo quindici anni e gli sembrava di avere per le mani una bambola per davvero. Adesso che sono più alto di lui, devo farlo da solo mentre lui magari finisce di mandare un'e-mail.

Io dovrei essere con Tom adesso, seduto sul divano della sua stanza, con dei popcorn e magari due birre. A me non piace la partita ma va bene anche quella se posso stare con lui. Non dirò che Tom mi fa sentire protetto perché non è vero, sono perfettamente consapevole che non può fare niente per impedire che tutto questo accada, perché ormai ci sono così dentro fino al collo che non posso più uscirne senza uno scandalo tale da perdere tutto ciò che m'interessa.
Non mi sento protetto con Tom, ma mi sento amato. Mio fratello mi tiene sempre stretto a sé quando siamo soli, mi restituisce tutto il calore che David mi sottrae.

A volte lo sveglio di notte solo perché le sue mani calde e grandi tolgano dalla mia pelle le impronte di quelle di David. Mi sento sempre sporco, anche se mi lavo.
Ci sono giorni in cui rimango sotto la doccia per ore, a fissare le mattonelle, costretto a vederci dentro lo schifo in cui mi immergo per ordine suo. Tom mi recupera sempre, non importa quanto distante vaghi la mia mente, ed è a quello che serve lui.
A ripescarmi, quando da solo non ce la faccio a risalire.

Stanotte, nella sua doccia, avrei voluto lavarmi via lo schifo delle ultime settimane passate a compiacere il mio adorabile manager e quattro dei suoi adorabili colleghi americani.
Credevo di meritarmelo un po' di riposo, invece il burattinaio ha tirato i fili.

Il suo corpo sopra il mio non mi fa più effetto e forse è questo che mi spaventa di più.
Quando ero piccolo e quell'uomo ancora mi sembrava enorme, il suo peso caldo sulla schiena era qualcosa che mi toglieva il respiro. C'erano notti in cui credevo che non ce l'avrei mai fatta e ad ogni spinta affondavo ancora di più nei cuscini, cercando di soffocare.

Quando mi resi conto che non sarebbe mai successo e che avrei sempre avuto il suo sudore addosso, decisi che doveva diventare una routine o non l'avrei mai sopportato. Farsi sbattere sarebbe stato come lavarsi i denti o mettersi il pigiama prima di andare a dormire. Solo così avrebbe avuto un senso, anche se misero. Tutta la mia esistenza girava intorno alle voglie che David voleva soddisfare; iniziai a comprendere che se davo loro importanza, se permettevo loro di sopraffarmi, mi avrebbero divorato. Dovevo ignorarle e fingere che fossero sciocchezze di cui potevo anche non curarmi.

Solo che poi ho smesso di notarle del tutto.
Che io sia qui disteso sul suo letto oppure da qualche altra parte, ormai, non fa più differenza per me. Mi sono abituato al modo in cui mi spinge i fianchi e mi alita sul collo, la sua lingua che mi entra schifosamente nell'orecchio e mi bagna di saliva non è più una novità di cui prendere atto. Non è più niente che mi debba impensierire.

E' solo un'altra delle umidità di David nel mio corpo.
Accolta una, accolte tutte.

Mentre mi ansima in un orecchio cose che non vorrei sentirmi dire da nessuno, tanto meno da lui, cerco di capire il momento esatto in cui ho perso il controllo della mia vita e scopro, con orrore, di non averlo mai avuto davvero. All’inizio era mia madre a decidere per me quali serate potessi fare e quali no, poi arrivò David e toccò a lui prendere le decisioni, anche quelle che non gli spettavano; fu lui a scegliere il mio primo bacio, il mio primo uomo, la mia prima volta. E dal momento che era pericoloso, che eravamo quasi famosi, decise per tutti e due che la scelta migliore per entrambi era che si occupasse lui personalmente di tutte e tre le cose. Adorabile, vero?

Si spinge con tanta violenza che riesce ancora a farmi male.
Digrigno i denti, mordendomi il labbro a sangue per non gridare. Dice che la mia voce vuole sentirla solo sul palco, dove serve a qualcosa e può procurargli del denaro. Per tutto quanto il resto devo stare in silenzio.
La bambola è perfetta, dice Ciao Mamma solo se tiri la cordicella.

Mia madre non sa niente, non lo ha mai saputo.
Sarebbe perfettamente in tema dire che non la sento da anni e che si è disinteressata di me e di mio fratello nel momento esatto in cui ci ha consegnati al mostro sorridente che mi ha distrutto la vita, ma non è vero.
Lei ci adora, e noi adoriamo lei. Raccontargli quello che mi succede le spezzerebbe soltanto il cuore e la farebbe sentire in colpa. Finirebbe col pensare che non è stata una buona madre per noi, che se lo fosse stata avrebbe visto che dietro agli occhi cerulei di quel giovane manager c’era l’inferno che aspettava di mettere le mani sul più piccolo dei suoi figli.

In effetti, io lo penso ogni tanto.

A quindici anni io non potevo rendermi conto che la mano di David casualmente appoggiata sul mio ginocchio fosse un brutto segno ma lei, cazzo, avrebbe dovuto capire.
A volte penso questo e penso che se non fosse stata così ossessionata da sbattermi su un palco con un microfono in mano a undici anni, forse non sarei finito a quindici nella schifosa stanza di un motel tra Loitsche e Berlino a succhiarlo ad un uomo di trent’anni che le aveva appena promesso che si sarebbe preso cura di noi.

In quei momenti mi prende la rabbia e divento violento.
Ho bisogno di rompere qualcosa, di lacerare. Quando mi taglio o colpisco Tom così forte da farlo sanguinare mi sento meglio, è come se per una volta fossi io a controllare gli eventi. Sanguino perché io ho deciso di farlo, piango e quelle lacrime le ho cercate volontariamente. A volte ho bisogno che mio fratello gridi solo per sentire la mia stessa voce che soffre senza sentire anche il dolore. Almeno per una volta penso che sono stato io a fare del male.

Non importa quale sia il motivo, o quale sia il dolore.
L’importante è che David non c’entri niente.
Per qualche istante della mia vita devo tagliarlo fuori.
Non ho veri ricordi della mia persona senza la sua.
David ha cancellato tutto quello che è venuto prima di lui.

In tutto questo, mia madre diventa colpevole. Disgustosa quanto lui.
Poi però ricordo come sono andate davvero le cose e mi rendo conto che lei non c’entra un bel niente.
Ho avuto milioni di possibilità per raccontare a qualcuno quello che David mi stava facendo ma non l’ho mai fatto, perché se mia madre voleva per me un futuro sul palco, io ho sempre voluto esattamente la stessa cosa.

Se quando accadde avessi detto qualcosa, lo avrebbero arrestato e mi avrebbero rispedito a casa con mio fratello, a suonare nel mio garage e io questo non lo volevo. Le luci del palco mi piacevano allora, come mi piacciono adesso e non sarei mai stato capace di rinunciarci dopo che David me ne aveva dato un assaggio.
Ero il vocalist dei Tokio Hotel, per la miseria, ero famoso. C’erano ragazze che urlavano il mio nome e persone adulte pagate per portarmi ciò che volevo, anche le cazzate più stupide. E potevo cantare di fronte a persone venute lì per ascoltarmi. Se per compiacere il mio ego dovevo soltanto compiacere quello di David, avrei sopportato. E lo sapevo. Mia madre non ha colpa.

Sopporto anche adesso, ogni giorno.

Tutto quello che le mie fan adorano di me, l’ho ottenuto sopportando David.
Quando al concerto gridate il mio nome durante le presentazioni, quando le vostre voci mi travolgono e io salto al ritmo delle vostre urla, quando sorrido per i vostri regali, o nelle interviste, ecco in quei momenti sono felice e posso esserlo solo perché dietro le quinte David si è già preso la sua felicità.

Ecco perché sono ancora qui.

Sento il suo corpo che trema e so che manca poco.
Si allontana e affonda di nuovo dentro di me, riportando a galla altri ricordi.
Più a fondo si spinge, più ne riporta in superficie, non ho ancora deciso se si tratti di un meccanismo di difesa che mi permette di distrarmi o se invece è una tortura.

Forse è entrambe le cose.
Se mi torturo tra i ricordi, se cerco di trovare un senso fra le immagini che affiorano alla mia mente mentre prende il mio corpo ancora una volta, non sento lui che entra ed esce da me come si è abituato a fare; non sento più niente. E tutto mi sembra parte di un passato lontanissimo.

Viene con un mezzo grido soffocato.
La sua stanza nello studio di Amburgo non è insonorizzata ma tanto i Tokio Hotel lo sanno chi si sta scopando quindi può permettersi il lusso di grugnire come un maiale nelle mie orecchie e farsi sentire anche dagli altri, già che c'è. Faremo tutti quanti finta di niente, come al solito. Io, del resto, sono il primo. Si muove ancora un paio di volte, in due spinte pratiche più che necessarie, lo sento colare tra le mie gambe ma anche a quello non faccio più caso.

Ci metto un po' a muovermi, mi tremano le ginocchia e mi gira la testa. In questa stanza fa sempre troppo caldo, vorrei che aprisse almeno le finestre. Vorrei anche che non si aggirasse nudo mentre aspetta che il laptop si accenda del tutto: la visione della sua carne pallida mi disgusta e mi viene da vomitare. Non sono attratto dal suo corpo, trovo l'idea rivoltante.

"Ho delle cose da fare," annuncia. Nella sua lingua questo significa che il mio lavoro è finito e che devo rivestirmi, possibilmente in fretta. Non gli piace avermi fra i piedi se abbiamo già finito. David non è il tipo d'uomo che si è preso una cotta morbosa per un ragazzino.

A lui io non piaccio nel senso stretto del termine.

Non mi terrebbe mai nel suo letto, dimostrando un qualche tipo di amore malato.
Quello sarebbe inquietante e sbagliato, ma avrebbe un senso. Sarebbe una malattia condannabile.

Lui no, è solo stronzo.

Io sono una cosa gradevole ai suoi occhi e per questo degna di essere scopata.
Il suo interesse per me inizia e finisce tra le mie gambe, non ci sono sentimenti in mezzo a tutto questo. Neanche quelli malati.

In generale, se questo gli bastasse - avermi quando vuole, intendo -, avrei la possibilità di ritagliarmi uno spazio per me solo, con un'altra persona magari.
E invece no, io sono suo. Sono una bambola, di fatto. Ora che si è stufato di giocare, devo tornare nella mia scatola.

La mia vita è tutta qui: tra le sue mani, tra le sue cose.
Sono una forma di cera, plasmata da un Dio a cui non importa niente di me.

Non esisto, se non nella sua fantasia.
Personaggi: David Jost, Bill, Tom, OFC
Genere: Drammatico
Avvisi: Slash
Rating: NC-17
Note: Vincitrice del 1° contest della Jost Fiction. Il contest prevedeva che si scrivesse una one-shot che ricalcasse la trama raccontata nel video Pretty Toy, di FuckMeLikeAnAnimal su you Tube. I credits per l'idea che ha ispirato contest e one shot, dunque, vanno a lei.
Io non so scrivere one-shot e David Jost cattura la mia attenzione soltanto a fasi alterne. Quindi mi sembrava perfettamente logico partecipare ad un contest di one-shot su David Jost.
Dunque, sono consapevole del fatto che il processo sia troppo americanizzato; posso dare soltanto due giustificazioni al riguardo: a) non ho idea di come funzioni il sistema giuridico tedesco (e, detto fra di noi, non me ne frega assolutamente niente); b) sono figlia dei miei tempi, il che vale a dire che sono figlia dei telefilm americani. Ora, non immaginatevi l’avvocatessa di David come Ally McBeal per cortesia… io la odio quella donna!
Volevo dare l’idea di un David vittima delle circostanze e di un Bill profondamente infame e manipolatore. Non essendo io una fan di Jost ed essendo io un’adoratrice compulsiva del Bill-tatolo, questo è stato molto complicato. Spero di esserci riuscita.
I titolo è stato drammatico. Inizialmente doveva essere un acronimo di S.L.U.T., ma poi dopo che ne erano uscite cose agghiaccianti ho preferito lasciar perdere; quello che vedete è il risultato di un assaggio di panna quasi andata a male. Perdonatemi.
La frase del riassunto è contenuta nel filmato “Pretty Toy” che sarebbe il seguito di “Pretty Toy (Pre-history)”, così come le frasi che Tom pronuncia in televisione e che compaiono qui in versione tradotta.
Es tut mir leid è tedesco (ma no! Dai! Giura!) e significa Mi dispiace; ovviamente non ci sono certo arrivata da sola. I miei due dizionari viventi sono stati la Suprema Donna Finnica LaTum e La Donna che Amava Marion Zimmer Bradley (la quale non sa di essere stata citata qua sopra, ma fa lo stesso).
Nient’altro, credo. Tutte le marche citate in queste 15 pagine compaiono qui a titolo gratuito e io non ho visto una lira. A nessun David è stato fatto del male durante la scrittura di questa storia.

Riassunto: Tom Kaulitz reports that his brother, Bill, was sexually abused by David Jost, a producer of the band…
E ADESSO LIBERAMI

- Giorno I -


"Signor Jost?" Si volta, gli occhi puntati su qualcosa che non sono io.
Mi guarda, ma non mi vede.

E’ in questo stato da ieri mattina e non ho la più vaga idea di cosa questo possa significare in termini di un processo legale di proporzioni mediatiche internazionali come quello che dovremo affrontare.
In realtà posso immaginarlo. Non è il primo caso di cui mi occupo ma è certamente uno di quelli peggiori. Uso di droghe, abuso di potere, coinvolgimento di minori.

Non ci facciamo mancare proprio niente.

Mi siedo sul divano di fronte a Jost e aspetto che il suo sguardo perso si posi di nuovo su di me, ma non succede.
Il suo appartamento è esattamente come me lo sono immaginato: una tana foderata di pelle nera e superfici trasparenti e lucide, sedie Le Corbusier.
Probabilmente un'arredatrice d'interni newyorkese, alla Grace Adler.

Una casa da 35enne ricco e single, un gigantesco clichè.

Dentro di me spero che anche tutto il resto non segua davvero il tragico schema del manager che mette le mani addosso ai ragazzini che lavorano per lui. Jost si dichiara innocente e non ci sono prove tangibili per le accuse che gli sono state mosse, solo la sua parola contro quella del ragazzino.

"Signor Jost, ho bisogno che lei mi dia una mano" dico di nuovo.
Cerco di essere il più rassicurante possibile ma sono nervosa. Che abbia stuprato o meno quel ragazzino, non sarà facile uscirne fuori se non entro in contatto con lui.

Nessuna risposta.

"So che è un momento difficile per lei, ma le accuse del signor Kaulitz sono molto pesanti-"

"Bill."

"Come scusi?"

Lui si gira verso di me e per la prima volta in quattro ore ho la chiara sensazione che mi stia dedicando attenzione. I suoi occhi non sono vacui, ma puntano dritti nei miei. "Si chiama Bill," mi dice.

Lo osservo, cerco di capire che differenza possa fare ma lui non sembra disposto a spiegarmelo. "D'accordo... Bill. L'ha accusata di cose molto gravi," continuo. "Ho bisogno di sapere la verità per poterla difendere."

Si stringe nelle spalle. "Lei crede che io abbia anche una sola possibilità di uscire pulito da questa storia?" Mi chiede, incredibilmente lucido all'improvviso. Mi rendo conto che i suoi occhi azzurri mi fissano quasi con supponenza, come se lui sapesse qualcosa che io non so.

"Potrebbe. Non ci sono prove reali a suo carico," rispondo. "Solo la parola del signor... di Bill."

Lui sorride, ma è un sorriso amaro il suo. "Se dice questo, si vede che non lo conosce," commenta. "Sarà sufficiente."

Mi sistemo gli occhiali sul naso e ricambio il suo sguardo. "Ha fatto davvero quello che dice?" Gli chiedo.

Rotea gli occhi ed espira. Si alza, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Lo seguo con lo sguardo mentre si avvia verso l'enorme vetrata che ricopre una parete del suo bellissimo appartamento al terzo piano di uno dei palazzi più grandi di Hannover. "Lei che cosa pensa?" Mi dice, senza voltarsi.

"Quello che penso io è del tutto irrilevante in questo momento," rispondo, evitando di espirare. "Ho accettato di difenderla e lo farò in entrambi i casi. Per questo ho bisogno di sapere con es-"

"E io ho bisogno di sapere quello che pensa lei," insiste lui. Poi si volta e mi punta di nuovo gli occhi addosso. "Mi guardi e mi dica se per lei ho stuprato Bill oppure no."

"Io non-"

"Mi dica se l'ho fatto."

"Potrebbe," ammetto, esasperata. "Lei non ha la faccia da stupratore, ma so per esperienza che nessuno ce l'ha mai. Ci sono foto di Bill sparse per tutta la casa e nei filmati sembrate molto in confidenza; alla luce delle ultime dichiarazioni si è portati a pensare che- "

Jost si stacca dalla finestra con un impeto quasi rabbioso e raccoglie una cornice dal mobile vicino a lui. La tira sul divano, di fianco a me.
E' un primo piano di Bill: ha un bel visino triangolare, gli occhi grandi e luminosi. Sotto al trucco pesante, le sue pupille sembrano quasi brillare.
Ha un sorriso meraviglioso.

"Ci sono sue foto ovunque perché questa era anche casa sua fino ad una settimana fa," esclama Jost, serrando i denti. Mi fa un cenno, indicando la fotografia che si trova tra le mie mani. "Lo vede quel viso? Nessuno sa cosa c'é dietro, nessuno tranne me. E' per questo che mi incolperanno. Per la sua bella faccia."

"Signor Jost, che cosa sta cercando di dirmi?"

"Che Bill è molto diverso da ciò che crede."

*

David guardò l'orologio ancora una volta.

Le quattro del mattino ed erano ancora in quella dannata discoteca.
Si chiedeva come quei quattro potessero avere ancora energia sufficiente per ballare dopo ore di interviste e una performance di due ore. Buttò giù quello che rimaneva del suo ennesimo cocktail e fece una smorfia.

Adolescenti, troppo iperattivi.
La prossima volta avrebbe tirato su un complessino jazz di simpatici vecchietti ottuagenari. Spettacoli nelle case di riposo, niente ragazze in piena crisi ormonale e a letto alle nove. La Universal avrebbe speso un capitale in adesivo per dentiere, ma non poteva essere una spesa maggiore di quella per l'attuale make-up di Bill.

E per lo meno avrebbero smesso di rischiare che Greenpeace venisse a rompere le palle per il buco dell'ozono al quale stavano probabilmente contribuendo con tutta quella lacca.

"A che cosa stai pensando?" Sussurrò Bill. Le sue mani scivolarono lente lungo le spalle di David, poi l'uomo sentì le sue labbra posargli un bacio morbido sulla guancia.

"Bill, non qui," David si scostò, guardandosi intorno. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era che qualcuno li vedesse, scattasse una foto con l’ultimo sofisticatissimo modello di Nokia e vendesse la sua rovina formato 240*320 pixel al primo giornale scandalistico che si fosse offerto di pagare.

Rabbrividì.

La risata argentina di Bill gli rotolò giù per le orecchie mentre il ragazzo si sedeva a cavalcioni su di lui, incurante dell’avvertimento appena ricevuto. “Non se ne accorgerà nessuno,” sussurrò, mordendogli piano un labbro.

”Bill...” mugolò David, quando la lingua del cantante gli entrò in bocca senza chiedere il permesso.

Il brutto di Bill era che non potevi resistergli; David ci aveva provato, fin dal primo giorno.
Non importava quanto impegno ci avesse messo, né quanta forza di volontà fosse riuscito a scovare negli anfratti più reconditi di una mente devastata dagli ormoni impazziti.
Bill era stato travolgente.

Era arrivato, se l’era preso.
E ora lo teneva in ostaggio, come se la sua opinione al riguardo non contasse niente.

Il bello di Bill, era che baciava da Dio.
Faceva qualunque cosa in maniera pressoché divina, ed era stato questo a rovinare David.
Una volta che Bill apriva le gambe, difficilmente gli dicevi di no.

David non lo aveva mai fatto.

Nessuno alla Universal lo aveva mai fatto, in effetti.
David aveva sempre pensato che Bill avesse un fascino particolare, una sorta di magia che gli permetteva di farsi benvolere da tutti. La trovava un’abilità fantastica. Di certo era stato per quello che erano riusciti ad arrivare dov’erano arrivati: un briciolo – seppur minimo – di talento e un front man che brillava di luce propria.

Certo.

Poi aveva scoperto che la gente non sorrideva a Bill perché era amorevole e delizioso, ma solo perché era ben disposto. Così ben disposto che Peter Hoffmann lo aveva conosciuto biblicamente prima ancora che Bill conoscesse il significato della parola.

Per David era stato un duro colpo.
Alla sua autostima prima – in fondo, ci aveva sperato di avere avuto un buon fiuto come manager e scopritore di talenti -, alle proprie certezze poi.
Improvvisamente, quel ragazzino angelico, dal sorriso dolcissimo aveva assunto tutto un altro aspetto e un altro significato.
Il velo era caduto, niente più Maya a tenergli nascosta la verità.
E tutti quegli sguardi che erano sempre sembrati tanto innocenti, ora non lo erano più.

Bill gli si mosse in grembo, spostando la testa sul suo collo e mordendolo piano per poi leccare il segno che ci aveva appena lasciato e anche un livido più vecchio, che continuava a rinnovare. “Sta per scomparire, dobbiamo farci qualcosa…”

”Bill, smettila,” provò inutilmente a scrollarselo di dosso, ma non ci mise tutta la convinzione che avrebbe voluto. La posa di Bill era già sufficientemente equivocabile per capire cosa sarebbe venuto dopo.

Il cantante rise e lo baciò di nuovo sulle labbra. “Sono le quattro del mattino, la gente qua dentro non sa neanche come si chiama e quelli che stanno ancora ballando sono probabilmente sotto anfetamine,” lo rassicurò, facendo le fusa e scendendo a leccargli l’attaccatura del collo. “Rilassati, nessuno si accorgerà che sto per procurarti l’orgasmo migliore che tu abbia mai avuto.” Ridacchiò, mandando brividi nella gola di David. “Continuo a ripetertelo, non è vero? D’altronde mi supero ogni volta…”

L’uomo lo fermò prima che potesse sbottonargli i pantaloni. “Non qui, per la miseria!” Sbottò, spalancando gli occhi e combattendo la voglia che aveva di lasciarsi andare. “Non sei tu quello che rischia la galera.”

Bill sbuffò annoiato. “Che noia che sei, David!” Esclamò, scendendo dalle sue gambe e incrociando le braccia al petto. “Andiamo a casa allora!”

*

”Da quanto andava avanti la vostra relazione?”

”Sarebbero stati due anni e mezzo martedì.”

Mi risponde con una sicurezza disarmante.
Di solito gli uomini non si ricordano una data neanche se ce l’hanno tatuata in fronte.
Ogni volta che faccio quella domanda ad un marito, mi aspettano almeno quattro secondi di pensoso silenzio. Lui invece no. Mi guarda dritta negli occhi e mi spara senza esitazione quel due anni e mezzo, martedì.

Conta ancora gli anniversari.


*

“David?” Bill lo chiamò in maniera oziosa.

Il manager lo raggiunse, strofinandosi i capelli con l’asciugamano.
Bill era ancora disteso sul letto, nudo e giocava con una piuma che era uscita dal cuscino, il lenzuolo gli copriva a malapena la rotondità del fondoschiena, sul quale gli occhi di David scivolarono involontariamente. “Mmmh?”

”Prendiamoci una vacanza.”
Si voltò per sorridergli, rigirandosi la piuma tra le dita, incurante della propria nudità.
David aveva notato più volte come Bill sembrasse sempre più a suo agio nudo che vestito.
Quando erano a casa passava senza vestiti la metà del suo tempo.

”Sai che non possiamo,” rispose stancamente, gettando l’asciugamano a terra. “Dobbiamo finire di registrare e poi c’è il tour.”

”Ma io ho bisogno di una vacanza,” insistette piccato.
Si tirò su seduto a gambe incrociate e lo fissò senza cambiare espressione, come se la frase fosse stata di per sé esplicativa.

”Ne ho bisogno anche io, ma questo non significa che possa permettermelo,” rispose.

”Sei il manager.” Bill lo liquidò con un’alzata di spalle. Poi accarezzò il materasso accanto a sé e fece in modo che il leggero divaricarsi delle sue gambe fosse discreto, ma non passasse inosservato agli occhi stanchi di David.

La macchina dei Tokio Hotel si era fermata per una settimana intera.
E Bill non era mai uscito da quel letto.


*

”E da quanto viveva con lei?” Chiedo.

”Più o meno da un paio di mesi” mi dice, guardandosi le mani.

Non ho di fronte a me l’uomo che mi aspettavo di trovare.
E’ calmo e posato. Rassegnato, oserei dire. Quando racconta lo fa con nitidezza e precisione, senza esitare.
E per quanto posso constatare, le parole che usa per descrivere Bill sono piene di un affetto che non ha niente dell’ossessione maniacale.

E’ Bill a sfuggire ancora alla mia comprensione.
Lancio un’occhiata alla foto e mi chiedo cosa ci sia dietro quegli occhi luminosi.


- Giorno II -

Jost non mi ha raccontato ancora tutto, ma quello che ne è uscito fuori è un quadro già piuttosto ambiguo, nel quale ho paura di mettere le mani.

Da quello che David sostiene, Bill non è così innocente come appare alla televisione. Eppure è difficile crederlo quando lo vedi sbattere gli occhi lacrimosi alle telecamere e singhiozzare che è stato costretto a fare cose orribili e che ha vissuto nell’incubo da quando aveva quindici anni.
La sua voce è così incrinata che ti spezza il cuore.

Può quel ragazzino tanto fragile, che non fa un passo senza la sua copia genetica, essere in realtà la Circe vendicativa che traspare dalle parole di Jost?

Da parte sua, accusare Bill di averlo provocato sarebbe la strada più facile.
Il copione di un film americano di serie zeta: Jost dipinge il minore come una giovane lolita particolarmente sveglia e si dichiara innocente. Forse non lo assolvono, ma è possibile che ottenga una riduzione di pena, il tanto che basta per patteggiare con il giudice. Poi solite cose: buona condotta, fuori in un numero oscenamente basso di anni… o magari gli arresti domiciliari. L’opinione pubblica lo crocifigge, ma lui se ne sbatte.
Con i soldi rimasti si trasferisce alle Maldive.

E’ già successo.
E io sto ragionando come il protagonista di un poliziesco che non sa dove sbattere la testa.
Sbuffo. Sono le nove del mattino e ho già il mal di testa.
Mi guardo allo specchio e mi auguro buona fortuna.

L’ascensore arriva al piano, la porta è già aperta.
”Buongiorno,” mi saluta. “Ha avuto problemi?”

Mi stringo nelle spalle. “Uno dei suoi gorilla mi ha tirato dentro. Ho il cappotto strappato, ma è tutto okay.”

”Posso ripagarlo.”

”Non ce n’è bisogno.” Getto un fascio di quotidiani sul tavolo.
Il linciaggio mediatico è appena all’inizio ma posso già intravedere dove arriverà se ventiquattro ore dopo l’annuncio, anche i giornali russi sono al corrente dei più microscopici dettagli.
Non lo salva nessuno: gli opinionisti, i benpensanti, le associazioni dei genitori; ma soprattutto l’esercito di giovani fan che lo crocifiggono ovunque: in televisione, sui blog, sulle centinaia di forum sparsi per la rete. Un nutrito contingente sta facendo picchetto sotto le sue finestre, la polizia ne ha portate via dieci che tiravano sassi. Io stessa sono riuscita a passare solo grazie alla sicurezza.

Jost non può più uscire di casa.

Lo vedo aggirarsi per il salotto un po’ più nervoso del solito. Sul tavolo, oltre ai miei giornali, ci sono un bicchiere e una scatola di calmanti naturali. “Mi ha chiamato,” dice.

”Chi?” Ho almeno due possibili risposte e nessuna delle due mi piace.
Non voglio azzardare.

”Bill.”

”Che cosa ha detto?”

”Niente. E’ rimasto in silenzio, e basta.”

”E’ sicuro che si trattasse di lui?”

”Conosco il suo respiro.”

*

Il cantare di Bill non era limitato solo al palco.
Tutto quanto in lui, cantava.

Era l’armonia dei suoi gesti e il calcolo che stava dietro ad ogni occhiata a dare l’impressione che si muovesse secondo la sequenza di note disegnata sul suo pentagramma mentale.

Non era qualcosa di oggettivamente riconoscibile, un muoversi canonico che tutti potessero giudicare bellissimo. No, era qualcosa di subdolo, che riguardava soltanto lui e la persona che aveva deciso di catturare.

David aveva visto Bill muoversi a ritmo di musica centinaia di altre volte, come lo avevano visto tutti su decine di palchi diversi; ma non era la stessa cosa.
Nel buio di quella stanza, ora che i movimenti che faceva erano diretti a lui, quello che vedeva non era un ragazzo di diciassette anni con troppe giunture che tentava di dare un senso ai suoi movimenti.

Era un corpo snello che si muoveva su di lui.

Il ritmo della batteria dettato dall’infrangersi dei loro corpi l’uno sull’altro.

La linea di basso, vellutata, delle mani di David che accarezzavano il suo fondoschiena.

Il ritornello che Bill eseguiva era il gocciolare dei suoi stessi gemiti, che sembravano uscirgli colpevoli dalle labbra appena socchiuse; che partiva basso e uggiolante, per poi aumentare d’intensità ed esplodere ogni volta, ad ogni spinta.

La sua voce, come il suo corpo.
Non era nient’altro che uno strumento.

”David?” Ansimò nelle sue orecchie, dopo che gli si fu stretto addosso. E intorno.
Era ancora seduto su di lui.

”Hmm?”

”Credo di amarti.”

David sapeva che stava mentendo. Per Bill, lui non era che uno dei tanti giocattoli, quello più utile – perché era da lui che partivano tutte le decisioni.
Ma nient’altro.

Un bottone da premere quando gli serviva qualcosa.

Era rimasto in silenzio e aveva ascoltato il respiro di Bill farsi sempre più lento, fino a calmarsi.
Aveva riempito la stanza, più delle sue parole.

*

L’ho perso.
Ogni tanto succede.

“Signor Jost?” Io parlo e lui nemmeno mi guarda.
Non so a cosa pensi né quante delle mie parole gli arrivino effettivamente.

”Sì?” Si riscuote. “Mi scusi, mi sono distratto.”

”A cosa pensava?”

”A niente.”

Faccio un profondo respiro. Sono lì da sei ore e siamo sommersi di carte: le nostre, quelle dei due terribili avvocati di Bill; e lo scatolame del take away cinese che una delle guardie del corpo ha recuperato per noi dal negozio all’angolo. Non ho idea di come si chiami: è una presenza muta e inquietante alle nostre spalle.

Dovrebbe essere lì per impedire che qualche pazzo venga a fare a pezzi il sedicente molestatore di minorenni ma, dagli sguardi che mi lancia a volte, ho come l’impressione che sia lì a difendere Jost da me. Il che è irrazionale, ma non posso fare a meno di pensarlo.

”I ragazzi erano affidati alle sue cure più di otto mesi l’anno, dico bene?” Chiedo, cercando di recuperare il filo di un discorso che ho perso tra un piatto di gnocchi cinesi e i germogli di soia che Jost ingurgita come acqua.

Annuisce. “E questo fa di me l’uomo nella posizione di fiducia,” mi guarda stancamente. “Immagino che l’accusa di Bill sia inattaccabile sotto ogni punto di vista. Ero l’autorità, lui si fidava di me, ho imposto il mio volere sulla sua mente malleabile e me lo sono portato a letto.”

”Più o meno questa è l’idea.”

Passano dieci minuti di silenzio.
Poi sbuffa, in maniera strana. “Perché sta facendo tutto questo?”

”Prego?”

”Perché?” Ripete. “E’ una causa persa. Sono stanco di dover rispondere a queste domande. Le risposte suonano prive di speranza perfino a me! Nemmeno io mi crederei!”

”E io sono stanca di sentirla lamentare,” replico. “La metta su questo piano: sta spendendo centinaia di euro l’ora per avere me che le faccio domande idiote seduta su questo divano per più di venti ore al giorno. Vediamo di dare un senso a questo tailleur scomodissimo, le va?”

Sorride.

La novità è che a questo punto io gli credo.
Non perché la sua storia mi assicuri che non ha violentato il cantante dei Tokio Hotel.
Non perché le accuse di Bill siano infondate – quando parla di ciò che è stato costretto a fare, i suoi singhiozzi sono semplicemente sconvolti. Non si può pensare che stia mentendo.

Io credo a David Jost perché in quel momento mi sorride.
E ha gli occhi più chiari e più puliti che io abbia mai visto.

Niente a che vedere con le iridi scure di Bill Kaulitz.
Quelle mi mettono a disagio.


- Giorno III -

“Torta di carrube?”

Mi accoglie così, e io penso che sia scemo.
Indossa guanti da forno, un grembiule di Muji e ha in mano una teglia rettangolare che emana un odore delizioso.

E’ evidente che tre giorni chiuso in casa gli stanno facendo male.
Non è il primo a cui succede ma di solito, in questi casi, l’accusato tenta il suicidio o inizia a dare di matto. A volte capita che la folla sotto le finestre se lo veda arrivare di sotto.

Certo non si mette a fare torte.

”L’ho appena sfornata,” continua tranquillo. Appoggia la teglia sul tavolo e si toglie i guanti da forno. “Forse è un po’ bruciata in cima, ma è buona.”

Mi tolgo la giacca e appoggio la borsa sul divano. La cucina è un open space diviso dal salotto solo da un bancone ad isola, sul quale ha appoggiato la torta. E’ tutto bianco opaco ed elettrodomestici neri lucidi.
Mi guarda col sorrisone. “David…” inizio. “Che cosa mi sono persa?”

Sospira. “Dovevo scaricare lo stress e la cyclette è rotta.”

”Ne prendo una fetta, grazie.”
Sono rassegnata.

*

”Mi stai lasciando, David?” Bill gettò la fetta di cheesecake a terra.
La sua voce aveva un tono di sfida.

Il caffé intero si girò a guardarli, ma il moro sembrò non prestare attenzione a nessuno. I suoi occhi guardavano stizzosi David, che teneva la testa bassa.

L’uomo non rispose. Era già abbastanza difficile.
Pronunciare quelle parole era stato come togliersi un peso dal petto: David pensò che non poteva essere stato davvero amore se lasciarlo gli dava così tanto sollievo.

Era stato un errore.
Soltanto questo.

E lui non aveva fatto altro che fermarsi prima di farsi male; perché era chiaro che fra i due quello che ne sarebbe uscito a pezzi era lui. Non certo Bill.
Per Bill era stato tutto un gioco.

”Tu non puoi lasciarmi David,” esclamò oltraggiato.

*

“Quindi è così che è andata: lei ha deciso di chiuderla e Bill si è vendicato. E’ questo che mi sta dicendo?”

Annuisce ma non parla. Si perde di nuovo nel suo mondo che probabilmente è popolato solo da quel ragazzino. Non è un buon segno: in aula dovrà dimostrarsi lucido nel sostenere la propria tesi. L’alienazione è sempre percepita come malattia.

“E del gemello, Tom, cosa mi dice?”

Il suo sguardo cambia impercettibilmente.
Sospira e si fa indietro appoggiandosi allo schienale del divano di pelle. “Tom è un bravo ragazzo,” esala, assolutamente fuori luogo.

Fingo di prendere appunti e disegno ghirigori privi di senso sul mio blocco. “Perché è stato lui a dare la notizia ai giornali?”

Sorride tristemente e tira di nuovo fuori quell’espressione di condiscendenza che rischia di farmi uscire dalla grazia di Dio. “Si trattava di Bill, non poteva fare altrimenti.”

”E’ un ragazzo di diciassette anni, costretto a parlare davanti ai microfoni di una cosa del genere. Non spettava a lui sopportare lo stress.”

Si versa del succo di papaya. Da quando sono lì non l’ho mai visto bere o mangiare niente che avesse un etichetta col marchio riconoscibile. Molto curato e molto gentile. Non fumatore e, a giudicare dal frigorifero dal quale mi è stato permesso di servirmi poco fa, probabilmente vegetariano.

Vegano, forse.

Questa volta gli appunti li prendo sul serio.
Restituire alla giuria un’immagine di Jost fatta solo dei suoi lati positivi potrebbe aiutare. Un uomo tranquillo, salutista… mi chiedo se basterà a convincere tutti che anche i suoi principi morali sono altrettanto sani.

”Nel mondo dello spettacolo non esistono ragazzi di diciassette anni, solo ragazzi che lo sembrano,” risponde.

”Non lo direi in aula se fossi in lei,” lo avviso, sollevando un sopracciglio.

”Comunque, sopportare lo stress è sempre stato il compito di Tom,” risponde, come se non avessi detto assolutamente niente. “Bill in genere lo crea.”

”Li conosce molto bene.”

”Ti capita quando convivi con una persona ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette.”

”Che rapporti ha con Tom?”

Alza lo sguardo pieno di disappunto. “Che cosa sta insinuando?”

”David, io non insinuo niente. Deve smetterla di reagire in questo modo o non andremo da nessuna parte.”

”Lei non mi crede.”

Fantastico, vedo che si fida.
”Perché non prova a rispondere alla domanda che le ho fatto due giorni fa, allora.”

Questa volta lo sguardo è molto più lungo, ma io non ho intenzione di cedere.
Alla fine è lui a sospirare. “Provi a ripeterla.”

”E’ vero quello che Bill sostiene? Che ha abusato di lui per tutto il tempo che è stato il suo manager?”

”No.”

Rimetto a posto i fogli che avevo sparsi sul tavolo.
”Da domani, prepareremo la sua deposizione in aula.”


- Giorno IV -

Le apparizioni di Bill in televisione proliferano come conigli.

Dopo l’annuncio sconvolgente che ha dato una bella botta di pubblicità ai Tokio Hotel, ma che probabilmente li porterà anche allo scioglimento definitivo, la Universal ha pensato bene di spremere fin quando è possibile la band tedesca più conosciuta a livello internazionale dopo Nena.

Le radio passano Durch den Monsun praticamente una volta l’ora, MtV è impazzita e sta facendo uno speciale dopo l’altro, tirando fuori argomenti che non stanno né in cielo né in terra.
Ma la parte migliore sono i Talk Show, che fanno a gara per avere i gemelli in studio.

Tutti vogliono un pezzo del ragazzino abusato.
Tutti vogliono gli occhioni truccati di Bill che spara in camera uno dei suoi singhiozzanti “Non volevo.”

Trovo David in piedi davanti al televisore, con il telecomando ancora in mano.
Gli avevo chiesto di non farlo. “Lo spenga…” dico.

Ovviamente non mi ascolta.
A meno che non lo trovi a cucinare carrube o a mescolare cereali nello yogurt di yak, non mi dà mai retta.
Fissa il televisore con attenzione, come se stesse cercando qualcosa. Così, mi avvicino lentamente e osservo le immagini.

L’intervista risale a qualche ora fa. E’ un’edizione straordinaria di un programma che di solito va in onda di mattina. Bill è seduto su un divano tremendo, e si tiene appeso a suo fratello come fosse un’ancora di salvezza. La conduttrice gli fa domande banalissime, gli chiede come si senta ora e se ha paura, se sarà presente al processo.

Lo sarà, per inciso.

Bill annuisce contrito, le sue dita si stringono intorno alla maglia di Tom.
Mi chiedo che cosa stia guardando David. “Dobbiamo lavorare,” gli faccio notare.

”David ha portato all’estremo anche il resto della band. Sessioni fotografiche, interviste, ore e ore di prove, e poi ancora interviste…”

”Guardi com’è nervoso.”

Osservo il moro sullo schermo. Le sue dita non tremano, ma stringono forte. Ogni tanto abbassa la testa, ma il più delle volte guarda dritto in camera. “Mi sembra solo … “

”… e poi ci ha sempre detto cosa fare e cosa dire, come comportarci davanti alle telecamere.”

”Guardi attentamente. Il modo in cui si tortura le labbra.” Non si volta verso di me.
Io guardo lo schermo.

” Quell’uomo è un mostro! Sono ancora sconvolto per quello che ha fatto a Bill. Lo ha traumatizzato e la pagherà.”

E allora capisco che sta parlando di Tom.

Concentro l’attenzione sul gemello che fino ad ora mi era sfuggito. Siede scomposto, le gambe larghe. Bill gli sta appeso addosso ma lui è rigido, come se fosse in imbarazzo.
Anche se è lui a parlare, a raccontare, paradossalmente è Bill a gestire l’intera intervista; lo fa costringendo Tom a stargli attaccato, a parlare per lui quando sembra non farcela.

Tom sembra spaesato però, e nervoso. David ha ragione.
Non fa che mordersi le labbra e torturarsi le mani. “Pensa ad una messa in scena?”

”Lo è,” mi risponde sicuro, e spegne il televisore su un primo piano del suo giovanissimo amante. “Tom non c’entra niente in questa storia. Lui è lì perché Bill lo è.”

”Che cosa vuole dire?”

Si stringe nelle spalle e si lascia andare seduto sul divano, una gamba sotto il sedere.
Fondamentalmente è un ragazzino di quindici anni. “Bill ha una personalità molto forte e prevaricatrice. Tom è sempre stato il più debole dei due ed ha una forte…” cerca le parole. O meglio le ha, ma le cambia. “… ammirazione per suo fratello.”

Improvvisamente capisco che ammirazione significa qualcos’altro.
E tutto quel discorso sembra avere un senso.

”C’è qualcosa tra di loro?” Guardo inconsciamente il televisore, anche se è spento.

Lui non risponde alla domanda. “Stanotte ci ho pensato.”

”A cosa?”

”A quello che mi ha detto, alla linea che voglio seguire.”

Scorro i documenti. Non mi servono assolutamente a niente, ormai abbiamo letto e riletto tutto quello che c’era da leggere, così come abbiamo spulciato ogni foto e passato al setaccio ogni singolo attimo della vita di David negli ultimi anni. “E cos’ha deciso?”

Sospira. “Non voglio patteggiare, io non ho fatto niente.”

Non sono d’accordo, o meglio: una parte di me sperava che questa cianfrusaglia d’uomo non mollasse la presa e portasse avanti la propria versione dei fatti con tutta la forza dell’innocenza.
Dall’altra, so perfettamente che non gli crederà nessuno.
E che sarà un suicidio.

Però.

”D’accordo. Si prepari, perché non sarà facile.”

*

Siamo seduti intorno all’isola della cucina.
Fuori il sole è calato, perfino le ragazzine urlano meno del solito: sia santificata la laringite, ora e subito.

David si versa un’altra tazza di tisana di non so cosa.
Ormai ho perso le speranze di capire quello che mangia o beve. Mi basta sapere che è commestibile. E, a dirla tutta, dopo più di sei ore di domande, diventa buono anche il suo dannatissimo tofu.

”Quanti anni aveva Bill quando ha avuto con lui il primo rapporto sessuale?”

David solleva la testa dalla tazza che sta preparando con cura maniacale. ”Questo che cosa c’entra?”

”Quanti anni aveva?” Ripeto, con voce ferma.

”Non fa alcuna differenza.”
”Signor Jost, risponda alla domanda.” Ho ripreso a chiamarlo per cognome da quando abbiamo iniziato a giocare di ruolo verso l’ora di pranzo. Io sono l’avvocato di Bill, lui fa l’imputato accusato di abusi sessuali plurimi su minore.

La parte gli riesce benissimo.

”Signor Jost, che età aveva Bill quando-“
”Cristo, la vuole piantare?”

”Le faranno domande come questa!”

”Sono stanco di questo interrogatorio.” Getta il cucchiaino nella tazza e si alza. Sembra volersene andare, ma rimane lì, innervosito.

”Loro non si stancheranno. Quanti anni aveva?”
”Questo suo insistere non-“

”Risponda alla domanda. Quanti anni aveva Bill quando ha avuto con lui il primo rapporto sessuale?”

”SEDICI! Ne aveva sedici!” Esclama alla fine. Mi guarda così male che credo voglia incenerirmi; poi però si calma. Espira e guarda il soffitto, con gli occhi lucidi.

”E’ su questo che si baserà l’accusa. Non sull’ultimo anno. Tenteranno di dimostrare che lo ha plagiato.”

Scuote la testa. ”Gliel’ho detto: quando è stato con me, non era certo la prima volta.”

”Ha modo di dimostrarlo?”

”No.”

”Allora non ci interessa.”

- Giorno V -

Arriviamo con due ore di anticipo, ma il tribunale è circondato da questa mattina.
Non c’è verso di evitare il bagno di folla; non che mi aspettassi di riuscirci, ma speravo che avremmo avuto soltanto cinquanta persone a tirarci i pomodori. Non il triplo.

Faccio fermare l’auto all’inizio della strada e guardo fuori dal finestrino, decidendo cosa fare.
Ci sono proprio tutti: le associazioni dei genitori, i curiosi, e naturalmente l’esercito di fan pronte a dilaniarlo a mani nude in difesa del loro adorato angelo.
Non ho bisogno di avvicinarmi per riconoscere lo stendardo del Bill Fan Club che garrisce al vento come una bandiera d’altri tempi: quel lenzuolo bianco con sopra stampato il bel viso di Bill è stato sotto le finestre del mio assistito per tutta la settimana. E Dania, l’agguerrita fondatrice – nonché capo branco del gruppo di scimmie urlatrici – ha tentato ogni giorno di sfondare lo sbarramento di bodyguard per venire ad offendere David di persona.

Sono certa che lui le avrebbe offerto del the.

Comunque Dania è là. Lei non riesco a vederla, ma so che c’è. Sono certa che non si perderebbe per niente al mondo un momento come questo.

David è in silenzio, non parla da quando sono andata a prenderlo.
Indossa un completo elegante, ma non troppo. E’ rimasto sul casual. Porta gli occhiali da sole scuri, ma solo per non far vedere quanto ha pianto.

Questa mattina non c’era miracolo che potesse nascondere l’espressione addolorata che aveva sul viso.
L’ho trovato davanti allo specchio, intento ad annodarsi la cravatta. Si è girato e mi ha sorriso, nonostante tutto.

Alla fine la cravatta l’ha lasciata a casa.

”Appena le aprono la portiera, esca. Cammini dritto, veloce, non si guardi intorno,” lo istruisco. “Io sarò esattamente dietro di lei e me la vedrò con i giornalisti. Non si fermi, per nessuna ragione.”

Emette un breve sbuffo col naso, sembra divertito.
”Cosa c’è?”

”Ho passato sei anni della mia vita a dire a quei ragazzi esattamente la stessa cosa.”

*

“David, saranno almeno un milione di persone!” Esclamò Bill, il naso e le mani schiacciate contro il vetro oscurato della limousine che li aveva accompagnati fin lì.

”Cretino, non possono essere così tante!” Lo rimproverò Tom, per poi emettere un gemito quando il fratello – tirandosi su in ginocchio sul sedile - gli tirò una pedata. “E vuoi stare seduto per bene?”

Gustav e Georg erano troppo impegnati a discutere il numero dei cavalli dell’auto per potersi interessare di questioni triviali come l’atteggiamento infantile di un Bill in piena crisi estatica.
David aveva osservato l’intera scena con un mezzo sorriso. Questa era la prima vera cerimonia ufficiale a cui i Tokio Hotel partecipavano; il che significava: tappeto rosso, fan urlanti, altri artisti tedeschi di un certo livello, in un’unica, gigantesca e sfarzosa serata.

Per Bill, quattordici anni appena compiuti, era un sogno che si realizzava.
Certo non erano gli MTv Awards, e sarebbe stato trasmesso soltanto sulle reti nazionali; ma era un inizio.

E poi c’era Nena, che aveva su Bill lo stesso effetto di due bidoni di vermi gommosi: euforia estatica zucchero-indotta.
David si era quasi sciolto nel vedere i suoi occhioni ambrati brillare di meraviglia quando aveva spiegato a lui, a suo fratello e agli altri due che avrebbero partecipato a quella manifestazione.

Bill aveva preso a saltellare per ogni dove, agitando le braccia e rischiando di farsi più e più volte del male da solo. David aveva preso nota di fare qualcosa per quella scordinazione congenita che rendeva quasi del tutto vani i suoi tentativi di avere un front man per lo meno guardabile.

Bill cantava bene, ma aveva seri problemi a muoversi.
Si agitava troppo.

”David, siamo arrivati,” arrivò la voce di Saki, seduto accanto all’autista.

L’uomo annuì, quindi fece cenno ai ragazzi di farglisi intorno.
Bill si staccò finalmente dal vetro e gli dedicò la sua più totale attenzione.

”Non appena Saki aprirà la portiera, scendete con calma. E sorridete,” disse. Si sentiva un couch ai fischi d’inizio. “Camminate svelti e diritti, seguendo Saki. Gettate qualche sguardo in giro, ma non vi fermate per nessuna ragione. Comprese le belle ragazze con il seno quasi scoperto, Tom.”

Tom ghignò. “Vedrò di fare il possibile.”

Saki aprì loro la portiera. I ragazzi uscirono uno dopo l’altro, salutando le persone assiepate da una parte all’altra del tappeto rosso.
Tutti tranne Bill.

”Bill?”

Il moro si mordicchiava un labbro a testa bassa. “Credo di avere paura.”

David sorrise. “Andrai alla grande.”
”Lo credi davvero?”
”No. Io lo so.”

Bill sorrise.

*

Tra l’interno e l’esterno non c’è differenza.

C’è quasi più gente dentro l’aula che fuori, il che non è affatto un bene.
Più gente c’è, più occhi ti guardano. Più iridi, meno tranquillità.

E David è già abbastanza agitato così com’è.
Ne ha tutte le ragioni.

Mi guardo intorno, ma senza darlo a vedere. Prendo nota delle presenze e delle grandi assenze in quest’aula di tribunale. I parenti di David, ad esempio.
Non si è presentato nessuno.

Lui lo sa, per questo cerco di essergli di conforto.
Lo spingo avanti con gentilezza, una mano sulla sua spalla, e gli indico con un cenno il posto in cui si dovrà sedere. Ci sono due tavoli di fronte al banco del giudice.

Uno è nostro.
L’altro è dell’accusa. E Bill è già lì, a risplendere della propria, famosissima luce.

Per lui questo non è un processo, è una kermesse.
Lo hanno perfino sponsorizzato. So che D&G, Zara e Yves saint Laurent hanno fatto a gara per rivestirlo dalla testa ai piedi in occasione del processo. E non è finita qui. E’ truccato Rimmel, gli occhiali sono di Valentino e la borsa è di Prada. Tutto quello che ha addosso al momento vale una piccola fortuna e non ha dovuto neanche sforzarsi di fare shopping: gli hanno consegnato tutto direttamente a casa.

L’unico obbligo che ha è di mostrare le marche a favore di camera quando esce dal tribunale.

E’ bello, impossibile negarlo.
Ma lui lo sa e questo lo rende tristemente altezzoso. E’ seduto accanto ai suoi avvocati e si guarda intorno con aria annoiata. Nella prima fila alle sue spalle sono seduti il padre, la madre e il patrigno. Ma soprattutto suo fratello.

Tom mi colpisce all’istante.
Non è affatto appariscente come Bill. Ha avuto i riflettori puntati su di sé tutto il tempo per il solo fatto di trovarsi accanto al gemello. Adesso, però, è tornato nell’ombra.
L’unico vero grande attore di questa tragedia dev’essere Bill. Ecco perché il giovane rasta se ne sta lì dietro, con la testa bassa e si guarda le mani.
Gli hanno fatto togliere il cappellino ma veste comunque a modo suo.

Ricordo quello che mi ha detto David: che sembra sparire dentro quelle magliette; è vero.
Tom sembra molto piccolo e dimostra molto meno dell’età che ha.

Bill a un’aria molto professionale, invece.
Sembra fin troppo adulto e questo non fa che confermare quello che David ha detto di lui.

Attraversiamo la navata tra le due ale di pubblico; sono appena dietro David e quindi noto la cosa piuttosto bene, anche se è questione di qualche istante.
Tom alza lo sguardo e fa in modo di incrociare quello di David.
Muove le labbra e vi leggo sopra distintamente quattro parole: Es tut mir leid.

David non reagisce.

Lo conduco al nostro tavolo, dove la mia assistente ci sta già aspettando.
”Dovremmo iniziare tra qualche minuto,” lo informo con un sussurro.

Lui annuisce.
Guarda insistentemente in direzione di Bill finché lui non si gira.
Il suo sguardo è incomprensibile.
Sembra una maschera da quanto è immobile.
Non ha emozioni, è questo che penso.

”Signori, in piedi.”
La giuria si alza. Ci alziamo tutti.
Colgo il bagliore accecante del braccialetto di Bill che scivola lungo il suo polso magro.

David rischia dai quattro ai dieci anni.