bill+bushido

Le nuove storie sono in alto.

Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Introspettivo, Erotico
Avvisi: Slash, AU, Lime
Rating: R
Prompt: Scritta in occasione della notte bianca di Halloween a Mari di Challenge (prompt del trick or treat: una cintura di castità & in un cimitero)
Note: Quando è uscito il primo album di Sido e Bushido insieme, la pubblicità era ambientata a Venezia, o qualcosa del genere. Nel primo video c'erano i vampiri (e anche le spade, le messe nere e un sacco di altre idiozie) e a me venne l'idea per una storia. Ma questa piccola shot qui non c'entra niente. O quasi. Era tanto per dire.

Riassunto: "Finalmente ci incontriamo,” mormora.
LAST DAWN ON THE GRAVEYARD


Il cimitero si trova appena fuori città, a ridosso di una collina che di giorno è un luogo ameno e verdeggiante mentre di notte, nelle intenzioni, dovrebbe essere un luogo di pace, abbastanza distante dal brusio della città per consentire ai morti che custodisce di risposare.
Bill lo trova solo spaventoso, soprattutto di notte quando, varcate le due statue che ne delimitano l'entrata, si trasforma in una distesa male illuminata di lapidi che sembrano abbarbicarsi le une sulle altre e scalare la collina. Normalmente non avrebbe mai lasciato la sua confortevole casa per recarsi al cimitero ma non ha saputo resistere alla voce che lo chiamava. Le ha permesso di insinuarsi sotto la sua pelle, di avvolgergli il cuore in una morsa stretta ma dolce e di trascinarlo ovunque volesse. L'aveva già sentita altre volte e ha l'impressione di averla sempre sentita. Ha lo stesso tono dolce e confortante di ogni suono della sua infanzia eppure c'è una traccia più scura – una sfumatura pericolosa – che la attraversa e la rende spaventosa ma anche terribilmente attraente, come guardare giù da un ponte lo spazio vuoto che ti separa dalle rocce appuntite sul fondo del fiume.
S'incammina lungo il sentiero, la voce non parla più. Eppure ha l'impressione di non essere solo. Si ferma dove si ferma la strada e siede su una panchina. E' allora che lui compare dall'ombra scura che Bill ha di fronte. Ne esce come vi fosse sempre stato e Bill non lo avesse visto. Come una di quelle figure formate solo da punti e macchie che David gli mostrava da bambino per divertirlo. Alla prima occhiata sembravano solo tanti pallini su un pezzo di carta ma poi capivi che alcuni erano più grandi e più scuri degli altri. Se Bill si concentrava abbastanza e abbastanza a lungo, ecco che vedeva apparire una figura.
L'uomo è alto e scuro, indossa un completo elegante e gli porge la mano. Bill non dovrebbe accettarla, perché è uno sconosciuto. Eppure lo conosce da sempre. Si aggrappa alla convinzione che risiedendo nel suo cuore quella voce – e chi la possiede – lo conoscano abbastanza da permettergli di stringere quelle dita e farsi stringere al petto, in un abbraccio che gli sembra di aspettare da anni.
“Finalmente ci incontriamo,” mormora. Bill non sa che cosa dire, perciò tace e resta immobile tra le braccia dell'uomo che gli accarezza piano i capelli. “Ti ho osservato per così tanto tempo.”
Bill non riesce più a distinguere il cimitero, come se fosse improvvisamente lontano chilometri e chilometri, anche se ce l'ha sempre intorno perché riesce a sentire, vago, il soffio del vento e il fruscio dei cipressi che dovrebbero ergersi altissimi sopra di loro. E invece non ci sono.
Le mani dell'uomo che gli stringono la vita, scivolano sui suoi fianchi e sulla schiena, accarezzano la curva delle sue spalle e sembrano saggiarne la consistenza, prendendo atto di una figura fino ad allora soltanto immaginata. Bill si ritrova a fare lo stesso, anche se le sue dita sono più timide ed esitanti di quelle che invece si insinuano sotto la sua camicia e disegnano piccoli cerchi intorno al suo ombelico.
Bill si lascia scappare un gemito sorpreso ed eccitato mentre le guance gli diventano rosse e nasconde il viso nel collo dell'uomo. Dovrebbe tenerlo a distanza, ma il solo pensiero lo riempie d'angoscia più di quanto non faccia quello di David che lo sgrida per il suo comportamento inappropriato, così si aggrappa alle sua spalle come potessero rimanere così per sempre ed evitare che il tempo riprenda a scorrere e li separi.
Il profumo dell'uomo lo confonde e ancora di più lo confondono le sue labbra che sfiorano le sue.
“Fidati di me,” dice la voce nella sua testa mentre l'uomo lo bacia. E lui non fa nessuna resistenza, perché non vede motivo di farla. Qualsiasi nozione avesse, qualsiasi paura, sparisce nel sapore di quel bacio e di tutti quelli che ne seguono.
Le labbra dell'uomo scivolano lungo la sua mandibola e lungo il suo collo, catturano la sua pelle appena un istante. Bill non ha mai sentito come in questo momento il peso della cintura di castità che è costretto ad indossare sotto ai vestiti per ordine di David e che impedisce alle dita dell'uomo di scivolargli addosso come dovrebbero. Bill vorrebbe almeno sentirne il calore, ma ciò che scalda il ferro è solo la sua pelle che si è fatta bollente. La castità ha smesso di essere un pensiero felice sotto quelle carezze, si è completamente dissolta nelle intenzioni prima di farlo concretamente; così quella cintura è un ornamento ormai inutile. Nei suoi pensieri essa non ha più niente da proteggere.
E' la certezza che lo coglie quando il dolore acuto del morso si scioglie nell'ondata di piacere che gli piega le ginocchia e lo fa accasciare tra le braccia dell'uomo.
All'orizzonte, il cielo si è fatto più chiaro. Bill schiude gli occhi sulla sua ultima alba, e si lascia andare.
Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Commedia, Romantico
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Prompt: Scritta in occasione della notte bianca di Halloween a Mari di Challenge (prompt del trick or treat: un cucciolo di cane & nel container di un camion.)
Note: Meh. All the awards al cane!
Riassunto: Bill sta perdendo la pazienza anche perché questo non è compito suo, ma di Anis. Il cane è suo, lo ha comprato lui, lo ha voluto lui, e quindi dovrebbe essere lui all'alba delle dieci del mattino a fare il giro dell'isolato per accompagnare il cane a fare i suoi bisogni.
WALK THE DOG AND NEVER COME BACK


Il cucciolo di labrador tira, abbaia, saltella e tenta periodicamente di legargli le gambe con il guinzaglio per farlo cadere. Bill sta sinceramente perdendo la pazienza.
Non è che non gli voglia bene, anzi in realtà lo tratta come il bambino che ancora non ha avuto – gli piacciono i cani in generale, adora i cuccioli e ama Anis, quindi i suoi sentimenti per un cucciolo di labrador di Anis sconfinano nella devozione – ma è un cane faticoso ed estremamente esuberante che non sta fermo un minuto e che lo costringe a corse improvvise, ad urla belluine e alla pratica fastidiosa dello scusarsi con tutte le persone che il piccolo aggredisce festosamente lungo il loro tragitto.
Bill sta perdendo la pazienza anche perché questo non è compito suo, ma di Anis. Il cane è suo, lo ha comprato lui, lo ha voluto lui, e quindi dovrebbe essere lui all'alba delle dieci del mattino a fare il giro dell'isolato per accompagnare il cane a fare i suoi bisogni.
Ma Bushido non ha tempo per lui, né per il loro anniversario – oh, il cielo lo protegga se non è sparito solo per preparare qualcosa di speciale! - figurarsi se ha tempo per la bestiola.
Bestiola che, fra le altre cose si è messa a correre all'impazzata non appena lui ha aperto il cancello della villa, senza nemmeno dargli il tempo di mettergli il guinzaglio.
Bill lo ha visto sfrecciare via, le zampe davanti in disaccordo con quelle di dietro che lo facevano procedere un po' a zig zag, cedevano e lo tradivano e lo facevano anche rotolare per qualche metro.
Fortunatamente Anis è pigro e anche un po' stronzo, ma è bravo ad addestrare i cani e così a Bill è bastato fischiare e chiamarlo per nome perché il cucciolo si voltasse e tornasse indietro trotterellando, per poi fermarsi seduto proprio sulle punte dei suoi nuovi stivali di pelle e farsi mettere il guinzaglio.
Adesso che hanno appena imboccato una strada che dovrebbe portarli più in fretta a casa, il cane non ne vuole sapere di camminare. Bill cerca di tirarlo delicatamente a sé, lo sgrida e gli ordina di darsi una mossa, lo implora anche quando quello si stende a pelle di leopardo e si finge morto pur di non proseguire.
“Si può sapere che cosa ti prende adesso? Hai fatto il bravo finora!” Lo apostrofa.
Non fa in tempo a dirlo che un camion, uno di quelli grossi col rimorchio, gli si affianca lungo la strada e inchioda con uno stridio di freni. Bill sussulta e si volta giusto in tempo per vedere l'uomo scendere dal retro, poi questi lo afferra e lo trascina, schiacciandogli con forza una mano sulla bocca perché non possa strillare. Bill lascia andare il guinzaglio, ma sente il cucciolo abbaiare per tutto il tempo disperato.
Anche se non può vederlo, perché lo sconosciuto gli tiene la testa piegata all'indietro, lo sente spostarsi da una parte all'altra e lo immagina mentre tenta di avventarsi sul suo assalitore senza averne il coraggio.
Scalcia e tenta di divincolarsi ma l'uomo è massiccio e lui capisce subito che dalla sua stretta non potrà liberarsi. Non ci riesce nemmeno quando quello è costretto a tenerlo fermo con una mano sola per poterlo issare sul retro del camion. Quando il portellone del camion si chiude, Bill si trova immerso nel buio più completo. Non arriva luce nemmeno dalla cabina di guida, segno che è separata e quindi lontana. E quindi lui non può nemmeno sperare di farsi vedere in qualche modo da qualche macchina di passaggio. Si guarda intorno e non vede niente, mugola qualcosa ma l'uomo gli tiene ancora la mano sulle labbra, sebbene più gentilmente e con meno forza di prima. Si aspetta di sentire il motore da un momento all'altro, ma restano fermi cinque, dieci, quindici minuti, senza fare assolutamente niente. Il cuore gli batte all'impazzata come dovesse uscirgli dal petto da un momento all'altro. Pensa che l'attesa di scoprire cosa deve accadergli sia più angosciante di tutto quanto il resto. Se deve succedere – qualunque cosa sia – che succeda, tanto posticipare non lo renderà migliore. Ha quasi deciso di riprendere a scalciare ad agitarsi, quando lo sconosciuto gli toglie la mano dalla bocca, lentamente.
Bill si volta di scatto a guardarlo e quello si porta un dito alle labbra per fargli segno di fare silenzio. Bill dovrebbe urlare, lo sa ma c'è qualcosa nell'uomo che gli impedisce di farlo, forse è il movimento elegante della sua mano, forse sono i suoi occhi scurissimi che ridono e non sembrano cattivi. Gli sembra quasi... di riconoscerli.
Quando Bushido si toglie il passamontagna, però, strilla davvero. E lo offende, anche. Lo picchia. Bushido ride come non ci fosse un domani per farlo più e cerca di salvarsi dalla furia dell'Erinni che ha deciso di prendersi come fidanzato. “Ma sei scemo o cosa?” Sbraita Bill prendendolo a pugni, a calci e poi fregandogli il passamontagna per picchiarlo meglio anche con quello. “Mi hai fatto venire un infarto.”
“Sei tu quello che voleva una sorpresa per l'anniversario,” ride Bushido, come un cretino. “Non sei sorpreso?”
Bill lo tempesta di pugni ancora un po'. “Una sorpresa significa anello!” Protesta. “Ti sarebbe costato meno di questa pagliacciata!”
Bushido lo afferra per i polsi e se lo tira addosso senza nessuna difficoltà. Allarga le ginocchia perché Bill possa caderci in mezzo e gli lascia un bacio sul naso. “Ho addosso anche quello,” mormora. “Ma devi prima trovarlo.”
Bill si ferma e saggia la stoffa del suo giubbotto sotto le dita. Ci sono decine di tasche là sopra, è un giubbotto da lavoro. Sorride. “Ci vorrà un sacco di tempo.”
“Non ho niente da fare,” mormora Bushido, un attimo prima che le labbra di Bill si posino sulle sue.
Bushido mente, l'anello è a casa. Ma Bill non ha davvero bisogno di saperlo ora.
Personaggi: Bill, Chakuza, Bushido
Genere: Erotico, Drammatico
Avvisi: Slash
Rating: R
Prompt: Scritta per il MDF di it100 (sfida #2, squadra dei Cavalieri dell'Ordine Consacrato della Ficcyna Splendente, cliché #3)
Note: E' la prima volta in assoluto che la mia coppia preferita di questo fandom fa qualcosa di veramente sbagliato (cattivi! Non si fa!), generalmente essi si amano nella ragione. Stavolta no, perché il prompt lo richiedeva. E vabbè, c'è sempre una prima volta, immagino :(

Riassunto: "Anis, non è come sembra."
DI QUIETA RABBIA


Il corpo di Bill s'inarca sul materasso. La sua schiena disegna una curva perfetta, mentre i suoi fianchi si spingono verso l'alto, a cercare una soddisfazione che Chakuza si diverte a negargli da tutta la sera.
Bill mugola tra le sue labbra, gli serra le ginocchia intorno ai fianchi e cerca di spingerselo addosso il più possibile, perché senta quanto ormai non può più fare a meno di lui.
“Peter...” lo chiama quasi disperatamente, gli occhi appena socchiusi e le ciglia che tremano. E' sfatto e drenato e stanco di tutta la tensione accumulata e dell'attesa di un'intera giornata.
I tempi sono sempre così stretti che sono abituati a regalarsi soltanto una manciata di ore. Non c'è modo di parlarsi, a volte non c'è nemmeno quello di guardarsi negli occhi. Lui e Chakuza si annusano e basta, si cercano addosso gli odori che rimangono attaccati alla pelle e che raccontano le loro rispettive storie, provano a capirsi senza dover necessariamente sprecare minuti preziosi a parlare, quando la voglia è così forte da non lasciare spazio a nient'altro.
Chakuza si china a lasciargli baci affamati sulle labbra e sul collo, dove morde e lecca la pelle accaldata. Il profumo di Bill mescolato al suo gli dà quasi alla testa.
Quando lo sente affondare dentro di lui, Bill geme mentre le mani dell'uomo gli scivolano lungo le braccia, fino a sollevargliele sopra la testa e intrecciare le dita con le sue.
Sono i gemiti gravidi e persi di entrambi a coprire lo scatto della porta e i passi familiari lungo le scale e il corridoio. Coprono anche la voce di Bushido che lo chiama e sorride. Che lo chiama e gli chiede dov'è. Che lo chiama e si ferma sulla porta, spezzando un incantesimo che sarebbe durato in eterno. Il suono dei loro respiri affaticati è l'unica cosa che in quel lungo primo istante riempie la stanza.
Poi come un nastro che riprende a girare, anche il loro tempo interrotto torna a scorrere. “Anis, non è come sembra,” mormora Bill e il suono patetico delle proprie parole gli lascia l'amaro in bocca.
Chakuza gli resta accanto, anche se può già immaginare chiaramente l'allegro funerale che Bushido gli farà, magari direttamente nel giardino di casa, dopo avergli piantato una pallottola in fronte e tanti saluti.
Lo sa che non ci sono giustificazioni quando freghi la donna a qualcuno, peggio ancora se è un tuo amico.
E non conta quanta voglia c'è sempre stata fra lui e Bill dal primo momento che si sono visti, non conta ora che li ha scoperti, non conterà fra un istante quando parlerà.
E invece Bushido non parla. Il suo silenzio eloquente basta a definire ciò che è accaduto e la sua conclusione, che forse è meno violenta, meno epica ma di sicuro fa male quanto un colpo di pistola.
Bill lo chiama, e Bushido lo ignora. Ripercorre la strada a ritroso ed esce di casa.
Là dentro non tornerà più. E Bill non ci vorrà nemmeno Chakuza.
Personaggi: Chakuza, Fler, Eko, Bushido, Bill, Valezka
Genere: Commedia, Drammatico
Avvisi: Slash, AU
Rating: PG 13
Note: Storia scritta per la maritombola di maridichallenge (prompt nr.32: "AU.").

Riassunto: Non aveva gran voglia di farsi licenziare sulla base di voci che aveva nella testa ma si decise comunque ad entrare, perché la mancanza di Fler era talmente forte e talmente dolorosa, che avrebbe fatto qualsiasi cosa – per quanto sciocca – pur di liberarsene.

NO LOOKING BACK, NO WAY TO KNOW


Preparare la cena in un ristorante di lusso non era un gioco da ragazzi. Chakuza lo sapeva bene perché era il capocuoco dell'”Ersguterjunge” da quasi cinque anni ed erano stati i più lunghi della sua vita. Non che si lamentasse del posto di riguardo che ricopriva, perché aveva sgobbato come un matto per ottenerlo e lo sapevano tutti nel grattacielo che se qualcuno avesse provato a soffiarglielo sarebbe finito dritto nello spezzatino con le patate, era solo che a volte le disgrazie capitavano tutte insieme e lui aveva ancora due sole mani per occuparsene. Quella sera, ad esempio, non solo il nuovo sous chef era un disastro più del solito, ma durante la notte era mancata la corrente; così, aprendo, quel pomeriggio, avevano scoperto che metà delle scorte surgelate era andate a male, così come i fondi e le basi preparate la sera prima.
Chakuza aveva dovuto inventarsi su due piedi un menù che fosse, se non all'altezza del precedente, per lo meno accettabile, qualcosa che non screditasse il buon nome del locale. E aveva dovuto farlo tenendo presente quello che era rimasto, cioè quasi niente, e il fatto che, a quasi un anno e mezzo dalla sua richiesta, la Guten Appetit, la più importante rivista gastronomica dell'intera Germania, avesse deciso proprio quel giorno di venire a controllare l'operato del suo ristorante.
Chakuza aveva un critico impossibile da soddisfare seduto in sala e nessuna possibilità di ordinare gli ingredienti mancanti, perché la vigilia di Natale non c'erano negozi che facessero consegne, nemmeno urgenti, nemmeno se pagate più del dovuto.
In tutto questo, come se già la pessima recensione che avrebbe ricevuto e la conseguente degradazione del miglior ristorante della città a bettola di quart'ordine non fosse stata sufficiente, il ceppo di influenza più virulento degli ultimi vent'anni aveva fatto strage dei suoi camerieri e così adesso il suo capo-cameriere, nonché suo fidanzato da tre anni, stava gestendo la sala con il solo aiuto di altri due elementi che erano lì da una settimana. Era un disastro.
L'uomo in questione, per altro, aveva appena fatto irruzione nelle cucine, spingendo la porta con il sedere e tenendo in equilibrio sulle mani e le braccia un numero impossibile di piatti. “Mi serve il primo del tavolo quattro, due fettine di vitello per il tavolo sei: meno cottura, più condimento,” snocciolò a raffica, posando vassoi e recuperando stoviglie. “La macedonia del tavolo otto, il caffè del dodici e del pane all'aglio per il ventidue – si salvi chi può, ha già un alito pestilenziale e Chakuza, Chakuza, Chakuza quel tuo critico è insostenibile. Ho chiesto è tutto di suo gradimento? E lui, vedremo poi se è di mio gradimento. E io: vuole che le porti qualcos'altro? E lui: se volevo ordinare la chiamavo, intanto mi porti quello che ho chiesto due minuti fa. E io gliel'ho portato ma è sempre tutto troppo caldo o troppo freddo o troppo perfetto. Che cosa significa che è troppo perfetto? Se è perfetto è perfetto, non può esserlo troppo.”
“Fler ti vuoi calmare?” Chakuza gli piantò una mano sulla bocca e quello si zittì di colpo, come se qualcuno avesse premuto il bottone di spegnimento. “Respira ogni tanto, fa bene ai polmoni.”
Il ragazzo fece un grosso sospiro e quindi gli sorrise. “Scusa. Troppi tavoli, sto andando a velocità doppia per tenere il passo.”
“Come va là fuori?”
“Bene, a parte il fatto che ci sono venti tavoli e noi siamo in tre. Se avessimo dei pattini sarebbe tutto molto più semplice, ma immagino che questo sia contro le regole del ristorante.”
“Appena un po',” annuì Chakuza. “Che tipo è il critico?”
Fler si strinse nelle spalle. “Uno normale, niente di che,” rispose. Poi lo prese per un polso e se lo tirò dietro fino alla porta che aveva due enormi oblò trasparenti. “Lo vedi? E' quello là in fondo.”
“Me lo aspettavo diverso,” commentò sorpreso Chakuza, osservando con ancora più attenzione l'ometto alto e magro, con la faccia appuntita.
“Sembra un topo, vero?” Ridacchiò Fler. “Ha anche i baffetti.”
“Sei sicuro che sia lui? Non sembra per niente un critico.” Commentò Chakuza, sempre più perplesso. “Sono dei jeans e una maglietta, quelli?”
“E dovresti vedere il cappellino,” commentò l'altro. “Ha due piccole ali disegnate sopra. Bianche e un po' rotonde, come quelli dei cartoni animati. Te lo dico io, dev'essere per forza un critico, sennò col cavolo che lo facevano entrare qui dentro senza cravatta.”
Chakuza si staccò dalla porta con un sospiro stanco. “Mi sa che hai ragione,” disse tetro.
“Ehi, che cos'è quella faccia?” Chiese il cameriere, posando tutti i suoi piatti e prendendolo per le spalle, con uno sguardo preoccupato. “Guarda che stiamo andando alla grande! Non si è ancora lamentato nessuno, sai? Ce la caveremo, in fondo mancano solo-”
“Non dirlo,” Chakuza scosse la testa pelata e l'appoggiò al petto dell'uomo che gli stava davanti. “In questa cucina abbiamo fatto voto di non contare il tempo che passa. Abbiamo settato un orologio da cucina ad un orario accettabile e l'abbiamo nascosto. Quando suonerà, saremo liberi.”
Fler scoppio a ridere. “D'accordo allora, ti terrò all'oscuro del segreto del tempo. Comunque sappi che ormai il peggio è passato, presto potremo tornarcene a casa e dimenticare quanto è avvenuto.”
“Promesso?” Mugugnò Chakuza.
Fler lo baciò sul naso. “Promesso. Ora vado ad occuparmi dei tuoi clienti. Se non torno fra dieci minuti, vienimi a cercare, perché mi avranno preso in ostaggio.”
Chakuza sorrise e lo seguì con lo sguardo mentre assumeva una posa più elegante e tornava in sala, evitando per un pelo un altro cameriere che entrava in cucina solo in quel momento.
Pensò a casa loro, al divano, al pigiama, alle pantofole col pelo e all'energia inesauribile di Fler che aveva riempito la cucina, elettrizzando perfino i muri. Si aggrappò a quella, e continuò a lavorare.

*


Alla fine il critico aveva dato all'Ersguterjunge quattro forchette, che era un risultato ragguardevole, considerato che il massimo era cinque e che Chakuza aveva preparato una cena con gli avanzi di magazzino. Una volta chiuso il ristorante, lo chef si era permesso di festeggiare con tutti i colleghi, aprendo la bottiglia di Champagne del '75 che conservavano per le occasioni importanti. Forse una buona recensione su una rivista volubile come il Guten Appetit, che era in balia delle crisi premestruali dei suoi critici e cambiava opinione ad ogni numero, non era esattamente l'occasione importante che aspettavano, ma Chakuza pensava che il miracolo che li aveva portati in fondo a quella serata era sufficiente a giustificare l'apertura di un vino da più di 600 euro.
Non ne avevano bevuto una quantità tale da dire di essere ubriachi, ma lui e Fler erano abbastanza su di giri da canticchiare il loro trionfo contro l'esercito dei malvagi critici gastronomici quando chiuse la serranda del ristorante e si avviarono verso casa, che li attendeva a non più di cinquecento metri da lì.
Chakuza ci si era trasferito dopo aver ottenuto il posto, così da non dover attraversare mezza città ogni mattina per poter andare a lavorare. Fler non era molto d'accordo – perché, diceva, dodici ore al giorno in quel grattacielo gli sembravano già abbastanza per non doverne subire la presenza costante anche quando sedeva in salotto e lo vedeva dalla finestra – ma ciononostante si era trasferito comunque a casa del suo uomo, quando lui gliel'aveva chiesto con un messaggio di cioccolata sulla Saint Honoré più grossa che si fosse mai vista nella cucina di una persona normale, e forse era per questo – per via dell'amore ridicolo che provavano l'uno per l'altro – che quella convivenza perenne non li aveva ancora portati ad ammazzarsi a vicenda. L'appartamento, per altro, non è che fosse esattamente una reggia, anzi.
Era un bilocale ricavato da una soffitta. Il soffitto era basso – non che comunque fosse un problema per Chakuza che non arrivava al metro e settanta – e le finestre un po' piccole, ma tutte le sue scomodità erano ripagate dalla terrazza, dalla quale si poteva ammirare una vista deliziosa dei tetti della città. Fler l'aveva riempita di piante in vaso e anche di un divanetto, sul quale d'estate passavano praticamente giornate intere.
Al momento, però, non era alla terrazza che Chakuza pensava con cupidigia, bensì al suo letto morbido, al piumone viola che Fler aveva fatto il diavolo a quattro per comprare nonostante fosse estremamente lugubre e alla possibilità di smaltire lo champagne in maniera divertente.
“Sai cosa pensavo?” Chiese Fler, che ora faceva l'equilibrista sul basso muretto che costeggiava il parco pubblico.
Chakuza sollevò lo sguardo su di lui e lo osservò mentre cercava di mantenere l'equilibrio con le braccia aperte. “No, cosa?”
“Che potremmo prenderci una vacanza,” rispose quello. “Andiamo via una settimana, spegniamo i telefoni, i computer, tutto quanto. Solo io e te.”
Chakuza sorrise, infilando le mani in tasca. “Sarebbe bello.”
Fler scese dal muretto con un saltello e gli bloccò la strada, costringendolo a fermarsi. “Oh, andiamo, cosa ci vuole?” Disse incoraggiante. “In fondo sarebbero solo pochi giorni e tu non hai mai preso delle vere ferie in cinque anni. Quel ristorante potrà pure andare avanti senza di noi, no?”
“Non lo so, a chi vogliamo lasciarlo in mano?”
“Il sous-chef?” Fler fece spallucce. “Lo pagano per quello, no?”
Chakuza sgranò gli occhi, quasi inorridito. Nel giro di qualche mese quell'uomo era riuscito a fare più danni di quanti ne avesse fatti lui in tutta la sua carriera, compreso quel periodo da incubo come lavapiatti in un fast-food di infima categoria. Non si poteva pensare di dargli in mano le chiavi del ristorante e trovarlo intero una volta tornati. “Figuriamoci,” si lamentò, riprendendo a camminare. Sperò che Fler si spostasse, ma non lo fece; iniziò invece a camminare all'indietro, senza staccare mai gli occhi da lui. “Nel migliore dei casi, lo farà andare a fuoco.”
“E allora? Chi se ne frega, Chaku. Quello non è il tuo ristorante.”
“No, ma mi scoccerebbe restare senza lavoro!”
Fler sorrise. “Allora apriamo il nostro!” Esclamò, entusiasta. “Immaginatelo! Sarà bellissimo. Elegante, ma senza la puzza sotto il naso. Con una grande sala piena di tavoli rotondi e un palco con la gente che suona dal vivo. E le cucine! Ci impazzirai! Saranno enormi, e tutte d'acciaio come piacciono a te. Avrai quattro, no, cinque piastre cottura. Potrai cuocere cibo per interi eserciti e sarà il miglior cibo di tutta Berlino. E io avrò una divisa meravigliosa. Sembrerò un pinguino, ma con un sacco di stile. Ci verranno tutti, io lo so. E potremo prenderci le ferie quando ci pare.”
Chakuza sospirò malinconico, ma non poté trattenersi dal sorridere. Sognavano quel ristorante da anni e lo facevano così bene che sapevano anche di che colore fossero le mattonelle del bagno. Fler non vedeva l'ora di metterlo in piedi, ma come al solito era troppo avventato. ”E' ancora presto.”
“No che non è presto!” Protestò Fler. “Il capitale ce l'abbiamo, dobbiamo solo trovare un posto dove aprire.”
“Servono molti più soldi. E poi non è il momento.”
Fler scosse la testa con enorme convinzione. “Non è vero, serve che lo apriamo e basta,” gli prese le mani tra le sue, gentilmente. “Se aspettiamo il momento giusto, il posto giusto, la quantità giusta di soldi, non lo apriremo mai.”
Chakuza lo guardò e sospirò di nuovo, alzando gli occhi al cielo. “Dobbiamo fare le cose per bene,” tentò.
“Infatti,” annuì il ragazzo. “C'è questo posticino...”
“Fler!”
“Aspetta, aspetta! Stammi a sentire, d'accordo? E' un fondo non tanto grande, ma per cominciare va bene. Ed è dall'altra parte della città, così l'Ersguterjunge non può fargli concorrenza,” spiegò, cercando i suoi occhi che continuavano a sfuggirgli. “E' bellissimo, Chaku. Davvero. Credo di essermi innamorato.”
Chakuza studiò i suoi occhi azzurri, diventati improvvisamente enormi, acquosi e pieni d'amore per quello che probabilmente era un mezzo magazzino sgangherato e venduto a due lire, che il suo ragazzo pensava di poter prendere e rimettere a nuovo da zero. L'ultima volta che Fler aveva trovato un posto per costruire il loro ristorante e Chakuza era andato a dargli un'occhiata, aveva scoperto che impianto elettrico e tubature andavano rifatte completamente e che tutti i lavori avrebbero portato via metà della cifra che avevano messo da parte per aprire. In pratica avrebbero avuto un locale a norma di legge, ma niente tavoli dentro, figurarsi cibo da servire. Il problema non era certo continuare a cercare, era dover sopportare lo sguardo deluso di Fler ogni volta che dovevano lasciare perdere per un motivo o per l'altro. Era per questo che non voleva fare le cose di fretta. Era difficile anche sostenere lo sguardo implorante che aveva davanti adesso, però. “E va bene,” sospirò. “Andiamo a vedere questo posto che hai trovato.”
Il sorriso che si aprì sulle labbra di Fler bastò a cancellare i dubbi di Chakuza, più che altro perché valeva la pena di doverlo consolare dopo se poteva vederlo così felice. “Promesso?” Chiese.
“Promesso.”
Erano le tre del mattino e non c'era un anima in giro. La strada era completamente vuota quando misero piede giù dal marciapiede, intenzionati ad attraversarla.
Chakuza non capì da dove fosse uscito il SUV, lo sentì soltanto sterzare oltre la curva. Il tipo alla guida andava troppo veloce, a fari spenti, sbandò contro una macchina parcheggiata e perse il controllo, venendo verso di loro. L'attimo dopo, Chakuza era di nuovo sul marciapiede. Fler no.

*


Chakuza aveva smesso di ragionare due giorni prima, quando il corpo di Fler era atterrato in mezzo alla strada, dopo un volo di almeno due metri. Adesso, tutto ciò a cui riusciva a pensare era il fatto che lo aveva afferrato per la tracolla, ma che non era servito a niente perché quella si era strappata e gli era rimasta tra le mani, mentre lui veniva colpito dall'auto. Se gli avesse afferrato il braccio, forse sarebbe andata diversamente. La corsa all'ospedale era stata inutile, gli infermieri non avevano accesso nemmeno la sirena, così Chakuza aveva capito e si era messo a piangere sull'ambulanza.
Due giorni dopo, alla veglia, ancora non lo credeva possibile. Si era svegliato quella mattina non con la speranza, ma con la convinzione, che si trattasse solo di un sogno. Aveva aperto gli occhi e aveva guardato il soffitto con un sospiro di sollievo, pensando “Mamma mia, che incubo.”
Poi si era voltato e l'altra metà del letto era ancora rifatta, il completo nero era appeso all'armadio e, per quanto si sforzasse di crederlo, non era quello del matrimonio di nessuno.
Il padre di Fler se n'era andato che lui era ancora piccolissimo e, a parte sua madre, non c'era nessun altro parente. Quella donna era così disperata che Chakuza si era offerto volentieri di occuparsi di tutto così da tener occupata la testa e non pensare.
Ora che tutto era stato organizzato, però, lui non aveva più niente da fare e si aggrappava ai dettagli – un fiore appassito da togliere, una piega da sistemare – per non dover ammettere che non c'era davvero più niente, che da domani sarebbe stato solo e avrebbe dovuto continuare a vivere senza di lui, che lo volesse o meno. La bara era semplice, nera e lucida. Chakuza l'aveva fatta foderare di viola, pensando che gli sarebbe piaciuto. Era ancora tutto così confuso e così poco credibile ai suoi occhi, che gli risultava difficile pensare che il corpo che ci vedeva disteso dentro fosse il vero Fler che fino a qualche giorno prima camminava sui muretti e lo pregava di aprire un ristorante con lui. La sua mente continuava a ripetergli che doveva trattarsi di un'incredibile somiglianza, d'altronde come poteva essere morto Fler, se lo sentiva ancora così prepotentemente accanto da provare il bisogno di voltarsi verso di lui ogni volta che vedeva qualcosa di interessante o aveva un commento da fare? Non era solo una sensazione, era il calore vago ma costante che aveva sentito quando Fler era in vita e gli stava vicino ma senza toccarlo. Quando si rendeva conto di essere solo, faceva quasi paura.
“Mi dispiace per la tua perdita.”
“Grazie,” Chakuza rispose meccanicamente, prima ancora di alzare la testa e ritrovarsi a fissare gli assurdi baffetti sulla faccia da topo del critico di Guten Appetit. “E lei cosa ci fa qui? Cioè, mi dispiace, non volevo essere maleducato. Intendevo, come faceva a sapere...”
“Ero là quando è successo,” rispose l'uomo, che stavolta indossava un completo elegante, con una giacca nera a tre quarti che lo rendeva una persona completamente diversa. “Il vino della casa mi aveva dato alla testa, così ho aspettato un po' in macchina che mi passasse e ho visto il SUV venirvi addosso. E' stata una vera disgrazia.”
Chakuza non poteva dire di ricordare i dettagli di quella sera, ma tra tutte le cose che lentamente cominciavano a tornargli in mente, quell'uomo non c'era. Aveva chiamato lui stesso l'ambulanza e fino al suo arrivo, non si era fatto vivo nessuno, nemmeno un'altra auto. Era rimasto solo con Fler e con il suo assassino, privo di sensi sul volante della sua auto. “Davvero?” Chiese. “E dov-”
“Il tipo doveva essere ubriaco per guidare a quel mondo,” continuò il critico, senza preoccuparsi di averlo appena interrotto. “Non si può stare tranquilli al giorno d'oggi.”
Chakuza lo guardò senza sapere che cosa dire. Avrebbe voluto stare da solo e forse aveva tutto il diritto di chiedergli di essere lasciato in pace, ma non lo fece. Tornò a guardare Fler dall'altra parte della stanza.
“Lo conoscevi bene?”
“E' il mio ragazzo,” rispose Chakuza.
L'uomo preferì non fargli notare l'errore. “E da quanto stavate insieme?”
“Tre anni e otto mesi. Senta, adesso io dovrei davvero...”
“Un attimo, Chakuza. Non avere fretta.”
Chakuza era assolutamente certo di non aver mai detto il suo nome a quell'uomo. Era vero che il ristorante in cui lavorava era famoso, e di sicuro un critico culinario era ben informato su chi, dietro le porte basculanti, gli preparava la cena che doveva giudicare, eppure sentiva che c'era qualcosa di strano. C'era un'ombra vagamente divertita e cospiratoria negli occhi dell'uomo quando lo guardò, come se sapesse che non avrebbe affatto dovuto conoscere quel nome e lo avesse usato di proposito. “Chi diavolo è lei?” Si ritrovò a chiedere il cuoco, senza nemmeno pensare a quanto potesse essere scortese.
“Quella che hai usato è una bella scelta di parole,” sorrise il critico, frugandosi nella giacca e nei pantaloni, come se non riuscisse a trovare qualcosa.
Chakuza aveva una strana sensazione, come se l'aria si fosse fatta più pesante, ma non irrespirabile; solo incredibilmente fisica. Quando si guardò intorno, vide che erano rimasti solo lui e quell'uomo, insieme al corpo immobile di Fler nella bara. La casa era avvolta nel silenzio. “Lei non è un critico culinario.”
Il tipo sollevò un sopracciglio. “Gran bell'intuito, tigre,” commentò ironico. “Ora, se riuscissi a capire dove ho messo...Odio questo vestito, ci sono troppe tasche.”
Chakuza non era mai stato un uomo che si faceva prendere dal panico, nemmeno nelle situazioni in cui in effetti ne avrebbe avuto ogni diritto. Non che fosse razionale, quanto piuttosto lento ad afferrare bene le cose, e in quel preciso istante la sua inabilità gli tornava utilissima. Invece di agitarsi, cercò di analizzare la situazione da un punto di vista logico, sebbene la logica non fosse esattamente il suo forte. La persona che aveva davanti lo seguiva da quando avevano chiuso il ristorante qualche giorno prima, aveva un viso triangolare, con il mento un po' appuntito e curiosi baffetti neri, lo sguardo di chi sapeva un sacco di cose e non voleva dirtele ed era vestito elegante, anche se l'abito non gli cadeva benissimo. In più non gli aveva ancora detto il suo nome e le stanze messe a disposizione dalle pompe funebri per la veglia erano sprofondate in un silenzio irreale e mortuario. Razionalmente sapeva che ciò non era possibile, eppure... “Lei è il diavolo?”
Quello alzò lo sguardo su di lui, continuando a frugare nella tasca dei pantaloni come se fosse senza fondo. “Eh? No, certo che no,” lo liquidò con una smorfia impietosita. “Mezz'ora a pensare e poi se ne viene fuori con una roba del genere, incredibile.”
Chakuza si chiese se dovesse offendersi; di sicuro il borbottio dell'uomo non gli piaceva. “Beh, allora me lo dica lei chi è!”
“Ci stavo arrivando! Se solo trovassi... oh! Eccolo,” esclamò, porgendogli un cartoncino, al centro del quale era stampata la stessa aletta rotonda che l'uomo portava anche al collo, e un enorme lettera E in una calligrafia squadratissima e angolosa. “Sono Ermes, Dio della parola – saltuariamente messaggero degli Dei. Ma se vuoi puoi chiamarmi Ekram, o Eko, come fanno tutti. Sapessi perché, poi.”
Gli tese anche la mano ma la ritrasse dopo dieci minuti, quando si rese conto che Chakuza non l'avrebbe mai stretta, impegnato com'era a fissare il suo biglietto da visita.
“E' inutile che lo fissi, sai? C'è scritto solo quello, volevo qualcosa di fine e sofisticato,” commentò Eko, stringendosi nelle spalle.”
Chakuza ancora non si capacitava, tant'è che rimase col biglietto in mano. “E per Ermes intendi quell'Ermes? Scarpe alate e tutto il resto?”
“Diciamo di sì, se questo può aiutarti nella comprensione. Ora...”
“Tu non esisti.”
Eko sospirò, grattandosi la testa. “Perché non riesco mai a saltare questa parte? Voi umani siete una tale noia a volte,” esclamò esasperato. “Dunque, vediamo di fartela breve. Gli uomini spiegano il mondo attraverso il mito. Ogni mito ha un fondo di verità. Quelli come me sono il fondo di verità. In pratica qualcuno di noi, in diversi momenti della vostra esistenza, è venuto da voi, come sto facendo io ora, e ha fatto in modo che parlaste di noi. Viviamo di pettegolezzi, più ne parlate meglio è. Ultimamente non andiamo tanto forte, però, ecco perché siamo rimasti in pochi.”
Chakuza aggrottò le sopracciglia e una ruga profonda gli si formò sulla fronte. “Quindi sei qui perché io parli di te? Vuoi che scriva qualcosa o roba simile.”
“No e, prima che tu me lo chieda, non voglio neanche che tu vada in giro a predicare la mia esistenza. Innanzi tutto perché è passato di moda, e poi perché non ho intenzione di gestire milioni di fan esaltati.”
Se Chakuza poteva essere più confuso, ora lo era. Iniziò a pensare che quella confezione di funghi trifolati che aveva ingurgitato di fretta, giusto per non girare a stomaco vuoto, forse era avariata. O magari non erano funghi normali. Nonostante questo, continuò a conversare con l'allucinazione. “E allora perché sei venuto? E che cos'hai fatto a tutta la gente che era qui?”
“Non gli ho fatto niente. Smettila di agitarti prima che un infarto si porti via anche te,” commentò Eko, senza scomporsi. “Ti ho isolato dal resto dei tuoi simili a livello spazio-temporale. Pensala un po' come se fosse un messaggio privato in chat.”
Chakuza non era tanto sicuro che la metafora informatica potesse aiutarlo nella comprensione, visti i suoi trascorsi di agonia e morte con tutti i suoi pc, ma preferì non chiedere delucidazioni per non peggiorare la situazione. “D'accordo, non sei qui per prendere la mia anima e non sei qui perché io faccia proseliti in tuo nome. Non prenderla nel verso sbagliato, sono molto onorato della tua visita, ma a meno che non stiamo andando verso una gravidanza divina, uno stupro che preferirei evitare o la consegna di tavole con su qualche ordine, potremmo sbrigarci? C'è la funzione, tra poco.”
“Tu sei veramente una persona odiosa,” esclamò l'altro, ma in un modo che lasciava intendere che questo non avrebbe in alcun modo compromesso la sua presenza in quel luogo. “Come tu sia potuto sopravvivere fino all'età che hai senza farti linciare da una folla di tuoi conoscenti armati di spranga io non lo so. Ha davvero del miracoloso. Comunque,” sospirò, sistemandosi il colletto della camicia, “sono qui per darti la possibilità di rimettere a posto le cose e annullare questo sfortunato incidente.”
“Non ti seguo.”
“Non mi stupisce,” disse Eko, comprensivo, annuendo con gli occhi socchiusi. “Quando il tuo ragazzo è morto, la sua anima è migrata in un luogo diverso da questo, che tu puoi chiamare come più ti aggrada ma che per una pura questione di gusto personale e di abitudine, io chiamerò Oltretomba, che per altro è un termine piuttosto chiaro e non lascia spazio ai dubbi. Io posso farti avere un appuntamento con Ade, che gestisce questo posto, così potrai avere la possibilità di convincerlo a farti ridare indietro l'anima di Fler.”
“Vuoi dire che non è veramente morto?”
Eko lo guardò intensamente per qualche secondo, stavolta davvero indeciso se continuare o meno a parlare con lui. In fondo morivano milioni di persone al giorno, avrebbe sicuramente trovato qualcun altro più sveglio a cui dare la stessa possibilità; ma aveva studiato i piani delle Parche per settimane prima di trovare la storia perfetta, non poteva davvero buttare all'aria tutto quanto adesso. Ci voleva solo un po' di pazienza con le forme di vita inferiori. “No, voglio dire che è morto ma che la sua anima non è svanita nel nulla in un baluginare di lucette e non è finita in un quadro, in una radio o in un qualsiasi oggetto che poi prenderà vita nei momenti meno opportuni. La sua anima si trova nell'Oltretomba e, oliando la persona giusta, può essere riportata indietro e reintrodotta nel suo corpo. A tal proposito, naturalmente, Fler non può essere seppellito e il suo cadavere va fatto sparire fino a che non avrai anche l'anima, ma di quello posso occuparmi io, senza problemi.”
Chakuza ebbe bisogno di pensarci su qualche istante. “E tu che cosa ci guadagni, esattamente? Non credo che questa sia la procedura per ogni persona che muore o avremmo i cimiteri vuoti.”
“Io,” rispose Eko, avvicinando il viso ad un mazzo di rosse ed osservandone curiosamente una a pochi centimetri di distanza, “per una volta ci guadagno che mi diverto. Hai una vaga idea di quanto possa essere noiosa la vita di un messaggero degli Dei nell'era di internet? Almeno, aiutandoti nella tua impresa, mi offri una distrazione.”
“E basta?” Chiese Chakuza, dubbioso. Aveva visto abbastanza film di questo tipo, in cui un'entità sovrannaturale aiutava un essere umano ad esaudire il suo più grande desiderio, per non sapere che c'era sempre l'inghippo da qualche parte. “Non è che alla fine mi chiederei l'anima o cose simili?”
Eko buttò gli occhi al cielo e sospirò, allontanandosi dal mazzo di rose che erano diventate di un blu elettrico quasi accecante. “Oh per la miseria, Chakuza! Qual è il tuo problema, si può sapere? Sei fissato con questa storia dell'anima. Che cosa dovrei farmene, metterla in un barattolino e usarla come soprammobile? Non commercio in anime, non mi sono mai piaciute. Gemono e si lamentano, non bevono, non mangiano e non fanno conversazione. Le cose peggiori con cui passare del tempo. E io ti ho detto che mi annoio! Voglio fare qualcosa, qualunque cosa! Ti è chiaro il concetto?”
Chakuza lo guardò con un sopracciglio sollevato. “Direi di sì.”
“Bene,” annuì deciso Eko. “E se proprio vuoi ripagarmi, mi farai di nuovo quella pasta così buona che ho mangiato al ristorante. Ora, se sei finalmente convinto, posso spiegarti cosa fare.”

*


A quanto pareva, questo fantomatico signore dell'Oltretomba viveva nel grattacielo in cui Chakuza lavorava ogni giorno. Aveva sempre pensato che il suo posto di lavoro fosse un inferno, ma la situazione stava seriamente degenerando. Per quanto ricordasse giornate in cui era convinto che metà dei suoi clienti fossero l'incarnazione del demonio, faticava a credere che l'intero edificio non fosse altro – per dirla con le parole di Eko - che la manifestazione fisica sulla Terra dell'Aldilà.
Chakuza fissava le porte girevoli e non riusciva ad oltrepassarle. Non era poi tanto sicuro di quello che stava facendo perché, nonostante tutto, aveva ancora la forte sensazione che Eko e quello che Eko aveva fatto e detto fossero solo una grave forma di allucinazione uditivo-visiva; forse avrebbe fatto meglio ad andare dal medico a farsi prescrivere delle pasticche, invece che trovarsi lì.
Eko aveva impiegato pochissimo a fargli avere un colloquio con Ade e gli aveva dato appuntamento all'ultimo piano del grattacielo ma, per quanto Chakuza ne sapesse, lassù c'erano soltanto gli uffici amministrativi e, in essi, il proprietario plurimiliardario di tutta la baracca.
Non aveva gran voglia di farsi licenziare sulla base di voci che aveva nella testa – e l'uomo lo avrebbe spedito a calci nel sedere fuori da una finestra non appena gli avrebbe detto che cos'era venuto a fare, questo era certo – ma alla fine si decise comunque ad entrare, perché Eko non gli aveva effettivamente dato la possibilità di rifiutare e soprattutto perché la mancanza di Fler era talmente forte e talmente dolorosa, che avrebbe fatto qualsiasi cosa – per quanto sciocca – pur di liberarsene.
Salutò il portiere che gli fece le sue condoglianze e quindi entrò nell'enorme ascensore di vetro al centro della hall, guardando con aria dubbiosa la tessera d'accesso di cui Eko lo aveva fornito, prima di strisciarla nel lettore e venir catapultato – letteralmente – sul pavimento mentre l'ascensore saliva ad una velocità inumana e il numero sul display aumentava, superando di gran lunga i cinquanta piani che avrebbero dovuto comporre il palazzo.
Fu un trillo e una voce suadente di donna che lo avvisarono che era arrivato. Aprì gli occhi con un po' di paura, convinto di trovarsi tra fiamme violente, abissi infiniti e qualsiasi altra cosa gli avesse mai mostrato l'iconografia dell'inferno, ma non c'era niente di tutto questo. Solo un bel corridoio con i muri bianchi e il pavimento di marmo, silenzioso ma ben illuminato, con due enormi e rigogliose piante in vaso a dargli il benvenuto.
Chakuza si guardò intorno circospetto, ma non c'era nessuno, così sospirò e si diresse nell'unica direzione possibile. Se non altro all'inferno non c'era possibilità di sbagliare ufficio; l'unica porta sul piano era proprio quella in fondo al corridoio e, dalla madreperla delle maniglie, Chakuza immaginò dovesse trattarsi di quella del grande capo. Percorse tutta la strada facendosi una paranoia dopo l'altra sul fatto di bussare o meno, oppure tornare al primo piano e farsi annunciare – anche se non sapeva a chi, visto che chiedere al portiere di chiamargli l'interno di Ade gli pareva fuori discussione – ma gli bastò avvicinarsi alla porta perché quella si aprisse sulla faccia perennemente inespressiva di Eko.
“Sei venuto,” commentò con un vago accenno di sorpresa. “Dal modo in cui hai passato l'ultima mezz'ora a fissare le porte girevoli, pensavo che saresti tornato a casa.”
“Mi stavi osservando?”
“Come sempre,” Eko scrollò le spalle e, di fronte alla sua occhiata allucinata, aggiunse “Te l'ho detto che mi annoio.”
Ermes, o Eko, o quello che era, lo condusse in silenzio per altre stanze arredate elegantemente, ma vuote e così fredde da sembrare abbandonate.
“Eccoci qua” annunciò alla fine, fermandosi di fronte ad una porta più grande delle altre e nera come la notte. Chakuza si perse soltanto un attimo ad osservare i volti mostruosi che vi erano incisi sopra: demoni caprini con lo sguardo furente e lingue di serpente che si attorcigliavano per ogni dove. Eko seguì il suo sguardo e sospirò. “Non fare caso alla porta, è un pezzo unico di un architetto completamente pazzo che va di moda in questo periodo. E' brutta come non so cosa e l'hanno pagata milioni, ma a Persefone piace quindi rimuoverla non è possibile, almeno fino a quando non s'innamorerà perdutamente di qualche altro oggetto discutibile e ci costringerà tutti ad adorarlo. Comunque sia, hai dieci minuti per entrare là dentro ed esporre il tuo problema. Cerca di essere breve, ma convincente. Ade è uno che non ama perdere tempo.”
Chakuza deglutì, perché le parole non erano esattamente il suo forte. Ricordava di averci messo quasi due ore a dire a Fler che gli piaceva, e alla fine era stato lui a baciarlo perché non ne poteva più di starlo a sentire mentre blaterava cose prive di senso su cuori che battevano e sensazioni mai provate prima. Se non fosse stato per Fler, probabilmente sarebbero stati ancora in piedi di fronte alla porta di casa sua a guardarsi negli occhi senza che succedesse assolutamente nulla.
“Posso farcela,” cercò di convincersi, mentre Eko apriva la porta per lui e gli faceva strada.
La stanza era gigantesca e dall'enorme vetrata che si ritrovò davanti non appena ebbe superato la soglia si aveva una vista bellissima di qualcosa che non sapeva cosa fosse, ma che di sicuro non era Berlino. Una distesa di nuvole bianche come panna si apriva davanti a lui e dovevano essere davvero molto in alto, perché si vedeva soltanto il cielo. Quando i suoi occhi si furono abituati alla luce splendente di quel paesaggio, si rese conto che dalle nubi cominciavano ad affiorare piccole casette bianche, fino ad un enorme tempio greco, in lontananza. Eko dovette prenderlo per un braccio e trascinarlo via per impedirgli di rimanere lì a fissare di fronte a sé a bocca aperta come un cretino. “Che cos'è?” Sussurrò, guardandosi di tanto in tanto indietro, mentre il messaggero degli Dei lo conduceva altrove, in fondo alla stanza.
“E' l'Olimpo,” sospirò Eko “Ma non abbiamo tempo per il giro turistico, magari un'altra volta.”
Chakuza avrebbe voluto chiedergli altri cinque minuti di quella visione, e magari aggrapparsi a qualcosa per non venir trascinato alla presenza del Signore degli Inferi, ma non ebbe il tempo di fare né l'una nell'altra cosa perché in realtà non andarono molto lontano e il Dio in questione era già lì, per altro seduto dietro un'enorme scrivania. “E' arrivato,” lo annunciò Eko, senza tante cerimonie e con la faccia annoiata di uno che troverebbe più divertente tagliarsi le vene, prima di lasciarlo lì dov'era e spostarsi da una parte.
Chakuza si era aspettato grandi vesti nere, serpenti sibilanti e occhi come braci roventi, ma venne puntualmente disilluso; stavolta da un uomo dalla pelle color caramello, un bel completo elegante di Armani e la barba fatta di fresco. Un uomo che, per altro, Chakuza conosceva bene perché il suo viso compariva sui cartelloni pubblicitari sparsi ovunque per la città, nei quali invitava la popolazione a farsi un giro al grattacielo. Ade era Bushido, il proprietario del palazzo. Si chiese se ci sarebbe mai stata fine alla follia oppure se era entrato in una spirale della quale non avrebbe mai visto la fine. E comunque, più andava avanti, più la storia dei funghi allucinogeni sembrava credibile.
Ade sollevò lo sguardo dallo schermo del portatile che aveva davanti e lo osservò attentamente con espressione indecifrabile. “E tu saresti?”
Chakuza lanciò un'occhiata a Eko che gli fece cenno di rispondere.
“Chakuza, signor Bushido...Ade,” rispose esitante. Poi gli venne in mente che in effetti quello non era proprio il suo nome, ma un soprannome che gli avevano affibbiato alle superiori, senza che riuscisse più a schiodarselo di dosso in nessun modo. “Ma forse mi conosce come Peter Pangerl, io gestisco il ristorante al quarto piano.”
Ade annuì, del tutto disinteressato, tornando immediatamente al suo portatile. “Qualunque sia il suo problema, signor Pangerl, io non posso aiutarla. Delle questioni amministrative dei negozi ai primi 25 piani se ne occupa Persefone, chieda un appuntamento alla sua segreteria,” lo liquidò. “Perché questo tipo è qui, Eko?”
Il messaggero si affrettò a raggiungere la scrivania. “E' il ragazzo del SUV,” spiegò in fretta. “L'incidente con il tipo ubriaco, te ne ho parlato ieri.”
Bushido smise di digitare e cercò di ricordarsi la questione in oggetto. “Ma non lo avevamo già registrato?” Chiese, voltandosi verso il collaboratore, con la fronte aggrottata.
“Questo è l'altro, Bu,” sospirò Eko, alzando gli occhi al cielo. “Quello vivo.”
Bushido ci mise qualche secondo, durante il quale annuì con aria poco convinta, prima di capire. “Oh, quindi tu sei qui per la supplica,” concluse alla fine, pienamente soddisfatto di aver finalmente compreso che cosa stessero a fare tutti e tre lì in quella stanza. Si appoggiò allo schienale della poltrona e intrecciò le dita delle mani. “Allora, che cosa ti serve esattamente?”
Chakuza lanciò un'altra occhiata ad Eko, solo per trovare il vuoto cosmico nei suoi occhi, così si schiarì la voce e si preparò a rispondere; avrebbe umilmente torturato il cappello tra le mani se non avesse avuto dei problemi irrisolti con la propria calvizie. Stava per aprire bocca quando la porta laterale si spalancò, riversando nella stanza un rumore secco di passi.
“Anis, ci sono di nuovo problemi con le consegne. Ho i demoni di metà gironi a letto con l'influenza. Sono sotto organico e i miei nuovi stagisti sono bloccati sulla riva dello Stige insieme ad altre 200.000 anime perché l'acqua si è abbassata di due centimetri e Ari non vuole rischiare la barca. Io ti giuro che questa volta lo licenzio e non m'importa che siate amici dai tempi della scuola. Chiaro?”
Chakuza osservò la persona che era appena entrata ondeggiando su un paio di alti stivali in pelle nera tacco 12 e la mascella gli si sganciò finendo per penzolargli inerme dalla bocca. Gli sembrò quasi di sentirne il rumore, soprattutto quando, nello stesso istante, la persona in questione si voltò verso di lui, come se lo vedesse per la prima volta. “Oh, salve,” mormorò, stirando appena le labbra in un sorriso gentile. “Tu devi essere il postulante delle undici.”
“Sì?” Chiese Chakuza, un po' perso negli occhi color ambra e nel viso perfetto della creatura che aveva davanti. “Cioè, sì, sono io. Naturalmente.”
“Persefone, ma puoi chiamarmi Bill,” disse, allungandogli una mano da stringere. Poi il suo viso si contrasse in un'espressione di cordoglio apparentemente molto sentito. “Mi dispiace molto per la tua perdita.”
“Grazie,” mormorò Chakuza, sempre più inebetito, mentre osservava Bill che tornava a voltarsi verso Bushido perdendo quell'espressione di compassione.
“Amore, hai sentito quello che ho appena detto?” Chiese.
Bushido socchiuse gli occhi soltanto per un istante, riaprendoli prima che il gesto sembrasse troppo infastidito e suscitasse le ire della sua dolce metà. “Sì, ti ho sentito. Cerca di riorganizzare i demoni meglio che puoi. In quanto ad Ari, lo chiamo appena ho finito qui, d'accordo?”
“Sei un tesoro” Bill fece un sospiro innamorato e poi si sedette con tranquillità sul bracciolo della sedia di Bushido. “Ma continuate pure, scusate se vi ho interrotto.”
“Stavi dicendo?” Lo incalzò Ade. “Se riuscissi a condensare la questione in due minuti, te ne sarei grato. Come hai potuto sentire, abbiamo un'epidemia non voluta in corso e, dal momento che qui la gente, come puoi immaginare, non può morire di nuovo estinguendo il virus, dobbiamo fermarla prima che finiamo tutti a letto malati per l'eternità. Vuoi continuare?”
Chakuza annuì, prima ancora di aver riordinato le idee. “Dunque, il mio fidanzato, è stato investito da un'auto qualche giorno fa e ha perso la vita,” deglutì a fatica perché quella era la prima volta che lo diceva sul serio, ad alta voce, consapevole di quello che stava dicendo e non preso nel delirio che era seguito alla morte e all'organizzazione per il funerale e la sepoltura. “Aveva un sacco di progetti ed era buono, molto più buono di me, non si meritava di morire. Io sono qui a chiederle di dargli una seconda possibilità.”
Bill si profuse subito in un uggiolio mesto e triste, mentre Bushido si schiariva la voce e spostava una costosissima penna stilografica, da un posto inutile all'altro, giusto per recuperare un tono che Bill gli toglieva stando appollaiato lì di fianco. “Capisco la tua situazione, Chakuza, e mi dispiace, dico davvero. La morte è una cosa dolorosa e nessuno al mondo lo sa meglio di me, visto che è da me che dipende, ma ci sono delle regole che devono essere rispettate per il bene dell'intero sistema.”
Fino a quel momento, Chakuza aveva pensato di stare sognando e che avrebbe provato a chiedere solo per il gusto di farlo, senza crederci davvero; d'altronde era impensabile che l'inferno si trovasse all'interno del grattacielo e che il proprietario fosse Ade. Quando però si sentì rispondere di no, la delusione fu talmente enorme e pesante da schiacciargli il cuore fino a ridurlo a pezzi. “E' morto per colpa di una persona che non avrebbe dovuto trovarsi al volante in quello stato, e che al momento è viva mentre lui no,” insistette, ora con rabbia invece che disperazione. “Per questa persona le sue regole non valgono?”
“Non è così che funziona, Chakuza,” mormorò Ade, con tono conciliante e quasi affettuoso. “Non è una questione di meriti, ma di destino. Le persone buone non vivono più di quelle cattive solo perché se lo meritano di più. Tutto dipende da com'è stato filato il filo della loro vita. Quello di alcuni è semplicemente più corto di quello degli altri e, per quanto questo faccia male, dobbiamo sopportarlo.”
“Se lei è Ade e il destino viene filato, allora ci sono anche tre Parche che decidono quando tagliare,” disse Chakuza, stringendo i pugni. Bushido guardò Eko che sollevò le mani come a dire che lui non c'entrava assolutamente niente. “Magari hanno sbagliato le misure, magari il filo doveva essere più lungo, magari...”
“Chakuza, vorrei davvero aiutarti,” lo interruppe Bushido, “ma se rimandassi indietro tutte le anime delle persone care che mi vengono richieste, questo posto sarebbe vuoto. Senza contare, naturalmente, che la vita non avrebbe alcun senso, avendo eliminato la morte, ti pare?”
Bill accarezzò il braccio di Ade, mordendosi un labbro, ma non disse niente, ed Eko si agitò sul posto, improvvisamente nervoso.
Sulla stanza calò un silenzio pesantissimo, a cui Bushido sapeva di dover rimediare di persona, dopo esserne stato la causa. “Posso fartelo vedere un'ultima volta, se vuoi,” disse, con una certa riluttanza e, quando l'altro sollevò di scatto la testa, con un'espressione tra la speranza e la sorpresa, aggiunse “ma devo avvertirti che lui potrebbe non riconoscerti e che sarà molto più doloroso quando dovrete separarvi.”
Chakuza sapeva di doverci pensare, di dover valutare i pro e i contro, sapeva anche che vederlo per un attimo avrebbe raddoppiato il dolore ancora non sopito di vederselo portare via così improvvisamente, ma nessuna ragione sembrava valida di fronte alla possibilità di rivedere il volto di Fler, anche per un istante, anche senza poterci parlare. “Voglio vederlo,” mormorò debolmente. “Posso vederlo?”
“Deve ancora attraversare il fiume,” intervenne Bill, intuendo la decisione del compagno. “L'ho visto stamattina.”
“Sarà molto solido, Chakuza,” lo avvisò Bushido. “Sembrerà in vita.”
“Non importa, voglio vederlo.”
Bushido chiuse gli occhi e li riaprì, l'aria ebbe un fremito impercettibile e poi si quietò subito. “Quando sei pronto, puoi girarti. E' dietro di te,” disse l'uomo.
Chakuza si voltò molto lentamente e non lo cercò con gli occhi, lasciò che la sua figura massiccia e un po' luminosa entrasse da sola nel suo campo visivo. “Fler...” mormorò.
L'anima rimase immobile e continuò a fissare dritto davanti a sé, come fosse ancora su quella riva dalla quale Bushido l'aveva richiamata. A guardarlo, sembrava che non fosse mai morto. Era solo un po' più brillante e la luce che risplendeva da dentro, gli illuminava la pelle rendendola ancora più bianca e più liscia di quanto non fosse mai stata.
Chakuza trattenne il respiro pur rendendosi conto che, anche se avesse urlato, lui non si sarebbe mosso. Lo guardò come quando, certe mattine, si svegliava prima di lui e lo osservava dormire. Sapeva che il tempo avrebbe messo le unghie sull'immagine che aveva di lui nella sua testa e l'avrebbe fatta a pezzi, anno dopo anno, finché sarebbero rimaste soltanto le foto a ricordargli le mille sfumature del suo sorriso, così pensò che se lo guardava abbastanza a lungo, se cercava di cogliere ogni dettaglio, anche quello più insignificante, e di marchiarlo a fuoco nella memoria, forse lo avrebbe ricordato sempre chiaramente anche dopo che se ne sarebbe andato di nuovo per sempre.
“Chakuza,” lo chiamò piano Bushido. “E' tempo.”
“Io e Fler stavamo insieme da tre anni e ci conoscevamo da molto di più,” disse Chakuza senza voltarsi e senza dare troppo ascolto al Dio degli Inferi. “Io non credo di poter vivere senza di lui.”
Alle sue spalle, sentì il gemito commosso e sospirante di Bill. “Oh Anis, tesoro,” mormorò “Non c'è proprio niente che possiamo fare?”
Bushido rimase in silenzio a lungo. “Come ho già detto, mi dispiace e sono davvero addolorato per questa situazione, ma una volta varcate le porte dell'Ade, tornare indietro destabilizza l'intera struttura infernale.”
Chakuza ebbe un sussulto. Allora è finita davvero, pensò. Se forse poteva convincere Ade a ridargli Fler, di certo non lo avrebbe mai convinto a distruggere il proprio regno per questo. Non c'era speranza.
Gli stivali di Bill tornarono a ticchettare sul pavimento, quando scese dal bracciolo della poltrona. “Ma Fler non ha ancora varcato la soglia,” esclamò, facendo voltare di scatto Chakuza ed emettere un suono frustrato a Bushido. “Se non attraversa il fiume, potrà tornare senza danni.”
“Le regole non lo permettono.”
“Sì, se lui lo accompagna fuori,” intervenne Eko, che fino a quel momento si era limitato a fissare apatico qualunque cosa stesse avvenendo di fronte ai suoi occhi rotondi. “In fondo, ci sono dei precedenti.”
Lanciò un'occhiata a Bill che s'illuminò con un sorriso e Bushido scosse la testa, sbuffando infastidito. “La nostra storia è completamente diversa.”
“Non poi così tanto,” insistette Eko. “In fondo si tratta solo di regole.”
“E tu puoi cambiarle,” esclamò Bill, “Soltanto un pochino.”
Eko si fece avanti, passando così vicino a Fler che Chakuza quasi chiuse gli occhi per non vedere la manica della sua giacca passargli attraverso e rivelare che, per quanto apparisse solido, in realtà era fatto di niente. “D'altronde non è che nel corso della storia tu non abbia mai fatto cose del genere, Bu,” commentò.
Bill prese il volto di Bushido tra le mani e lo costrinse a guardarlo. “Anis, ti prego, diamogli una possibilità. Si amano così tanto che se la meritano, no? Anche il Dio dell'Amore sarebbe contento. Sono sicuro che apprezzerebbe e vi aiuterebbe a diventare amici.”
“Bill, tuo fratello non sarebbe amico mio nemmeno se finalmente gli concedessi di passare il tempo con Cleopatra, come vorrebbe. Figuriamoci cosa gliene frega a lui se questi due stanno insieme oppure no.”
Bill abbassò pudico la testa e, giocando distrattamente con un piede sul marmo del pavimento, commentò: “Ma se esaudissi questo mio desiderio potrei tornare da lui solo tre mesi invece dei soliti sei.”
“D'accordo, va bene!” Esclamò l'uomo, esasperato, suscitando la prima risata di Eko in almeno due anni e il battere incontrollato delle mani di Bill. “Ma alle mie condizioni.”
Chakuza si fece avanti, guardandolo con tanta di quella speranza negli occhi, che Bushido se ne sentì quasi travolgere e fu un fastidio fisico, come il tocco di qualcosa di velenoso. “Potrai portare Fler fuori di qui, a patto che, una volta uscito da quella porta, tu percorra tutta la strada a ritroso, senza mai voltarti indietro a guardarlo,” spiegò Bushido. “Sta' ben attento a quello che ti dico. Non potrai posare gli occhi su di lui nemmeno una volta, nemmeno per poco, finché entrambi non sarete usciti alla luce del sole. Se lo farai, Fler tornerà a me per sempre.”
Chakuza non aveva alcun motivo per starci a pensare e, anche se lo avesse fatto per giungere alla conclusione di accettare, di certo non avrebbe afferrato la difficoltà del compito che gli veniva assegnato, o il rischio che avrebbe corso a buttare anche solo un'occhiata. “D'accordo,” annunciò.
“Eko, accompagnalo,” ordinò Bill e, quando Bushido lo guardò con l'aria di non essere esattamente d'accordo con lui, aggiunse: “Riporterà indietro Fler nel caso Chakuza dovesse fallire ed eviterà qualunque tipo di problema possa presentarsi.”
Eko chiese conferma al Dio degli Inferi e quello finì per acconsentire.

*


Il suono della voce di Fler arrivò quasi contemporaneamente al chiudersi della porta.
Chakuza sentì il tonfo sordo e pneumatico e subito dopo Fler che lo chiamava. Non aveva visto che la sua forma si era fatta più definitiva e meno luminosa, che i suoi occhi s'erano schiariti fino a perdere l'apatia e la confusione che vi avevano dimorato fino ad un attimo prima. Adesso non era più sulle rive dello Stige ad aspettare un passaggio che non arrivava, era in quel corridoio, consapevole di trovarsi lì, ma non di essere morto e del tutto ignaro del perché Chakuza gli camminasse davanti, in silenzio, e non si voltasse quando lui lo chiamava. “Chaku, guardami per favore,” disse mentre scendevano le scale dell'ultimo piano. Il cuoco aveva sperato di ridurre quella pena con un viaggio in ascensore, ma sarebbe stato ovviamente troppo facile. Eko lo aveva subito avvisato che quello non avrebbe funzionato e, difatti, quando c'era arrivato davanti, la pulsantiera era spenta e l'apparecchio ricoperto di ragnatele e grigio come se non fosse in funzione da secoli quando, invece, lo aveva usato nemmeno mezz'ora prima. “Chaku perché non vuoi girarti?” Insistette Fler, la cui voce andava facendosi sempre più disperata man mano che scendevano, in un modo in cui non lo aveva mai fatto prima di allora. Fler era quasi sempre felice e, quando capitava che non lo fosse, difficilmente era così disperato. Il suo modo di reagire al dolore era sempre positivo, sentirlo così distrutto gli spezzava il cuore.
Strinse i pugni e i denti e si ricordò che non poteva rispondergli. Eko gli aveva suggerito di non farlo perché parlarci lo avrebbe più facilmente portato a voltarsi, e quella era una cosa che non voleva fare.
“Siamo al quarantesimo,” annunciò Eko, che avrebbe dovuto essere lì per Fler, ma in realtà camminava al suo fianco, seppur con aria disinteressata.
“Peter, ti prego,” Fler non smetteva mai di chiamarlo o di cercare di attirare la sua attenzione, ma non aumentava il passo per raggiungerlo né cercava di avvicinarlo. E questo era ancora peggio perché, dopo altri dieci piani in cui non aveva fatto altro che chiamarlo e chiedergli perché non volesse parlare con lui, Chakuza aveva cominciato a provare il bisogno di dargli retta. E, se lui non poteva farlo, cominciava a sperare che almeno Fler allungasse una mano, gli tirasse la maglia e lo costringesse a voltarsi. Sarebbe stato tragico ma forse, quando lo avrebbe guardato per l'ultima volta, la sua voce avrebbe perso tutto quel dolore che in questo momento lo tormentava in maniera così profonda.
“E poi dove stiamo andando?” Chiese Fler. “Che posto è questo? Che cos'è successo?”
Chakuza si chiese se, una volta fuori, l'altro si sarebbe ricordato dell'incidente, della morte, dell'Inferno e di tutto ciò che stava avvenendo in quel momento o se si sarebbe risvegliato da qualche parte, senza la minima idea di cosa avesse passato.
Tutte le domande, comunque, rimasero prive di risposta. La loro eco proseguì per qualche istante lungo le pareti dei corridoi vuoti e poi si spense, lasciandoli nel silenzio, fino al lamento successivo di Fler.
“Ancora venti,” annunciò Eko, che teneva la testa ben sollevata e vigile, a differenza di Chakuza che si guardava le scarpe nel vano tentativo di trovarle più interessanti di qualunque altra cosa. Nemmeno l'Olimpo fuori dalle finestre sembrava incuriosirlo.
“Perché non si sentono le urla dei dannati?” Chiese dopo un po' che camminavano in silenzio e perfino i richiami di Fler si erano fatti più deboli.
Eko sospirò. “Perché non ti chiami Dante e io non sono Virgilio,” rispose subito, intuendo l'immagine che il cuoco doveva avere in mente. “E' vero che ci sono i gironi, lo Stige e Caronte ma abbiamo anche delle mura insonorizzate. Persefone ci farebbe uscire tutti quanti di cervello se le anime si sentissero fin qui, ti pare?”
Al decimo piano, Chakuza si sentì libero di ricominciare a respirare. Non completamente, forse, soltanto un po', ma abbastanza da non sentire più quella presa alla gola, come se una mano gelida avesse tentato di strangolarlo lungo tutta la strada. Ancora poche rampe di scale e avrebbero rivisto la luce del sole, Fler sarebbe tornato in vita e avrebbero potuto riabbracciarsi di nuovo. L'incidente e la bara sarebbero stati soltanto un ricordo lontano, forse perfino soltanto suo.
Quando misero piede nell'atrio, quello era vuoto come tutti i piani che avevano appena oltrepassato. Non c'era nemmeno il portiere che aveva salutato entrando, quindi si chiese se fossero davvero nel mondo reale o se, uscendo da quelle porte girevoli, avrebbe trovato nuvole e case – o fiamme e crateri – e in realtà Ade non avesse mai pensato davvero di lasciarli uscire.
Il sole, però, filtrava attraverso le finestre, ed era così bello e chiaro in confronto al buio da cui proveniva, che Chakuza si sentì subito meglio. “Ci siamo quasi, Fler,” ebbe il coraggio di dirgli. “Ancora qualche passo e potremo tornarcene a casa.”
Fu allora che si accorse che l'eco dei passi che sentiva adesso era solo la sua. Eko li aveva seguiti sempre aleggiando a qualche centimetro da terra, così il rimbombo gemello del loro camminare era stato un rumore continuo fino a... Chakuza non ricordava. Forse nell'atrio, o forse anche prima.
Il panico che lo assalì prese di nuovo la forma della mano gelida, ma stavolta la stretta fu più forte e più violenta, quasi uno strattone che lo portò a voltarsi senza pensare a niente. Sentì il grido di Eko ma era già tardi, quando posò gli occhi su Fler, la sua immagine tornò a vacillare, come quella di un televisore mal sintonizzato. Nell'avvicinarsi all'uscita, Fler si era fatto più vivo e, sebbene non ricordasse gli eventi che lo avevano portato fin lì, cominciava a sentire quell'eco di dolore che era il ricordo della botta datagli dal SUV, e si era attardato qualche metro più indietro a massaggiarsi la spalla e il fianco.
Quando i loro occhi si incontrarono, tutto fu improvvisamente chiaro anche per lui e in quell'unico terrificante istante, anche lui capì che cosa sarebbe successo. “Peter!” Gridò disperato, tendendo la mano che diventava sempre più bluastra, trasparente e luminosa.
Chakuza tornò indietro correndo e si gettò a terra con lui, stringendolo forte contro il proprio corpo, come se dandogli qualcosa a cui aggrapparsi potesse impedirgli di sprofondare. “Tieniti a me!” Gli mormorò sulla pelle. “Non ti lascio, Fler! Non vai da nessuna parte.”
Lanciò un'occhiata disperata ad Eko, che aveva gli occhi sgranati e una smorfia di dispiacere a piegargli le labbra. Si guardò intorno allarmato e poi guardò l'orologio rotondo sul muro sopra di loro, che segnava orari impossibili e andava all'indietro velocemente, riavvolgendo il tempo che per tutti quei piani era stato concesso loro. Deglutì e chiuse gli occhi. “Portalo fuori,” ordinò seccamente.
“Cosa?” Chiese Chakuza. “Sta svanendo.”
“Se esce di qui prima che sia scomparso del tutto, si salverà,” gli disse Eko.
Chakuza osservò Fler che digrignava i denti, forse per il dolore, o forse perché di lui non era rimasta che un'ombra pallidissima, attraverso la quale riusciva a vedere il pavimento.
Eko ruggì e li tirò su entrambi per gli avambracci. “Muovetevi!” Abbaiò. “Fuori di qui, ora!”
Chakuza strinse forte la mano di Fler e si mise a correre, senza voltarsi indietro come avrebbe dovuto fare fin dall'inizio, infilò la porta girevole e quando il sole gli accarezzò il viso, sentì le dita dell'altro stringersi fortissimo intorno alla propria mano, solide e concrete. Sorrise.

*


Il ticchettio dei passi lo costrinse a rannicchiarsi ancora di più. Mai come in quel momento avrebbe desiderato avere il potere di teletrasportarsi altrove, come tutti gli altri Dei; ma Zeus sosteneva che per lui era inutile, visto che poteva svolazzare dove voleva a velocità supersoniche. Peccato che, in questo caso, non potesse andarsene volando senza essere intercettato.
“Eko, vieni fuori, tanto lo so che sei lì. Le alucce delle tue scarpe da ginnastica fanno rumore.”
Eko imprecò sottovoce, alzando gli occhi al cielo e stringendo le ali tra le mani, senza pensare che questo le avrebbe fatte fermare. Perse stabilità fino ad appallottolarsi e quando la porta dell'armadio fu aperta, lui ne uscì arrotolato su se stesso.
Si disincastrò a fatica, accompagnato dal fremere indispettito delle sue alucce e sorrise incerto e impaurito, di fronte alla figura sinuosa di una donna. “Atropo!” Esclamò, fingendosi sorpreso. “Che bello vederti!”
“Non usare il mio vero nome, quello è per chi se lo merita. Per te andrà benissimo Valezka,” sibilò lei, incrociando le braccia al petto e guardandolo malissimo. Al suo fianco, il chihuahua isterico di Persefone ringhiava ininterrottamente da quasi due minuti, scuotendosi tutto nel suo cappottino rosa di chiffon.
“Come mai da queste parti? Portavi Cerbero a fare i bisogni?” Tentò, con un altro sorriso ebete.
Lei non cambiò espressione. Il suo bel volto era teso e gli occhi scuri così profondi che Eko poteva perdercisi dentro per un motivo molto diverso dal solito. “Sai benissimo perché sono qui,” disse. “Rivoglio il mio libro.”
“Quale libro, tesoro? Non ho nessun libro,” Eko cominciò lentamente ad arretrare.
“Il mio libro dei morti,” sibilò lei, avanzando. “Quello su cui sono scritti i destini che Lachesi decide per i mortali. Tu sei entrato nel nostro studio e mi hai distratta per sottrarmelo!”
Eko avrebbe voluto dirle che, in realtà, era entrato nel loro studio col fine ultimo di limonarla come al solito a due passi dall'arcolaio di Cloto; l'idea di rubare il libro dei morti per pasticciare con qualche anima era venuta dopo, ed era stata così allettante che non aveva saputo trattenersi. Quindi in sostanza, non l'aveva distratta per prendersi il libro. Era stato il libro che aveva distratto lui dal limonarsela. Forse non era meno grave, ma per lo meno gli spettavano delle attenuanti.
“Allora?” Lo incalzò Valezka, tendendo la mano.
Eko ridacchiava nervosamente, sudando freddo. Strisciò sul pavimento ancora per qualche metro, con gli occhi della sua ragazza e del piccolo cane sempre puntati addosso. “Ma tesoro, come ti viene in mente che potrei averlo preso io?”
“Perché solo tu sei entrato in quello studio,” rispose lei. “E poi sei stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza, quindi piantala con le idiozie.”
Eko maledisse mentalmente quei marchingegni elettronici. La sua vita di spensierato ladruncolo era molto più facile quando il mondo era giovane e nessuno ti puntava addosso occhi meccanici mentre tentavi di fregargli qualche oggettino prezioso. “Vale, non ti arrabbiare,” cercò di blandirla. “Non volevo fare niente di male.”
“Rubare documenti secretati per cambiare i destini degli esseri umani è un reato punibile con l'espulsione dall'Olimpo, Ermes,” gli fecce notare lei.
Eko incassò le spalle. “In realtà io non ho fatto niente del genere,” si difese. “Ho solo suggerito al ragazzo che c'era la possibilità di conferire con Ade. Tutto il resto è avvenuto al di fuori del mio controllo. E' stata Persefone a proporre per prima di rispedire l'anima a casa, non io.”
Le labbra di Valezka non si aprirono in un sorriso di fronte all'abile mossa con cui si era tratto d'impaccio, anzi si tesero ancora di più. “Sai una cosa? Non m'importa con quale atroce sofferenza finirai per essere punito, io rivoglio solo il mio libro.”
Eko ci provò di nuovo, d'altronde negare anche l'evidenza era la prima regola per sopravvivere. “Te l'ho già detto, tesoro, io non--”
“Me lo ridai o devo dire a Cerbero di attaccare?”
Il cagnolino abbaiò furiosamente ed Eko deglutì, consapevole che quell'esserino malefico e microscopico era stato addestrato a mordere con violenza i gioielli di famiglia. Non c'era bisogno che a fare la guardia alle porte infernali fosse un dobermann a tre teste grosso come un toro, quando avevi un cane in grado di mettere in ginocchio un uomo di centottanta chili con un morso solo.
Persefone aveva battuto i piedi per averlo e adesso non c'era niente che amasse e viziasse di più in tutto l'universo, fatta esclusione per Bushido, naturalmente. Cerbero aveva una stanza del palazzo tutta per sé, e anche un cuoco personale, un massaggiatore, una cameriera che lo faceva giocare quando si annoiava e, nei momenti in cui alla sua padrona sembrava depresso, perfino uno psicologo che lo ascoltasse. Invece Eko, che era un Dio e nemmeno uno di quelli minori, doveva annoiarsi a morte perché non aveva assolutamente niente da fare e seguire il suggerimento di Ade di trovarsi un hobby per passare il tempo senza appestarli tutti con le sue lagne – parole sue – non stava avendo i risultati sperati. Francobolli, monete e giardinaggio si erano rivelati quasi più noiosi che passare le ore a fissare il cielo immutabile dell'Olimpo fuori dalla finestra.
“No, non farlo attaccare” mormorò alla fine, decidendo che nemmeno un morso letale alle parti basse sarebbe stato divertente. Estrasse il piccolo libro dalla tasca interna della giacca e lo porse alla seconda delle Parche. “Eccolo qua.”
Valezka glielo strappò di mano e ci sbirciò dentro per controllare che fosse tutto a posto. “Sappi che se mi fai un altro scherzo del genere, troverò quel filo di pessima lana che ti tiene insieme la vita e riuscirò a tagliarlo anche se sei immortale. Ci siamo intesi?”
Eko annuì velocemente, terrorizzato.
“Bene. Ora fossi in te comincerei a mettere in moto il cervello, perché Ade è furioso ed è appena uscito a cercarti. Vedi di trovare il modo di placarlo, è tutta la mattina che fa piovere e io devo andare dal parrucchiere; i miei capelli non devono rovinarsi, altrimenti ci penserò io ad ammazzarti, se non l'avrà già fatto lui.”
Cerbero sbuffò, come a sottolineare il concetto, poi entrambi si allontanarono. Eko li seguì con lo sguardo e non si alzò da terra finché non fu certo che non sarebbero tornati indietro.
Pensò che poteva passare da casa a prendere due cose e poi andare a chiedere asilo ad un'altra religione, ma non ce ne fu il tempo; da qualche parte, appena un piano sopra di lui, Bushido stava chiamano il suo nome e il tuono della sua voce non prometteva niente di buono.
Personaggi: Bill, Bushido, Chakuza, Fler, David, Tom, Georg, Gustav, Sido
Genere: Fantasy, Romantico, Avventura, Drammatico, Humor
Avvisi: Slash
Rating: PG 15
Prompt: Scritta per la seconda edizione del Big Bang Italia
Gift: Lisachan ha creato la cover, il banner e le fan art che si trovano all'interno della storia, e io la amo per questo.
Note: La verità è che l'intera storia è stata scritta per poter utilizzare la parola doppelgänger nello schema. Difatti l'ho fatto due volte.
Scherzi a parte, ho impiegato un'eternità a finirla - e per questo non ho la minima idea di cosa ne abbia scatenato la trama - ma ne sono molto orgogliosa perché è lunghissima e mi piace, due caratteristiche che non vanno quasi mai d'accordo. Quello di questa storia è, credo, il miglior Bill Kaulitz che io abbia mai descritto e prende il nome di Cioèmatiprego!Bill, godetevelo. In quanto all'ambientazione, essa si presta ad essere usata ancora; chissà, magari per il prossimo BBI ;)

Riassunto: Bill si risveglia in una sorta di universo parallelo e futuristico in cui Berlino non è una città ma un insieme di ghetti rivali in guerra da un secolo. Condotto al palazzo presidenziale di Tempelhof scoprirà che tutti i suoi abitanti sono doppelgänger di persone che conosce. Tranne se stesso.

MISPLACED


La prima cosa che Bill vide, quando si svegliò, fu la città sopraelevata e le alte torri di una cattedrale che si stagliavano all'orizzonte appena oltre il nodo confuso dei sovrappassi elevati.
Chiuse gli occhi e subito dopo li riaprì di nuovo ma scoprì che ogni cosa era esattamente uguale a prima. Le stesse due torri, gli stessi palazzi, le stesse strade serpeggianti a mezz'aria. A qualche chilometro da lui, un gigantesco orologio segnava l'ora in maniera alquanto strana; quattro lancette percorrevano a velocità diverse un immenso quadrante, scandendo il tempo con rintocchi cupi e spettrali. Auto volanti, come grossi calabroni, infestavano il cielo con un ronzio continuo e fastidioso.
Bill era sicuro di essersi addormentato nella cuccetta del tourbus solo qualche minuto prima, come Alice sotto l'albero del giardino della zia, ma era palese che quella non fosse la tana del Bianconiglio. Evidentemente se eri una ragazzina bionda con un bel vestitino azzurro finivi a giocare a criquet con mazze fatte di fenicotteri vivi insieme alla Regina di Cuori; se invece eri un giovane tedesco in viaggio tra Roma e Berlino, tutto ciò che ti toccava era una città futuristica probabilmente in guerra.
Prima ci furono i sibili potenti appena sopra la sua testa e poi le esplosioni ovunque sotto di lui. Bill si trovava su una delle strade che collegavano un palazzo all'altro. Da quell'altezza la città era una distesa di luci intermittenti. Le costruzioni si estendevano per centinaia di metri da terra, anche se non poteva vederne le basi dal momento che ogni cosa spariva in una nube nera di smog. Un nuovo, tremendo sibilo scosse l'aria e poi una costruzione a non più di un centinaio di metri da lui si sgretolò, finendo praticamente in polvere.
Il contraccolpo dell'esplosione fece tremare il percorso di cemento sotto ai suoi piedi, costringendolo ad aggrapparsi forte alla balaustra. Altri sibili, altre esplosioni.
Bill non aveva idea di dove fosse finito, e soprattutto di come avesse fatto ad arrivarci. Secondo ogni logica plausibile, quello avrebbe dovuto essere un sogno ma tutto era inquietantemente reale. Non c'era quella sensazione di confusione, come nebbia agli angoli della sua visuale. Non c'era il susseguirsi casuale di eventi uno dietro l'altro. Per qualche strano motivo sapeva di trovarsi dentro qualcosa di reale, così come - al contrario - talvolta si rendeva conto senza ombra di dubbio di trovarsi in un sogno.
La qual cosa, in effetti, avrebbe potuto essa stessa essere caratteristica indicativa di un sogno particolare, e diverso da quelli che di solito faceva. Eppure non lo era.
E in ogni caso c'era poco da vagheggiare, soprattutto non a chissà quanti chilometri da terra, con una guerra in corso. Decise di dirigersi nella direzione da cui provenivano le bombe, se doveva tirare a caso, tanto valeva non sostare nella zona a cui stavano mirando. La strada si snodava in due curve per poi scendere per obliquo, due piani più sotto.
Quando discese, notò che il percorso piegava intorno ad un palazzo e si diresse di corsa in quella direzione, sperando da lì di poter entrare da qualche parte.
Quando svoltò l'angolo, però, fu investito da un vociare indistinto. Cinque persone in divisa - nera e lucida, come certi film di fantascienza che aveva visto e che erano benedetti da un costumista con un po' di stile - ne inseguivano altre due, che sembravano vestite di stracci.
E lui era sulla traiettoria, ovviamente. "Togliti di là!" Gli gridò uno dei due, che era piccolo e biondo, con i capelli corti.
"Levati di mezzo!" Gridò anche l'altro, dopo essersi guardato alle spalle.
Bill sgranò gli occhi, mentre i due quasi lo travolgevano. "Gustav? Georg?"



La sequenza di eventi fu rocambolesca, ma finì con lui, Georg e Gustav in fondo ad una specie di scivolo fangoso, lungo il quale caddero per un fantastiglione di metri. Quella poteva anche essere la tana di un coniglio, ma sul fondo del pozzo non trovarono altro che immondizia. E Bill era molto, molto arrabbiato.
"Okay, io credo che uno di voi due mi debba una spiegazione," sbraitò isterico, visto che dopo un po' di fanghiglia non era già più se stesso. "Anzi, facciamo che me la dovete tutti e due."
I due ragazzi erano ancora in terra, intenti a recuperare le proprie ossa, mentre lui si era sollevato con la forza della diva oltraggiata, pronto con la sua anca sbilenca a dirne quattro al suo bassista e al suo batterista.
"Senti, io non so chi tu sia..." cominciò quello biondo, spolverandosi i pantaloni lisi il cui colore era assolutamente indecifrabile. "Ma di certo non ti devo nessuna spiegazione."
"Per gli Dei Riuniti, che cavolo hai nel cervello, melma? Stare là nel mezzo come un cretino mentre le truppe di West Berlin tentano di farci la pelle."
Bill serrò la mascella. "Io non so neanche di cosa stai parlando, Georg!"
"Come diavolo li sai i nostri nomi tu?"
"Mi prendete in giro?" Chiese. "Suoniamo insieme da sei anni!"
I due sollevarono in sincrono un sopracciglio. "E che cosa di grazia?"
"Tu il basso e lu la batteria," replicò Bill.
"Ma se Georg non saprebbe suonare nemmeno il campanello di casa?"
Bill sbuffò, sollevandosi la frangia di capelli scuri. Mise una mano sul fianco e agitò l'altra in aria. "Sentite, qualunque cosa sia successa non posso essere finito qui da solo."
"No, infatti ci siamo caduti tutti e tre, perché qualcuno ha le caviglie deboli e ci ha tirati dentro un tombino!"
Bill divenne rosso. "Io non ho le caviglie deboli," balbettò. "E comunque non è questo il punto. Il punto è che io non so dove mi trovo e anche se voi due non mi riconoscete - cosa che trovo alquanto maleducata da parte vostra - so che siete Georg e Gustav. E sto palesemente uscendo di testa perché stiamo parlando sul fondo di non so cosa, ricoperti di fango."
Il ragazzo chiamato Georg sembrò trovare quel teatrino piuttosto divertente. "Sei davvero suonato!" Commentò con una risatina. "Comunque queste sono le fogne di Berlino. Benvenuto nel posto più sporco del mondo. Ora muoviamoci, prima che arrivino i topi."
"Topi?"

*


Bill non sapeva esattamente per quale motivo si fosse messo in testa di seguirli ma non doveva sforzarsi neanche troppo per trovarne almeno due. Tanto per cominciare, non aveva idea di come fare ad uscire dalle fogne, dal momento che risalire dal tombino nel quale erano caduti era impossibile; e quei due sembravano sapere la strada verso l'uscita.
Secondo, per quanto si ostinassero a comportarsi da perfetti sconosciuti, quei due avevano almeno la faccia di Gustav e Georg e al momento questo gli bastava: erano la prima cosa che suonasse familiare nei dintorni.
"Quanto manca?" Chiese, appoggiando una mano alla parete scivolosa per aiutarsi a scavalcare l'ennesima tubatura fatiscente.
"Non molto," rispose Gustav, che apriva la fila. "Siamo quasi fuori dal centro."
Bill annuì. "Bene, non ne posso più di questo fango."
Georg ridacchiò. "Fuori non è molto meglio," disse. "Casa nostra è proprio sul confine del Ghetto, terra di nessuno praticamente."
"Il governo dovrebbe fare qualcosa," asserì saggiamente Bill, tanto per darsi un tono nella conversazione. La politica non gli era mai piaciuta ma pensava che certamente un intervento governativo fosse sempre auspicabile in una situazione di degrado. Almeno così gli sembrava di aver sentito dire ad Anis, una volta. Anche lui quando parlava della periferia di Berlino diceva sempre che era colpa del governo che lasciava gli immigrati a loro stessi.
Gustav sbuffò una risata di scherno, mentre svoltavano ancora. "Il governo ha già fatto abbastanza, grazie," commentò, agitando una mano.
"perché?" Chiese Bill.
Georg gli lanciò di nuovo un'occhiata stupita. "Ma allora davvero non sai niente!"
"No! Te l'ho detto che non so come ci sono arrivato qui. Non so nemmeno dov'è qui!".
Gustav li condusse tutti lungo una scala di metallo a pioli e con una spallata aprì la botola che c'era sul soffitto. Una luce grigia e polverosa filtrò fino all'interno, costringendoli a chiudere gli occhi. "Questa, caro il mio svampito, è Berlino," rispose.
Quando Bill si issò all'esterno, il paesaggio che lo accolse era vagamente diverso da quello che si era ritrovato intorno arrivando lì. Le strade sopraelevate, gli altissimi palazzi e le macchine volanti c'erano ancora, ma erano molto più in alto. O meglio, erano loro tre ad essere molto più basso. "Questa non può essere Berlino," commentò, guardandosi intorno. La zona era di uno squallore deprimente. I pochi palazzi, bassissimi e fatiscenti, erano grigi o bianchicci, provvisti di piccoli giardini altrettanto grigi pieni di vecchi oggetti inutilizzati e scheletri di biciclette senza le ruote. "Io vengo da Berlino e non è di certo così."
Gutav si strinse nelle spalle. "Non so cosa dirti."
"Non ci sono macchine volanti da dove provengo io!" Protestò Bill, rincorrendo i due ragazzi che si erano già incamminati.
"E' un posto ben strano questa tua Berlino, allora." Commentò Georg.
Gustav, intanto, stava scrutando il cielo, con l'orecchio teso, pronto a captare qualunque minimo suono. Bill lo notò e si mise ad imitarlo. "Le esplosioni sono cessate."
Il biondo fece un cenno impercettibile, gli lanciò un'occhiata dubbiosa che Bill non colse.
"Non durano mai più di mezz'ora," lo informò Georg. "E' l'unica benedizione per noialtri dei livelli inferiori."
"Come fanno sempre a durare allo stesso modo?"
"Sono i mortai," spiegò Georg. "Vanno ricaricati ogni trenta minuti circa. E ci voglio ore. Quindi una volta che iniziano i bombardamenti sappiamo esattamente quando finiranno. E' una magra consolazione, ma ci permette di evitare i pericoli più grandi."
Si avviarono lungo un vicolo completamente deserto. La cosa che colpì Bill più di ogni altra fu il silenzio, come se nelle case intorno non abitasse nessuno. "Dove sono tutti?"
"Dentro le case, ben rintanati come topi," rispose Gustav, calciando un sasso. "Hanno paura. Ad ogni modo, che cosa intendi fare?"
Bill si strinse nelle spalle. "Non ne ho idea," ammise sconcertato. E all'improvviso si rese conto di trovarsi in un posto sconosciuto, per un motivo sconosciuto e, date le esplosioni di prima, anche potenzialmente mortale.
Prima che potesse farsi prendere dal panico, però, Gustav venne in suo soccorso. "Puoi stare da noi per un po', almeno finché non ci capisci qualcosa."
"Viviamo in un buco," annuì Georg. "Ma di questi tempi è più che abbastanza."
Bill sorrise.

*


La casa di Gustav e Georg non era davvero una casa ma era decisamente spaziosa per due persone. I due vivevano nella soffitta di uno stabile abbandonato, appena sopra una macelleria che sembrava passarsela ancora peggio di loro.
Dal pavimento al soffitto non c'erano più di tre metri, parte dei quali occupati dalla struttura triangolare di travi che reggeva il soffitto. L'unico enorme spazio era diviso solo in parte da una tenda, che delimitava la zona del bagno, il resto era un po' messo dove capitava: compresi i due letti singoli da una parte e una specie di piccolo fornello da campo dalla parte opposta. "Puoi farti una doccia se vuoi," lo informò Georg, indicando la tenda lercia a fiorelloni.
Bill si chiese come potesse esserci una doccia in quel posto e la sua domanda dovette comparirgli ben chiara sul viso, perché l'altro ragazzo sorrise: "Gustav ha deviato parte della grondaia e ha costruito un serbatoio per l'acqua piovana con un bidone sul tetto. Un lavoro di fino, davvero," spiegò. "E i tubi di alimentazione delle ventole dissipa-smog passano proprio qui di fianco. E' bastato deviare anche quelli per avere l'acqua calda."
"E hai fatto tutto da solo?" Commentò sconvolto Bill.
Gustav si strinse nelle spalle, mentre Georg gli dava un'amichevole pacca sulla schiena. "E' un piccolo genio, il mio amico."
Bill sorrise, quindi prese gli asciugamani puliti che Gustav gli porgeva, ed entrò in quel surrogato di bagno, sorprendendosi di trovarlo assurdamente pulito per il luogo che era. C'era davvero uno spazio per farsi la doccia, con lo scarico che gettava acqua direttamente dalla finestra. E c'era anche un water.
Cercò di lavarsi il più velocemente possibile, non sapendo quanta acqua ci fosse a disposizione, ma non poté fare a meno di crogiolarsi per molti lunghi istanti sotto il getto caldo, scoprendo di essere molto più stanco di quel che pensava. Quando uscì, indossando abiti che Gustav gli aveva prestato e che non stavano affatto meglio dei suoi ma per lo meno erano puliti, li trovò che parlottavano tra di loro. Si interruppero all'istante, non appena lo videro arrivare.
"Porco. Cazzo." Esclamò Georg, con gli occhi sgranati su di lui come un invasato. Bill sollevò un sopracciglio: fra tutte le accoglienze che aveva previsto, quella proprio non gli era passata per l'anticamera del cervello.
"Tutto a posto? La doccia ha funzionato?" Chiese invece Gustav, parandosi davanti all'amico che continuava a sbirciare Bill da dietro il suo corpo.
"Oh sì," sorrise il moro, inclinando leggermente la testa di lato. "Tutto perfetto. Spero di non aver finito l'acqua."
"Non c'è problema, in caso ne abbiamo dell'altra. Ho molti bidoni sul tetto dell'appartamento," Gustav sorrise per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. "Perché non ti siedi? Ti va una tazza di té? L'ho appena fatto."
"Sì, grazie." Bill si sedette al vecchio tavolo che i due dovevano aver risistemato a mano con vecchie assi di legno, inchiodate il meglio possibile. Gustav sembrava stranamente gentile, ma la cosa non lo metteva a disagio come il modo in cui Georg aveva preso a guardarlo. Come se non credesse alla sua esistenza. Il che, in effetti, era anche plausibile, lui per dire cominciava a dubitarne.
"Immagino che vorrai capirci qualcosa," stava dicendo Gustav, mentre scaldava l'acqua sul fornellino. "Riguardo alla città, intendo."
"Magari," sorrise il moro. "Ad esempio, che cosa sono tutte queste esplosioni?"
"La guerra civile," rispose Georg che continuava a scrutarlo di tanto in tanto ma per lo meno si era messo ad apparecchiare e questo rendeva la cosa un po' più sopportabile.
"Tra il governo e...?"
Gustav scosse la testa. "No, niente governo," rispose. "Sono i ghetti a farsi la guerra."
"Quanti sono?"
"Sei all'ultima conta, ma i confini diventano sempre più labili. C'è sempre qualcuno che vuole il potere per sé e tenta di farsi un regno per conto suo."
Bill aspettò che Gustav gli versasse il suo tè e strinse le mani intorno alla tazza per riscaldarsi un po'. "Ma è assurdo. E nessuno fa niente? Il Cancelliere che cosa dice?"
Gustav emise uno sbuffo. "Si vede che vieni da fuori," commentò bonario. "Qua non ci sono Cancellieri da almeno.... hum, Georg?"
"Saranno due secoli," annuì convinto il ragazzo. "L'ultimo fu eliminato con un colpo di stato e la città divisa in varie zone, ognuna affidata ad un Presidente diverso. E quello che vedi è il risultato."
"Guerra continua," commentò Bill. Non era un mago di storia, ma a questo tipo di meccaniche poteva arrivarci anche lui.
Gustav si strinse nelle spalle. "Più o meno. La maggior parte dei ghetti si è stabilizzata. Tempelhof e West Berlin invece no. E' da quando sono nato che questa guerra va avanti, non ho mai visto la città senza i bombardamenti."
"Quindi qui siamo a Tempelhof?" Chiese Bill.
Gustav annuì, mentre rovistava nell'unico armadietto presente alla ricerca di qualche biscotto.
Bill sorrise, in maniera un po' stupida e Georg gli domandò cosa c'era da sorridere. "Niente, una cosa sciocca," rispose. "Anis, il mio ragazzo, è di Tempelhof. La mia, intendo."
Gustav e Georg si scambiarono un'occhiata poi, prima che Bill potesse accorgersene o Georg potesse tirare un altro dei suoi magnifici Porco cazzo, Gustav prese la parola. "E la tua Tempelhof è molto diversa da questa?"
"Auto volanti e strade aeree a parte, no," ammise Bill. "Beh, magari un po' meno diroccata. Noi non siamo in guerra."
"Dev'essere un bel posto, allora," commentò Georg.
"Oh lo è. Berlino è un posto bellissimo da dove provengo io. E anche tutta la Germania," annuì Bill. "Voi perché rimanete? Magari potreste trovare un posto migliore in cui vivere."
"Magari, commentò Gustav, sedendosi finalmente con loro e portando con sè un vassoietto di vecchi biscotti secchi. "Ho soltanto questi, mi dispiace," si giustificò. "Ci piacerebbe andarcene, sai, ma non possiamo. I confini sono chiusi."
"I confini della città?"
"I confini del ghetto," lo corresse Georg. "Nessuno può entrare e nessuno può uscire da cinque anni a questa parte. Se vuoi passare la frontiera ti serve un foglio di via firmato dal Presidente in persona."
"E perché non provate a farvelo dare?"
"perché il Presidente è impazzito," tagliò corto Gustav, cambiando perfino umore. "Non concede più permessi, non concede niente di niente."
Nella stanza calò un silenzio peso, che sapeva di molti tentativi andati molto male. Bill nascose il viso nella sua tazza di té, aspettando pazientemente che quell'aria inopportuna si dissipasse. Fu Georg, qualche minuto dopo, a rompere il ghiaccio. "Non ti abbiamo ancora chiesto come ti chiami," disse.
Il moro sorrise. "Mi chiamo Bill."
Ancora una volta, i due si guardarono in maniera strana.

*


Erano le quattro del pomeriggio quando Bill era arrivato in quella Berlino parallela fatta di ghetti che si dichiaravano guerra tra loro. Durante il té, Gustav e Georg avevano raccontato gli ultmi dieci anni della storia di quella città sconosciuta, rivelandogli anche che si trattava del 2010: lo stesso anno, lo stesso mese e lo stesso giorni in cui Bill aveva vissuto prima di ritrovarsi lì.
Quindi, i due lo avevano tenuto ore e ore a raccontare la sua Berlino e la sua vita. Bill aveva parlato dei Tokio Hotel e dei loro due alterego. Gli aveva detto di Tom, di tutti i premi che avevano vinto e dei concerti che avevano fatto. Gli aveva detto di Anis, che gli mancava da morire e che probabilmente lo stava aspettando per cenare con lui quella sera. Durante tutto il racconto, i due lo avevano ascoltato in silenzio ma interessati; Bill aveva visto gli occhi di Georg farsi sempre più larghi ed increduli mentre Gustav si faceva più serio e perplesso, come se quelle cose avessero potuto interessarlo in prima persona.
Dopo tutto quel gran parlare, Bill era crollato esausto e Gustav gli aveva ceduto il letto, andando a dormire sull'unico divano sbrindellato davanti ad uno scatolotto nero che Bill aveva supposto essere la televisione, anche se non era ben sicuro che esistesse qualcosa come la televisione in quel posto.
La mattina dopo si era svegliato alla luce polverosa del sole che entrava dalla finestra e adesso era intento a inzuppare pane del giorno prima in un po' di latte scaldato sul fornellino.
"Mi dispiace poterti offrire soltanto questo," si scusò Gustav. "Sarai abituato a mangiare molto di più se sei una persona ricca e famosa."
Bill scosse la testa con un sorriso. "Oh non preoccuparti, va benissimo così," commentò. "Piuttosto, dovrei trovare un modo per tornare da dove sono venuto."
"A tal proposito," s'intromise Georg, che si stava strafogando esattamente come il Georg che Bill conosceva, "avremmo pensato una cosa."
"E sarebbe?"
Gustav sospirò. "Io e Georg pensavamo di tornare di nuovo al palazzo del Presidente, e chiedere il permesso di lasciare il ghetto."
"Non che speriamo di ottenerlo, ben inteso," s'intromise Georg. "Ci abbiamo già provato dodici volte e non è servito a niente, ma la speranza è l'ultima a morire."
"E dal momento che andiamo là, magari potresti venire con noi. Forse lì qualcuno ne sa qualcosa di questa tua città. E si dice che nel palazzo del Presidente ci siano dei maghi, magari loro possono aiutarti."
Bill si prese quei due minuti di tempo per riflettere, più per darsi un tono che per vera e propria necessità dal momento che non aveva molta scelta trovandosi nella sua situazione. "Il palazzo è molto lontano?" Chiese.
"No, non molto," rispose Gustav, "ma dovremo muoverci con cautela per via delle ronde, delle incuriosioni e dei bombardamenti."
"Questo sì che mi consola," commentò Bill con un sospiro.

*


Venne fuori che i ghetti di quella Berlino erano molto più grandi di quelli della città dalla quale Bill proveniva e che si estendevano per decine e decine di chilometri come vere e proprie città stato. "Come ci muoveremo?" Chiese il moro, mentre lasciavano l'appartamento.
Gustav si sistemò lo zaino sdrucito di pelle sulle spalle. "Raggiungiamo la stazione. Attendiamo uno dei tempi di ricarica dei mortai e prendiamo la monorotaia fino alla Piazza D'Armi. Da lì sono circa venti minuti a piedi."
Bill annuì convinto, non sapendo bene cos'altro fare.
Georg e Gustav lo condussero per l'intricato labirinto di stradine che costituiva quella parte di Tempelhof. Nonostante fossero molto in basso rispetto alle sopraelevate, il cielo si vedeva ancora ed era di un blu grigiastro, ma non triste e depresso come Bill si era aspettato di vederlo. La strada, stavolta, era piena di gente; di donne, soprattutto, con lunghi grembiuli bianchi sulle gonne ancora più lunghe. Bill le osservò attentamente perché ad una prima occhiata c'era qualcosa di strano in loro e poi si rese conto che erano tutte molto coperte. Anche quelle più giovani avevano le maniche lunghe e il colletto abbottonato.
E tutte ma proprio tutte, bimbe comprese, avevano la testa coperta; alcune da un velo, altre da un bonnet che lasciava scoperta solo la frangia.
Erano vestite come nel passato. Il suo passato.
Niente a che vedere con la moda del suo 2010, il che era decisamente qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da un luogo così tecnologicamente avanzato. O forse avrebbe dovuto, ne aveva degli esempi lampanti anche dal luogo in cui lui stesso proveniva.
Al loro passaggio, le ragazze si scostarono tutte di lato, la testa bassa. Solo quando toccò a lui attraversare la strada, alcune di loro sollevarono gli occhi e incontrarono i suoi. Sui loro visi, Bill trovò lo stesso sguardo che aveva visto su quello di Georg, il giorno prima.
"E' meglio se tiri su il cappuccio," lo avvisò Gustav. "Svelto."
Bill si affrettò ad obbedire e allungò il passo per raggiungere il biondo. "perché?" Chiese poi, incuriosito da tanta segretezza.
"Non ti hanno mai visto in giro e gli stranieri non sono visti di buon occhio," rispose Gustav, senza degnarlo di uno sguardo. "A Tempelhof entrano solo due tipi di persone: i tagliagole e gli uomini di Sido. E nessuna delle due categorie è la benvenuta."
Georg ridacchiò. "Qualcuno ti direbbe che la categoria è una sola, in effetti."
"Chi è Sido?" Chiese Bill mentre si immettevano sulla strada principale che ospitava il mercato. Lì la gente era molta di più e i venditori non facevano che urlarsi da una parte all'altra e chiamare le clienti che andavano in giro col paniere.
In realtà avrebbe voluto chiedere: Che cosa fa Sido qui da voi? Ma decise che non aveva alcun senso dimostrare nuovamente che conosceva ogni singolo nome. Tanto valeva fare finta di niente.
"Abbassa la voce," gli ordinò Georg, affiancandoglisi e guardandosi intorno con aria sospetta. Il ragazzo aspettò che fossero usciti dalla calca prima di riprendere il discorso. "Sido è il Presidente di West Berlin. E' salito al potere circa sei anni fa. Prima stavano a Tempelhof entrambi."
"Entrambi chi?"
"Lui e Fler."
Bill sgranò gli occhi e andò immediatamente contro la politica decisa due secondi prima. "C'è anche Fler?" Chiese.
Georg aprì bocca per rispodendere, ma Gustav lo anticipò, schiarendosi la gola per attirare la loro attenzione. "Signori, la monorotaia."

*


Georg fu spedito a recuperare i biglietti, mentre gli altri due aspettavano sull'unica banchina presente in stazione. Indicando la cartina appesa al muro, Gustav spiegò a Bill che la monorotaia si snodava per tutta Tempelhof, toccando tutte le zone principali.
Era il mezzo di trasporto più comune per chi non possedeva la macchina, cioè per chiunque venisse da quella parte del ghetto dalla quale provenivano loro.
"Le auto sono molto care?" Chiese Bill, mentre con il ditino ungulato seguiva la linea tortuosa della rotaia disegnata sulla carta.
"Non sono le macchine che costano, è il carburante. Tempelhof non lo produce, e dobbiamo comprarlo da fuori," rispose il biondo. "Ti lascio immaginare come West Berlin ci faciliti le operazioni di importazione."
Bill odiava parlare di economia, quindi lasciò cadere il discorso e ne riprese un altro che gli interessava molto di più. "Parlami un po' di questo vostro Presidente," disse infatti. "Com'è che è diventato pazzo."
Gustav si irrigidì. "Ha perso una persona alla quale teneva molto. Da quel momento non è più stato lo stesso."
Bill sbatté gli occhioni, improvvisamente partecipe di un dolore che non avrebbe dovuto toccarlo a quel modo. "E chi era?"
"E' una storia piuttosto lunga," commentò Gustav.
"Beh abbiamo tempo," Bill guardò l'orologio sul muro, che come al solito aveva più lancette del necessario. "Almeno credo. Che ore sono?"
"Sono le undici meno venti," rispose Gustav.
"E le altre due lancette?"
"Segnano l'ora approssimativa del prossimo bombardamento. Al quale per altro, manca pochissimo. Vieni, raggiungiamo un posto più sicuro."
I due recuperarono Georg e raggiunsero gli altri passeggeri, tutti stipati in una specie di bunker appena sotto la stazione. "Vi va di fare uno spuntino?" chiese Georg, spezzando un panino in tre parti e consegnandone un po' agli altri.
Il suono della prima esplosione li raggiunse mentre Bill addentava la sua parte. Nella stanza nessuno sembrò scosso dal rumore o dalle pareti del bunker che si mossero in maniera preoccupante. "Per voi questa è normale routine?"
"Oh, assolutamente sì," rispose Georg, con un tono quasi orgoglioso. "Una delle migliori, anche. Stanno bombardando a nord, dove ormai non c'è praticamente più niente."
"E quando si sposteranno?"
"Vedremo," rispose Gustav. E poi, quando Bill fece per tirarsi giù il cappuccio scosse la testa: "Tienilo su, c'è sempre troppa gente."
Ci fu il sibilo di un secondo sparo e poi di un terzo. Secondo la percezione di Bill gli schianti delle bombe si facevano sempre più vicini eppure nessuno stava avendo paura quanto lui. C'erano anche un paio di bambini, non più grandi di quattro o cinque anni, che giocavano a rincorrersi ridendo come se nulla stesse accadendo.
I bombardamenti andarono avanti per circa mezz'ora, proprio come Gustav aveva detto il giorno prima. Poi, lentamente, i sibili si fecero sempre meno frequenti, gli scoppi più diradati e infine calò il silenzio. La gente iniziò a sciamare all'esterno e un quarto d'ora più tardi, la monorotaia era al suo posto, pronta ad accogliere le centinaia di persone in attesa di partire.
Il treno era enorme e formato da forse quindici vagoni. All'interno però non c'erano nè sedili nè seggiolini, solo casse stivate lungo le pareti.
"Prima la Monorotaia la usavano solo per trasportare le merci," gli disse Gustav, leggendo la domanda sul suo viso. "Da quando hanno bombardato l'altra stazione, due anni fa, usiamo questa anche per muoverci."
Poi il biondo andò a sedersi in fondo al vagone sopra il proprio zaino. La monorotaia sussultò emettendo un cigolio sinistro, poi con uno sbuffo e uno stridio lancinante si mise in moto.
Bill raggiunse uno dei finestrini e si fece spazio tra la gente per osservare l'immensa distesa della città che si parava di fronte ai suoi occhi. Molti palazzi erano crollati, e dalle macerie invisibili salivano colonne di fumo nero. Sentì qualcuno gridare ed indicare ognuno di quei palazzi con un nome preciso. L'unico che lui conoscesse, la torre con l'orologio, era ancora in piedi, prepotentemente nera contro l'azzurro opaco del cielo.
Sospirò e si voltò, appoggiandosi di schiena contro il vetro. Tirò fuori il cellulare dalla tasca anteriore dei pantaloni, controllando il display per la milionesima volta. La batteria era carica, ma ovviamente non c'era segnale. Ovunque fosse finito, non era il suo mondo - questo era chiaro - quindi era normale che il suo gestore telefonico non captasse proprio un bel niente. Emise un altro sospiro affranto. Se aveva fatto bene i conti, e c'erano buone probabilità che li avesse sbagliati, erano passate più di 32 ore dall'ultima volta che era stato a casa.
Provò ad immaginare che cosa dovesse essere successo quando Bushido non lo aveva visto arrivare all'ora prestabilita. Probabilmente aveva chiamato Tom per sapere dov'era e quando si erano accorti di non sapere niente in due, Anis aveva probabilmente spedito la crew a cercarlo in ogni luogo possibile.
Bill era certo che il suo compagno si fosse arrabbiato quando i ragazzi erano tornati a mani vuote: aveva la tendenza a sfogarsi su di loro quando era particolarmente preoccupato e doveva esserlo se lui era sparito nel nulla. Immaginò le loro facce mentre borbottavano fra di loro che la Principessa era sparita. Sorrise a quel soprannome che di solito lo faceva irritare ma che adesso - lontano da chi lo pronunciava - sembrava la cosa più bella del mondo. Con una fitta di nostalgia, aprì la cartella delle immagini e guardò le foto una per una. C'erano quasi tutti, là sopra, così gli sembrava di essere un po' a casa.
Anis aveva un album tutto per sé, come suo fratello Tomi e i Tokio Hotel. Poi c'erano gli amici, con un milione di foto di Andi, e quelle della crew - principalmente Kay One, Eko e Chakuza perché gli altri a farsi fotografare dal fidanzato effeminato di Bushido non ci tenevano proprio.
"Nostalgia di casa?" Gli chiese dolcemente Georg, accosciandosi di fronte a lui.
Bill annuì, chiudendo di scatto il telefono. "Un po'," si strinse nelle spalle. "Ma credo sia normale, no? Non so neanche quanto disto da casa!"
"Immagino parecchio," ragionò Georg. "E dimmi, in questa tua Germania che tipo sono io? Voglio dire, sono figo...?"
Bill ridacchiò divertito. "Beh, diciamo che te la cavi," rispose diplomatico. "Sei un buon avversario per mio fratello."
"Siamo amici?"
"Tu e Tom? Assolutamente sì," sorrise Bill. "Passate un sacco di tempo insieme e vi divertite a fare scherzi idioti. Siete due imbecilli, fondamentalmente."
Georg sorrise. "Incredibile. Io e Tom amici," mormorò. "Non potrebbe mai succedere qui. Lui è lassù e io sono tipo... beh, qui. Sarebbe una cosa fighissima, però."
Bill smise immediatamente di ridere. "C'è un Tom anche qui?" Esclamò, rendendosi improvvisamente conto che era perfettamente logico che ci fosse. Se esistevano un altro Georg, un altro Gustav e un Sido e un Fler nuovi di zecca. perché non un Tom?
Fu lì che si rese conto che se c'era tutta questa gente, allora forse c'era anche lui.
"Ecco... magari ne parliamo un'altra volta, va bene?" Balbettò Georg, alzandosi immediatamente in piedi.
"Aspetta! C'è un Tom anche qui?" Chiese, ma non fece in tempo a fare due passi che il treno dette un enorme scossone e lui si schiantò violentemente contro Georg, che lo prese al volo solo per riflesso. L'esplosione fu contemporanea, ma per qualche motivo, le sue orecchie la percepirono un secondo più tardi. Georg si gettò in terra all'istante, portandoselo dietro e coprendolo istintivamente col proprio corpo mentre tutti, chi più chi meno, facevano lo stesso.
"Non dovevamo essere fuori dai bombardamenti?" Chiese Bill, con una punta di isteria che gli venava la voce già tremula.
"Infatti," sibilò Georg tra i denti, cercando una causa fuori dal finestrino. Per qualche secondo ci fu silenzio, poi cominciarono i mormorii e i pianti dei bimbi. Georg lo tirò su quasi di peso, sempre guardandosi intorno in maniera circospetta. "Dobbiamo uscire di qui," sussurrò, incontrando lo sguardo di Gustav. Si fecero un cenno. "Comincia a muoverti verso il fondo del treno."
Bill non capiva, ma fece come gli era stato detto. Avanzò tra la folla e raggiunse la porta interna del vagone che dava su quello precedente, seguito da Georg e Gustav subito dietro. "Che cosa sta succedendo?" Chiese in un mormorio, senza azzardarsi a guardare alle proprie spalle.
I due non risposero. Continuarono a spingerlo con una certa premura. Bill chiese di nuovo, più forte e, quando non ottenne risposta per la seconda volta, si bloccò tra le porte di due vagoni e si voltò di scatto, impedendo loro di proseguire oltre. "E va bene, adesso basta. Si può sapere che succede?" Chiese imbestialito. "Che cos'era quell'esplosione? Perché il treno si è fermato? perché stiamo andando a ritroso?"
Gustav aprì bocca per rispondergli, ma non ebbe il tempo. Una seconda esplosione fece saltare in aria il vagone dove si trovavano prima. E un terza devastò quello che lo precedeva. "CORRI!" Gridò spingendolo con forza.
Bill questa volta non discusse. Si voltò e prese a correre, tra la gente che ancora non capiva cosa stesse succedendo ed era ancora tutta in terra, con le mani a proteggersi la testa. "Che cosa succederà quando arriveremo alla fine?" Sbraitò, voltandosi a scorgere il fumo nero che proveniva dalle altre carrozze e che scuriva i finestrini.
"Salteremo!" Replicò Gustav, che chiudeva la fila.
"E' una fottuta città aerea!" Sibilò Bill di rimando, passando a forza tra le persone e aprendosi la strada con gomiti e ginocchia.
Sentì Georg ridere alle sue spalle. "La Principessa non dice parolacce!" Poi si schiantarono entrambi contro l'ultima porta. Che era chiusa. "Cazzo, è chiusa! E adesso?"
"Che cos'hai detto?" Scattò subito il moro, con gli occhi sgranati.
"Ho detto che è chiusa!"
"No, l'altra cosa!"
Georg divenne rosso, ma Gustav fu più svelto di lui. Li superò entrambi, scostando Bill da Georg quasi violentamente. "Vi dispiace? Una serie di esplosioni a catena sta devastando il treno alle nostre spalle!" Li riprese entrambi e poi scalzò con un coltellino la placca di ferro che copriva il pannello di comando della porta.
"Gusti, sbrigati," mormorò Georg che fissava con orrore la fiammata roboante farsi strada verso di loro.
"Ci sto provando."
Il biondo tagliò via due cavi e li spellò velocemente con la lama del coltello, quindi se la infilò in bocca per traverso e prese a fare scintille, come certi ladri d'auto con i fili d'accensione.
"Gustav..." mormorò Bill.
Dal biondo arrivò un mugolio contrariato, l'ennesima scintilla e infine un calcio ben assestato. La porta emise uno sbuffo d'aria compressa e infine si aprì di scatto, sbattendo un paio di volte prima di spalancarsi del tutto. "Fuori! Fuori! Fuori!"
Gustav gettò praticamente Bill fuori dal portellone. Bill gridò, convinto che sarebbe caduto, per poi rendersi conto che avevano superato una stazione prima di fermarsi, e qualche centimetro di banchina era ancora a portata di mano. Si gettò alla cieca, cadendo in terra non appena mise i piedi su i mattoni e spostandosi in tempo per non farsi schiacciare da Georg, sceso subito dopo di lui. "Correte!" Urlò Gustav, alle sue spalle.
Bill obbedì ma qualcosa colpì la sua attenzione dopo soli due metri. Sentì Georg che lo superava, urlandogli di muoversi ma si fermò lo stesso. Sul tetto dell'ultimo vagone c'era qualcuno completamente vestito di nero e accucciato sul bordo, pronto a calarsi con un discensore. Quando si voltò, Bill incrociò lo sguardo di due occhi così azzurri da togliere il fiato e pensò che li aveva già visti a qualche parte. Lo sconosciuto sembrò pensare la stessa cosa, perché ebbe un sussulto. Fu solo un istante, ma Bill fu sicuro di vederlo, poi l'uomo si gettò nel vuoto e Bill rimase quasi incantato a fissare il volteggiare della corda che si srotolava ad una velocità impressionante. Dove aveva già visto quegli occhi?
"Bill!" Gustav lo afferrò un secondo prima dell'esplosione.
Bill sentì la vampata di calore prima della spinta dell'aria, che fu quasi fisica, come una potente folata di vento che riuscì a sollevarli da terra. Sentì le braccia di Gustav stringersi intorno al suo corpo e poi l'esplosione che gli tolse l'udito. Vide il treno a pezzi e poi calò il buio.

*


Quando Bill si svegliò, la prima cosa che vide fu la meraviglia di un lucernario aperto sulla distesa bluastra di una notte piena di stelle.
A dire il vero all'inizio non capì che si trattava di un soffitto trasparente, né capì di essersi svegliato. Fu come riapre gli occhi un attimo dopo che la bomba era esplosa ma non trovò affatto la monorotaia in fiamme e la stazione aerea come si aspettava, bensì una stanza enorme e ben arredata, di cui non riusciva a vedere tutto perché un armadio gigantesco, di un nero lucido e laccato, la divideva a metà, impedendogli la visuale.
Bill era disteso su un letto che aveva le lenzuola più morbide che avesse mai visto, più morbide perfino di quelle in casa di Anis che se le faceva arrivare a posta da un qualche microscopico paese indiano, famoso per la seta finissima che costava un occhio della testa. E il letto era posto direttamente sotto il lucernario, così che la luce della luna, filtrando attraverso il vetro scendesse a pioggia in tutta la stanza. Bill si chiese vagamente come si potesse non svegliarsi alle prime luci dell'alba, ma poi accantonò il pensiero, incuriosito da quel luogo nuovo.
Scivolò fuori dal letto, scoprendo di indossare un pigiama color panna dal taglio stranissimo. La lunghezza delle gambe era asimmetrica: la sinistra gli cadeva perfetta, mentre l'altra era tagliata per arrivargli appena sotto al ginocchio e la maglia, che aveva uno scollo triangolare e spostato verso destra, aveva maniche a campana che partivano dal gomito per poi slargarsi fino alle mani. Chiunque fosse lo stilista era sicuramente sotto l'effetto di droghe pesanti e, tuttavia, avrebbe fatto una fortuna nel suo mondo.
Non c'erano scarpe ad attenderlo fuori dalle coperte, ma il pavimento era ricoperto di legno e camminarci sopra scalzo era piacevole. Come scoprì qualche secondo più tardi, la stanza era rotonda e l'armadio la divideva in due metà perfette. La parte da cui proveniva era una specie di stanza da letto, con una bella toeletta dall'aspetto antico e uno specchio dalla cornice in ferro battuto. Dall'altra parte, invece, Bill trovò una specie di studiolo, arredato in maniera altrettanto curata. C'erano divanetti morbidi e un basso tavolino da té. Una scrivania riordinata di tutto punto e una libreria piena fino a traboccare di vecchi libri e pergamene arrotolate. Quello che catturò la sua attenzione però, fu la parete bombata che era fatta di vetro e che si affacciava sul bellissimo vuoto della città aerea.
La raggiunse e vi appoggiò le mani e il naso, osservando Berlino distesa ai suoi piedi. La torre dell'orologio non era che a qualche metro da lui e intorno ad essa centinaia e centinaia di palazzi che spuntavano dal vuoto, circondati dallo snodarsi sinuoso delle strade.
Era così preso da quella vista mozzafiato che l'ennesima voce familiare lo colse assolutamente di sorpresa, facendolo trasalire. "Sei sveglio!"
Sussultò, voltandosi di scatto e il suo cervello ci mise qualche secondo a registrare il viso, gli occhi e i dreads biondi di suo fratello. "Tom!" Esclamò, quasi più felice di quanto pensava di poter essere. Gli gettò le braccia al collo, nascondendogli il viso nel petto. "Dio, quanto mi sei mancato."
Il biondo sorrise, accarezzandogli la schiena. "Anche tu. Pensavo di averti perso," gli sospirò nei capelli. "... per sempre."
Solo allora Bill ricordò com'erano andate le cose, che si era trovato in quel posto senza sapere come, che quello non era il suo mondo. E quel Tom non era il suo Tom.
Anche la divisa che indossava ne era un chiaro segno. Innanzi tutto Tom non avrebbe mai indossato qualcosa che fosse della sua taglia, anzi che gli calzasse a pennello come quella marsina blu, così scura da sembrare nera. Gli ampi pantaloni dello stesso colore erano infilati dentro gli anfibi e c'erano dei gradi sulle sue spalle, anche se Bill non avrebbe saputo riconoscerli dal momento che non s'intendeva di eserciti e di marina. O di aviazione. Qualunque cosa fosse, insomma. I suoi dreads erano legati come al solito però.
Si scostò un po', senza riuscirci veramente: la mancanza di suo fratello era tanto forte che poteva accontentarsi della sua copia, per il momento. "T...Tom, io... ci sono cose che devo spiegare," espirò piano, anche se non aveva idea di cosa potesse dire esattamente. "Non sono chi pensi che io sia."
Tom si limitò a sorridere e a guardarlo con amore. "Non c'è fretta, Bill," disse dolcemente, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio. "Ci sarà tempo più tardi per le spiegazioni. Ora devi riposarti e rimetterti in sesto. Non vedono l'ora di vederti, tutti quanti."
Tom lo condusse nella stanza da letto, spingendolo gentilmente alla base della schiena. Bill lo seguì solo perché non fece in tempo a fare nient'altro.
"Come ti senti?" Chiese il biondo.
"Bene," si ritrovò ad ammettere Bill. "Anche se non so perché sono qui."
"Ti abbiamo trovato tra le macerie della stazione Sud," rispose Tom, accompagnandolo fino al letto e facendocelo sedere sopra. "Io e la mia squadra siamo arrivati sul posto dieci minuti dopo lo scoppio delle bombe ma non c'era traccia dei responsabili."
"Ma non ero da solo!" Realizzò all'improvviso Bill. "C'erano Gus...due ragazzi con me! Uno alto e castano e l'altro piccolo e biondo."
Tom annuì. "Georg Listing e Gustav Schäfer, stanno bene. Entrambi miracolosamente illesi. Come te, per fortuna."
Bill tirò un sospiro di sollievo. "Dove sono adesso?"
"Nella sala delle udienze. Sono mesi che chiedono un permesso per lasciare Tempelhof e credo che questa volta il Presidente glielo concederà. Non appena gli avremo detto che sei qui, naturalmente."
"Posso vederli?"
Tom sorrise e gli accarezzò la testa. "Non dire sciocchezze," mormorò, scuotendo la testa. "Non sono che due poveri disperati dei livelli inferiori. E tu devi mangiare per rimetterti in forze."
"Ma Tomi..." protestò Bill, alzandosi in piedi. "Sono stati loro a recuperarmi e a portarmi in salvo, dovrò almeno ringraziarli!"
"Faremo avere loro la tua gratitudine a mezzo di un servo," annuì Tom. Poi estrasse dalla tasca dei pantaloni un vecchio orologio a cipolla e controllò l'ora, accigliandosi. "E' tardi, mi aspettano altrove."
Fece per dirigersi verso la porta, ma Bill lo fermò. "Tomi aspetta. Io... devo parlarti, davvero! Non è il mio mondo questo!" Buttò lì disperato. "Non so... non so nemmeno dove mi trovo adesso!"
"Sei nel Palazzo Presidenziale, e questa è la tua stanza personale." Tom gli dedicò uno dei suoi sorrisi migliori e tornò indietro per baciarlo in fronte. "Sei solo un po' confuso, fratellino. Tutto qui. E' normale: hai battuto la testa a causa dell'esplosione. David aveva previsto un po' di amnesia. Vedrai che ti rimetterai presto."
"Che cos'è David in questo mondo?"
"Beh, quello che è sempre stato direi," ridacchiò Tom. "Il nostro alchimista."
Bill aprì la bocca per dire qualcosa, ma questo era davvero troppo per trovare una risposta sensata. "Il nostro... alchimista?" Balbettò.
"Ora devo proprio andare," Tom si avviò verso la porta e si fermò un secondo prima di superarla, solo per dirgli: "Manderò un servo con il pranzo. E-"
"Tom, davvero, io..."
"Tu non devi preoccuparti. C'è qualcuno che si occuperà di te, sei a casa ora."

*


La serva che si era presentata in camera qualche minuto dopo era vestita esattamente come le donne che aveva visto. Aveva bussato e atteso che le desse il permesso di entrare quindi, senza dire una parola o alzare lo sguardo, aveva appoggiato il pranzo sul tavolo ed era uscita, augurando un Che gli Dei Riuniti vi benedicano, Luce di Tempelhof.
Bill era rimasto vagamente sconvolto, ma anche molto lusingato. Nonostante la sua tragica situazione di disperso in un mondo parallelo, il suo enorme ego non aveva potuto fare a meno di sentirsi enormemente compiaciuto per tutta quella adorazione. "Luce di Tempelhof," aveva mormorato tra sé, mordendosi un labbro. "Chissà poi che cosa significa."
Il vassoio era pieno di cibo e lui aveva mangiato soltanto un pezzo di pane e del tè in più di ventiquattro ore, quindi aveva ripulito tutto con grande gioia.
Adesso che il vassoio era vuoto, però, non sapeva bene cosa dovesse fare. Decise che non poteva rimanere in quella stanza ad aspettare chissà cosa. Doveva vestirsi e trovare Tom o David, magari! Sempre che non fosse impegnato a trasformare il piombo in oro...
Ridacchiò mentre faceva scorrere in orizzontale la porta dell'armadio. All'interno vi trovò tanti di quei vestiti da far impallidire il suo vero armadio di Berlino.
Una persona normale avrebbe afferrato il primo vestito plausibile e sarebbe uscito da quella stanza, ma lui era Bill Kaulitz e non usciva col primo straccio che si trovava sotto mano. Neanche se si trovava in un palazzo sconosciuto, con persone sconosciute, in un mondo che non era il suo e che non aveva idea di come abbandonare per tornare dalla sua gente.
Così cominciò a tirare fuori pantaloni e maglie una dietro l'altra e a stenderle sull'enorme letto alle sue spalle, con aria critica. Alla fine, scelse un paio di pantaloni neri e aderenti, fatti di un materiale lucido che sembrava pelle ma non lo era; e una maglia alquanto strana, che però era la meno peggio tra tutte le altre. Aveva lo scollo a barca e le maniche corte, composte da due quadrati di stoffa sottile appena cuciti tra loro, che sfarfallavano ogni volta che si muoveva. Si guardò allo specchio, trovandosi bizzarro ma presentabile.
Fu allora che bussarono alla porta in modo particolare. La serva aveva battuto due colpi ed era poi rimasta in silenzio, in attesa del suo comando. Qui i colpi erano stati quattro, in successione secondo un certo ritmo che sapeva di già sentito.
"Avanti," mormorò il ragazzo, risistemandosi i capelli.
Doveva ammettere che a questo punto era curioso di sapere chi sarebbe entrato da quella porta. Provò mentalmente a prevedere il viso che sarebbe apparso da lì a qualche istante: Anis? Sua Madre? ... Andi?
"Chakuza?" Esclamò, sgranando gli occhi.
L'uomo sembrava sconvolto tanto quanto lui. "Sei davvero tu..." sussurrò, venendo avanti con tanta veemenza che Bill quasi si fece indietro. "Non ci credo." Si fermò a qualche centimetro da lui, sfiorandolo senza toccarlo. "Sei proprio tu?"
"Più o meno," mormorò il moro, con un mezzo sorriso incerto, mentre seguiva con lo sguardo Peter che gli girava intorno incredulo.
Aveva abiti strani, anche lui, decisamente pittoreschi. I pantaloni erano simili a quelli di Tom, ma neri e arabescati. Chakuza non indossava marsina, aveva solo un maglioncino a collo alto senza le maniche. Era chiaro che lui e Tom avessero ruoli diversi.
"Tu non capisci!" Esclamò l'uomo. Allungò di nuovo una mano verso di lui, ma la ritrasse e se la passò sulla bocca senza mai staccare gli occhi da lui. "Credevamo... credevo," espirò e scosse la testa. "Quando Tom me lo ha detto non c'ho creduto."
"In quanto a questo, in effetti..."
"E Lui l'ha appena saputo," commentò ancora Chakuza, scuotendo la testa. "Vuole vederti, e dobbiamo andarci subito o darà nuovamente di matto."
"Lui chi?"
"Il Presidente, Bill," sbuffò l'uomo. Afferrò una mantella tra gli abiti appoggiati sul letto e ce lo avvolse, di fretta. "Questa andrà bene, adesso andiamo."
Bill lo seguì, come aveva seguito tutti gli altri, incerto e confuso. "Chaku?" Chiese quando, dopo quindici metri di corridoio, l'uomo continuò a stargli dietro di tre passi. "Devi proprio starmi alle spalle?"
"E' la procedura," mormorò Chakuza. "Credimi, la eviterei se potessi."
"Ma io non so dove sto andando," commentò Bill.
Chakuza si fermò. "Oh," commentò. "Oh! L'amnesia, certo. Tom me lo ha detto. Per di qua, faccio strada."
"Non è amnesia. Io non ho mai vissuto qui."
"E stato confusionale," concluse Chakuza. "David ci aveva avvertiti anche di questo; ma non preoccuparti, si risolverà tutto. Io sono qua apposta, per accompagnarti ovunque. L'ho sempre fatto, d'altronde."
Ripresero a camminare. "E' questo il tuo compito qui? Accompagnarmi?"
"Sono consigliere del Presidente, carpentiere e tuo... campione."
Bill ci rimuginò sopra per almeno due rampe di scale prima di chiedere: "E cosa diavolo fa un campione, esattamente?"
Chakuza gonfiò le guance, mentre valutava la situazione. "In tempo di pace, quasi niente. In tempo di guerra, come questo, sono la tua protezione in assenza del Presidente," spiegò.
Bill sollevò un sopracciglio. "Una specie di Lancillotto?"
La risata di Chakuza fu piena e sincera, del tutto simile a quella che Bill era abituato a sentire. Cominciava a cogliere tutti quei minuscoli dettagli che si ripetevano identici a distanza di chissà quante dimensioni e a custodirli, perché erano le uniche schegge di casa che aveva al momento. "Direi esattamente come Lancillotto," confermò l'uomo, mentre svoltavano nell'ennesimo corridoio. "Sai, è strano doverti dire queste cose, voglio dire: le sai già."
"Siamo amici?"
Il sorriso di Peter si fece più caldo. "Ti verrà in mente," disse.
Bill emise un profondo respiro frustrato, qualcuno lo avrebbe mai fatto parlare?
"Ad ogni modo, eccoci qua," disse l'uomo, fermandosi di fronte ad una porta scura, con una grossa testa di leone incisa proprio nel mezzo. "Lui è qui dentro."
Bill annuì, aspettando ulteriori istruzioni che non tardarono ad arrivare. "Entrerai da solo, lo saluterai come si conviene e lascerai che ti guardi. Deve riconoscerti, dagliene il tempo."
"D'accordo."
"Rimani a distanza, non ti avvicinare finché lui non te lo dirà. Diventa violento, a volte," continuò Chakuza, con la faccia seria. "Qualunque domanda ti faccia, qualunque cosa ti chieda, dagli una risposta chiara e concisa. Non mentire, potresti pentirtene poi."
Bill iniziava a preoccuparsi. "No, ascolta: aspetta un secondo," lo fermò alzando un braccio. "Sembra pericoloso e, da quanto ne so, quell'uomo è pazzo. Io non entro lì dentro senza una protezione."
"Bill, sai che non c'è alternativa."
"L'alternativa c'è: rimango fuori," s'intestardì.
Chaku sospirò, come dovesse spiegare una cosa ovvia ad un bambino. "Sei la Luce di Tempelhof, Bill," esclamò, come se quella fosse la risposta per ogni cosa. Poi cercò di sorridergli rassicurante. "Non ti succederà niente," esclamò, questa volta allungando una mano e accarezzandogli la guancia. "E poi io sarò qua fuori, per qualsiasi cosa."
Bill rimase immobile, sotto le dita dell'uomo che sembravano conoscere il suo viso molto bene. Percepì brividi non suoi sotto la pelle e dovette scuotere la testa per ritornare presente a se stesso.

*


Quando vi entrò, Bill scoprì che la stanza era immensa. La luna, attraverso le tre finestre, non riusciva ad illuminare che una parte del pavimento di marmo. Tutto il resto era avvolto in un'ombra scura e pastosa nella quale il ragazzo non riusciva a distinguere assolutamente niente. Fece solo qualche passo e poi si fermò a fissare Berlino - bellissima e aerea - aldilà dei vetri. Sapeva di trovarsi più in alto rispetto alla stanza in cui si era svegliato. Le punte dei palazzi sembravano così lontane.
"Vieni avanti."
La voce fu come una stilettata. Uno di quei momenti chiave nei film, in cui mille immagini si sommano insieme ad uno schiocco di dita, o al tintinnio di un campanello. Bill rivisse gli ultimi due giorni in una sequenza di fotogrammi. Berlino. Gustav. Georg. Tom. Chakuza. Il Presidente. Si rese conto che non aveva mai pensato veramente a chi fosse quest'uomo, a chi potesse essere. Aveva dato per scontato che non potesse essere la copia di qualcuno che già conosceva, eppure era così palese. Così incredibilmente facile.
Il Presidente del Ghetto non poteva che essere Anis.
Strinse i pugni e deglutì, iniziando a camminare lentamente. Mano a mano che avanzava, il resto della stanza si faceva vagamente più nitido mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità. C'era una poltrona, a qualche metro da lui. Due lunghe gambe distese pigramente e solo il profilo di una mano sul bracciolo. Bill deglutì di nuovo e fece un altro passo, finché il volto di Anis non comparve dall'ombra e gli mozzò il fiato in gola. I lineamenti erano indubbiamente quelli squadrati e spigolosi del viso che conosceva, ma gli occhi erano più scuri. Più tristi e senza dubbio più cattivi. Fece un passo avanti, poi si ricordò le parole di Chakuza e rimase dov'era. "... Anis," pronunciò incerto.
L'uomo sembrò non reagire. "Continua a parlare," disse.
Bill si strinse nelle spalle. "Non so che cosa dire," ammise, rendendosi conto, ora che aveva la parola, che non aveva idea di come spiegare un bel niente. Non quando gli era stato detto di avere davanti una persona probabilmente violenta, tra l'altro.
"Qualunque cosa, voglio sentirti parlare," insistete l'uomo, entrambe le braccia a riposo e lo sguardo fisso su di lui.
"Io..." Bill inspirò profondamente. "... io non sono chi crede che io sia. Ci assomiglio soltanto."
L'uomo rimase in silenzio, così Bill continuò: "Non ho idea di come io sia finito qui. Un attimo prima ero... da un'altra parte, e l'attimo dopo ero qui. Non so cosa sia successo, ma non sono io la persona che ha perso."
Bushido si alzò di scatto, tanto che Bill fece un passo indietro e continuò ad arretrare quando l'uomo si fece ancora più avanti. Si fermò solo quando la luce della luna li illuminò entrambi e allora il viso dell'uomo fu così visibile, che non ci fu nient'altro da pensare se non che era esattamente quello che conosceva. E non sembrava volergli fare del male, nonostante quella durezza così strana nei suoi occhi. Esitò. Perché sembrava lui, come lui doveva sembrare Bill ai suoi occhi. "...Anis."
"... Sei tornato," fu tutto ciò che disse l'uomo, prima di chinarsi a baciarlo.
Il cervello di Bill pensò che non era giusto permetterglielo. Il cervello di Bill pensò anche che non vedeva Anis da giorni e che quello, in fondo, era Anis. Quando dischiuse le labbra e permise al Presidente di baciarlo, si giustificò dicendo che non avrebbe potuto fare altrimenti e poi si sciolse, perché erano le labbra di Anis. Erano come le sue.
Il bacio fu lungo, lento e dolce e Bill quasi decise che non gli importava niente di dove si trovasse, perché alla fine non c'era un altro posto migliore delle braccia di Bushido. Qualunque Bushido fosse. "Pensavo che non ti avrei più rivisto," sospirò l'uomo.
Fu a quelle parole, le parole di tutti, che Bill si risvegliò e si scostò gentilmente. "Io credo che dovremmo parlare," disse.
"Sì, dovrai dirmi le cose che hai fatto e dove sei stato," annuì il Presidente. "Dove ti hanno tenuto."
"Da nessuna parte, io.. non sono-"
"In te, lo so," L'uomo annuì di nuovo e se lo strinse addosso. E come a casa, Bill non era capace di scappare molto a lungo a quell'abbraccio. "Domattina, come prima cosa, ti farai visitare da David e poi decideremo il da farsi."
A Bill non rimase che annuire.

*


La mattina dopo, Chakuza venne a prenderlo ad un'ora quasi indecente.
Bussò nel solito modo e poi entrò, prima ancora che gli dicesse di farlo. Bill avrebbe dovuto ragionare sul significato intrinseco di un'azione simile, ma era troppo impegnato a provare allo specchio il discorso da fare al falso-Anis per potersene preoccupare a dovere.
Chakuza lo trovò che blaterava di fronte alla propria immagine, con addosso un altro vestito, ancora più assurdo del giorno precedente. A parte i pantaloni, sempre più aderenti, la maglia gli arrivava sotto il sedere e aveva maniche ben più lunghe, che non gli avevano reso per niente facile il compito di truccarsi, quella mattina.
"Buongiorno, Principessa."
Bill si voltò e fece un mezzo sorriso. "Ciao Peter." L'uomo sussultò leggermente, Bill sollevò un sopracciglio. "Non ti chiami così?"
Chakuza annuì. "Era da tanto che non ti sentivo pronunciare il mio nome."
A Bill non sfuggì la nota d'affetto nelle sue parole e si sentì inspiegabilmente a disagio. "Già," mormorò, non sapendo cos'altro dire.
Dopo qualche istante di silenzio, Chakuza si decise a darsi una mossa. "D'accordo, siamo già in ritardo. Sei atteso nello studio di David e ti assicuro che non è mai una buona idea farlo aspettare." Sorrise e quando Bill non accennò a muoversi, sospirò. "Devi precedermi."
Bill alzò gli occhi al cielo. "Ancora. Non so dove andare!"
"A diritto nel corridoio, su per la rampa di scale, seconda porta a destra, prima a sinistra e oltre il giardino sospeso."
"Cosa?"
Chakuza sorrise. "Te lo ripeto mentre andiamo."

*


Bill era abituato ad un solo David: quello piccolo e magro che si vestiva come un ragazzino di quindici anni pur avendone trentasette. Il David che per quattro anni della sua vita era stato una specie di secondo - anzi terzo - padre e che aveva aiutato lui, suo fratello e i suoi due migliori amici a sfondare nel mondo della musica. Lo stesso David che un anno prima si era accollato l'onere di coprire, pubblicizzare ed infine proteggere la relazione con l'uomo più importante della sua vita.
Quello che aveva davanti adesso non era niente di tutto questo. Era un certo tipo di David, sicuramente, ma non il suo. In qualche cosa ci assomigliava, era piccolo e magro per esempio. E aveva gli occhioni azzurri e la faccia del suo manager, quello sì.
Per tutto il resto, però, era un'altra persona.
Innanzi tutto era vestito in maniera indecente, Bill davvero faticava a rimanere serio. I pantaloni erano i soliti pantaloni a sbuffo, ma aveva una palandrana blu scura, lunghissima, che gli strisciava dietro la schiena come un mantello. Poi aveva un cappello, floscio, che gli pendeva giù lungo fino a metà schiena. E portava gli occhiali, al posto dei quali il suo David avrebbe preferito la morte. Inoltre, e qui stava il bello, il David in questione - di qualunque benedetto mondo fosse - era immerso fino alla cintura dentro un macchinario di cui, francamente, Bill ignorava il funzionamento e sbraitava anatemi contro viti e bulloni.
Bill era molto perplesso sulla porta dello studio dell'alchimista. Chakuza lo superò, chiedendo compitamente permesso e aspettando che si spostasse prima di passare. "Signor Jost?" Chiamò incerto, avvicinandosi al macchinario, ma non troppo.
"Chi è?" Chiese lui da dentro.
"Chakuza, signore" l'uomo attese, le mani dietro la schiena ma non arrivò risposta, quindi si schiarì la voce con un colpetto di tosse molto discreto. "Le ho... le ho portato la Principessa, signore."
A quelle parole, l'uomo salta fuori dal macchinario rotondo. "Cosa? Di già? E' già sveglio?"
Chakuza annuì, facendosi di lato per indicare la figurina minuta di Bill, ancora sulla porta. "Come può vedere sembra in salute ma il Presidente ha ordinato una visita. Ha un po' di amnesia, signore, come avevate -"
"Sì, sì, ragazzo, non ripetermi quello che ho detto, non sono mica un cretino," bofonchiò l'alchimista, issandosi fuori dal marchingegno. "Piuttosto, non eri carpentiere, tu, prima di entrare a far parte di questo manicomio?"
"Mastro meccanico, signore."
"Quello che è," gli lanciò una chiave inglese mentre scendeva la scaletta sulla fiancata del macchinario. "Vedi che cos'ha questo trabiccolo, si è bloccato di nuovo. Credo sia la leva del cambio. O lo spinterogeno. E' sempre lo spinterogeno."
Chakuza scosse la testa sorridendo, quindi salì agile le scalette e sparì all'interno nella cassa rotonda e metallica di quell'affare. Bill lo seguì con lo sguardo finché nel suo campo visivo non apparve, a sorpresa, il sorriso tirato di David. "In quanto a te," stava dicendo. "Vediamo quali danni hai riportato."
"A dire il vero signor... alchimista," a Bill suonava strano chiamarlo David. "Io sto bene, anzi direi benissimo. Il problema è un altro."
"Si, all'esterno ma la confusione sta all'interno," commentò l'uomo, avvicinandosi. "L'ultima volta era tutto un labirinto di organi. Povero topo."
"Topo?" La voce di Bill si alzò di un'ottava mentre si spostava lentamente, man mano che David si faceva più vicino.
"Non penserai mica che abbia cominciato con te?" Esclamò l'alchimista, anche un po' oltraggiato. "Comunque è pur vero che il piccolo incidente con gli organi interni può esser riconducibile alla natura di topo del topo. Capisci?"
Bill lo guardò, la fronte aggrottata a metà tra la pietà e la paura di fronte al pazzo schizoide. Lanciò un'occhiata a sinistra, nella speranza di poter chiedere aiuto a Chakuza ma quello fischiettava - fischiettava! - e faceva Dio solo sapeva cosa in quella specie di bollitore gigante. "Senta, io sto bene, d'accordo. Niente... niente cuore a destra o cose simili. Davvero," si batté una mano sul petto. "Visto? Il problema è che questo non è il mio mondo."
"Lo so, ti ho portato io qui," esclamò candido David. "Che discorsi... forza, siediti sul lettino."
Bill rimase così sconvolto dalla risposta che obbedì senza fiatare e lo seguì fino ad un angolo del laboratorio dov'era allestito un piccolo studio medico, con tanto di lettino e dispositivi di diagnosi. David lasciò che si sedesse e tirò la tenda che, una volta chiusa, avrebbe isolato il piccolo spazio. "Togliti la maglietta, per favore," chiese, recuperando un piccolo attrezzo di ferro con due inquietanti lucette lampeggianti, rosa e azzura, in cima.
"Che cos'è?" Chiese subito Bill.
David non rispose e si limitò a farglielo scorrere addosso. Era gelido e al contatto con la pelle di Bill emetteva un ronzio basso e costante. Rimase in silenzio anche quando recuperò lo stetoscopio e gli ebbe auscultato il cuore con un certo interesse.
"E' tutto apposto?" Chiese Bill, a quel punto un po' preoccupato.
"I pezzi sono tutti andati al loro posto," annuì l'uomo e poi fece un mezzo sorriso sghembo. "Si potrebbe dire che ti hanno rimontato secondo le istruzioni."
D'accordo, quell'uomo usava parole tremende. "Rimontato?"
L'alchimista annuì, convintissimo e anche vagamente euforico. "Si, si si, vieni, ti faccio vedere," gli disse, facendogli segno di seguirlo. "E rimettiti la maglietta. Qua la visione della tua nudità è punibile con la morte."
Bill obbedì ancora una volta. Rimise la maglietta e quindi seguì l'uomo fino al centro del laboratorio dove c'era un enorme cerchio in ferro e lamina. L'oggetto somigliava ad una di quelle porte dimensionali che aveva visto nei film di fantascienza, solo messa molto, molto peggio.
"Qui, giovanotto! Ti distrai con una facilità impressionante," l'alchimista lo richiamò verso un piccolo tavolo che ospitava il modellino di quello stesso cerchio in lamina. "Niente a che vedere con la nostra Principessa originale. Studiava per ore, sai?"
"Studiava cosa?"
"Oh ma tutto! Tutto!" L'uomo annuì con un sospiro, trafficando intorno al tavolo e recuperando oggetti uno dietro l'altro e mettendoli in fila, sul modellino. "Storia, arte, geografia, passava le ore sui libri, nel giardino. Hai visto il giardino?"
"Soltanto un attimo. Vuole spiegarmi, ora?"
L'uomo stava unendo gli oggetti recuperati, che non erano affatto oggetti distinti ma pezzi di un oggetto solo, una bambola, e lui la stava rimettendo insieme. "Distratto e anche impaziente. Il tuo tutore non ti ha insegnato niente."
"Se le dicessi chi è il mio tutore, non le piacerebbe per niente," borbottò di rimando Bill, un po' offeso.
David finì di trafficare, quindi si schiarì la gola. "Sai come funziona la teoria dei mondi paralleli?" Chiese.
"No."
"Pessimo inizio," ragionò l'uomo. "Come posso spiegartelo? Prendi un libro, ad esempio. Ci sono libri nel tuo mondo vero?"
Bill annuì, anche con una certa soddisfazione immotivata. Come se i libri nel suo mondo li avesse inventati lui.
L'uomo ne prese uno e lo aprì nel mezzo, sollevando una sola pagina. "Tu hai una pagina e hai il retro di quella pagina, dico bene?" Bill annuì di nuovo. "Se metti questa pagina controluce, a volte, sei in grado di vedere le lettere dall'altra parte del foglio. E così è anche con i mondi. Ogni mondo ha un parallelo, da qualche parte. Se riesci a metterlo in controluce, per così dire, nella maniera giusta, vedrai il suo doppio apparire. Un po' sbiadito, forse, ma visibile."
"Ed è questo che ha fatto lei? Ha messo il suo mondo in controluce?"
David era molto euforico. "Si può dire così, sì. Proprio così. Ho creato un passaggio: questo," indicò il modellino dell'enorme cerchio in lamina, "e ho fatto in modo che la luce attraversasse il tempo e lo spazio e un sacco di altre cose che è inutile che ti spieghi tanto non le capiresti e... sono arrivato fino a te. Non fisicamente certo, ma... " il tipo annuì, tra sé e sé "... insomma. Eccoti qua."
"Eccomi qua," Bill era poco convinto.
"Sì!" David sollevò entrambe le braccia. "Non è stupendo? Il fascio di luce ti ha prelevato e ti ha smembrato in milioni di minuscoli pezzi senza che tu nemmeno te ne accorgessi," smontò la bambola di legno molto velocemente e fece passare tutti i pezzi attraverso il cerchio per poi correre dall'altra parte del tavolo, recuperarli e rimetterli insieme. "Quindi, lo stesso fascio, ti ha rimontato. Fortunatamente nell'ordine giusto! Et voilà!"
Bill guardò sconvolto la bambola con le gambe al posto delle braccia.
"Beh, più o meno," commentò David, con un colpetto di tosse imbarazzato, lanciandosi la bambola alle spalle. "In ogni caso era soltanto una ricostruzione imprecisa."
Il moro rimase a fissare il plastico per qualche istante poi aprì la bocca e non trovando parole la richiuse. Ci riprovò di nuovo e quindi sollevò lo sguardo sull'uomo con l'unica domanda che aveva voglia di fargli da quando era arrivato. "perché?"
"Hai già avuto modo di conoscere il Presidente?"
Bill ripensò al bacio, alle braccia di un Anis che non era il suo. "Sì, ha voluto vedermi ieri."
"Quello non è che un ricordo del nostro Presidente," mormorò l'Alchimista, con un sospiro. "Un tempo era un uomo buono e allegro e pieno di vita. Poi però tu sei morto. O meglio, la persona che sei tu, in questo modo, è morta e da allora ha perso la testa. Ma adesso che sei arrivato, le cose cambieranno!"
"Prego?" E il suono della voce di Bill fu palesemente inorridito.
"Stanno già cambiando! Non capisci? Tu sei qui, certo non mi aspetto che ti adatti all'istante, capisco che qui sia tutto diverso, e comunque dovrai dirmi in che modo è diverso, e ci sono un sacco di cose che devi imparare. Hai un ruolo importante qui, sai? Ti piacerà!"
"Aspetti! Aspetti un attimo!" Bill sollevò una mano e con l'altra si pinzò la radice del naso perché quel tipo parlava troppo veloce, era pazzo e a lui stava venendo mal di testa. "Io non rimarrò qui. Non ci rimarrò proprio per niente. Io voglio tornare a casa."
"Richiesta ragionevole, posso capirlo."
"Allora mi riporti indietro."
"Temo che questo sia impossibile," mormorò l'uomo.
Bill lo guardò come guardava suo fratello quando aveva passato tre ore a farsi le unghie e lui arrivava, lo urtava e la bella riga bianca della sua french veniva storta. Georg lo chiamava lo sguardo della morte imminente. "Cosa?"
"Il problema è che tu sei più grosso. Del topo, intendo," spiegò David con una mezza risatina, che gli morì in gola. "Sei passato attraverso il cerchio ma c'è voluta un sacco di energia e questa energia, una volta che sei passato ha, diciamo, distrutto il cerchio."
"Nel senso che si può riparare?" Bill provò a dargli una possibilità.
"Nel senso che il ferro che lo costituisce non è più buono per farci neanche una caffettiera, temo."
Bill gli saltò letteralmente alla gola. Da fermo che era, si gettò su di lui e gli strinse le mani alla gola nel tentativo di strangolarlo. "Tu mi hai portato via dal mio mondo, dal mio uomo, dalla mia gente, senza chiedere il mio permesso e adesso mi dici che non posso tornare indietro?" Gridò, così forte che lo sentì perfino Chakuza, nonostante i rimbombi dei suoi colpi di martello.
David avrebbe voluto rispondere che poteva spiegare ma le dita di Bill lo stringevano troppo forte.
"A me non interessa se il vostro Anis non può superare il lutto, chiaro? Il mio mi starà cercando e io sono ancora vivo, per lui, quindi farai funzionare questo schifoso macinino e mi riporterai indietro! Adesso!"
"Non posso," gracchiò l'alchimista, disteso in terra, con tutto il peso di Bill sullo stomaco e le sue unghie pericolosamente puntate alla carotide. "Il cerchio è rotto per sempre, non saprei come ripararlo!"
"Non me ne frega niente!" Urlo Bill, sbattendogli, già che c'era, la testa in terra. "Lo farai funzionare, non importa come!"
"Principessa!" Chakuza si era avvicinato sentendolo urlare, ma era convinto di trovare un ragazzino isterico e in lacrime per qualche motivo che avrebbe faticato a comprendere, non una furia omicida che tentava di strangolare l'Alchimista. "Che cosa stai facendo?"
"Lo sto strangolando!" Ripose chiaramente il moro.
"Ma sei impazzito? Ma che ti prende!" Chakuza lo afferrò per la vita e lo tirò su di peso, cercando di allontanarlo dall'uomo.
Bill si mise a scalciare agitando le braccia. "Lasciami andare Chakuza! Lasciami immediatamente! Devo farlo a pezzi!"
Chakuza strinse la presa, cercando di compensare i movimenti convulsi di Bill. In anni che era convinto di conoscerlo, non lo aveva mai visto comportarsi in maniera tanto sguaiata. "Dico ma ti vuoi calmare?"
"Lasciami!"
"Non ci penso nemmeno!" Chakuza lo rimise in terra, quindi lo tenne fermo per i polsi. "Cos'è successo?"
"Tu non puoi capire, Peter. Lasciamelo ammazzare."
"Dubito di poterlo fare, credo ci sia qualche legge al riguardo," ammise lui, anche con una certa tranquillità. Poi rise. "Guardati, sei tutto scomposto. Sembri una verduraia del mercato."
"Gliela faccio vedere io la verduraia!"
"Okay, okay, calmati," Chakuza gli prese la mano prima che potesse avventarsi di nuovo sull'alchimista. "Vuoi che ti riporti nelle tue stanze?"
"Voglio che lo dica a quell'uomo," Bill parlò direttamente a David. "Mi ha capito? Deve sapere chi sono e deve disporre di rimandarmi a casa. Il come, non ha nessuna importanza."

*


Bill era oltre la rabbia.
Si arrabbiava se prendeva una stecca, se Bushido posava gli occhi su una donna un po' più del dovuto, se David decideva arbitrariamente che dopo due mesi di lavoro ininterrotto li aspettavano altri due mesi di lavoro ininterrotto. Questi erano i motivi per arrabbiarsi.
Essere trasportati contro il proprio volere in un mondo parallelo senza nessuna possibilità di tornare a casa era una ragione valida a giustificare un omicidio. Ed era quello che avrebbe fatto - uccidere David, piano e dolorosamente - se Chakuza non lo avesse allontanato dal laboratorio e condotto di nuovo nella sua stanza, dove ora si trovava, intento a camminare avanti e indietro come un leone in gabbia di fronte all'enorme vetrata.
"Bill, ti prego, calmati," mormorò Chakuza, appoggiato al letto, le braccia incrociate.
"No, non mi calmo affatto," sbottò il moro e non gli importava che quell'uomo non fosse quello identico che conosceva. A casa sua, con il suo Chakuza, lui faceva esattamente questo: sfogava la rabbia repressa, urlando improperi all'universo mondo che lo aveva fatto infuriare, quindi la copia poteva ben prendere il posto del vero Peter Pangerl.
"D'accordo. Allora continua pure ad andare avanti e indietro," concesse l'uomo con un mezzo sorriso, "Ti riprenderò al volo quando cadrai in terra per la stanchezza."
"Io non cadrò in terra per la stanchezza," puntualizzò il ragazzino. "Né cadrò in terra per qualsiasi altro motivo. Sai cosa farò, invece? Tornerò a casa."
"Sei a casa," commentò Chakuza.
Bill sospirò esasperato ma quando Chakuza si staccò dal letto per stringerlo in un abbraccio si lasciò andare perché, come tutti là dentro, anche lui profumava di casa. E anche se non era quello vero, Bill poteva chiudere gli occhi e fingere di essere nella Villa Gialla, in attesa del ritorno di Bushido, schiacciato sul divano tra Eko e Chakuza a guardare un film stupido. Chakuza aveva proprio quel profumo lì. Appoggiò la fronte alla sua spalla, inspirò ed espirò. Di certo c'era un modo per invertire il processo che lo aveva condotto lì. Forse David su due piedi non lo aveva trovato ma ci avrebbe pensato meglio e ci sarebbe riuscito ora che sapeva come stavano le cose, che lui voleva tornare a casa e, soprattutto, che lo avrebbe ucciso se non ce lo avesse rimandato.
Cercò di calmarsi, le braccia di Chakuza sembravano un buon posto per farlo. In fondo gli erano sempre piaciuti i suoi abbracci perché erano pieni ed avvolgenti - non perfetti come quelli di Anis ma premurosi. Forse lo sarebbero stati anche questi. Chiuse gli occhi, le labbra dell'uomo appena appoggiate sulla tempia erano piacevoli e lui davvero si stava calmando. Come a casa. A quanto pareva, i Pangerl funzionavano bene anche attraverso le dimensioni.
Si scostò di scatto quando le labbra di Chakuza scesero a baciarlo.
"Peter, che fai?" Esclamò sorpreso, facendosi indietro.
Chakuza continuò a trattenerlo per la vita ancora qualche istante prima di lasciarlo andare, le braccia immobili lungo i fianchi. Sembrava ferito. "Allora davvero non ricordi niente."
"Non sono io!" Bill esplose, esasperato. Quante volte ancora avrebbe dovuto dirlo? Quante perché questa gente capisse? "Qualunque cosa tu ricordi della persona che mi somiglia, io non c'entro niente. D'accordo? Io vengo da un'altra parte, da un altro mondo! Forse perfino da un altro universo. Non sono quello che pensi."
Chakuza, però, sembrava aver smesso di ascoltare. Era arretrato e si era seduto sul letto, a fissare il vuoto.
"Chaku?"
"Tu non gli somigli," mormorò. "Tu sei esattamente uguale a lui."
Bill annuì comprensivo e gli si sedette a fianco. "Lo so. Anche tu sei uguale al Peter che conosco io ma non sei lui."
L'uomo scosse la testa. "Io non capisco, com'è possibile?"
Bill tentò di spiegargli cos'era successo, anche se aveva dei problemi a ripetere di nuovo tutta la questione dei mondi che si toccavano appena, delle pagine di libro e dell'energia che lo aveva portato lì distruggendo il portale. Disse solo che il suo mondo era tutto diverso ma che c'erano dentro le stesse persone. Una volta che ebbe finito, però, sembrò che Chakuza si fosse perso, Bill non sapeva se nei ricordi o nel presente, di certo nella difficoltà di accettare quel rifiuto che, evidentemente, non era mai arrivato dalla persona che aveva il suo viso.
"Che cosa siamo io e te nel mondo da cui provieni? Tu mi conosci, no?"
"Siamo amici," rispose Bill. "Tu sei il migliore amico dell'uomo che amo."
Peter sorrise, un po' amaramente. "Allora io e il tuo Chakuza non siamo molto diversi."

*


Bill avrebbe pensato che la cosa più strana di ritrovarsi in un mondo parallelo completamente diverso dal suo nel quale però c'erano copie di persone che conosceva, fosse appunto la possibilità stessa di un viaggio interdimensionale e invece, a quanto pareva, era molto più strano ciò che veniva dopo.
La conversazione con Chakuza era stata imbarazzante, perché era chiaro che il Bill che lui aveva conosciuto aveva un posto speciale nel suo cuore se baciarlo aveva rappresentato la normalità. Passato l'attimo di smarrimento, Bill si era anche chiesto quanto sapesse Bushido di questa cosa perché se il presidente di Tempelhof era geloso anche solo la metà del suo Anis e fosse stato informato dell'affetto – Bill non ne sapeva abbastanza per essere scortese e chiamarlo in altro modo – che legava il proprio compagno e il campione di corte, allora forse Chakuza non sarebbe stato vivo per raccontarlo. O per tentare di baciare lui, se era per questo.
Bill guardò il proprio riflesso nell'enorme specchio della camera che era stata del suo alter ego e si sfiorò le labbra con due dita; era una sensazione strana perché aveva baciato Chakuza, ma non si sentiva davvero di averlo fatto perché non riusciva a ricondurre ciò che era successo all'immagine del Peter che conosceva. Scosse la testa, cercando di scuotere via i pensieri: andando di questo passo, sarebbe senz'altro uscito di testa.
Ad ogni modo, nei giorni che avevano seguito quella discussione, non aveva visto né sentito nessuno. Anche avventurandosi per quei due corridoi che conosceva, aveva incrociato solo la servitù e né Chakuza né David sembravano più trovarsi da nessuna parte. Aveva pensato di rivolgersi direttamente a Bushido, ma aveva ancora in testa gli avvertimenti che Chakuza gli aveva dato la prima volta che lo aveva condotto di fronte alla sua porta e il solo pensiero gli mandava i brividi lungo la schiena. Se l'uomo non lo aveva mandato a chiamare, allora forse non era il caso di presentarsi nelle sue stanze di propria iniziativa; non era certo che la sua presenza lì a palazzo lo avesse fatto rinsavire, ancora.
Inizialmente aveva preso la cosa di buon grado ed era rimasto nella sua stanza a rimuginare sugli ultimi avvenimenti e, soprattutto, a convincersi che strangolare David non era una buona cosa anche se oggettivamente lo sembrava, ma poi aveva cominciato ad annoiarsi. La stanza di questo misterioso se stesso che si era preso la sanità mentale di Bushido e di cui tutti parlavano un gran bene – ma di questo non si stupiva, d'altronde si trattava di un Bill – era enorme e la vista era stupenda, ma più che girarla in lungo e in largo, guardare dalla finestra e poi ricominciare a girarla in lungo e in largo non poteva fare. C'era sì una gigantesca libreria, piena di libri fin quasi a scoppiare ma a lui leggere non piaceva e anche quando, per la disperazione, aveva pensato di iniziare, aveva scoperto che il suo alter ego era un amante dei romanzi strappalacrime in cui giovani donzelle dalle caviglie fragili si facevano salvare da aitanti principi in armatura scintillante. Ora, lui era uno che piangeva sui film romantici, ma c'era un limite al miele che poteva sopportare. In più questi libri erano enormi, pesantissimi e polverosi. Tomi di cinque o sei chili, come se i tascabili non fossero mai stati inventati e, a ben pensarci, forse era così. Non aveva idea di come funzionassero le cose da quelle parti.
E poi, naturalmente, c'erano le cameriere. Quelle lo facevano davvero impazzire. Il problema con queste signorine velate era che sembravano programmate soltanto per bussare alla sua porta, posare un vassoio straripante di cibo sul tavolo più vicino e quindi andarsene augurando ogni benedizione alla Luce di Tempelhof, ossia a lui o a quello che lui sembrava, per lo meno. Qualunque tipo di avvenimento che deviasse il loro percorso prestabilito sembrava mandarle nel panico più totale. Bill aveva tentato di parlarci ma c'era mancato poco che una di loro non se ne andasse urlando e agitando le braccia; aveva dovuto smetterle di fare domande per paura che le venisse un infarto. Era scoraggiato, davvero. Ma che razza di posto era?
Era per questo che ne aveva abbastanza: di belle stanze, di libri impossibili e di passare le giornate da solo, anche. Sarebbe uscito da quella stanza e si sarebbe avventurato ben oltre i due corridoi che aveva già visto e se alla Luce di Tempelhof non era permesso avventurarsi per i cavoli suoi – chissà magari anche Bushido aveva una stanza piena di mogli sgozzate o una in cui teneva la sua rosa che perdeva i petali in cui all'altro Bill era vietato andare – che lo fucilassero, o qualunque cosa si facesse da quelle parti per punire le disobbedienze. Un'altra giornata come le ultime appena trascorse, e avrebbe pensato personalmente a rimuoversi da questo e da tutti gli universi conosciuti.
Aveva appena spalancato la porta come se fosse pronto a scardinarla e portarsela dietro come trofeo di guerra, quando si ritrovò davanti Chakuza con gli occhi sgranati, che lo guardava con perplessità mista a grosse tracce di sano terrore.
“Ah, sei qui,” commentò Bill, secco. Lo guardava senza rendersi effettivamente conto di averlo ancora davanti. Era stato un po' come in quei vecchi giochi di scatoline con il doppio fondo che le aprivi una volta e non c'era niente, poi facevi scorrere il fondo senza farti vedere e quando le riaprivi ecco che era comparsa la pallina. Bill aveva spalancato quella porta una sacco di volte e finalmente il gioco di prestigio aveva funzionato. La Chaku-pallina era magicamente comparsa. “Dov'eri?”
Chakuza si riprese con un colpo di tosse e mise le mani dietro la schiena, in una posa che gli ricordò il vero Peter in un video tremendo per il quale, ancora oggi, si vergognava per lui. “Avevo degli affari da sbrigare per conto del presidente,” commentò, un po' perplesso. “Qualcosa non va?”
“Qualcosa non va?” Ripeté Bill, a dir poco sconvolto dall'ottusità dell'uomo che aveva davanti. “Mi chiedi se qualcosa non va? E' una settimana, anzi più di una settimana, che sto chiuso qui dentro ad ammuffire e tu mi chiedi se qualcosa non va?”
“Non si sono occupati di te?” Esclamò subito l'uomo. “Avevo esplicitamente ordinato che ci fossero almeno due serve al tuo servizio ad ogni ora del giorno e della notte.”
“Ecco, parliamo delle serve!” Sbottò Bill. Ora che le aveva nominate, gli sembravano un buon punto di partenza per iniziare a lamentarsi come solo un Kaulitz minore sapeva fare.
“Hanno commesso qualche errore?” S'informò. “Immagino che sia stato un disagio, ma devi anche capire che le tue serve personali... beh, quelle di Bill sono state fatte allontanare subito dopo la disgrazia. Bushido non sopportava nemmeno la loro presenza.”
“No! No! Tu non capisci!” Strepitò. “Queste entravano qui, lasciavano il cibo e se ne andavano. Due volte al giorno, per tutti i giorni e se provavo a parlarci... morte e distruzione! Si può sapere che gente assumete da queste parti? David, il mio David, affida a degli psicologi i colloqui per la gente che sta dietro a noi, insomma, non è che puoi prendere tutti i pazzi che si presentano alla tua porta. Ecco perché poi la gente muore! Perché non si controllano le referenze!”
Chakuza aveva capito ben poco dell'intero discorso, ma la cosa che sembrava premergli era una sola. “Hai parlato con le serve?”
“Eh?”
“Tu hai...” Chakuza fece un gesto vago con la mano, di fronte a sé, come cercando di esprimere meglio il concetto con disegni invisibili nell'aria. “... hai cercato di parlare con le serve.”
“Lo avrei fatto se si fossero abbassate a rispondermi invece di farsi prendere dal panico!”
“Tu non puoi parlare alle serve, Bill!” Esclamò l'uomo, con un tono misto tra il rassegnato, l'incredulo e qualcosa che Bill non seppe ben identificare. “Non se lo aspettano!Non... non è previsto che tu lo faccia!”
“Non è previsto da cosa?”
“Dal regolamento!” Esclamò l'uomo. “E' una delle prime regole e sono quasi certo che ci sia anche qualche altra postilla dedicata, da qualche altra parte! E'... no, non si fa!”
Bill pensò tre o quattro risposte differenti, ma alcune erano poco diplomatiche e quelle rimaste, nella loro curiosità, assecondavano la follia dell'uomo che aveva davanti ed era quasi certo che non fosse una grande idea farlo. “C'è un regolamento?”
“Certo che c'è un regolamento,” rispose Chakuza, annuendo vigorosamente. “Ed è anche piuttosto specifico. La servitù non può parlarti direttamente. Tu puoi, volendo, ma sarebbe inutile giacché nessuno può risponderti se non attraverso una terza persona che non può essere un servo.”
“Questo non ha alcun senso.”
“Non ho scritto io il regolamento,” si difese Chakuza.
“E quindi io come dovrei comunicare, di grazia?”
“Puoi conferire con tutte le persone del tuo stesso rango e di quelli inferiori fino ad un certo grado,” spiegò, annuendo e citando a memoria. Poi inclinò la testa di lato. “Beh quasi tutti in realtà, tranne i servi. E in ogni caso ci sono altre specifiche. E' una cosa complessa.”
“Voi siete pazzi,” commentò Bill.
Chakuza incassò in maniera diplomatica. “Sono le nostre leggi,” come a dire che visto che erano leggi, bisognava che fossero per forza anche sensate.
“Ma io sarei un personaggio importante qui, no?” S'informò, tanto per essere sicuro. “Voglio dire, al fianco del Presidente e tutto...”
Chakuza annuì. “Sei la Luce di Tempelhof.”
“Ecco sì, questa cosa poi me la spiegherai.” Bill tossì. “Comunque sia, avrò del potere immagino. Ecco, potremmo allora cambiare questa stupida regola della gente muta? Non posso vivere qua dentro chiedendomi costantemente chi manderò nel panico parlando, ti pare? E poi è oggettivamente una stronzata. Quindi cancelliamola, che ne dici?”
Bill immaginava che mettere le mani sulle leggi di un universo parallelo fosse la prima cosa da non fare assolutamente sulla lista del buon viaggiatore dello spazio-tempo e che forse la sua richiesta suonasse un po' presuntuosa alle orecchie di Chakuza, ma l'espressione assolutamente orripilata che stava ora sconvolgendo i lineamenti dell'uomo gli sembrava francamente troppo esagerata, anche per una mancanza di diplomazia extra-dimensionale come la sua. “Chaku, seriamente,” iniziò. “Okay, mi dispiace, non volevo essere troppo invadente. E' solo che davvero mi trovo a disagio con la gente che sta zitta.”
L'uomo scosse la testa. “No, scusa,” balbettò. “E' che è la prima volta che ti sento imprecare. Ammetto che è un po' disturbante.”
Bill cercò di afferrare quello che stava dicendo e, ripercorrendo la sua ultima frase, si rese conto di aver detto una parolaccia. Okay, sarebbe stata una permanenza più lunga del previsto.

*


“Quindi, in pratica, sarei un bel soprammobile,” commentò Bill.
Chakuza l'aveva convinto a fare un giro del palazzo, probabilmente con l'idea di distrarlo e farlo così smettere di inveire contro il sistema e i fondatori della costituzione; ma non stava andando un granché bene.
“No, non è affatto così. Tu sei–“
“La Luce di Tempelhof, ho capito. Ma se non ho nessuna voce in capitolo sulle questioni amministrative e governative di questo posto, allora significa che sto qui a fare scena e basta. Come una specie di First Lady.”
“Una cosa?”
“La moglie di un capo di governo, però senza nemmeno gli impegni mondani. Immagino che il vostro Bill non facesse beneficenza, o organizzasse balli all'ambasciata o cose simili.”
“Intendi fuori dal palazzo?”
Bill annuì, guardando questo Chaku senza cappellino e rendendosi conto che non aveva mai immaginato il proprio senza. Era strano sapere cosa si nascondesse sotto la visiera senza averla mai tolta.
“No, Bill non poteva uscire dal Palazzo se non accompagnato,” Chakuza scosse la testa. “E comunque le questioni diplomatiche non spettavano a lui.”
“C'era qualcosa che gli spettasse?” Chiese Bill ironico. “Che cosa faceva tutto il giorno?”
Chakuza s'illuminò tutto, come qualcuno gli avesse acceso una lampadina dietro le orecchie. “Vieni, ti faccio vedere.”
Bill si aspettava che il campione, carpentiere, o qualunque altra cosa fosse, partisse in quarta per fargli strada ma ovviamente quello non si mosse neanche, così si ricordò di dover camminare per primo. “Che direzione?” Sospirò rassegnato, allargando le braccia.
“Davanti a te,” rispose Chakuza.
L'uomo lo condusse oltre una porta che non aveva ancora mai superato, e quindi aldilà di una sala stupenda che avrebbe voluto fermarsi a guardare ma per la quale non ebbe tempo, perché Chakuza lo indirizzò subito oltre. Alla fine, dopo due rampe di scale durante le quali l'uomo gli chiese premurosamente se volesse una mano e rischiò di farsi mandare a quel paese con parole che avrebbero fatto sicuramente svenire l'altro Bill per la loro crudezza, raggiunsero una specie di studiolo grande complessivamente come tutta la sua vera casa a Berlino. Chakuza si fermò proprio accanto alla porta e, naturalmente, gli fece segno di entrare.
Bill premette piano sulla maniglia e lasciò che la porta scivolasse all'interno, lentamente. C'erano vetrate immense, come quelle della sua stanza, ma ora che il sole calava all'orizzonte, la luce che filtrava era rosata e morbida e gli sembrava di guardare una stanza che non era realmente lì, come se la stesse sognando, piuttosto che averla davanti.
“In realtà non dovresti essere qui,” mormorò Chakuza alle sue spalle, e il tono della sua voce era diverso, più distante, tanto che Bill ebbe l'impressione che non fosse più lì con lui. “Il Presidente ha proibito l'accesso a chiunque.” Bill si fermò sulla soglia ma Chakuza gli sorrise. “Ma immagino che questo non valga per te. Sarebbe sciocco proibire a Bill di entrare, ti pare?”
Bill fece qualche passo incerto all'interno della stanza e si guardò intorno con quel misto di ansia e di voglia che ti prende quando sai di essere circondato da cose potenzialmente meravigliose e non vuoi scoprirle tutte insieme per un'occhiata sfuggita al controllo che rivelerebbe troppo e rovinerebbe la sorpresa. La prima cosa che vide fu il pianoforte a coda sulla sinistra, appena davanti alla finestra e gli venne da appoggiarci sopra la mano, accarezzando appena i tasti che erano un po' ingialliti dal tempo. Quando vi premette sopra con l'indice, lo strumento emise un suono basso e un po' stonato che si propagò nella stanza meravigliosamente.
Chakuza aspettò che l'ultima eco si spegnesse prima di dar voce al proprio sorriso. “E' scordato,” mormorò, avvicinandosi e scostandolo appena. Sollevò il coperchio e cavò fuori dalla cintura un affare che Bill non avrebbe saputo identificare nemmeno volendo e quasi sparì all'interno dello strumento. “Prova ora,” disse, quando riemerse. Bill premette di nuovo lo stesso tasto e stavolta il suono fu più limpido e, soprattutto, intonato.
“Wow,” commentò Bill.
Chakuza si strinse nelle spalle. “Una volta lo facevo quasi tutte le settimane. Questo affare è molto più vecchio della stanza che lo contiene. Il Presidente la fece costruire apposta con un'acustica perfetta, così che Bill potesse suonarci dentro quanto voleva.”
Bill suonò altre tre note in scala e poi indicò il panchetto. “Posso?”
Chakuza gli fece segno di accomodarsi. “Prego.”
“Io non sono molto bravo,” ammise il cantante, scrocchiandosi le dita.
L'uomo appoggiato al pianoforte ridacchiò. “Non preoccuparti, non lo era nemmeno lui,” ammise. “Lo prendevamo sempre in giro.”
Bill cercò di strimpellare qualcosa che suonasse anche solo vagamente più serio di quella musichetta che lui e suo fratello erano in grado di riprodurre insieme. Ricordava che David gli aveva insegnato qualcosa un pomeriggio che era annoiatissimo, anche se non è che lo avesse ascoltato poi molto. A Bill piaceva imparare cose, purché non ci volesse più di dieci minuti per impararle; gli era sempre bastato così poco per fare benissimo l'unica cosa in cui era bravo – cantare – che pretendeva di diventare abile in qualunque altra cosa allo stesso modo. Così quando David aveva tentato di spiegargli quella che aveva definito come la canzone che tutti i bambini imparavano nell'ora di musica, lui ci aveva rinunciato quando al secondo tentativo aveva sbagliato più di due note.
“Voi chi?” Chiese, mentre cercava il tasto successivo e poi sorrise. “Il regolamento non prevede la lapidazione pubblica per vilipendio?” Quando alzò lo sguardo, però, Chakuza gli fece un mezzo sorriso storto ma poco partecipe, quindi Bill pensò che non fosse il caso di scherzare sul morto. Tossicchiò. “Quindi suonava il pianoforte.”
“E disegnava, sì,” annuì Chakuza, indicando un tavolo con ancora decine e decine di fogli di pergamena arrotolati o stesi, c'erano ancora perfino i pesi che il ragazzo doveva aver usato per fissarli contro il tavolo.
Bill passò in rassegna i disegni. Erano tutte figure singole, come figurini. “Sono abiti?” Chiese.
“Sì. Li faceva realizzare lui, secondo i suoi disegni,” spiegò l'uomo. “ Anche quelli che indossi tu vengono dal suo armadio.”
“Eh, per forza, non c'era altro,” commentò Bill, sospirando all'idea di avere addosso qualcosa che gli avrebbe fatto guadagnare un numero considerevole di punti nella classifica delle persone peggio vestite dell'universo. Ma d'altronde un po' tutti lì sembravano vestire in maniera assurda. Il vero Chakuza, per dire, si sarebbe fatto ammazzare a sprangate da Anis piuttosto che mettersi un paio di pantaloni a sbuffo. “A proposito, mi chiedevo se non potrei avere qualcosa di più.... di meno..... insomma, qualcosa che assomigli anche vagamente ai vestiti che avevo addosso quando sono arrivato. E magari un paio di anfibi, come i tuoi, non ne posso più di queste scarpette di tela.”
Chakuza guardò prima i propri piedi infilati in un paio di stivali neri alti allo stinco e poi il paio di similpantofole in seta calzate da Bill sotto i pantaloni stretti al polpaccio, quindi iniziò a nicchiare. “Non so, forse dovremmo sentire il Presidente,” mormorò confuso. “C'è un protocollo da seguire.”
“Non sto chiedendo la luna, solo un paio di scarpe!” Sbottò il moro. “Possibile che ogni cosa sia così difficile da queste parti?”
“Vedrò cosa posso fare, d'accordo?” Esclamò alla fine l'uomo, rassegnato. “Certo che sei ingovernabile. E' incredibile che siate così diversi quando vi assomigliate in questo modo. Lui non avrebbe mai...”
“Mai cosa?” Lo incalzò.
Chakuza si grattò la nuca. “Non sono sicuro di volertelo dire.”
Bill ridacchiò. “Avanti, cosa?”
“Protestato. Bill non protestava mai per nulla.”
Il cantante rimase ad osservarlo in silenzio per qualche istante, incapace di dire qualcosa che non suonasse molto cattivo; l'idea che esistesse da qualche parte – o che fosse esistito, meglio – un se stesso che non avesse mai sentito il bisogno di ribaltare il mondo per un qualcosa che non gli tornava era inammissibile. Se poi pensava che questo Bill aveva praticamente passato la vita a conversare da solo senza mai uscire da quelle quattro mura, non si capacitava. Lo sapevano tutti che lui era un viziato di prima categoria, si sarebbe aspettato le sue stesse pessime abitudini dalla sua copia ultra-dimensionale. Fu a quel punto che gli venne la curiosità di capire meglio che razza di creatura fantasiosa dovesse essere questo prezioso Bill che si stancava facendo le scale e che non diceva mai parolacce. “Perché non mi parli di lui?” Chiese, sedendosi a gambe incrociate su un divanetto. “Che tipo era? Voglio dire, a parte le scarpe di tela e il voto del silenzio.”
“Non era voto di silenzio,” rise Chakuza, scivolando a sedere sul panchetto del pianoforte e intrecciando le dita delle mani tra le ginocchia. “Seguiva solo le regole.”
“Okay, allora parlami di questa noiosissima copia di me stesso che non faceva mai confusione!” Insistette. “Sono curioso.”
Chakuza sembrò pensarci su, come dovesse trovare il punto giusto dal quale iniziare. Bill ne approfittò per liberarsi delle odiose scarpe di tela, che oltre ad essere oggettivamente tremende erano anche scomode e avrebbero finito per fargli del male ai piedi. “Lui era...” iniziò Chakuza e Bill si affrettò a tornare composto e ad infossare le scarpe sotto al divano. “Lui era buono, ed era sempre allegro e convinto che le cose potessero risolversi nel modo migliore.”
Noia, noia, noia, pensò Bill. Eppure, copia o non copia, era pur sempre un Bill Kaulitz, quindi qualcosa di interessante doveva pur averlo. Inspirò. “E questo oltre a suonare il piano e disegnare?” Chiese. Non voleva essere ironico, davvero, solo che era frustrante. Se avesse dovuto dare un giudizio su questo fantomatico ragazzino, non sarebbe stato per niente positivo. In più Chakuza continuava a dargli sui nervi e non sapeva se fosse per tutto il miele che stava sbrodolando sulla buonanima o perché la cosa più carina che il suo Chakuza avesse detto a lui era stata complimentarsi del suo nuovo taglio di capelli, che almeno lo faceva sembrare quasi maschio. E al quasi, Anis aveva riso come un coglione.
“Non capisco perché devi essere così caustico,” commentò Chakuza, ma sorrideva, non sembrava affatto arrabbiato per l'atteggiamento. E forse era anche per questo che Bill cominciava a trovarlo insostenibile. Innervosisciti, cazzo. Perché siete tutti così buoni? Le serve obbedienti, la dama del castello buona, dolce e docile e il cavaliere dall'armatura scintillante che ne parla trasognato come se fosse una dea celeste. Senza contare un Bushido che nel perderla diventa un animale. Bill si chiese vagamente se non fosse finito in uno dei romanzi rosa di sua madre.
“Perché tu non hai idea del mondo da cui provengo io,” fu la sua risposta. “E giuro che pensavo non avrei mai detto una cosa simile perché a casa mia sarebbe molto ridicola.”
Quando gli parlava, Chakuza sembrava sempre capire solo la metà delle cose che diceva, il che era perfettamente comprensibile perché anche lui si trovava nella stessa situazione. “Perché, che mondo è il tuo?”
“Uno in cui io non sono fatto di cristallo,” precisò. “E' snervante, sai, sapere che un qualche improbabile me stesso è vissuto qui sopportando con pazienza certosina cose per le quali io ammazzerei bambini innocenti.”
Chakuza rise, cogliendolo un po' di sorpresa e interrompendolo nell'impeto di raccontare come avrebbe reagito rispetto a questa o all'altra cosa. “Allora raccontamelo com'è questo mondo,” esclamò allargando le braccia e scuotendo la testa. “Come funziona da dove vieni tu?”
“Tanto per cominciare io...” Bill ci pensò un secondo, rendendosi conto che non aveva mai pensato a come raccontarlo. Non aveva mai dovuto farlo in effetti perché in genere l'intero pianeta sapeva chi fosse lui e quale fosse la sua vita. “Beh, io sono famoso. Molto famoso. E canto. Sì, insomma, sono un cantante famoso.”
Chakuza stava per rispondere quando qualcosa nella sua tasca si mise a brillare, attirando la sua attenzione e anche quella di Bill che lo osservò sconvolto estrarre un vecchio orologio a cipolla grande quanto il pugno della sua mano che risplendeva di una luce vagamente dorata. Il pensiero che un uomo come Peter potesse indossare un aggeggio del genere era talmente surreale che poteva mandargli in tilt il cervello più dell'idea che esistessero diversi mondi, tutti col loro bel Bill Kaulitz dentro.
Il carpentiere o quello che era, intanto aveva premuto l'enorme pulsante sulla testa del cipollotto e quello si era aperto con un scatto discreto. Il quadrante trasparente lasciava intravedere il meccanismo interno fatto di tante piccole ruote dentate color rame che si incastravano le une nelle altre uno scatto dopo l'altro. Le cifre erano scritte nella stessa strana calligrafia che Bill aveva trovato nei libri dell'altro Bill; i simboli erano gli stessi, ma tracciati in un carattere che non aveva mai visto. Si vedevano sullo sfondo trasparente solo perché pulsavano di luce anche loro. “E' un orologio bellissimo,” mormorò affascinato, senza rendersi conto di essersi sporto in avanti per guardarlo meglio. Pensò che fosse abbastanza vintage da stare benissimo attaccato ad almeno sei paia dei suoi pantaloni.
“E' anche un enorme fastidio,” sbuffò Chakuza. “E come tutti gli oggetti veramente fastidiosi di questo palazzo, è una creazione di David.”
“David ha creato gli orologi?” Commentò Bill, con il suo sopracciglio sollevato.
“Naturalmente no,” precisò Chakuza, osservando un ultima volta il quadrante e poi chiudendo l'orologio che smise di brillare. “Ha creato questi orologi.”
“Sarebbe?”
“Registrano le cose che devi fare, all'ora che devi farle e continuano a segnalartele finché tu disperato non gli dai ascolto e, possibilmente, non le fai.”
Il sopracciglio sollevato di Bill rimase lì dov'era. “Fantastico. In questo mondo, David ha inventato le agende elettroniche.”
Chakuza però non lo stava ascoltando, si era rimesso l'orologio in tasca e ora era in piedi, la mano già tesa verso di lui. “Il che mi ha appena ricordato perché ero venuto a trovarti e quello che dovevo dirti. Il Presidente ti vuole a cena con lui questa sera.”
Bill rimase seduto dov'era, le gambe un po' larghe e le braccia incrociate al petto. “E immagino che non sia esattamente un invito.”
“Lui non ha bisogno di invitarti, Bill,” gli fece notare l'uomo.
“Beh, qualcuno dovrebbe dirgli che io apprezzo che mi si lasci la scelta ogni tanto. Sono un grande fan del libero arbitrio.”
Chakuza si limitò a sospirare, la mano sempre tesa.
“Se non rimetti subito in tasca quella mano rimarremo così per sempre,” commentò Bill. “Oppure in alternativa ti staccherò un dito a morsi.”
Chakuza obbedì all'istante e Bill si alzò, sorridendo compiaciuto. “Fammi indovinare,” buttò lì mentre si avviava a casaccio prima di lui. “Niente pericolo di denti col tuo Bill, vero?”
Sentì Chakuza tossire imbarazzato e prese nota.

*


La cena con il Presidente, naturalmente, non poteva essere un pasto informale con indosso il primo paio di pantaloni a sbuffo e di babbucce pescate a caso dall'armadio, ma una processione di serve, stanze, trucchi e generale preparazione da fare invidia ad un matrimonio.
“Tutto questo per una cena?” Chiese Bill da dietro la tenda della doccia, in cui era stato infilato con gentilezza ma grande perseveranza da due serve mute. “Cosa succederebbe se ci sposassimo?”
“Vi siete sposati,” commentò Chakuza, dall'altra stanza.
Bill smise di insaponarsi, colto di sorpresa. “Davvero?” Sorrise perché in qualche modo l'idea di sposare Anis gli metteva tenerezza. Era bello pensare che almeno da qualche parte, nell'universo, Bushido fosse suo marito. “E quanto sono durati i preparativi?”
“Quasi un anno e mezzo,” rispose Chakuza. “Il matrimonio vero e proprio due settimane.”
“Cazzo!”
Dalle parti del carpentiere arrivò un borbottio contrariato.
“Scusa.”
Chakuza sospirò. “Non fa niente. Piuttosto, stavi dicendo di essere un cantante famoso.”
“Ho una band,” confermò il moro. “Siamo in quattro. Io e mio fratello e...” ci pensò su “...i due ragazzi che erano con me quando è scoppiata la bomba alla stazione del treno.”
“I due disperati dei livelli inferiori?”
“Anche tu con questa storia!” Sbottò Bill, chiudendo l'acqua e avvolgendosi un asciugamano in vita per uscire dalla doccia. “Sono due persone, d'accordo?”
“Okay, d'accordo, non ti arrabbiare,” Chakuza cercò di placarlo, c'era sempre una nota vagamente tranquillizzante nella sua voce quando lo faceva e Bill era quasi certo di trovarla fastidiosa. Evidentemente Chakuza era abituato a trattarlo come se fosse scemo. “Comunque non ce lo vedo tuo fratello a cantare.”
“No, infatti suona la chitarra,” rispose, entrando nella stanza mentre si asciugava i capelli.
“E Bushido? Tu e lui... state insieme?”
Bill annuì, cercando un elastico sul piano della toletta. “Da un paio d'anni,” aggiunse. “Ma è un cantante, non un Presidente.”
Chakuza lo guardava, gli occhi persi e un po' increduli. “Non riesco ad immaginare niente di quello che mi stai dicendo. Mi sembra tutto...impossibile.”
Bill gli sorrise. “Benvenuto nel mio mondo. Io ci sono finito in mezzo a questa assurdità, sto messo peggio di te,” commentò. Per qualche strana ragione, era quasi certo che Chakuza non avesse assolutamente il permesso di vederlo così svestito, date le regole ferree che vigevano sulla sua persona in tutte le altre situazioni, ma che fosse molto abituato a farlo comunque visto che guardarlo non sembrava creargli alcun imbarazzo. “Dovrei vestirmi,” esclamò ad un certo punto, quando la discussione non proseguì e l'uomo non accennò a togliersi di mezzo. “O devi supervisionare l'operazione?”
L'aveva buttata sul ridere, ma per Chakuza non sembrava particolarmente divertente.
Gli riservò comunque un mezzo sorriso confuso e si alzò in piedi, grattandosi la fronte. “No, naturalmente. Ti aspetto fuori per darti le istruzioni.”
Istruzioni. Bill si chiedeva se ci fosse un aspetto della vita del suo alterego che non fosse regolata in un modo o nell'altro. Se non trovava il modo di tornarsene a casa velocemente, avrebbero preso la loro costituzione e l'avrebbe data alle fiamme sulla pubblica piazza. Lo avrebbero ricordato come una figura invasata e malvestita che correva ridendo intorno alle ceneri delle loro leggi.
I vestiti per la serata erano improponibili e non aveva idea del criterio con il quale erano stati scelti, né perché qualcuno lo avesse fatto al posto suo. Così li ripiegò per bene e li rimise nell'armadio, il più nascosti possibili, e cercò qualcosa che non gli facesse venire voglia di rimettere prima ancora di sedersi a tavola.
Quando alla fine uscì da quella stanza era un po' più se stesso e molto poco la Luce di Tempelhof, e Chakuza si coprì gli occhi con una mano, sfinito. “Come sei vestito? Dov'è la tua mantella?”
“Niente mantella. Ho una felpa, vedi?” Disse indicando l'unico capo di vestiario che gli fosse rimasto. Tutto il resto era sparito per essere lavato e non era ancora tornato indietro. Si tirò su il cappuccio. “Ho anche la testa coperta e non un centimetro di pelle esposto agli avidi occhi del popolo.”
“Che ne è dell'abito che c'era in camera?”
Bill faticava a descriverlo tale. “Ho dei problemi con le lunghe tuniche con lo strascico,” rispose ironico. “Dev'essere qualcosa che ci mettono dentro.”
Chakuza lo guardò storto.
“Che c'è? Non sono indecente. Sono coperto. Sono carino e sono pronto ad incontrare il Presidente.”
“Ma non sembri tu.”
“Meglio così,” concluse, piccato. “perché non lo sono.”

*


Bill era stato portato in una stanza diversa, anche questa immensa, anche questa con una gigantesca vetrata che mostrava quella strana Berlino in tutta la sua gloria aerea. Si era aspettato di trovare il freddo scostante di mobili asettici, come nello studio in cui si erano incontrati la prima volta, ma la stanza aveva qualcosa di familiare.
Bill affondò i piedi nel tappeto e fece qualche passo incerto, osservando ciò che lo circondava.
C'era profumo di spezie che saliva da grandi vassoi dorati al centro del tavolo basso in mezzo alla stanza e in un angolo, un mucchio di cuscini scuri ammonticchiati gli uni sugli altri lo invitava a sedersi sotto le tende damascate, puntellate al soffitto. Quando posò gli occhi sul narghilè, il cuore mancò un battito.
Era quasi come trovarsi nello studio del suo Anis, mancavano solo il mixer e il microfono, con i computer e il disordine di bottiglie di birra vuote che c'era sempre intorno.
Deglutì perché l'idea di sentirsi a casa non gli piaceva, lo rendeva vulnerabile e quello era esattamente il tipo di atteggiamento che voleva evitare. Chakuza gli aveva ricordato di non parlare se non interrogato e di obbedire alle richieste, ma erano tutti suggerimenti che non era intenzionato a seguire. Se voleva far capire a quest'uomo che lui non era Bill, la prima cosa da fare era smetterla di assecondarlo.
“Sei qui.”
Il difficile era mantenere fede ai buoni propositi quando la sua voce gli mandava i brividi lungo la schiena ed era capace di avvolgerlo come quella di Anis.
Si voltò lentamente, più per avere il tempo di scrollarsi di dosso quelle sensazioni che non per gli avvertimenti di Chakuza e annuì. “Presidente...”
“Perché non hai addosso il vestito che avevo ordinato?”
Perché faceva schifo, Anis. Se fosse stato a casa, avrebbe risposto questo. Ma se fosse stato a casa, Bushido non avrebbe mai scelto un vestito per lui. Sospirò. “Non ero a mio agio. E credo che dovremmo-”
“Siediti.”
Bill serrò la mascella, ma si sedette. Un punto per lui, dannazione.
L'altro Anis rimase fermo di fronte alla finestra, le mani infilate nelle tasche del completo scuro. “David dice che stai bene, tutto considerato. Tu come ti senti?”
Bill si sistemò una ciocca dietro l'orecchio e guardò stancamente la tavola apparecchiata. “Sto bene, tutto considerato,” ripeté. “Vorrei soltanto tornare a casa.”
Bushido non rispose, ma andò a sedersi proprio di fronte a lui. Si sistemò il tovagliolo sulle gambe, prima di continuare. “La camera da letto è di tuo gradimento?”
Bill sospirò, rassegnato. Non c'era modo di fuggire ai convenevoli. “Sì, è perfetta. Grazie.”
Non c'erano servi e il cibo era già presente sul tavolo.
Fu l'uomo a servire entrambi, decidendo le quantità e cosa servire. Quando ebbe finito, gli fece cenno di iniziare a mangiare e quando lui ebbe messo in bocca il primo pezzo di carne, allora anche il presidente fece altrettanto. Da quel momento e per i minuti a seguire, calò fra loro un silenzio pesantissimo, che però sembrava dare fastidio soltanto a Bill. Bushido, infatti, mangiava tranquillamente, gli occhi bassi sul piatto e la schiena dritta, come se quella situazione fosse perfettamente normale.
Bill fu preso da un moto di stizza e allungò una mano verso la caraffa di terracotta al centro del tavolo. Non aveva idea di cosa ci fosse dentro, ma voleva berlo e solo perché Bushido non gliene aveva versato nemmeno una goccia.
L'uomo però gli strinse subito una mano intorno al polso, impedendogli di farlo. “Questo no,” esclamò guardandolo con serietà.
“Scusa?” Bill spalancò la bocca, incredulo. Cercava disperatamente di essere educato, gli aveva dato anche del lei la prima volta, ma c'erano cose che proprio non sopportava. Tipo che lo si invitasse a cena e poi gli si impedisse di servirsi di ciò che preferiva, e con quella sufficienza poi. “Non mi è permesso neanche scegliere cosa mangiare o cosa bere?”
“E' succo di mela,” esclamò l'uomo, con lo stesso tono. “Sei allergico.”
Bill lasciò la presa sulla brocca e Bushido quella su di lui, riprendendo a mangiare.
Il ragazzino era talmente sconvolto dal fatto che quell'Anis sapesse anche questi dettagli, che non riuscì a staccargli gli occhi di dosso e, visto che non smetteva di fissarlo, Bushido s'irritò e posò di scatto le posate.
“Che cosa c'è?”
Bill deglutì. “Io non pensavo... che lo sapesse.”
Bushido sospirò, guardando il proprio piatto prima di rispondergli. “Non ti piacciono gli asparagi e le zucchine, per questo non le hai nel piatto. La torta è di panna, perché la cioccolata ti nausea e hai una passione poco sana per le caramelle. Devo continuare?”
Il moro boccheggiò qualche istante, sentendosi molto stupido ad aprire e chiudere la bocca come un pesce, senza trovare le parole da dire. Lo sguardo dell'uomo, ora, sembrava molto più sicuro del suo.
“E' questa la cosa più assurda,” mormorò alla fine il presidente, mentre la linea delle sue labbra si addolciva nell'ombra di un sorriso. “Siete identici, eppure non sei lui.”
Bill sollevò lo sguardo, stupito nel sentire quelle parole, visto che l'uomo, più di chiunque altro, sembrava convinto di aver davanti la persona che aveva perduto. Invece, adesso, sembrava perfettamente consapevole di avere davanti qualcuno che non era ciò che si aspettava, e Bill lo capiva dall'espressione che c'era nei suoi occhi, che nonostante tutto erano gli occhi di Anis.
“Se ti guardo, è facile ingannarmi,” disse il presidente, alzandosi in piedi. Bill lo seguì con gli occhi mentre faceva il giro del tavolo, il completo elegante tagliato su misura che si adattava ai movimenti del suo corpo. “Me lo ricordo benissimo, sai? Il suo viso non è mai sparito dai miei ricordi come succede dopo qualche anno, quando una persona muore. Lo vedo ancora chiaramente. E' qui, dentro di me.” Il presidente si premette l'indice contro la testa e il cuore di Bill esplose, perché era come il suo Anis.
Non alzò la testa per non guardarlo mentre si avvicinava. Lo sentì dietro le spalle e socchiuse gli occhi, deglutendo quando lui gli scostò i capelli dal collo e gli annusò piano la pelle, sfiorandolo ma senza toccarlo veramente in un gesto rispettoso ma così pieno di bisogno che Bill fu attraversato da un brivido. “Avete anche lo stesso profumo”, mormorò.
Ci volle tutta la sua forza di volontà per recuperare le parole dal fondo dello stomaco, liberarle dalla stretta di quei brividi ed in fine lasciarle uscire dalle labbra. “Non sono io, però.”
“No, non lo sei,” ripeté il Presidente, con lo stesso tono dolce ed indulgente, ma era a se stesso che parlava e non a lui.
Bill provò un vago senso di delusione per questa ammissione. Era stupido, naturalmente, perché se il Presidente accettava quella verità, forse sarebbe stato più facile tornare a casa, ma una piccola parte del suo cuore s'incrinava, sentendosi privato del suo uomo una seconda volta. Sembrava impossibile mettere d'accordo quello che provava e quello che sapeva, l'energia che tratteneva il Presidente era la stessa che tratteneva lui.
“Girati,” ordinò l'uomo. “Per favore.”
Bill obbedì e quando lo fece e sollevò la testa, Bushido era così vicino che le sue labbra gli sfiorarono la pelle della guancia, ma non ne fu sorpreso. Chiusero gli occhi in due, in due si lamentarono piano.
La stanza era così silenziosa che Bill sentiva soltanto il proprio respiro spezzato e quello di Bushido che faticava a trasportare le sue parole. “Tu mi conosci già, non è così?” Chiese. “Tu mi appartieni, nel tuo mondo.”
Bill annuì, rendendosi conto che non lo aveva mai detto all'unica persona a cui sarebbe stato importante dirlo, fargli sapere che capiva il suo dolore e il suo bisogno più di chiunque altro.
Bushido gli accarezzò il collo con una mano e Bill lo sentì perdersi immediatamente, come si stava perdendo lui. Alla stessa pericolosa velocità.
Quando le loro labbra si sfiorarono, Bill iniziò a scuotere la testa, violentemente, impaurito da quello che gli sarebbe uscito di bocca se si fosse permesso di parlare. Cercò di allontanarsi, ma in realtà non si mosse affatto e mentre si scuoteva forte, Bushido gli afferrò la nuca e lo tirò a sé, appoggiando la fronte alla sua.
“Guardami, Bill,” lo chiamò. “Guardami, ti prego.”
Il ragazzo sospirò, già sapendo che una volta alzato la testa, lo sguardo che si sarebbero scambiati era destinato a portarli in una sola direzione.
Avrebbe dovuto dirgli che lui non era quel Bill, che non era giusto e che non sarebbe servito a colmare i loro vuoti; ma non ci riuscì, perché quando chiuse gli occhi, quelle erano davvero le labbra di Anis, il sapore di Anis e le sue braccia che lo stringevano forte e con lo stesso, identico amore.
Immaginò di poter essere il suo Bill, se lui poteva essere il suo Anis.
Se entrambi, alla fine, ne avevano bisogno.



*


“Chaku!” Il nome gli uscì di bocca troppo di fretta e troppo sorpreso per poter nascondere l'imbarazzo, mentre sgattaiolava fuori dalla stanza con la felpa stretta per il cappuccio e le scarpe in mano.
Si sentiva come quando, da piccolo, rubava i biscotti prima di pranzo e sua madre lo beccava sulla porta della cucina. “Che... che ci fai qui?”
L'uomo era fermo in mezzo al corridoio, le braccia rigide lungo i fianchi e lo guardava, dando segno di non aver frainteso la situazione neanche un po' e di non apprezzarla affatto.
Bill si sentì molto a disagio sotto quell'espressione severa.
“Stavo andando dall'Alchimista e ti ho visto uscire,” rispose.
Bill si passò una mano fra i capelli spettinati, consapevole del proprio aspetto scompigliato. “Capisco,” balbettò. “Io stavo... ecco, la cena è finita.”
Chakuza non mosse nemmeno un muscolo. Il suo viso rotondo rimase immobile ed indecifrabile, tanto che Bill sentì il bisogno di mettersi la felpa e poi, quando si rese conto che questo avrebbe attirato l'attenzione sulla sua persona, si limitò a stringersela addosso, cercando di essere disinvolto nell'incrociare le braccia. Non ci riuscì per niente. “Io stavo... andando in camera,” insistette. Non aveva idea del perché avesse sentito il bisogno di dirglielo o quello di giustificarsi. Forse perché, anche nel suo mondo, quando qualcuno lo beccava per caso uscire seminudo dalla stanza di Bushido finiva sempre per sentirsi in imbarazzo o loro ce lo facevano sentire prendendolo in giro, per cui generalmente tentava di dissimulare.
Chakuza annuì di nuovo. “D'accordo,” commentò. “Anche se non dovresti girare da solo per il castello.”
“Farò in fretta, non mi vedrà nessuno,” lo rassicurò Bill annuendo freneticamente.
“Bene.”
Bill rimase lì impalato perché non sapeva cosa dire e non sapeva nemmeno come fosse finito in quella situazione o come gestire l'improvvisa severità di Chakuza. Alla fine pensò che sarebbe stato ancora più imbarazzante starsene lì in piedi a non dire nulla, così si avviò a caso nella direzione opposta a quella dell'uomo e si fermò circa quattro passi dopo.
Sentì Chakuza sospirare alle sue spalle. “Non sai dove andare, vero?”
Bill si girò molto lentamente e arricciò il naso. “No.”
Chakuza socchiuse gli occhi un istante e si massaggiò la fronte, cercando probabilmente la pazienza o Dio solo sapeva cosa sul pavimento. “Vieni, ti accompagno.”
“Non c'è bisogno, davvero,” saltò subito su Bill, rendendosi conto che era il caso di perdersi, piuttosto che costringere Chakuza a passare del tempo con lui. “Io...”
“Tu ti perderesti appena girato l'angolo,” commentò Chakuza, guardandolo rassegnato. “Coraggio, vai avanti, ti seguo.”
Bill si avviò alla cieca e imboccò il corriodio che aveva davanti, quando quello si divise a destra e a sinistra, prese a sinistra e Chakuza lo fermò fischiando. Si voltò e l'uomo gli indicò dall'altra parte con un cenno della testa, aspettando che passasse prima di seguirlo. Ci vollero circa cinque minuti di fischi e cenni di testa prima che arrivassero di fronte alla porta della stanza che Bill conosceva.
“Grazie,” mormorò Bill, sfiorando il legno con il palmo della mano. Poi prese un respiro profondo e si girò, incerto su cosa dirgli esattamente. “Senti, è evidente che questa cosa ti dia molto fastidio e io posso solo immaginare perché, ma...”
“Sono stato inopportuno,” lo interruppe Chakuza. “E' una tua scelta e... non sono affari miei.”
Bill si torse la maglia fra le mani. “Non c'è stata nessuna scelta,” balbettò confuso e, quando Chakuza alzò lo sguardo sgranando gli occhi, si rese conto di essere stato ambiguo e aggiustò il tiro: “Cioè, è stata una scelta, ma limitata. Non si ripeterà. Non credo. Non lo so e comunque, a giudicare dalla faccia che hai, parlandone sto solo peggiorando le cose, vero?”
“E' solo che è molto....” Chakuza sbuffò incerto. “E' frustrante e non sai quanto.”
“Io non sono lui,” mormorò Bill, dispiaciuto. Sperava che ripetere il già ampiamente ripetuto, potesse in qualche modo servire a qualcosa.
Chakuza sospirò rassegnato e quando sollevò di nuovo gli occhi su di lui, lo fece con tenerezza. “Lo so. E' proprio per questo che è frustrante,” poi rise fra sé per quello che aveva detto. “Ma non importa, davvero. Mi dispiace se... ti ho fatto sentire in imbarazzo. Devi avere pazienza con me, non sono molto bravo ad abituarmi alle cose nuove.”
Bill sorrise, pensando alla battaglia che da anni il suo Chakuza combatteva contro la tecnologia. “Lo so,” ridacchiò. Quindi, cogliendolo di sorpresa, si allungò ad abbracciarlo stretto e gli lasciò un bacio sulla guancia. “Grazie per avermi riportato in camera.”
Chakuza ricambiò la stretta e sorrise.

*




Nel suo mondo, la prima cosa che gli uomini di Bushido avevano imparato quando avevano conosciuto Bill, era che non si arrendeva mai e che, se voleva qualcosa, in un modo o nell'altro la otteneva sempre.
Bill pensava che anche le copie di quegli stessi uomini dovessero prendere familiarità con il concetto e quindi aveva trovato il modo di chiarire fin da subito che la propria determinazione a tornare a casa non avrebbe mai vacillato, né dopo un giorno, né dopo dieci, né dopo cento.
Per raggiungere questo obbiettivo, aveva stabilito una routine giornaliera secondo la quale ogni mattina si presentava nello studio di David e pretendeva da lui dei progressi riguardo al suo macchinario per rispedirlo sulla terra e, se l'uomo non gliene forniva, lo minacciava per ore di morti orrende finché Chakuza non lo trascinava di peso fuori dal laboratorio dell'alchimista, il quale era ogni giorno sempre più spaventato.
Quella mattina non era diversa dalle altre e l'ombra di Bill si allungò sul pavimento alle dieci e mezzo spaccate, mentre l'ultimo rintocco dell'enorme torre dell'orologio risuonava lugubre per tutto il palazzo. David era impegnato in un calcolo che ricopriva le otto lavagne sulle pareti e quando la cresta leonina di Bill coprì la metà di equazione che stava cercando di risolvere, deglutì rumorosamente e si affrettò a mettere il gessetto in tasca prima di perderlo in terra per i tremori. “Bill,” salutò, con un sorrisetto nervoso.
“David,” il sorriso del mattino di Bill non era mai rassicurante. Lo guardavi e pensavi che sarebbe potuto saltarti al collo da un momento all'altro.
“Come va? Dormito bene?” Chiese l'alchimista, facendo due passi di lato quando Bill venne avanti per frugare con disinteresse tra le cianfrusaglie che l'uomo teneva sul tavolo lì di fianco.
“Non c'è male, grazie,” rispose il cantante e poi, annoiandosi di ciò che aveva per le mani, si diresse spedito verso la poltrona in fondo alla stanza. “Ho delle cose da discutere con il Presidente, quindi facciamo così: ora io mi siedo dieci minuti e tu mi racconti che cos'hai scoperto sul mio ritorno a casa, ti va?”
David lo osservò lasciarsi andare seduto e far girare la sedia su se stessa un paio di volte, come fosse il padrone della stanza, del palazzo e probabilmente dell'intero quartiere.
“Ogni dannatissimo giorno,” borbottò a bassa voce. “Questa è tortura.”
Chakuza si avvicinò all'alchimista, che era sbiancato leggermente, e si chinò verso di lui sussurrando: “Se vuole un consiglio, signore, farà meglio ad avere buone notizie perché la Luce di Tempelhof non ha ancora fatto colazione ed è molto, molto irritabile.”
“Sto aspettando!” Arrivò la voce di Bill, che mandava la sedia avanti e indietro come un bambino impaziente.
“Sì, dunque,” vagheggiò l'alchimista, torturandosi le mani e avvicinandosi a Bill con la schiena un po' ingobbita. “Come ti ho già detto, la situazione non è delle migliori, Bill. Con il tuo passaggio, il cerchio che ti ha portato qui è andato distrutto irreparabilmente.”
Bill non si disturbò nemmeno ad alzare la testa, continuò ad impilare uno sull'altro i bulloni che aveva trovato girando un contenitore. “Queste sono tutte cose che so già, David,” gli fece notare. “Dimmi qualcosa di nuovo.”
“Ho studiato ancora una volta gli schemi del teletrasporto e potrei aver trovato una soluzione, diciamo, temporanea al tuo... al nostro problema.”
Bill lo guardò, attento ma apparentemente non impressionato. Una parte di lui non voleva alimentare false speranze per poi vederle frantumarsi all'ultimo istante. Era più semplice immaginare che la soluzione fosse ancora lontana, piuttosto che riprendersi dalla delusione. “E sarebbe?”
“Io non posso ricostruire il portale,” ribadì l'alchimista, come se fosse l'unica conclusione a cui era arrivato nonostante tutto quel rimuginare per giorni. “Però ho pensato che potremmo fare una cosa diversa. Prendiamo ad esempio questo libro.”
Bill sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Come mai non mi stupisce?”
L'alchimista lo guardò storto, ma non disse nulla. “Dunque, io ti ho portato qui sbirciando nella trasparenza delle pagine,” esclamò, sollevandone una e facendoci passare la luce in mezzo. “Ma se io piego questa pagina su se stessa, la piega appena formata lacera la carta e la rende più sottile, portando le due facciate più vicine di un micron.”
Bill lo osservò piegare la pagina per lungo e premere forte lungo la piega, in modo da creare una profonda riga scavata.
“Se la mia pagina fosse questa realtà e io riuscissi a piegarla sul punto esatto della tua realtà dal quale ti ho strappato, questa piega virtuale creerebbe una micro-lacerazione, per così dire, tra le due realtà, permettendoti il passaggio dall'una all'altra.”
Bill si prese qualche minuto per riflettere. In pratica si trattava di creare uno strappo, attraverso il quale passare per raggiungere il retro di un foglio. Aveva senso. “Perché non creare direttamente un foro?” Chiese, bucando la pagina con una matita.
“Perché se facessi questo, il foro creato risucchierebbe in sé entrambe le realtà chiudendosi su se stesso, come un buco nero!” Protestò l'Alchimista, interdetto. “Lo saprebbe anche una capra. Si può sapere che cosa fai nel tuo mondo a parte gonfiarti i capelli con la lacca e impiastricciarti la faccia in quel modo?”
Bill aprì bocca per mangiarselo vivo e fece anche per saltargli al collo, ma Chakuza gli appoggiò le mani sulle spalle e lo tenne seduto. “E piegando la pagina, invece?” Chiese, per deviare gli istinti omicidi della Principessa.
“E' proprio questo il punto,” commentò David, pensieroso. “Piegare la realtà potrebbe essere semplice, trovare il punto esatto in cui farlo non lo è altrettanto. Inoltre sarebbe una cosa temporanea, perché non possiamo certo mantenere la piega per sempre, il che significa che avremmo un tempo limitato per fare tutto: piegare, trovare il punto e far passare Bill dall'altra parte. Senza contare che arrotolare lo spazio su se stesso interferisce col tempo, il che significa che potremmo essere sbalzati indietro nel tempo, senza la minima possibilità di calcolare i danni in anticipo o di ripristinarli in seguito. Le incognite sono troppo numerose e i rischi troppo alti.”
“Procediamo,” commentò Bill, alzandosi.
“Che cosa non hai capito di incognite troppo numerose e rischi troppo alti?” Volle sapere David.
“Abbastanza per sapere che non m'interessa assolutamente niente,” rispose Bill. “Se c'è anche solo il cinquanta percento di possibilità di tornarmene a casa, a me sta bene.”
“Io parlerei più che altro del dieci percento,” balbettò confuso e agitato l'alchimista, seguendo Bill che, a grandi passi, si dirigeva verso la porta. “Anzi, il cinque... magari il tre. E' una percentuale molto, molto bassa.”
“Ce la faremo bastare,” insistette Bill.
“No.”
Bill si fermò sulla soglia e per un attimo rimase immobile, quindi si girò molto lentamente e lasciò che la propria ombra infinita si allungasse sull'uomo di fronte a lui che sembrava improvvisamente più piccolo di prima. “Non credo di averti sentito,” commentò e fece una gran fatica a mantenersi completamente serio mentre lo diceva, perché gli veniva in mente il suo Bushido quando qualcuno dei suoi diceva qualche idiozia: lui lo guardava storto e poi sosteneva di non aver sentito bene e quello, generalmente, cambiava la frase in modo che gli piacesse.
“Ho detto no,” ripeté l'alchimista, forte e chiaro. “Non farò nessun tentativo. Non prima di aver fatto tutti i calcoli che sono in grado di fare e anche un paio che potrei imparare a fare per l'occasione.”
A Bill si illuminarono gli occhi.
“E soprattutto...” aggiunse David, serissimo. “Non farò niente senza l'autorizzazione del Presidente. Dovrà darmi il permesso per ogni singolo movimento di questa realtà e anche di tutte le altre, se ce ne sarà bisogno.”
“Nessuna responsabilità, nessun danno,” commentò Chakuza, con un'alzata di sopracciglio. “Se io facessi così quando riparo gli automezzi giù in garage, la mia vita sarebbe molto più facile.”
David lo liquidò con un gesto della mano, senza nemmeno voltarsi. “Mi dispiace Bill,” disse contrito, probabilmente convinto per qualche assurdo motivo che il ragazzino non si sarebbe mai avventurato fino a chiedere a Bushido di essere l'artefice della sua partenza.
Quello che David non aveva calcolato erano gli sviluppi dei quali, per altro non era a conoscenza. In più, era abituato ad avere la capacità di far desistere il suo Bill dal fare qualsiasi cosa, se era necessario e, ingenuamente, pensava di essere l'unico là dentro – con la sua straordinaria intelligenza e il suo inestimabile acume, probabilmente – a poter gestire allo stesso modo anche questo nuovo Bill. Si sbagliava, naturalmente.
“Tu lascia a me il Presidente,” esclamò il moro, con un ghigno che era tutto un programma. “A farti avere i permessi ci penso io. Tu piega questo foglio e rimandami a casa.”
La mascella di David arrivò fin quasi al pavimento, mentre lo guardava uscire tranquillo dalla stanza e poi fermarsi, canticchiando, in attesa della sua guida.
“Non è possibile,” mormorò.
Chakuza lo oltrepassò battendogli una mano sulla spalla con fare compassionevole. “Lei non ha idea di quante cose sono diventate possibili da quando è qui.”
Bill aveva deciso di fare determinate cose a modo suo, ma sapeva anche che per farle e perché gliele lasciassero fare, doveva anche cedere un po' di terreno, così aveva imparato a non partire in quarta per i corridoi – nemmeno per quei pochi che riconosceva – e ormai aspettava più o meno compostamente che Chakuza lo seguisse; la cosa, stranamente, gli aveva fatto guadagnare una serie di vantaggi con le serve, le quali non lo guardavano più tanto male e, fintanto che lui si ricordava di non parlare loro direttamente, stavano andando d'amore e d'accordo.
“Dove ti porto?” Chiese Chakuza, che a sua volta si stava abituando a convivere con un Bill che non si faceva più decidere la giornata da altre persone.
“Nelle stanze del Presidente,” rispose Bill, osservandosi con attenzione le unghie e notando che lo smalto stava iniziando a scheggiarsi.
Chakuza svoltò a destra di colpo e, come aveva previsto, Bill andò dritto perché non lo stava guardando. Lo recuperò al volo per una manica e se lo tirò dietro. Il cantante inciampò per due o tre passi ma rimase in piedi e, per una volta, l'uomo accanto a lui non fece nessun tentativo per recuperarlo al volo. Stava davvero imparando.
“Pensavo che con tutte le volte che hai fatto avanti e indietro, in questi giorni, sapessi dov'è la camera del Presidente,” commentò e anche se il tono era divertito, c'era una nota acida che era difficile non notare.
“Chakuza...” lo rimproverò Bill, alle sue spalle, sfiorando con le dita le rose ai lati del sentiero mentre attraversavano l'enorme giardino aereo del palazzo.
“Lo so, lo so! Non sono affari miei se hai una storia con il Presidente!” L'uomo alzò le mani in segno di resa.
“No, non sono affari t...e no che non ho una storia con Bushido!” esclamò Bill, la voce un po' troppo stridula. Tra l'altro era assurdo perché, nella sua verità, quella frase era la cosa più falsa che avesse mai detto. Insomma, lui aveva una relazione con Bushido, solo non quel Bushido. Poteva sostenere di non avere nessun rapporto con quell'uomo senza mentire in un modo o nell'altro?
“Quindi è solo una storia di sesso,” commentò Chakuza.
“Sì!” Esclamò Bill, di getto. “Cioè no!... Sì. No. No, okay?”
Chakuza lo aveva osservato con un sopracciglio sollevato mentre farfugliava indeciso. “Si o no?”
“Sì facciamo sesso ma no, non è una storia di sesso,” fu la risposta e poi aggiunse piccato: “E non è nemmeno una storia!”
Chakuza incrociò le braccia al petto e lo guardò, se possibile, ancora più dubbioso. “Quindi mi stai dicendo che non avete una storia di nessun tipo ma che occasionalmente andato a letto insieme?”
“Sì. Credo.” Anche Bill sembrava dubbioso.
“E come credi che questo potrebbe essere meglio che averci una storia?” Protestò Chakuza, che nel frattempo lo aveva anche portato dall'altra parte del palazzo, verso le stanze del Presidente.
“Non lo so!” Esclamò esasperato Bill. “E' successo...” fece una pausa “... un po' di volte.”
Chakuza si limitò a sbuffare senza dire niente, ma i suoi sbuffi avevano un tale carattere che sapevano perfettamente come farsi capire.
Bill lo seguiva guardandosi intorno nel tentativo disperato di creare dei punti fissi da recuperare in un secondo momento. L'ultima volta che si era mosso da solo, contravvenendo alle regole e rischiando, probabilmente, la lapidazione su pubblica piazza, si era perso quattro volte, una delle quali era finito nelle cucine, dov'erano tutte donne e nessuna, naturalmente, aveva aperto bocca.
Alla fine, visto che era calato il silenzio, si decise a romperlo lui. “Avanti, che cosa c'è?” Chiese.
“Niente.”
“Certo, come no. Niente,” lo prese in giro. “Prima mi fai la paternale e poi di colpo la pianti lì e ci facciamo mille chilometri in silenzio. A proposito, dove diavolo è questo posto? In un altro stato?”
“Siamo quasi arrivati. E comunque non ti sto facendo la paternale,” borbottò l'uomo. “Puoi fare quello che vuoi, tu.”
“Esatto.”
“Quindi se vuoi infilarti nel suo letto sono affari tuoi.”
Bill alzò gli occhi al cielo. “Chakuza, mi spieghi qual è il problema?”
“Io non ho nessun problema,” si difese l'uomo, allargando le braccia con aria malamente disinteressata. “Dico solo che se, come dici, c'è un Bushido nel tuo mondo e state insieme, allora forse non dovresti andare a letto anche con questo.”
Come ogni volta che qualcuno aveva ragione e lui torto, Bill perse la pazienza. “Di che cosa stiamo parlando, esattamente, Chakuza?” Sibilò fermandosi e costringendo lui a fare lo stesso. “Del fatto che io vado a letto con un Bushido che non mi compete o che ci andava il tuo Bill?”
Chakuza era già pronto a difendersi, ma rimase a bocca spalancata, incapace di articolare più di qualche suono confuso. “Io... che cosa ti fa pensare che...”
“Oh ma ti prego, Chaku!” Bill lo guardò esasperato. “Non fai che guardarmi con gli occhi da triglia, sai qualunque cosa del mio doppio e non ti imbarazza vedermi nudo, cosa che presumo derivi dal fatto che ci sei abituato... e poi mi hai baciato! Tu andavi a letto con lui!”
Chakuza si guardò intorno allarmato e poi gli fece segno di abbassare la voce. “E' molto più complicato di così,” sibilò.
“Ah, adesso è complicato,” esclamò testardo Bill.
“Molto più che complicato, credimi,” annuì l'uomo, gli occhi sgranati e molto nervoso.
“Non ci sono molte possibilità, sai?
“Bill, ascolta...”
“E' così oppure no?” Insistette.
Chakuza si passò una mano sulla faccia. “Ascolta...”
“Andavi o no letto con la Luce di Tempelhof?” Esclamò Bill a voce più alta.
Chakuza lo incollò al muro di schianto, tappandogli la bocca con la mano. “Sei impazzito per caso?” Esclamò, sconvolto, guardando il corridoio prima da una parte e poi dall'altra per assicurarsi che non l'avesse sentito nessuno. Poi lo fissò dritto negli occhi, prima di liberarlo.
“Rispondimi o mi metto ad urlare.”
Chakuza sospirò, rassegnato. “Sì. Contento?”
Bill ghignò.
Il carpentiere lo guardò storto. “Che c'è, ancora?”
“Adesso voglio i dettagli.”
“Ah no, te li puoi scordare! Ora fila dal Presidente,” lo liquidò, spingendolo un po' lungo il corridoio.
Bill si voltò a guardarlo. “Tanto te li chiederò quando esco.”
“E io non mi farò trovare.”
“Certo, già ti vedo che mi lasci solo a vagare senza meta per questo palazzo lugubre.”
Chakuza si fermò davanti alla porta. “Potrei farlo,” minacciò a vuoto. Poi tossì, grattandosi la nuca. “Comunque...riguardo a quello che ti ho detto...”
Bill sorrise, smettendo di fare l'infame. “Tengo la bocca chiusa, non preoccuparti. Ma ti costerà un sacco di dettagli.”
L'uomo alzò gli occhi al cielo mentre Bill gli faceva la linguaccia ed entrava nella stanza.

*


Bill entrò negli uffici del Presidente quasi fischiettando.
Si chiuse la porta alle spalle e non si arrabbiò nemmeno quando una delle ampie maniche dell'abito gli rimase incastrata nella porta, come per altro succedeva spesso perché continuava ad essere vestito in maniere indecenti, nonostante fosse lì da settimane, perché non riusciva a far capire alle sarte che cosa volesse senza che quelle cucissero cose improponibili di testa loro.
“Ti vedo allegro, stamattina,” commentò Bushido.
Bill si guardò intorno, individuandolo seduto alla scrivania che, data la grandezza di quell'ufficio, era circa all'altro capo del mondo.
“Lo sono,” annuì per poi sedersi sulla poltrona di fronte alla sua. “Volevi vedermi?”
Il passaggio tra il lei e il tu era stato inevitabile e anche necessario. Bill non sapeva come si comportasse con lui l'altro Bill, ma di certo lui non avrebbe accettato di dividere saltuariamente il letto con quell'uomo dandogli del lei, sarebbe stato ancora più imbarazzante di quanto già non fosse, a volte. E comunque, adesso che sapevano entrambi la verità, era tutto un po' meno drammaticamente formale.
“In effetti sì, c'è una cosa che devo chiederti.”
Bushido alzò lo sguardo su di lui e gli sorrise, riuscendo ad inchiodarlo là dov'era. I suoi occhi non erano più scuri e impenetrabili com'erano stati all'inizio, il che era ancora peggio perché adesso lo turbavano in tutt'altro modo. Erano sinceri e divertiti, ma anche molto imbarazzati, il che lo rendevano simile non al Bushido che conosceva, ma a quello un po' più giovane e insicuro. Quello di Tempelhof, quello prima del rap e prima di lui, che avrebbe tanto voluto conoscere. Scosse la testa per togliersi strane idee dalla testa e annuì. “Certo, dimmi pure.”
Bushido lasciò perdere quello che stava facendo ossia, per quanto ne capisse, scrivere paginate intere con una stilografica vecchio stampo su un enorme quaderno in pelle rilegato a mano, e si alzò in piedi, aggirando la scrivania con le mani dietro la schiena. Bill ne rimase impressionato, doveva essere un discorso importante.
“Tu sai come funziona questo posto, Bill? Te lo hanno detto?” Chiese.
“Non esattamente,” ammise. “So che la città fu divisa in zone dopo che il Cancelliere fu ucciso con un colpo di stato e che, da allora, i ghetti si fanno la guerra.”
Bushido annuì. “Inizialmente i ghetti erano soltanto tre, affidati ognuno al figlio dell'uomo che aveva assassinato il Cancelliere. Poi, naturalmente, quei figli ebbero a loro volta dei figli che litigarono per il potere e divisero ulteriormente la città. Io ho ereditato questo regno da mio padre, circa quindici anni fa.”
Se Bill faceva bene i conti, e se questo Bushido era identico al suo anche per età, allora il presidente era diventato tale a quindici anni. Impressionante, se pensava che lui a quell'età era appeso a testa in giù a cantare di monsoni.
“Allora Tempelhof era molto più grande ma le cose erano un po' diverse e la guerra non era così violenta. Tutto è peggiorato da quando Sido ha deciso di diventare un mio nemico. Quando si è rivoltato, con alcuni dei suoi, è riuscito a portarsi via un gran pezzo di Tempelhof e aspira a prenderla tutta, ma non c'è ancora riuscito.”
A Bill quasi venne da ridere mentre si chiedeva se c'era un posto nell'universo in cui Bushido e Sido non volessero accopparsi a vicenda, realmente o metaforicamente parlando. Era chiaro che certi punti chiave dell'esistenza di ognuno non cambiavano mai.
“Nel periodo più violento del nostro scontro, io ho conosciuto Bill,” la voce del presidente si fece più morbida e nostalgica. Un po' come tutte le voci di quelli che gli avevano parlato dell'altro Bill fino a quel momento, il che aveva contributo a renderlo particolarmente odioso ai suoi occhi. “E quando l'ho sposato, la gente di Tempelhof ne fu molto felice. Quel matrimonio era la prima cosa bella che capitava nel ghetto da quasi cinquant'anni, era un segno di speranza, in qualche modo.”
Bill aveva un po' di confusione nel cervello, o meglio non ce l'aveva ma quello che gli ronzava in testa era talmente poco lusinghiero per la sua persona, che preferiva pensare di non averci capito niente. Quest'uomo era palesemente innamorato del morto, in un modo triste e dolce che un po' spezzava il cuore anche a lui – probabilmente il suo Anis sarebbe diventato come questo se lui fosse morto. Forse lo era già, visto che ormai, nel suo mondo, era scomparso da mesi – ma se le cose stavano così, dove si collocava in tutto questo, la relazione che Bill aveva con Chakuza?
“Quando lui è morto...” la voce di Bushido si spezzò di netto, tanto da costringere Bill a voltarsi verso di lui e ad osservarlo mentre deglutiva e stringeva il pugno, guardando il pavimento nel tentativo di trovarci sopra la forza per continuare. “Quando lui è morto,” riprese dopo qualche secondo, con un po' più di convinzione, “il mio popolo ha perso la voglia di continuare a sperare. Bill era la loro luce e Fler gliel'aveva portata via. Il fatto che il suo omicida fosse uno del regno, uno dei miei, non ha fatto che peggiorare le cose. Se c'era anche una sola speranza che questa guerra finisse, è morta con lui.”
“Che cosa?” Sbraitò Bill, sconvolto. Bushido si voltò verso di lui, un po' sorpreso di sentirlo urlare e, di fronte al suo sguardo interrogativo, Bill aggiunse: “E' stato Fler ad uccidermi?”
“Lo conosci?” Il presidente sbatté le palpebre un paio di volte e poi le sue labbra si aprirono inaspettatamente in un sorriso mentre scuoteva la testa. “Certo, naturalmente. Ce n'è uno anche da dove vieni tu.”
“Sì e non mi metterebbe mai le mani addosso,” puntualizzò Bill.
Bushido strinse i pugni. “Lo pensavamo anche noi,” disse. “Ma, io... Beh, non era questo di cui ti volevo parlare, in ogni caso. Il punto è che il popolo è stanco e sfiduciato e le sommosse si stanno facendo sempre più violente e più organizzate. Questa mattina il capo delle guardie mi ha informato che un gruppo di rivoltosi ha aggredito una squadriglia, giù al mercato. Sono morti quattro dei nostri.”
“Mi dispiace,” commentò Bill, che non era troppo sicuro di doversi dispiacere. Non sapeva abbastanza del popolo e dell'esercito per sapere se quest'ultimo fosse stato davvero attaccato gratuitamente. Decise che poteva pur sempre dispiacersi per i morti in linea generale.
“E sono settimane che il popolo protesta o si rifiuta di lavorare. Sto perdendo il controllo del ghetto e questo è inaccettabile,” concluse il presidente, voltandosi di scatto. Il sole di mezzogiorno si stagliava alle sue spalle attraverso la vetrata, rendendo l'intera scena molto drammatica. “La gente ha bisogno di ritrovare la speranza, Bill, e voglio essere io a ridargliela.”
Bill corrugò la fronte e annuì molto lentamente. “Non so esattamente di cosa stiamo discutendo qui, senza offesa, ma immagino che il discorso abbia un senso,” commentò. “Che cosa c'entro io?”
“Tu sei uguale alla vera Luce di Tempelhof,” rispose Bushido. “E per loro significherebbe molto vederti sorridere dopo due anni. Sono certo che ritroverebbero la forza di sopportare questa situazione.”
Il cantante provò due volte a rispondere prima di riuscirci davvero. “Sì, ma io sono morto,” commentò, sentendosi ridicolo a doverlo dire ad alta voce. “Non posso saltare fuori dal nulla dopo due anni e sorridere senza scatenare il panico. Che cosa gli dirai?”
“Che ti abbiamo riportato indietro.”
“Da dove? Dal regno dei morti?” Chiese Bill, ironico. “Non è un tantino inquietante?”
“Io non devo dare delle spiegazioni, sono il Presidente.”
Bill si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli. “Sì, d'accordo, non devi dare spiegazioni se decidi di andare in guerra, di fare una legge o di spianare ettari di foresta per farci un centro commerciale, ma la gente vorrà sapere perché un ragazzo morto da anni sta ora salutando amorevole dal balcone, non credi?”
Bushido si strinse nelle spalle. “Non avrà importanza da dove vieni, quando ti vedranno.”
“Okay, allora mettiamola così: io me ne andrò di nuovo. E molto presto, anche. Non sarà peggio se mi vedranno per poi vedermi sparire di nuovo? Tutto questo dare e togliere speranza potrebbe provocare una rivolta ancora più grossa, non credi?”
“Bill non si mostrava spesso. L'illusione del suo ritorno durerà molto oltre la tua partenza,” esclamò Bushido. “Se mai avverrà.”
“Sì che avverrà,” borbottò Bill e sentendo lo sguardo di Bushido su di sé, aggiunse: “David ha trovato il modo.”
“Oh.”
“Già.”
Sulla stanza calò il silenzio. L'intera situazione aveva avuto la capacità di ammazzare sul colpo tutto l'entusiasmo che Bill aveva avuto entrando. Non aveva idea di come avesse potuto pensare di dare quella notizia a Bushido senza innescare la tragedia.
“Era di questo che volevi parlarmi quando sei entrato?”
Bill annuì.
“In che modo vuole rispedirti a casa? Il passaggio era rotto, a quanto mi ricordo.”
Il ragazzino sospirò. “Sì, ma lui crede di aver capito come piegare la realtà su se stessa e creare un passaggio per me da attraversare. So che può sembrare assurdo ma...”
“No, ha perfettamente senso,” concordò Bushido. “Una piega nello spazio tempo potrebbe funzionare, anche se metterebbe a rischio la nostra esistenza e i due universi in cui viviamo.”
Bill lo guardò ad occhi sgranati.
“Non mi guardare in quel modo,” Bushido sbuffò una risata. “So come funzionano queste cose. Diciamo che David è stato il mio precettore, prima di essere il tuo.”
Il ragazzo non era molto convinto, ma non era quello il momento di preoccuparsene. “Ad ogni modo,” tossicchiò per darsi un contegno. “Non farà un bel niente se prima non ha il tuo permesso, quindi...”
“Eri qui per chiedermi di darglielo, sperando che ti avrei lasciato andare.”
Bill lo guardò storto. “Sì, era più o meno l'idea.”
Il presidente si mise a ridere. “Quell'uomo è furbo. Conta sul fatto che io ho bisogno di te,” esclamò. “Però possiamo fare un accordo, principessa.”
Bill si lasciò attraversare dal brivido che quel soprannome gli procurava e poi lo guardò interessato. “Sarebbe?”
Il presidente si staccò dalla vetrata, proprio mentre in lontananza ricominciavano i colpi di mortaio. Bill sentì le pareti tremare e deglutì. Chakuza gli aveva spiegato che erano al sicuro e che non c'era possibilità che il palazzo venisse colpito, ma quando vedevi il lampadario dondolare come un'altalena, tendevi a fidarti poco delle parole di un carpentiere.
“Io sono disposto a dare a David i permessi che gli servono per rispedirti a casa,” disse l'uomo, sedendosi sulla propria scrivania, a qualche centimetro da Bill. “Tu però dovrai comparire come Luce di Tempelhof per calmare il popolo.”
Bill non avrebbe dovuto pensarci su neanche un istante: era quello che voleva contro ciò di cui non gli fregava niente. Eppure l'idea di andare là fuori, alzare le braccia e far urlare la folla di giubilo non lo allettava per niente e gli sembrava sbagliato, come giocare con i morti o qualcosa di simile. Quando aveva detto a David che ci avrebbe pensato lui a Bushido, sperava che gli bastasse mostrare il muso, facendo leva sul cuore affranto del presidente – e, a ben pensarci, nemmeno questa era una cosa granché edificante – ma a quanto pareva, pur soffrendo ancora per la sua perdita, Bushido era ben lontano dal dolore e dalla pazzia in cui lo aveva trovato arrivando. Sembrava quasi che l'arrivo di Bill lo avesse convinto definitivamente della morte dell'altro e che questo, in qualche modo, lo avesse aiutato a superarla. Ora era nostalgico e addolorato, ma non più illuso. Questo rendeva più difficile a Bill rimanere distaccato, dal momento che tutta questa determinazione rendeva il presidente molto più simile al suo Bushido invece di differenziarlo.
“Allora?” Lo incalzò l'uomo. “Non è un'offerta senza scadenza.” Stava scherzando, ma non troppo. Bill se ne rese conto dalla piega delle sue labbra che erano più tese di quanto sarebbero state se il sorriso fosse stato vero.
“D'accordo,” concesse alla fine “Affare fatto.”
Si strinsero la mano e Bill pensò che, alla fine, ingannare tutte quelle persone era un prezzo che poteva e avrebbe pagato volentieri per poter tornare a casa.

*


Bill sapeva che per apparire di fronte alla folla non sarebbe bastato uscirsene sul balcone in pigiama e dire “Ehi, sono risorto, siate felici!” e si era aspettato dei preparativi, magari anche eccessivi visto che in quel palazzo tutto sembrava portato all'esasperazione, ma di certo non aveva previsto la follia che gli si chiedeva di assecondare.
Bushido aveva stabilito che l'uscita pubblica si sarebbe svolta da lì ad una settimana e aveva rilasciato una serie di comunicati video e radio in cui annunciava il proprio discorso, nel corso del quale ci sarebbe stata un'importante rivelazione.
La rivelazione, al momento, stava litigando con Chakuza e, a giudicare dalle rughe sulla sua fronte, che erano andate moltiplicandosi nel corso delle ultime tre ore, l'uomo era più propenso a strangolarlo che non a starlo a sentire. “No, no, no, così non va,” sospirò, passandosi una mano sugli occhi.
Bill sbuffò e si lasciò andare di colpo sulla poltrona, incurante dello strascico del proprio vestito che si allungava alle sue spalle per almeno tre metri. “Certo che non sei mai contento tu!”
“Non devo essere contento io!” Protestò Chakuza. “E stai attento a quel vestito, finirai per strapparlo.”
Bill lo guardò dritto negli occhi e poi tirò a sé lo strascico con una serie di strattoni decisi, per ripicca. “Se si strappa, uscirò sul balcone nudo. Quando mi avranno visto il culo, non gli importerà di come ballo la quadriglia... o qualunque cosa sia che devo fare!”
“Il tuo culo è senza dubbio un bel vedere, ma non lo mostrerai in giro. Quindi adesso ti alzi e ricominciamo da capo.”
Bill lo guardò con un sopracciglio sollevato. “E questa era una frase tanto per dire, o sono informazioni di prima mano, le tue?” Lo prese in giro.
Le guance di Chakuza divennero istantaneamente rosse. “Alzati,” sibilò, spostando a caso delle sedie che erano già fuori dai piedi da secoli.
“Prima o poi dovrai dirmelo, sai?” Commentò Bill, tirando su le gambe per accucciarsi nella poltrona. “Quando voglio sapere una cosa, io non mollo tanto facilmente.”
“Staremo a vedere,” bofonchiò l'uomo e poi lo afferrò per un polso e lo costrinse a districarsi e a tirarsi di nuovo su in piedi. “E ho detto alzati. Non abbiamo tanto tempo.”
Bill inciampò nelle sue gambe, nello strascico e nelle gambe di Chakuza, al quale pestò i piedi, prima di stabilizzarsi. “Ehi! Dov'è finita tutta la gentilezza di quando sono arrivato? Non lo vedi il faccino? Sono Bill,” esclamò.
Chakuza sistemò lo strascico e gli girò intorno per raddrizzargli la schiena e fargli tirare su le spalle. “Lo sarai quando avrai imparato a stare in piedi per bene,” commentò. “Al momento sembri solo un attaccapanni. Questo vestito dovrebbe caderti per bene.”
“La vogliamo smettere di offendere?” Protestò il cantante, cercando di seguirlo con lo sguardo mentre gli trafficava intorno. “Ce la sto mettendo tutta.”
“No, ti stai solo lamentando.”
“E si può sapere perché ci sei tu qui ad insegnarmi? Non sei un carpentiere? Non dovresti... riparare caldaie o cose simili?” Bill incrociò le braccia al petto, imbronciato, e Chaku gliele disincrociò immediatamente.
“Tienile lungo i fianchi, con un po' di grazia,” commentò. “Per tua informazione non riparo le caldaie. Io co-ordino la squadra di operai che lo fa.”
“Una grande differenza. Questo però non spiega perché mi stai dando lezioni di postura.”
“Perché David non può farlo, essendo impegnato a devastare per te lo spazio-tempo. Sorridi.”
Bill tese le labbra in un ghigno. “E non c'era nessun altro di più qualificato di un caposquadra di carpentieri?”
Chakuza sospirò. “Ti ricordo che ero anche il tuo campione e il tuo custode, il che significa che dovevo stare attento che tu non ti comportassi in maniera sbagliata. Io so cosa devi e puoi fare e cosa no. In più non sono una serva, il che mi permette di parlarti e spiegarti come comportarti.”
“Hai sempre la risposta pronta,” borbottò il ragazzino. “Allora che cosa devo fare esattamente?”
Chakuza si mise in piedi al suo fianco. “Il primo ad uscire sarà il Presidente, farà quasi mezz'ora di discorso e poi annuncerà la tua entrata. Si volterà verso di te, quindi saprai perfettamente quando entrare. E poi io sarò lì accanto, quindi non ci saranno problemi. A quel punto la folla sarà in silenzio e tu avanzerai sul terrazzo, con passi brevi e lenti,” lo istruì, avanzando con lui per dargli il tempo. “E tieni la testa bassa. Uscirai con il velo sul viso, quindi di te non si vedrà praticamente niente.”
“Fantastico, così potrò fare le smorfie,” commentò il ragazzino, chinando la testa sommessamente.
Chakuza lo ignorò e continuò la spiegazione. “Ti fermerai al fianco del presidente e rimarrai lì finché lui non farà il grande annuncio e non ti toglierà il velo.”
L'uomo gli sollevò il velo e di certo non sarebbe riuscito a staccargli gli occhi dal viso se Bill non avesse avuto l'espressione meno convinta dell'universo. “Che cosa c'è?”
“C'è che questa cosa è ridicola,” commentò il moro. Portò subito le mani ai fianchi e spostò l'anca, così che la sua bella postura andò a farsi benedire nel giro di due secondi. “Non sono una sposa e non sono donna. Sono... sono un redivivo portatore di speranza e non ti dirò che cosa mi fa venire in mente perché sono tante cose ma non sono blasfemo!”
Chakuza lo guardò sconvolto mentre si toglieva il velo e anche lo strascico, avanzando verso la specchiera in una scia di tulle, stoffa e chincaglieria varia ed eventuale.
“Ne ho abbastanza di questi veli e degli inchini e di essere obbediente,” si lasciò andare ad un ringhio di frustrazione e poi si voltò verso di lui, quasi tremando dal nervoso. “Non ci credo che lui non esplodesse! A meno che non fosse sotto sedativi! Dio! Come si fa a vivere così?”
Chakuza aspettò che si calmasse, finendo per sedersi sul panchetto di fronte allo specchio, quindi lo raggiunse e gli lasciò un bacio sulla tempia. “Hai finito?”
Bill lo guardò storto, attraverso lo specchio. “Sì,” sibilò.
“Bene. Sarà molto più facile ora che hai scaricato tutta questa rabbia repressa.”
“Che cosa sei un carpentiere o un maestro Zen?”
Chakuza rise. “Sono un uomo dalle mille risorse,” rispose tirandolo quasi letteralmente su in piedi. “Forza, manca davvero pochissimo.”
Il moro sospirò, quindi si alzò dal panchetto e si concentrò, per recuperare l'atteggiamento più virginale che poteva – una cosa per la quale il suo Bushido avrebbe riso fino a farsi saltare una vena del collo. “D'accordo, passo lento, testa bassa, sollevamento del velo... poi?”
“Poi, molto probabilmente, il popolo darà di matto. Qualcuno sverrà, molti urleranno e non escludiamo che gran parte della popolazione s'inginocchi ed inizi a pregare.”
“Cosa?”
“Qualsiasi sia il caso, tu rimani impassibile,” si raccomandò Chakuza. “Eri un cantante famoso, giusto?”
Sono un cantante famoso,” puntualizzò Bill.
“Okay, quanto famoso?”
“Molto. Mi conoscono in tutto il mondo,” rispose orgoglioso.
“Ottimo, quindi hai familiarità con le folle urlanti. Immagina di essere ad un concerto, va bene? Guarda tutti con eterno amore e meraviglia, ma con l'unica differenza che non sono loro ad essere lì per te, ma tu lì per loro. Sei felice che siano accorsi sotto quel balcone, la loro presenza ti riempie di gioia, ma ricorda che sono loro che devono ringraziarti per essere presente. Chiaro?”
Bill aprì la bocca per protestare ma Chakuza sollevò un indice per zittirlo.
“Lo so, lo so. Questo non è giusto e dal mondo da cui provieni tutti hanno diritto di tirarti i sassi quando non sono d'accordo e i capi di stato non sono dittatori egocentrici travestiti da democratici condottieri, ma qui non siamo nel tuo mondo, d'accordo?”
Bill sollevò un sopracciglio. “Veramente volevo chiederti se dovrò fare un discorso,” commentò incerto. “Ma... d'accordo, terrò in mente anche questo. Sento dell'astio nei confronti del Presidente, o sbaglio?”
“Sbagli,” rispose di fretta Chakuza. “E riguardo alla tua domanda: no, non dovrai fare nessun discorso. Il vero Bill avrebbe detto qualche parola, ma con te eviteremo, per limitare i danni. Tra le altre cose, il tuo registro non va bene e non basterebbe una settimana per rimetterlo a posto.”
“Tipo? Cioè, che cavolo vuol dire che il mio registro non va bene?”
“Ecco appunto,” sospirò Chakuza. “Lasciamo perdere, d'accordo? Non parlerai. Tanto se il presidente non ti dà il permesso, non potrai farlo comunque. A tal proposito, ricorda che se Bushido vorrà farti qualche domanda, e non so se succederà perché non è stato chiaro sul punto e quando è molto nervoso è meglio non chiedergli le cose due volte, tu risponderai chinandoti piano verso di lui e sussurrandogli la risposta nell'orecchio. La tua voce dev'essere udibile soltanto a lui.”
Bill annuì. “C'è altro che devo sapere o posso andare a chiudermi nelle mie stanze a tremare di paura, in attesa che qualcuno mi salvi?”
“Continua a camminare,” lo rimproverò scherzosamente Chakuza, facendogli cenno con la testa di non smettere di sfilare, col suo bel tomo in testa. “Sai, anche lui aveva difficoltà, a volte.”
Bill girò appena la testa, giusto per riuscire a guardarlo. Rischiò di far cadere il libro, così tornò a fissare davanti a sé. “Ma non mi dire, Miss Perfezione?”
“Guarda che non era nato per fare la Luce di Tempelhof!” Esclamò Chakuza. “Ha dovuto imparare anche lui.”
“E che cosa faceva? Voglio dire, prima di sposare Bushido.”
“Viveva in città. Lui e suo fratello erano arrivati due anni prima, insieme alla madre che era una pittrice,” rispose l'uomo. “Vivevano in una specie di carrozzone semovente che cadeva a pezzi. Sua madre era arrivata a Tempelhof seduta a cassetta di quell'affare che sembrava sempre sul punto di ribaltarsi. Aveva finito per parcheggiarlo a due passi da casa mia, per questo li ho conosciuti.”
“Tu non vivevi qui nel palazzo?”
Chakuza rise. “No, era il tempo in cui davvero riparavo caldaie,” spiegò. “Facevo il carpentiere giù in città e avevo questa catapecchia devastata dai bombardamenti di tre anni prima. Quando pioveva entrava l'acqua e dovevo spargere tinozze un po' ovunque. L'idea era quella di riparare il tetto, naturalmente, ma trovare un'asse di legno che non costasse cifre assurde cominciava ad essere impossibile.”
“E come sono andate le cose? Lui coglieva margherite nei campi, è passato Bushido sul suo cavallo bianco e ha detto che voleva fare di lui la sua regina?”
Chakuza fece una smorfia. “Più o meno, sì. Era il giorno della parata presidenziale, la città era tutta riunita per assistervi. Lui è passato sul suo carro, lo ha visto fra la folla e qualche giorno dopo i suoi funzionari si sono presentati per prelevarlo da casa sua.”
“Aspetta un secondo,” Bill si fermò e recuperò il volume al volo, quando gli cadde dalla testa. “Vuoi dire che lui se ne stava lì tranquillo in mezzo alla folla, ad applaudire sventolando bandierine e Bushido ha semplicemente deciso che da quel momento in poi sarebbe stato roba sua?”
“Più o meno sì.”
“Secondo quale legge?” Chiese Bill. “Cioè, voglio dire, le persone di questo posto avranno dei diritti, un qualcosa che li tuteli, no?”
“Certo, finché questo non contrasta con il volere del Presidente,” annuì Chakuza. “La sua parola è legge.”
“E com'è che sei finito qui?”
“Ho fatto domanda per lavorare a Palazzo non appena Bill è stato trasferito lì e avevo... dei contatti all'interno, quindi è stato abbastanza facile,” spiegò. “Mi hanno passato subito di grado e, visto che conoscevo già Bill e lui ha insistito, sono stato nominato suo campione.”
“E come ci sei finito a letto?”
Chakuza sussultò. “Non come pensi tu,” borbottò.
“Oh, ma io non penso proprio niente,” sorrise Bill. “Ti avrò chiesto di raccontarmelo almeno duecento volte, ormai.”
“E non ti viene in mente che, se non l'ho ancora fatto, magari non voglio farlo?”
Bill ci pensò su. “No,” concluse scuotendo la testa. “Andiamo! Sono curioso! E poi in qualche modo è come se parlassi di me, quindi ho il diritto di sapere.”
Chakuza lo guardò con gli occhi sgranati. “Non peggiorare le cose, è già abbastanza imbarazzante così com'è! Non c'è bisogno di tener presente che Bill era uguale a te.”
“Allora?” Lo incalzò il moro, del tutto indifferente alle sue proteste. “Com'è andata? Rinchiuso dentro il palazzo contro la sua volontà, lo sfortunato piccolo fiore si è innamorato del suo amico d'infanzia, così diverso dal suo aguzzino? Oppure, il compagno del presidente, trascurato dall'impegnatissimo marito, ha cercato un brivido di avventura con il cavaliere in scintillante armatura che lo proteggeva ogni giorno dalle perfide scalinate di marmo del Palazzo?”
L'uomo sospirò, rassegnato. “Io e Bill stavamo già insieme quando Bushido lo ha scelto,” esclamò con voce tetra.
Bill era stato già pronto a dire l'ennesima scemenza ironica, ma tacque, la bocca aperta per la sorpresa e l'incredibile senso di inadeguatezza che lo colpì tutto insieme, quando si rese conto di quanto era stato imbecille. “Mi dispiace,” balbettò. “Io non pensavo...”
“Qualunque cosa avessimo progettato di fare, lui è arrivato e ha deciso per tutti che così non poteva essere,” continuò l'uomo.
“Lui lo sapeva?”
Chakuza scosse la testa. “Ma anche se lo avesse saputo, le cose non sarebbero cambiate. Non c'era modo di opporsi comunque.”
“E' una cosa orribile,” mormorò il ragazzino “... che abbiate dovuto separarvi per il volere di qualcun altro.”
“Già. Beh, abbiamo fatto quello che abbiamo potuto,” sospirò Chakuza. Poi si batté le mani sulle cosce e fece un gran sospiro. “Ora forza, ricominciamo. C'è un sacco di lavoro da fare e siamo molto indietro.”
Bill si sentiva in colpa, così annuì e tornò immediatamente a sfilare. Non aveva avuto idea di quanto fosse doloroso vederlo ogni giorno, dopo quello che aveva passato e ora capiva perché si arrabbiasse tanto nel vederlo andare da Bushido.
Avrebbe voluto poter riavvolgere il tempo ed evitare di fare domande.
Il fantasma che avevano appena evocato non se ne sarebbe più andato; sarebbe rimasto ad aleggiare fra loro, imbarazzante e doloroso, come tutte le cose a lungo sepolte quando vengono riportate alla luce per sbaglio. Non avrebbe fatto domande, decise, a meno che Chakuza non avesse di nuovo affrontato il discorso per primo.

*


Sei giorni dopo, Bill era nervoso come non lo era mai stato nemmeno per il primo grande concerto della sua vita. Forse perché questa volta David era chiuso a doppia mandata nel suo laboratorio e non voleva ricevere nessuno, invece che essere lì accanto a lui ad incoraggiarlo. Senza contare che non aveva idea di che cosa gli sarebbe apparso davanti, una volta uscito sul balcone. Era abituato a folle di ragazze in lacrime che gridavano isteriche e tentavano di strapparsi i capelli l'un l'altra, quindi il fanatismo non lo preoccupava troppo; era tutta la questione in generale a metterlo a disagio, perché avrebbero messo in scena una menzogna bella grossa e lui non era molto d'accordo a riguardo. Era convinto che se Bushido fosse finalmente sceso dal suo metaforico trono e avesse parlato alla sua gente con sincerità, anche se significava dire cose pessime, forse questa sarebbe stata più disposta a seguire le sue scelte, evitando magari di sovvertire il sistema nonostante i bombardamenti. Ma d'altronde anche il suo Bushido era un cocciuto egocentrico presuntuoso, convinto che il mondo dovesse girare come voleva lui. Era un bene che gestisse solo un'etichetta e non una città.
Dalle sei di quella mattina aveva iniziato a radunarsi gente e, adesso che era quasi mezzogiorno, la piazza antistante il palazzo era gremita fin quasi ad esplodere. C'erano persone perfino nelle vie laterali, per questo erano scese le guardie a tenerle a bada, tanto per stare tranquilli. C'erano alcuni striscioni poco lusinghieri tra le ultime file, ma niente disordini.
“Qualche ripensamento?” Chiese Chakuza, cogliendolo di sorpresa.
Bill sorise prima di staccare lo sguardo dalla vetrata della sua stanza e voltarsi verso di lui. “Una lista infinita,” ripose.
“Non preoccuparti. Andrà tutto bene. Devi solo...”
“Camminare piano, parlare poco ed essere pudico. Lo so.” Bill sospirò. “Comunque grazie per avermi fatto da maestro.”
Chakuza si strinse nelle spalle e assunse un'espressione molto piena di sé. “Figurati, non sei la prima piaga che mi capita di dover tenere sott'occhio,” gli fece l'occhiolino.
“Grazie, sempre molto gentile,” il ragazzino fece una smorfia e poi si lasciò andare seduto su una poltrona, in uno sbuffo di tulle e veli.
“Dovere.”
“Bushido è già uscito?”
Il carpentiere annuì. “Da poco. Toccherà a te fra qualche minuto. E' tutto pronto.”
“Manca solo il dannato velo.”
Chakuza si guardò intorno per individuarlo. “Parla per bene,” lo ammonì, scherzando. “Vieni, ti aiuto a metterlo.”
Bill si sottopose di malavoglia alla tortura e lasciò che l'uomo fissasse le due mollette che tenevano fermo il velo e, dopo aver visto come cadeva, lo sollevasse di nuovo per dargli modo di parlare. Lo fissò per qualche secondo e sorrise. “Sei bellissimo.”
“Grazie.”
Chakuza si schiarì la voce. “Scommetto che li stenderai tutti. Li vedremo cadere tutti a terra uno dopo l'altro e dovremo mandare tuo fratello e la sua squadra a raccoglierli con scopa e paletta.”
Bill colse il tentativo di sviare l'attimo di adorazione e seguì quella linea, atteggiandosi esageratamente. “Lo so, sono uno schianto... anche con questo tremendo affare addosso.”
“Che cos'ha che non va il vestito?”
“Ne ha così tante che non saprei da dove cominciare, Chakuza,” commentò Bill, alzandosi in piedi e raggiungendo lo specchio. “E' una tunica maglia-pantalone con un taglio talmente triste che fa piangere d'orrore anche i bambini poveri. Per non parlare della mantella con strascico plurichilometrico bi-colore panna-pesca. Il pesca non è un colore serio, e i ricami in fondo fanno così tanto sposa in disgrazia! E tutto questo bianco mi sbatte un casino. Non potevo avere qualcosa di nero?”
“La Luce di Tempelhof non può vestirsi di nero.”
“Perché?”
“Perché è la luce di Tempelhof!” Esclamò Chakuza ridendo. “Dev'essere luminosa.”
Bill emise un verso frustrato e finì per sbuffare in maniera poco elegante. “Sono tremendo! Ringrazio che non ci siano i fotografi. Io sono uno che si veste bene,” puntualizzò.
“Mi piacerebbe vedere uno di questi tuoi fantomatici e strepitosi completi.”
“Ne rimarresti abbagliato. So far luce anche al buio, io!”
A quel punto, Chakuza lo aveva invitato a dirigersi verso il balcone che si trovava nell'ufficio del presidente e, stranamente, Bill aveva sbagliato strada soltanto due volte.
Quando arrivarono, la porta dello studio era aperta e dentro c'era un gruppo di guardie. Bushido era sul balcone di fronte ad una struttura in rame che assomigliava vagamente a quella dei comizi politici. Al posto di un normale microfono moderno, però, ce n'era uno di quelli vecchissimi e rotondi, che sembrava uscito direttamente dagli anni venti. Bill lo sentì parlare di speranza, di forza interiore e di un futuro migliore che li attendeva da quel giorno in poi e rabbrividì al pensiero di dover rappresentare tutto ciò con un paio di babbucce di tela ai piedi.
“Oh, bene, siete qui! Tra poco tocca a lui.” Tom si avvicinò e gli sistemò anche lui il velo e l'ampia maglia che scendeva sui pantaloni fin quasi a coprirli. “Chakuza ti accompagnerà fino alla finestra, da lì sono quattro passi fino a Bushido. Tutto chiaro?”
Bill annuì da sotto il velo. Di tutte le persone del Palazzo, Tom era quella con cui era entrato meno in contatto, ma non era poi così strano. Tom lo aveva accolto come fosse suo fratello, ma Bill ora intuiva che lo aveva fatto solo perché sapeva di doverlo fare. Non c'erano dubbi che avesse sentito a pelle che non si trattava davvero di lui, perché anche Bill lo percepiva. Era una questione gemellare. Da qui il distacco quasi gelido con cui lo aveva affrontato all'inizio, quando tutti lo credevano l'altro Bill, e con cui a maggior ragione lo affrontava adesso che era quasi per tutti un doppione.
Bushido smise di parlare e Tom indicò con un cenno il balcone. “Vai!”
Il moro inspirò profondamente e poi s'incamminò mentre Bushido guardava nella sua direzione, la mano tesa e un sorriso così sincero che Bill poteva anche decidere di credergli in quei pochi minuti. E a dire il vero un po' gli credeva. In fondo c'era ancora una parte di quell'uomo che stava tentando disperatamente di farsi bastare lui, anche se non era quello che voleva. A volte il Presidente chiudeva gli occhi, mentre gli accarezzava la schiena e allora Bill sapeva che in quel letto l'uomo era da solo con i suoi ricordi. Lo lasciava fare perché, certe volte, lo faceva anche lui. Era perché le sue mani, ad occhi chiusi, sembravano le mani di Anis che si era permesso di cedere. Non poteva certo biasimarlo se ora sorrideva alla sua figura velata come se fosse quella vera.
Chakuza si fermò un passo prima di lui e lo spinse leggermente avanti, ricordandogli dov'era. Guardò dritto davanti a sé e coprì la distanza che lo separava dalla balaustra dove si fermò, per poi voltarsi verso Bushido che lo aveva preso per mano.
“Perché possiate ritrovare la speranza che avete perduto,” annunciò Bushido, sollevandogli lentamente il velo. “La Luce di Tempelhof è di nuovo tra noi.”
Quando Bushido gli ebbe tolto il velo, Bill si voltò verso la folla, osservando lontano però, oltre i confini della città che si scorgevano appena nel cielo terso. Per un lungo istante elettrico ci fu un silenzio quasi fisico, che si posò su tutti loro, morbido ma pesante. E poi la folla esplose. Il boato partì dal basso e lì investì con la violenza di migliaia di persone che gridavano tutte insieme. Bill non si mosse. Bill sorrise perché era una sensazione familiare. Era l'inizio di un concerto. Era una cosa che sapeva gestire.
Da lì in poi fu tutta in discesa. La folla gridò e invocò il suo nome, qualcuno si sentì male come in effetti Chakuza aveva previsto, ma lui si limitò ad osservarli benevolo e quando Bushido gli chiese di dire due parole alla sua gente, chinò pudicamente il capo verso di lui e gli sussurrò. “Non ho idea di che cosa rispondere, inventa,” per poi sorridere dimesso e imbarazzato verso la folla.
Bushido annunciò al popolo che Bill era vicino a loro e che se avessero trovato la forza, presto avrebbero visto un futuro migliore. Una cosa che Bill trovava assurda e poco adatta alla sua persona ma annuì, quindi stese le braccia davanti a sé, con i palmi rivolti verso l'alto, poi le mosse in un ampio cerchio per riportarle al cuore, secondo la benedizione che il suo carpentiere campione e virtualmente amante gli aveva spiegato negli ultimi due tremendi e disperati giorni di allenamento. La folla si inchinò alla sua persona, pronunciando una litania che non comprese minimamente ma che si concluse con Luce di Tempelhof, cosa che gli fece pensare di aver fatto abbastanza bene. Allora Bushido lo invitò a ritirarsi e a quel punto l'unico problema fu non farlo mettendosi a correre a perdifiato.
Chakuza lo accolse compiaciuto e orgoglioso non appena fu avvolto dal buio della stanza. “Ottimo lavoro, principessa.” Quindi lo riportò in camera e lasciarono a Bushido e ai suoi il compito di chiudere quella farsa.



*


Nei giorni seguenti la dichiarazione pubblica, nel regno non s'era parlato d'altro che di Bill e della sua resurrezione. La stampa aveva fatto a Bushido ogni genere di domanda, alla quale lui si era guardato bene dal rispondere. In una perfetta imitazione del se stesso che regnava indiscusso in una villa gialla a Berlino, il Presidente aveva rilasciato una serie di dichiarazioni, una più inutile dell'altra, in cui sostanzialmente aveva detto che potevano anche smettere di chiedergli come Bill potesse essere ancora vivo, dopo che il suo corpo era stato esposto per tre giorni e poi seppellito nell'enorme mausoleo presidenziale, perché tanto lui non avrebbe dato alcuna risposta. Qualcuno aveva provato a riesumare la salma, ma siccome la tomba della Luce era sempre sorvegliata, il tentativo si era trasformato nell'arresto di cinque persone e nient'altro.
Bushido si era quindi chiuso nel suo palazzo, parlando solo attraverso i media e alimentando la curiosità col proprio silenzio sull'argomento.
La notizia aveva, in effetti, sollevato più dubbi di quanti ne avesse eliminati ma la novità aveva distolto l'attenzione di tutti dai bombardamenti, dalla scarsità di cibo e dalla generale voglia di vendetta e rivolta che aveva smosso gli animi nell'ultimo periodo. Un piccolo gruppo, che si stava per altro allargando, aveva addirittura dichiarato l'avvenimento un miracolo divino e rischiava di trasformare quella mossa azzardata in un successo colossale.
Bushido ne era talmente orgoglioso che sarebbe potuto esplodere per tutta la presunzione che si portava appresso. L'intera situazione lo aveva rimesso di buon umore e ora la sua presenza nel Palazzo era più evidente e, in qualche modo, anche più rumorosa. Lo si incontrava molto più spesso nei corridoi, aveva smesso di mangiare nelle sue stanze e, di tanto in tanto, aveva addirittura ospiti, anche se probabilmente quello era solo per potersi compiacere di non rispondere alle loro domande su Bill. In quelle occasioni, naturalmente, Bill aveva l'ordine di starsene buono nelle sue stanze e, dimostrando una grande fiducia in lui, Bushido gli mandava alle calcagna Chakuza, il quale era ben lieto di stare con lui oltre le solite diciotto ore giornaliere.
Bill, comunque, tendeva a non prendersela perché conosceva abbastanza Bushido – tutti i Bushido dell'universo – per sapere che aveva bisogno di crogiolarsi un po' nella propria supremazia. Inoltre, per lui era un sollievo non dover essere presente ad una cena con altri capi di stato, funzionari o qualunque altra persona di una certa importanza, perché era consapevole di non poter stare zitto con la testa china a sorridere timido come una monaca di clausura per più di, diciamo, dieci minuti senza saltare al collo di qualcuno. E, in quanto alla poca fiducia di Bushido, la riteneva sensata. Se Chakuza non fosse stato lì ad ogni ora del giorno e buona parte della notte, sarebbe sgattaiolato subito in giro, probabilmente alla ricerca di David che si negava spesso e volentieri per impedirgli di assillarlo con domande sui suoi studi in corso.
Quella era una di quelle serate in cui Bushido aveva invitato un gran numero di gente a cena, solo per poter parlare per ore di tutto tranne che della ritrovata Luce di Tempelhof. I cuochi avevano preparato un banchetto lussuoso e Bill ne aveva ricevuto ben più che un assaggio, grazie alle serve che avevano portato in camera a lui e Chakuza ogni singola portata, in quantità tale da poter sfamare un esercito. Lui e il carpentiere avevano passato la serata a chiacchierare, mentre Chakuza cercava di insegnargli un assurdo gioco di carte dal nome impronunciabile che aveva troppe regole perché Bill potesse anche solo pensare di mettersi lì ad impararle tutte. Senza contare che il mazzo di carte che Chakuza aveva prodotto con un mezzo gioco di prestigio tirandolo fuori dalle maniche dell'abito di Bill come fosse un bambino di cinque anni era composto da figure sconosciute e simboli invece che numeri, così che prima di imparare davvero le regole, Bill aveva dovuto imparare a leggere le carte e l'impresa aveva portato via gran parte del dopo cena. Alla fine Bill aveva chiesto a Chakuza se invece non gli andava di guardare la città dalla vetrata con lui e spiegargli quello che stava guardando. L'uomo aveva accettato più che volentieri e in due si erano seduti a terra su dei cuscini, a guardare la notte di Tempelhof e le sue luci. Bill aveva scoperto molte cose interessanti. Ad esempio che il grande orologio che gli piaceva tanto, era più vecchio del ghetto e che, anzi, esso era stato costruito tutt'intorno alla torre dell'orologio. Per questo Bushido faceva in modo che fosse sempre ben oliato e non sbagliasse mai l'orario; era il simbolo del ghetto per eccellenza, e come tale andava rispettato. Aveva fatto istituire una squadra speciale che lo presidiava e se ne occupava, in modo che non mancasse mai di cure e di attenzioni. E quando tre diversi bombardamenti lo avevano colpito e guastato, Bushido aveva tagliato i fondi sui suoi stessi rifornimenti di cibo per ripararlo più in fretta. Chakuza ricordava ancora con orrore le quattro settimane che avevano passato mangiando soltanto gallette e acqua, praticamente.
Chakuza gli aveva poi mostrato in lontananza tutte le stazioni della monorotaia, anche quelle che ora non funzionavano più e, siccome il palazzo del Presidente era più alto di qualunque altra cosa, Bill aveva potuto vederle benissimo. Tempelhof di notte era così ferma e silenziosa da sembrare finta, soltanto i bombardamenti la scuotevano ogni mezz'ora e quello era l'unico istante in cui, nel buio, sembrasse ancora viva. Perché tremava.
All'una, Bill aveva deciso che poteva anche andare a dormire e aveva invitato Chakuza a fare lo stesso. L'uomo, naturalmente, aveva ricevuto ordini diversi e sebbene, a quanto pareva, era abituato a fare la guardia dentro la stanza, aveva avuto la cortesia di posizionarsi fuori, appena accanto alla porta. E Bill aveva avuto abbastanza tatto da non fare battutine, perché si sentiva ancora in imbarazzo per ciò che aveva detto ogni volta che Chakuza nominava l'altro Bill con un sorriso.
Le prime notti addormentarsi in quel letto era stato complicato e non perché fosse un letto nuovo, Bill era abituato a non dormire mai due volte di seguito sullo stesso materasso, ma proprio perché non sapeva quando avrebbe potuto appoggiare la testa su un altro cuscino o dormire in una stanza che conoscesse. Quel gigantesco letto matrimoniale e semicircolare era diventato da subito il simbolo della sua lontananza da casa. Certe volte dormirci sopra gli era sembrato quasi un tradimento, come se si fosse rassegnato a non rivedere più casa sua; ma aveva scoperto che dormire sul tappeto, sulla poltrona, o in piedi come un cavallo, non giovavano comunque alla sua situazione e quindi aveva concluso che il letto non era un male più grande degli altri. Col tempo si era anche abituato e aveva imparato a dormire tranquillo, anche se si ostinava a non chiudere gli occhi se prima non aveva ripetuto ad alta voce che presto se ne sarebbe andato via di lì.
Quando il rumore lo aveva svegliato, stava facendo un sogno confuso ma bellissimo. Si trovava ancora lì, in quell'universo, ma al comando del ghetto c'era il suo Anis e aveva provato una grande gioia nel rendersi conto che lo aveva riconosciuto solo guardandolo e che, anche se i due uomini erano praticamente identici, lui era ancora perfettamente in grado di notare quelle minuscole differenze nello sguardo e nel modo di muoversi che rendevano Anis il suo Anis e che non potevano ripetersi uguali nel Presidente perché nascevano da esperienze che lui non aveva mai avuto. Nel sogno, lui e Bushido stavano cercando qualcosa che l'uomo aveva perso e proprio un attimo prima di ritrovarla e di capire che cosa fosse, Bill si era svegliato per un suono fuori posto, che aveva dissipato il sogno e lo aveva costretto ad aprire gli occhi quasi contemporaneamente.
All'inizio Bill non aveva visto niente nella stanza, eppure aveva saputo che c'era qualcuno, perché qualcosa era fuori posto anche se in quel momento non riusciva a capire cosa. Aveva scrutato nel buio con attenzione, come faceva da piccolo quando si svegliava di notte e doveva controllare che suo fratello fosse ancora dall'altra parte della stanza, sotto le coperte. Quindi era scivolato silenziosamente fuori dal letto e aveva afferrato la lampada sul comodino, avvicinandosi a passi lenti verso la vetrata, dalla quale filtrava chiarissima la luce della luna. In effetti non aveva idea di cosa potesse fare con i suoi quaranta chili e una lampada se davvero ci fosse stato un intruso, ma in quel momento non ci stava davvero pensando. “Chakuza, sei tu?” chiese, incerto.
In risposta, un'ombra scura uscì da dietro la libreria, atterrandogli addosso di peso e senza che lui potesse fare niente per difendersi. La lampada gli cadde di mano e quando provò ad urlare, si ritrovò una mano premuta contro la bocca, mentre entrambi cadevano a terra con un tonfo. Batté la testa sul pavimento e per un attimo non vide altro che stelle poi, strizzando gli occhi la sua vista tornò a fuoco. La persona sopra di lui aveva il viso coperto e, anche se era chiaro che lo stesse guardando dritto in faccia, Bill non avrebbe saputo distinguerne neanche il colore degli occhi.
Si scosse sotto il corpo dell'intruso, agitando le braccia nel tentativo di colpirlo. Urlò qualcosa che uscì soltanto come un mugolio, ovattato dalle dita che gli premevano sulle labbra.
L'uomo sollevò la mano libera che impugnava un coltello e Bill ne vide la lama risplendere nel buio; d'istinto piegò un ginocchio verso di sé e tirò un calcio nello stomaco dell'assalitore. Non fu abbastanza forte per mandarlo a sbattere come avrebbe voluto, ma lo fu abbastanza per toglierselo di dosso e poter così urlare a squarciagola.
La porta della sua stanza si spalancò all'istante. “Bill, che succede?”
Il cantante tirò un altro calcio alla cieca, senza colpire nulla stavolta e si alzò da terra velocemente, ansimando e artigliando la moquette con le dita per fare presa. “C'è qualcuno nella stanza,” urlò, mentre l'intruso si rialzava allo stesso modo. “E' armato!”
Ma Chakuza lo aveva già individuato e aveva superato Bill, spingendoselo dietro le spalle con un gesto deciso. “Stai indietro,” gli ordinò, avanzando.
L'intruso si era fermato a fronteggiarlo, le gambe divaricate e il coltello sollevato. Chakuza portò una mano al fianco, sganciando il grosso martello dalla cintura. Fendette l'aria un paio di volte di fronte a sé, e l'attrezzo sibilò in maniera inquietante.
I due si guardarono per un tempo infinito, finché Chakuza non finse un lento passo in avanti e allora l'aggressore sfruttò quel movimento per attaccare per primo. Affondò il pugnale ma, a quel punto, Chakuza fu più veloce, brandì il martello e lo colpì al polso e poi al gomito. L'azione fu tanto veloce che tutto ciò che Bill vide fu l'intruso che attaccava e poi, l'attimo dopo, il coltello era volato a terra e stava strisciando fino ai suoi piedi mentre l'aggressore urlava, tenendosi il braccio ferito.
“Stai bene?” Chiese Chakuza, lanciandogli un'occhiata mentre rimetteva il martello al suo posto e, non contento tirava un calcio all'aggressore, che aveva cercato di strisciare lontano. “Sta' giù.”
“Credo di sì,” deglutì Bill.
“Passami qualcosa con cui legarlo,” esclamò sbrigativo, tornando a guardare il loro attuale problema. Bill si aggirò inutilmente per la stanza per qualche minuto prima di posare gli occhi su una vestaglia orribile che non aveva mai messo ma che le serve si ostinavano a lasciargli in bella mostra, come se fosse un pezzo unico di alta moda di cui andare fieri e orgogliosi. Recuperò la cintura da lì e la passò a Chakuza che la prese senza nemmeno guardarla e poi legò le mani all'intruso, incurante del fatto che probabilmente il tipo aveva più di un paio di ossa rotte dopo la sua martellata. Difatti lui si lamentò parecchio, ma Chakuza lo mise a tacere con uno scappellotto prima di togliergli la calza che gli copriva la testa. “Non ti lamentare, te lo sei meritato,” commentò. “Ora fammi vedere che faccia hai.”
L'uomo si divincolò infastidito, ma la calza gli fu tolta comunque.
Bill si avvicinò per vederlo. Era spaventato all'idea di scoprire quale delle persone che conosceva in un mondo avesse tentato di ucciderlo in un altro, ma rimase sorpreso quando si rese conto che non conosceva affatto quell'uomo. Naturalmente era una cosa del tutto normale, d'altronde c'erano miliardi di persone al mondo e niente escludeva che il suo possibile assassino potesse essere fra queste, tuttavia, si era ormai così abituato a incontrare solo gente che conosceva da non aspettarsi di veder spuntare da sotto la calza un volto che non gli diceva assolutamente niente.
In compenso diceva qualcosa a Chakuza. “Tony, naturalmente,” esclamò con disprezzo. “Non poteva trattarsi che di un bastardo come te.”
“Ciao nano,” sorrise quello. “Anche per me è bello rivederti.”
Chakuza lo ignorò ed estrasse dalla cintura un altro affare che Bill non sapeva identificare. Era sottile come un pezzo del domino ma due volte più grande e aveva un unico piccolo bottone in cima. A vederlo così sembrava il telecomando di un cancello automatico o quello per aprire le portiere dell'auto ma, a meno che quella stanza non potesse trasformarsi in un'astronave o fosse in realtà un garage, Bill dubitava che si trattasse di una delle due cose.
“E così è vero. La vostra Principessa è ancora in piedi,” esclamò Tony, ridacchiando mentre scrutava Bill dalla testa ai piedi. “E come ci siete riusciti? Quel vostro minuscolo alchimista si è dato alla negromanzia?”
“Nessuno ti ha dato il permesso di parlare, Tony” commentò Chakuza, che aveva preso a girare per la stanza, ormai incurante dell'uomo a terra. L'unica cosa che aveva fatto era stato portare Bill lontano da lui, tirandoselo dietro per un avambraccio, per poi lasciarlo nei pressi della porta. “Lo farai quando te lo dirò io.”
Bill fece qualche passo verso Chakuza, intento a scostare i chili di tende sparsi un po' ovunque nella camera principesca. “Tu lo conosci?” Sussurrò.
“Tu no?” Rispose l'uomo, spostandosi verso la parte della stanza che conteneva lo studio, con il ragazzo che lo seguiva come un'ombra.
“No, o almeno non mi sembra,” ragionò mentre, da qualche parte alle loro spalle, Tony cantava solo per il gusto di innervosirli. “Immagino che mi ricorderei di un energumeno a malapena evoluto con un pessimo taglio di capelli e stonato come una campana.”
“Stai zitto o giuro che ti rompo anche i denti,” sbraitò Chakuza, spettinando Bill nel mentre. Tony tacque.
“Non sembra starti molto simpatico,” commentò il ragazzino, sempre a bassa voce.
Chakuza sospirò. “Ha tentato di ucciderti, tu che cosa dici?” Commentò. “Ed era là quando Fler c'è riuscito.”
Bill spalancò gli occhi, ma non ebbe tempo di chiedere niente perché sentirono dei passi avvicinarsi di corsa e Chakuza spostò la sua attenzione verso la porta. “Alla buon'ora,” sibilò, infilandosi in tasca il piccolo pezzo del domino. “Questo affare non funziona mai.”
L'attimo successivo, la stanza era già piena di gente. Una squadra di guardie presidenziali era appena sciamata all'interno, capitanata dalla copia di suo fratello Tom. “Che diavolo è successo? Lui dov'è?”
“Sono...”
“E' qui,” rispose Chakuza a voce più alta, scortandolo delicatamente fino a Tom, sotto gli occhi dell'aggressore, che li seguì con lo sguardo incollato a lui. “Sta bene, è solo un po' scosso.”
Tomi annuì. “Che diavolo è successo?”
“Il bastardo ha cercato di ucciderlo,” rispose Chakuza, accennando al loro prigioniero ancora a terra.
“Tony D,” ringhiò Tom. “Portatelo nella sala degli interrogatori e non statelo a sentire, qualunque cosa vi dica. Arriviamo tra un attimo.”
“Ehi, Kaulitz, nemmeno mi saluti?” Chiese l'uomo, esplodendo in una grassa risata odiosa mentre lo portavano via.
Il capo delle guardie aspettò che il prigioniero fosse lontano prima di attaccare Chakuza. “Come diavolo è entrato? Non c'eri tu davanti alla porta?”
Chakuza serrò la mascella. “Che cosa vorresti insinuare?” Sibilò. “Nessuno è passato da quella porta a parte voi.”
“Le vetrate di questa stanza non si aprono!” Insistette Tom. “Il ricambio d'aria è affidato al sistema di areazione dove quel gigante non poteva passare. Quindi, a meno che non si sia materializzato dal nulla-”
“Ragazzi!” Bill si mise in mezzo e loro si zittirono. “Non è entrato dalla porta, veniva dallo studio. Mi ha assalito da lì.”
“Potrebbe essere entrato dalla porta ed essersi poi diretto lì,” gli fece notare Tom.
Bill scosse la testa. “No, io l'ho sorpreso ad entrare perché ho sentito dei rumori. E lui era da quella parte. Se davvero era qui per uccidermi, non avrebbe perso tempo a nascondersi nello studio visto che stavo dormendo, ti pare?”
Tom non poteva negare che Bill avesse ragione, ma in ogni caso non lo ammise. “Da qualche parte sarà pure entrato,” commentò burbero. “Di certo non può essere apparso dal nulla.”
Si allontanò da loro per raggiungere un gruppo di soldati che stava perlustrando la camera come fosse il luogo di un delitto. Bill quasi si aspettò di vederli tirare fuori pennelli per le impronte digitali e luminol, anche se dubitava che ci fosse un qualcosa di anche solo simile alla polizia scientifica in quell'universo. In ogni caso, si irritò nel vederli mettere le mani tra le sue cose, anche se non erano esattamente sue quanto dell'altro Bill. Pensò che in fondo era un po' la stessa cosa in quel preciso frangente.
“Potreste non...” iniziò e le guardie si fermarono, attendendo il resto della frase. Bill rimase così colpito dalla loro attenzione istantanea che ci rimase un po' di sasso. Generalmente, a casa sua, doveva parlare su tutto e su tutti per farsi davvero ascoltare. “Ehm... potreste non mettere tutto in disordine?”
“Stanno cercando di capire da dove è entrato il tuo aggressore,” commentò Tom. E poi, rivolto a Chakuza aggiunse: “Forse potresti portarlo dal Presidente. Ha bisogno di riposo.”
“No, io voglio stare qui,” s'impuntò Bill. “E parlare con quell'uomo. Voglio sapere perché era qui.”
“Io non credo che sia...”
“Non te lo sto chiedendo,” commentò Bill, portando le mani sui fianchi. “Forse lo avrai notato dal fatto che non c'era nessun punto interrogativo in fondo alla mia frase.”
Tom rimase a fissarlo a lungo e cominciò a mordersi un labbro esattamente come il vero Tom faceva quando Bill gli faceva notare che della sua opinione in quel momento non gliene fregava assolutamente niente e faceva bene a non fregargliene. Generalmente il vero Tom faceva un passo indietro e anche quello finto non si dimostrò da meno. “Vado a vedere che cosa stanno facendo quegli idioti laggiù,” sibilò. “Con permesso.”
Bill sorrise trionfante per il punto segnato a favore della propria emancipazione e di quella virtuale del proprio alterego, quindi si voltò verso Chakuza e notò che stava guardando il pavimento con un misto fra il disgusto e incertezza. “Cos'è successo?” Gli chiese avvicinandosi.
L'uomo sussultò. “Bill! Sei tu.”
“Non c'eravamo già passati?” Chiese il moro, sarcastico. “Sono io, ma non sono esattamente io. So che adesso sei tutto un vorticare di sentimenti ma–“
“Mi hai solo spaventato,” puntualizzò Chakuza.
“Oh,” Bill tossicchiò. “Che cosa stavi guardando?”
Chakuza si guardò alle spalle e poi abbassò la voce. “Penso di sapere da dove è passato Tony,” mormorò.
“E allora perché non lo dici a Tom?”
“Perché se glielo dico...” Chakuza lasciò passare uno dei soldati che era troppo vicino “...dovrei dirgli anche una serie di cose che vorrei non sapesse.”
Il sopracciglio sollevato di Bill riuscì ad essere molto incerto ma anche molto esigente, così il carpentiere fu costretto ad esplicitarsi. Si avvicinò alla libreria di fronte alla quale sostavano entrambi e trascinò Bill a fare lo stesso. Poi, con una lieve spinta, la spostò di lato di appena qualche centimetro, rivelando uno spazio vuoto dietro di essa. Quindi la lasciò andare e quella tornò a posto.
“Cosa?” Esclamò sconvolto il ragazzino.
Metà delle guardie si girarono e Chakuza lo spinse piano ma con decisione. “So che vi sembra di stare bene, ma siete chiaramente provato da quello che è successo,” esclamò a voce alta in modo che lo sentisse anche Tom dall'altra parte della stanza. “Vi scorto nelle stanze del Presidente.”
“Chaku!” Protestò il moro, mentre l'uomo continuava a spintonarlo con disinvoltura.
“Non dovete preoccuparvi. Aumenteremo la sicurezza e nessuno potrà più tentare di farvi del male,” continuò a delirare il carpentiere.
“Peter, piantala!” Gli occhi di Bill saettarono come la sua voce.
“Un buon té è proprio quello che vi ci vuole.”
Chakuza lo spinse finché non arrivarono nel corridoio, girarono l'angolo e furono finalmente lontani dalle guardie di Tom. A quel punto Bill lo allontanò con due sberle sulle dita e portò pericolosamente le mani sui fianchi per la seconda volta in dieci minuti. “Si può sapere che accidenti ti prende? Sei impazzito per caso?”
“Non posso dirgli di quel passaggio.”
“Questo l'ho capito, ora dimmi perché!” Replicò il moro.
Chakuza tentennò un po' più che qualche istante e finì per abbattersi contro un muro prima di rispondere. “Il passaggio che hai visto conduce all'esterno del palazzo,” sospirò alla fine. “Solo io, Bill e Fler ne eravamo a conoscenza.”
Bill sbuffò e si lasciò andare contro una delle colonne di marmo che si susseguivano lungo il corridoio. “E a cosa serviva?” Chiese.
“A uscire dal palazzo,” rispose ovviamente Chakuza. “Non è che Bill potesse attraversare il portone principale quando e come gli pareva. Ogni tanto avevamo bisogno... di allontanarci.”
Bill stava già annuendo. “E tu non puoi dire che quel passaggio esiste perché altrimenti dovresti spiegare anche perché lo conoscevi e comunque l'intera faccenda getterebbe una strana luce sulla figura di Bill. Chiaro.”
“Già.”
“E' un bel casino,” sospirò Bill. “Se Tony parla, non avrà importanza che lo faccia tu.”
“Lo so.”
“Quindi?”
“Non ne ho idea.”

*


Gli uomini di Tom avevano frugato ovunque per capire come Tony D si fosse introdotto nella camera da letto di Bill e, non avendo trovato il passaggio segreto, cominciavano a prendere in considerazione che fosse passato dal camino anche se, vista la stazza, era altamente improbabile che ciò fosse anche solo immaginabile. Questo dava a Chakuza una speranza, anche se non particolarmente solida.
Tom aveva informato Bushido dell'accaduto e poi aveva subito preparato la stanza degli interrogatori. Nessuno aveva pensato di chiamare Bill, naturalmente, per questo lui aveva pensato bene di presentarsi da solo, al fianco di Chakuza che era ormai così rassegnato alla sua testardaggine da non sprecare più tempo a contrastarla.
Bill non aveva idea di cosa aspettarsi da quella stanza, visto che non aveva ancora ben capito quanto quel mondo fosse avanzato. Da una parte c'erano le strade sopraelevate e i passaggi interdimensionali, dall'altra però andava quasi tutto a vapore, e le due cose insieme non erano nemmeno contemplabili nella sua testa. Quindi, per quanto ne sapeva, potevano interrogare quel tipo legandolo ad una sedia da immergere nell'acqua, come nel medioevo, oppure con uno scanner del cervello come in un film di fantascienza.
Alla fine scoprì che quella degli interrogatori era una stanza molto simile a quella che si aspettava, ma al posto dello specchio finto c'era soltanto una lastra di vetro a dividere Tony, legato ad una sedia, da Bushido e da lui che avrebbero assistito all'interrogatorio.
“Non sei costretto ad assistere,” gli disse piano l'uomo, senza voltarsi a guardarlo.
Bill sospirò e si sedette quando qualcuno gli portò cavallerescamente una poltrona. “Sono curioso di sapere come sono andate le cose.”
“Potrebbe non essere piacevole,” lo avvertì Bushido, intrecciando le mani dietro la schiena.
“Correrò il rischio,” rispose il cantante, osservando mentre una delle guardie all'interno della stanza apriva la porta per fare entrare Tom e Chakuza. “Che cosa c'entra Peter?”
Bushido lanciò un'occhiata alla sua sinistra e bastò quella perché qualcuno portasse una sedia anche a lui. Si sedette, tirando appena i pantaloni e accavallò le gambe in una posa rilassata. “Generalmente i prigionieri sono più propensi a parlare quando vedono qualcuno pronto a schiacciargli le dita con un martello da mezzo chilo.”
Bill rabbrividì involontariamente. Aveva visto con quanta violenza Chakuza si era avventato sull'intruso e, già la prima volta, il rumore delle ossa del polso che si rompevano non gli era piaciuta per niente, non ci teneva a sentirlo una seconda volta. Soprattutto quando non si trattava di auto-difesa ma di tortura.
Al contrario di lui, comunque, Tony sembrava assolutamente a proprio agio, a parte il braccio che si stava gonfiando a vista d'occhio.
“Non lo avete medicato?” Chiese Bill.
“Lo faremo quando ci avrà detto quello che vogliamo sapere,” fu la risposta, con tanti saluti ai diritti del prigioniero.
A quel punto, Chakuza chiuse la porta e badò bene di farlo sbattendola, in modo che il suono fosse il più forte e il più improvviso possibile. Bill sussultò e anche Tony, che però si voltò verso l'uomo e gli sorrise spavaldo.
“Io fossi in te non riderei,” commentò Chakuza. “Sei nella merda.”
Tom si sedette sul tavolo, a qualche centimetro da lui. “La tua è una pessima posizione, Tony,” intervenne con voce più conciliante. “Sei accusato di infrazione, di aggressione e di tentato omicidio. E siamo in guerra. Sai questo cosa significa?”
“Che mi darete una bella coccarda colorata?” Chiese quello, con strafottenza.
“No, che rischi la fucilazione,” sospirò Tom. Era così teatrale mentre gli parlava con quella finta vena comprensiva, che a Bill quasi venne da ridere. “Ma potremmo trovare un accordo, se sarai collaborativo.”
Tony scoppiò in una risata piena e roca, che lo squassò tutto, come se quella che aveva appena sentito fosse una storiella davvero divertente. Arrivò perfino ad asciugarsi una finta lacrima, prima di concludere. “Per quanto ancora deve andare avanti questa pantomima, Kaulitz? Devo anche saltare nel cerchio per intrattenere il tuo ridicolo Presidente e la sua dolce metà? A proposito, Bushido, dove lo hai trovata questa copia? Puzza di frode dalla testa ai piedi.”
Bill sussultò e provò una strana sensazione quando Tony spostò lo sguardo su di lui e sorrise scuotendo la testa, come si fa quando si trova ridicolo qualcosa.
“Fatelo parlare,” sibilò Bushido, senza nemmeno muovere un muscolo.
Chakuza si staccò dal muro al quale era appoggiato ma Tom sollevò una mano, fermandolo a metà strada. “Tony, facciamo così, tu parli e Chakuza evita di spezzarti anche l'altra mano.”
“Forse,” borbottò il carpentiere.
“Che ne dici?” Aggiunse il capo delle guardie.
“Dico che se ti rispondo, tu mi spezzerai le dita comunque,” ghignò Tony. “Ci siamo già passati, ricordi?”
Bill si voltò istintivamente verso il Presidente che dovete percepire la sua domanda. “Qualche anno fa, lo catturammo mentre tentava di sabotare una delle mie auto. Lo interrogammo, non voleva parlare e così Chakuza gli ruppe un caviglia.”
“Cosa?”
Ma Bushido non rispose.
Bill si voltò mentre la copia di suo fratello diceva a Tony che poteva sempre tentare la sua fortuna.
“Tentatela voi, magari vi rispondo. Chissà?” Disse l'uomo.
“Perché Sido ti ha spedito qui?”
“Per uccidere la Luce di Tempelhof,” rispose Tony, osservando Bill, attraverso il vetro. “Chiunque sia, naturalmente.”
“Perché?”
“Posso avere un po' d'acqua?”
“No,” Chakuza incrociò le braccia al petto, guardandolo fisso. “Rispondi alla domanda.”
“Neanche un goccio? Non bevo da ieri e sono ferito. Potreste anche farlo uno strappo alla regola, no?”
“Perché volete ucciderlo?” Chiese di nuovo Tom, quando Chakuza slacciò le cinghie con le quali teneva il martello appeso alla cintura.
Tony sospirò, come se l'intera faccenda fosse solo una grande seccatura. “Perché ci piacciono i lavori fatti bene,” rispose. “Ed evidentemente la prima volta il lavoro non era perfetto.”
“Perché la Luce di Tempelhof?” Chiese Chakuza.
Tony spostò lentamente lo sguardo su di lui. “Non vogliamo che il popolo si esalti troppo. Quel suo figurino esile agita gli animi e Sido crede che – come dire? - la piccola questione fra i due ghetti debba essere risolta senza l'intervento mistico del vostro angelo del focolare.”
“Cosa?”
“E naturalmente è un avvertimento,” Tony sorrise serafico a Bushido. “Non sentirti troppo al sicuro, vecchio mio.”
Bushido strinse i pugni, ma non disse niente.
“Da dove sei entrato?” Chiese Tom.
Gli occhi di Bill saettarono a cercare quelli di Chakuza, che però era abbastanza bravo da non dare a vedere che, probabilmente, stava sudando freddo.
“Non ha nessuna importanza da dove sono entrato,” commentò Tony. “Sono entrato.”
“Rispondi alla domanda,” insistette Tom. “Chi ti ha fatto entrare?”
Tony si appoggiò meglio allo schienale e fece una smorfia quando dovette spostare un po' la mano ferita. “Nessuno mi ha fatto entrare.”
“E allora come mai eri in quella stanza?”
“Magari sono comparso dal nulla,” commentò con tono mistico, sgranando gli occhi e agitando le dita in aria in maniera esagerata. “Un po' di abracadabra e via. Voi resuscitate i morti, del resto...”
Chakuza si avvicinò facendo roteare il martello. Bill immaginò che lo facesse per non dare a vedere che non voleva sentirlo rispondere, ma era rischioso. Se Tony si fosse spaventato davvero al punto di aprire bocca, non voleva sapere che cosa sarebbe successo dopo.
“E' proprio necessario?” Sussurrò a Bushido, appoggiandosi al suo braccio per distrarlo più che poteva.
“Ti do un'altra possibilità,” chiese Tom. “Poi dirò a Chakuza di procedere. Da dove sei entrato?”
Tony a quel punto si fece serio e per un lunghissimo minuto Bill pensò che lo avrebbe detto.
“Sai cosa faremo, invece, Kaulitz? Tu hai bisogno di questa informazione, ma io non te la dirò finché non sarò stato curato e liberato. Voglio andarmene da qui. Prendere o lasciare.”
Chakuza lanciò un'occhiata al Presidente.
“Non se ne parla, Tony. Siamo noi che dettiamo le regole, qui,” protestò Tom.
“E allora sarete voi che passerete i prossimi mesi a setacciare questo palazzo che ha più buchi di un groviera,” concluse l'uomo. “Sta a voi decidere se vi conviene.”
A quel punto Bushido si alzò in piedi ed era già girato verso la porta quando parlò. “Non sa niente e se sa non parlerà. Non ha più niente da dirci. Bill, vieni.”
Bill si alzò in piedi prima di rendersi conto di farlo. “Ma...”
“Tom, liberatene.”
“Anis!” Bill fece appena in tempo ad allungarsi verso di lui che il colpo di pistola risuonò nella stanza, forte, netto e metallico quando colpì il ferro di cui era fatta la porta.
Bill si girò lentamente e la prima cosa che vide fu lo spruzzo di sangue sul vetro divisorio, poi lentamente mise a fuoco anche la figura di Tom con il braccio ancora alzato e la vecchia pistola che fumava. Chakuza era immobile, gli occhi sgranati sul cadavere riverso. Il cervello di Tony ricopriva gran parte del muro dietro di lui.
Bill si voltò e rimise il pranzo lì sul posto; nel silenzio più totale, i suoi conati sembrarono ancora più forti e violenti.
“Mandatene un pezzo a Sido e gettate il resto nel canale,” concluse Bushido, mentre una serva si affrettava a raggiungere Bill con asciugamano. “Se vuole giocare pesante, non sarò certo io a tirarmi indietro.”

*


Bill non aveva più visto il presidente dopo l'interrogatorio. Anzi, a dire la verità non aveva più visto nessuno, nemmeno Chakuza. Era stato scortato in una delle stanze degli ospiti da un paio di guardie e lì era rimasto per ore, con una caraffa d'acqua e uno straccetto imbevuto di Dio solo sapeva cosa per frizionarsi la fronte, straccetto che Bill aveva annusato e poi lanciato a caso il più lontano possibile. Qualunque cosa fosse con la quale avevano pensato di fargli passare la nausea, di certo lo avrebbe fatto uccidendolo.
Per i primi minuti aveva vomitato un altro po', poi si era disteso sul letto e aveva cercato di togliersi dalla mente l'immagine di Tony D sparso per ogni dove e, quando la testa aveva smesso di girargli vorticosamente, aveva cominciato a passeggiare avanti e indietro nella stanza, chiedendosi cosa stava succedendo nel resto del Palazzo. Aveva provato ad aprire la porta, naturalmente, ma qualcuno aveva pensato di chiuderlo dentro quindi non aveva potuto fare nient'altro che agitarsi inutilmente in tondo nell'attesa che qualcuno si ricordasse della sua esistenza dopo aver fatto a pezzi un cadavere.
Il primo a comparire, manco a dirlo, fu Chakuza quasi quattro ore dopo. Aprì la porta e se la richiuse alle spalle con un sospiro prima di cercarlo con lo sguardo e trovarlo in piedi, con aria poco amichevole.
“Ti senti meglio?”
“Oh divinamente,” rispose ironico. “Cosa c'è di meglio di uno straccio imbevuto di trielina per farti passare gli urti di vomito?”
“Quella non era trielina era...”
“Sono sarcastico, Chakuza,” lo liquidò Bill. “E per rispondere alla tua domanda, ho smesso di vomitare ma non sto affatto bene perché voi siete pazzi e quel povero disgraziato è morto in un modo atroce.”
“Poteva ucciderti,” commentò Chakuza, severo.
“Questo non vi dava il diritto di sparargli alla testa come a un cavallo,” replicò il ragazzino. “Nemmeno le bestie si comportano così.”
Per qualche istante Chakuza non disse niente, quasi fosse offeso e Bill si guardò bene dal cambiare idea sulla faccenda o da cambiare tono, così rimasero in silenzio, a guardare uno il pavimento con aria accigliata e l'altro fuori dalla finestra.
Alla fine, Bill sospirò. “Che cosa ci fai qui?”
“Mi manda il Presidente.”
“Il quale poteva ben degnarsi di venire di persona,” protestò Bill.
Chakuza si massaggiò le tempie. “E' impegnato ad organizzare l'esercito,” cercò di spiegare. “Ma lo vedrai prima di partire.”
“Partire per dove?” Bill sollevò un sopracciglio, con cautela. Voleva capire se c'era da arrabbiarsi oppure no.
Il carpentiere dovette intuirlo perché deglutì. “Il Presidente pensa che tu non sia al sicuro qui, quindi ha disposto che tu venga scortato in un luogo segreto che-”
“Ha disposto?” Chiese. “Che in altre parole significa che ha già deciso e tu mi stai solo informando?”
“In pratica sì.”
“E se io non volessi venire?”
Chakuza apparve improvvisamente a disagio, anzi sembrò proprio uno che non è stato per niente addestrato per un'evenienza simile. “E' per il tuo bene,” tentò. “Qualcuno potrebbe tentare di nuovo di ucciderti.”
“Utilizzando un passaggio segreto di cui tu conoscevi perfettamente l'esistenza e la pericolosità?” Chiese ironico.
“Ehi, non metterla su questo piano adesso.”
“Chiudi quel maledetto passaggio e festa finita. Con tutte le guardie che ci sono in questo palazzo, nessuno potrà avvicinarsi al sottoscritto se non gli indichiamo come fare con una scritta al neon.”
“Non abbiamo più la certezza che il palazzo sia sicuro.”
Bill sbuffò. “Ci sono altri passaggi di cui il mio adorabile alter-ego si serviva per sfuggire con te fra i boschi?”
“No, ma loro sanno che sei qui, potrebbero mandare qualcun altro e questa volta potrebbero riuscire nel loro intento. Dobbiamo nasconderti.”
Bill emise un verso frustrato e poi urlò forte, per liberarsi del nervoso. “Quando?”
Chakuza tossicchiò. “Subito,” rispose. “Le serve stanno preparando le tue cose.”
“Figurarsi...”
“Partiamo fra qualche minuto con la carrozza. Io verrò con te,” spiegò. “Ti porterò al sicuro e rimarrai lì finché non si saranno calmate le acque. Una serva si occuperà dei tuoi pasti e di qualsiasi altra cosa ti serva.”
“Ah beh, allora posso stare tranquillo: avrò una serva,” commentò.
Chakuza sospirò. “Potresti smetterla con il sarcasmo? Non è di nessun aiuto.”
“Neanche seppellirmi in mezzo al nulla lo è,” replicò Bill. “E comunque mi riporterai qui se David trova il modo di rimandarmi a casa. Anzi, appena lo scopre tu verrai ad avvertirmi e già che sei lì mi riporterai a Palazzo. E non provare a rifiutarti, perché non ti piacerà dove ti metterò quel martello se lo farai.”
Chakuza rimase così sconvolto dalla risposta che restò zitto e lo seguì in silenzio anche quando infilò il corridoio senza sapere bene dove andare, come al solito.
La carrozza era davvero una carrozza. Bill aveva pensato che si trattasse di qualcosa di un po' più futuristico, qualcosa sulla falsa riga della monorotaia aerea o qualcosa di simile e invece no, era una vera carrozza, stondata, con enormi ruote cerchiate e un vero, tremendo, favolistico tiro a quattro di cavalli bianchi con le criniere ben pettinate e paramenti in grande stile. C'erano anche i pennacchi.
“Stai scherzando, spero!” Esclamò
“Cosa c'è adesso?” Chiese Chakuza, esasperato.
Bill era così sconvolto che non si accorse nemmeno della reazione insolita del suo carpentiere. “E' una dannata carrozza!” Protestò. “Una carrozza vera, con i cavalli.”
“E' la tua carrozza, per la precisione,” spiegò l'uomo, accarezzando il collo di uno dei cavalli.
“Ci sono delle macchine nella rimessa,” esclamò Bill, allucinato. “Io le ho viste. Perché non usiamo quelle? Ci lavori su quelle auto, no? Sono roba tua.”
Chakuza montò a cassetta. “Quelle sono per la città. Non sono adatte allo sterrato,” spiegò. “Si romperebbero dopo qualche chilometro.”
“Ma ci metteremo una vita così!”
“Due giorni, massimo tre,” disse Chakuza, forse convinto di rassicurarlo. “Non te ne accorgerai nemmeno.”
Bill stava ancora fissando senza parole quel residuato bellico probabilmente comprato a metà prezzo da qualche principessa in rovina, quando Bushido uscì sullo spiazzo nel quale si trovavano. Sembrava di corsa.
“E' tutto a posto, qui?” Chiese.
“Sì, Presidente,” rispose Chakuza.
Bill si voltò con un sospirò. “E' proprio necessario?” Chiese.
Bushido gli si avvicinò e se lo strinse contro finché il ragazzino non si sciolse in quell'abbraccio. “La situazione sta per peggiorare e, quando succederà, tu sarai più al sicuro lontano da qui,” mormorò, lasciandogli un bacio sulla testa.
“Io preferirei...” Bill cercò le parole più adatte. “Non allontanarmi dal palazzo.”
Bushido sorrise e gli accarezzò i capelli. “Non ho dimenticato il nostro accordo,” esclamò. “Ti rimando a casa, promesso. Ma voglio che tu ci arrivi intero.”
Bill fu costretto a sorridere perché, a conti fatti, era esattamente quello che si sarebbe aspettato da Bushido se solo si fosse preso il tempo di ragionare. “D'accordo,” acconsentì con rassegnazione.
Bushido gli tirò su il cappuccio della mantella e gli posò un bacio sulle labbra, al quale Bill non si sognò nemmeno di sottrarsi.
“Stai attento,” lo ammonì Bushido.
“Anche tu.”
Bill si fece aiutare a salire in carrozza e lasciò che Bushido gli chiudesse la porta, quindi rimase a guardare fuori dal finestrino finché non si furono allontanati dal Palazzo così tanto che non ne vide più nemmeno la cima.

*


Il primo giorno di viaggio era stato raccapricciante.
La carrozza sobbalzava in maniera insopportabile e anche quando Bill si era abituato a battere la testa e poi il sedere e poi la testa e poi il sedere all'infinito e si era quindi messo a guardare il panorama, quello era rimasto invariato per un trilione di chilometri. C'erano solo alberi o alternativamente palazzi in rovina. O palazzi in rovina invasi dagli alberi. Allora aveva iniziato a lamentarsi, prima in maniera timida, poi sempre più fastidiosa, fino a diventare un rumore perpetuo di sottofondo, per estinguere il quale Chakuza aveva deciso di accamparsi in anticipo di almeno due ore sulla tabella di marcia. Ad un certo punto la carrozza aveva subito un violento scossone, i cavalli avevano nitrito tutti scompigliati e Bill si era ritrovato tutto accartocciato su un lato.
Quando si era affacciato per capire cosa diavolo fosse successo, Chakuza lo aveva informato che forse era meglio accamparsi per la notte, anche se il sole era ancora alto.
L'uomo aveva montato una tenda per Bill a ridosso di alcune rovine e, quando era stato il momento, si era messo di guardia di fronte al fuoco. Per tutta la notte, Bill se lo era immaginato dormire con un occhio chiuso e uno aperto e, per qualche motivo, la cosa lo aveva fatto molto ridere.
Il secondo giorno, il viaggio era stato ancora più raccapricciante.
Bill pensava che si sarebbe abituato agli scossoni, al paesaggio, alla noia ma questo non stava affatto accadendo. Percorrevano da ore quella che sembrava una vecchia autostrada in disuso piena di buche. I grattaceli di Tempelhof sembravano lontanissimi, come se la città si fosse sviluppata verso l'alto soltanto al centro. Gli scoppi delle bombe si sentivano ancora ma erano sommessi e lontani.
“Posso almeno venire a cassetta?” Chiese a Chakuza, attraverso la piccola apertura che comunicava con l'esterno.
“E' meglio di no, Bill,” rispose l'uomo. “Potrebbero vederti.”
“Posso tenere il cappuccio,” si offrì il ragazzino. “O una maschera. Un sacchetto in testa. Qualunque cosa. Peter, ti prego, fammi uscire.”
Bill lo sentì esitare e pensò di essere riuscito a convincerlo. D'altronde il nome di battesimo ci riusciva quasi sempre, ma dovette ricredersi.
“Non ora, Bill. Tra un paio d'ore raggiungeremo la periferia e potrai scendere e sgranchirti le gambe prima che passiamo il confine.”
“Pensavo che fossimo già in periferia,” esclamò Bill. “Non c'è niente, qui.”
“Perché adesso lo vedi così”, fu la risposta. “Prima questo posto era stupendo. Avresti dovuto vederlo.”
Bill lanciò un'occhiata fuori dal finestrino, dove il paesaggio traballante si srotolava tra le rovine e tra vecchie casupole fatte di lamiera. Ogni tanto vedeva passare degli uomini con vecchi carri di legno e donne velate come quelle che aveva intravisto in città.
“Cos'è successo?”
“La guerra,” fu la risposta. “Ti sembrerà strano, visti i bombardamenti continui che hai sentito, ma è quasi come se fossimo in pace adesso. Quando la guerra infuriava davvero, lo vedi da te quello che è successo. Non è rimasto in piedi più niente.”
“Di quando stiamo parlando?”
“Sei o sette anni fa, forse anche dieci,” fu la risposta.
“La guerra non si è mai spinta fino al palazzo del Presidente?” Chiese Bill.
Chakuza incitò i cavalli. “Sì, naturalmente,” rispose. “Tutto il ghetto ne è stato vittima. Il Palazzo è stato abbattuto una volta e colpito altre due dopo la ricostruzione, ma adesso c'è una grossa differenza fra la zona presidenziale e questa.”
Bill si affacciò al finestrino, appoggiando la testa sugli avambracci piegati. “Vale a dire?”
“Non ci sono abbastanza fondi per ricostruire l'intero ghetto. Senza contare che ad ogni bombardamento viene giù qualcosa di nuovo. Dobbiamo fare delle scelte quando decidiamo di intervenire.”
“Quindi questa gente è stata abbandonata.”
Chakuza rimase in silenzio per un po'. “Cerchiamo di fare il possibile. I viveri sono razionati e spediti un po' ovunque, ma per quanto riguarda tutto il resto, non possiamo farci niente.”
“La gente non può spostarsi verso la zona del palazzo?”
“Lo fa, ma lo spazio non è illimitato. E in generale, non si sta tanto meglio. I due che ti hanno portato a palazzo non se la passavano poi tanto bene, no?”
Bill ripensò a Gustav e Georg e a quella loro casa messa insieme praticamente col nulla. “No, non molto,” ammise. “Loro dicevano che non si può passare il confine.”
“Abbiamo un permesso Presidenziale, tu che ne dici?” Scherzò Chakuza.
“E non controlleranno la carrozza?”
“Non se ci sono io sopra.”
Bill alzò gli occhi al cielo. “E poi? Dove siamo diretti?” Chiese.
“Anche se te lo dicessi, che differenza farebbe? Non hai idea di dove siamo nemmeno ora!”
Il ragazzino si strinse nelle spalle, anche se il carpentiere non poteva vederlo, visto che teneva gli occhi fissi sulla strada. “Era tanto per fare conversazione, mi sto annoiando.”
“Porta pazienza.”
La carrozza si fermò di colpo. Bill si puntellò con le braccia per attutire lo scossone e fu anche abbastanza orgoglioso di se stesso per esserci riuscito. Sentì di nuovo scalpitare i cavalli. “Chakuza, che succede?” Chiese.
“Resta dentro,” sibilò il carpentiere, prima di scendere con un balzo.
Bill sentì la tensione nella sua voce e decise che disubbidire all'ordine non fosse affatto saggio, ma gli restava la curiosità, così decise di sporgersi appena oltre il finestrino per vedere cosa diamine fosse successo. Escludendo per ovvie ragioni che avessero bucato o che dovessero fare benzina, non erano molte le motivazioni per cui una carrozza dovesse fermarsi nel bel mezzo del nulla.
Un'imboscata, per esempio.
“Non ci credo,” sibilò, mentre osservava un numero imprecisato di uomini uscire dalle rovine che stavano attraversando. C'era un grosso legno rovesciato sulla strada, che era probabilmente il motivo per cui Chakuza era stato costretto a fermarsi, rendendo la carrozza un bersaglio fermo e facilmente accerchiabile dai tipi in questione. “Ci mancavano solo i banditi,” esclamò spalmandosi una mano sul viso.
Chakuza mise mano alla spada che aveva attaccata alla cintura e che gli era stata data giusto per l'occasione. Se n'era lamentato per tutto il viaggio, dicendo che non sapeva che farsene lui di gingilli simili. D'altra parte, aveva pensato Bill, se era la sua guardia del corpo doveva pur averla una spada, una pistola, un'arma, insomma qualcosa con cui potesse abbattere la gente senza dover per forza avvicinarsi troppo. Tipo il martello, per dire, che era un sacco scenico e dannoso, ma molto poco pratico.
A quanto pare la spada sarebbe tornata utile, anche se Chakuza era un tantino in svantaggio.
“Non abbiamo del denaro da dargli?” Chiese
Chakuza dava le spalle alla carrozza e non si girò per rispondergli. “Sono uomini di Sido, Bill,” sospirò.
“Oh.”
Gli uomini in questione erano vestiti di nero dalla testa ai piedi, compreso il passamontagna che lasciava scoperti soltanto gli occhi. Bill non aveva idea di come Chakuza fosse riuscito a capirne la provenienza, ma visto che erano armati e malintenzionati, voleva credergli. Non dissero nulla prima di cominciare ad attaccare, per questo Bill se ne accorse solo quando Chakuza emise un grido animalesco e si gettò sui primi due con la spada impugnata a due mani. Era così abituato al suo Chakuza – il quale, al massimo, faceva le risse per accaparrarsi più pizza degli altri a tavola – che si convinse istantaneamente che il carpentiere sarebbe morto, lasciandolo in balia di loschi figuri che avrebbero preso possesso della scalcinata carrozza per guidarla su due ruote fino al covo di Sido, dove Sido probabilmente se ne stava nell'ombra con le punte delle dita unite a meditare vendetta. Forse lo avrebbe steso su un altare e sacrificato ad un Dio cornuto di nome Khmet, utilizzando le oscure forze del male per distruggere Bushido una volta per tutte. Era un piano ragionevole.
Comunque, mentre lui si faceva i filmini, Chakuza aveva abbattuto i due uomini e ne stava ora affrontando altri tre che gli davano del filo da torcere. Al contrario del suo Peter, questo sembrava cavarsela piuttosto bene, il che non avrebbe dovuto sorprenderlo ma lo faceva comunque. Quando uno dei tre si ritrovò trafitto da parte a parte, gli altri due si fecero indietro un solo istante per riordinare le idee e Chakuza ne approfittò per sganciare il martello dalla cintura e poi avventarsi su di loro con entrambe le armi in pugno.
Bill sentì la sua mascella sganciarsi dal resto del cranio e poi cadere virtualmente a terra con un vago suono di plastica da due soldi. Cos'era esattamente quest'uomo alto un metro e cinquanta che assomigliava tanto al suo Chakuza ma stava spaccando teste umane a martellate?
Domande simili si sarebbero senza dubbio accavallate le une sulle altre se, mentre Chakuza roteava le braccia ululando, due uomini non avessero aperto la porta della carrozza per estrarne Bill a braccia.
Solo che lui non aveva alcuna intenzione di farsi sacrificare su un altare, tanto più che era fuori moda e lui doveva anche tornare a casa, perciò si mise a scalciare e urlare come un indemoniato, colpendo a caso chiunque gli si parasse davanti. I due uomini che tentavano di trattenerlo scoprirono che le sue quattro ossa facevano male quando le usava per colpirli in faccia.
“Lasciatelo andare!” Chakuza urlò da qualche parte alla sua destra. Ne seguì il suono strozzato e poi lo spruzzo viscido del sangue dell'aggressore che aveva per le mani in quel momento.
Subito dopo il martello colpì al collo uno dei due che tenevano Bill e quello gorgogliò lasciando la presa.
“Sei impazzito per caso?” Sbraitò Bill. “Potevi prendere me!”
Chakuza lo afferrò per la vita e lo strappò dall'altro uomo prima di colpire anche lui. “Se colpisco te, vuol dire che sono diventato cieco, Bill,” replicò stizzito. “E ora lasciami lavorare vuoi?”
Bill si lasciò spingere di nuovo contro la carrozza, mentre il carpentiere dava prova ancora una volta di non esserlo affatto, e boccheggiò un paio di volte, prima di decidersi a stare zitto.
Si schiacciò contro la carrozza, senza sapere bene cos'altro fare. Chakuza stava andando alla grande, ma questi continuavano ad uscire da tutte le parti e prima o poi sarebbero stati più veloci di lui. Difatti sussultò quando uno degli assalitori riuscì a oltrepassare per un attimo la sua difesa e sospirò quando l'uomo deviò il colpo all'ultimo con la spada di piatto.
Ne caddero altri due, colpiti da una martellata alle ginocchia, prima che il cerchio si chiudesse intorno alla carrozza, a Bill e a Chakuza senza via d'uscita. Il carpentiere arretrò, per essere più vicino al suo protetto, la spada e il martello sollevati e lo sguardo che saettava da una parte all'altra, forse contando il numero dei nemici rimasti.
“Andrà tutto bene,” mormorò.
Bill annuì, al vuoto. “Certo. Lo vedo,” commentò. “Siamo solo trenta contro uno.”
“Un po' di ottimismo?” Chiese Chakuza, roteando un polso per scioglierlo. “Potevano essercene degli altri.”
Qualcosa di grosso e pesante atterrò sul tetto della carrozza con un tonfo sordo. Gli aggressori sollevarono lo sguardo esattamente come loro. Un uomo si era appena calato con una fune da ciò che rimaneva dell'arcata di un ponte qualche decina di metri sopra le loro teste. Era vestito di nero dalla testa ai piedi, passamontagna compreso, come gli altri.
“Fantastico. Contento adesso?” Sibilò Bill.
Ancora legato alla fune, il nuovo arrivato estrasse dallo zaino una bomba, tirò via la spoletta con i denti la lanciò.
Chakuza si gettò a terra insieme a Bill, rotolando con lui sotto la carrozza. “Chiudi gli occhi,” gli ordinò, serrando i propri e proteggendogli il viso con le braccia. Il ragazzino obbedì mentre sentiva la bomba emettere un leggero suono metallico prima di esplodere. Si aspettò di sentire l'onda d'urto, ma in realtà non ci fu nessuno scoppio, solo una gran luce di cui intuì la potenza dietro le palpebre chiuse.
Quando sentì che Chakuza si allontanava, accarezzandogli piano la testa, si azzardò a guardare e vide che i loro assalitori si rotolavano a terra con le mani sugli occhi, lamentandosi per il dolore.
“Stai bene?” Sussurrò Peter. Bill annuì. “Ok. Resta qui.”
Il nuovo arrivato era sceso dalla carrozza e stava già legando uno degli altri quando si fermò per girarsi verso Chakuza che gli si avvicinava lentamente, il martello sollevato sopra la testa e la spada in avanti.
Il tipo alzò entrambe le braccia, guardandolo dritto negli occhi.
“Chi diavolo sei tu?” Chiese il carpentiere. L'altro accennò a togliersi il passamontagna, ma si fermò immediatamente quando Chakuza lo minacciò con la spada. “Lentamente e tieni le mani bene in vista.”
Bill vide il tipo sbuffare sotto la stoffa che gli copriva il viso.
Con calma, tra i rantolii della gente a terra, il tipo si tolse il passamontagna e Chakuza gli fu addosso il secondo dopo.
“Fler...” mormorò allucinato Bill dal suo nascondiglio.
Fler non era armato, così si limitò a schivare i colpi dell'altro. Era piuttosto agile ma, più che bravo, sembrava anticipare le mosse di Chakuza una dopo l'altra, come se le conoscesse a memoria. “Chaku, lascia che ti spieghi!” Disse, mentre si tirava indietro di fronte ad un'altra martellata.
“No!”
“Dammi una possibilità, va bene?” Tentò ancora. “Una sola e se non ti convinco, allora puoi fracassarmi la testa a martellate!”
“Te la fracasso subito, così risparmio tempo.”
“Oh andiamo,” Fler saltò, aggrappandosi al ramo basso di un albero e cercò di disarmarlo con un calcio ma evidentemente erano in due a conoscersi alla perfezione perché Chakuza non si lasciò cogliere di sorpresa. Mentre scivolava fuori da sotto la carrozza, Bill ebbe come l'impressione che, di questo passo, sarebbe stata una battaglia ben noiosa se si anticipavano a vicenda.
“Non fare l'idiota, posa quell'affare!” Fler si dondolò sul suo ramo e poi si dette la spinta per salirvi sopra, accucciato. “Voglio solo parlarti.”
“Vieni giù, fatti spaccare la faccia.”
“Possiamo almeno discuterne prima?”
“No,” rispose l'uomo tirando il martello.
Il lancio fu tanto veloce che Fler fece appena in tempo a gettarsi a terra per schivarlo. Quindi sfruttò l'occasione per girarsi e colpire il carpentiere alle caviglie, mandandolo lungo disteso a terra. “Cazzo, che testa dura che sei,” sbraitò. “Quando ti metti in testa una cosa non capisci più una sega.”
Chakuza borbottò qualcosa, ma Fler sollevò la spada da terra pestandola ad un'estremità e puntandogliela alla gola. “Rimani a terra o giuro che ti faccio la sfumatura ancora più alta, chiaro?”
Il carpentiere sbuffò, ma annuì.
“Bene,” Fler si girò verso Bill e gli accennò lo zaino che aveva lasciato vicino alla carrozza. “Tu, c'è della corda lì dentro. Lega questa gente.”
“Non hai intenzione di... farmi del male o roba simile?” Chiese il ragazzino, un po' perplesso.
Fler sollevò un sopracciglio. “No, ma mi fa piacere che tu abbia sollevato l'argomento perché è esattamente quello che tento di spiegare da dieci minuti mentre questo coglione cercava di accopparmi. Ora, per cortesia Bill, fai quello che ti ho detto.”
Bill annuì, quindi tirò fuori la corda e cominciò a legare gli uomini rantolanti a gruppi di due. Solo quando ebbe finito e fu tornato vicino alla carrozza, Fler lasciò Chakuza libero di alzarsi, minacciandolo ancora con un'ultima alzata di sopracciglio prima di trascinare gli uomini legati come sacchi di immondizia sotto un albero e lì lasciarli, accatastati gli uni sugli altri che ancora si lamentavano. Qualcuno stava ricominciando a vedere, ma non molto a quanto sembrava dai goffi tentativi di alzarsi calpestando gli altri.
“Allora!” Esclamò Fler, pulendosi le mani sui pantaloni mentre tornava indietro. “Possiamo parlare con calma, o no?”
“Con che faccia ti ripresenti qui dopo quello che hai fatto?” Sibilò Chakuza, avvicinandosi istintivamente a Bill che li guardava più curioso che spaventato.
“Prima di tutto: qui dove, Chakuza? In mezzo ad un campo, sotto un ponte? Dove esattamente? Perché non è che io mi sia presentato a Palazzo, cosa che ti avrebbe, forse, dato il diritto di farmi una domanda del genere. E, secondo: se non te ne sei accorto, ti ho salvato il culo. Quindi, tutto sommato, è un bene che io mi sia presentato qui. Ne convieni? Per finire. Io non ho fatto niente e, se il cielo vuole, forse dopo anni riuscirò a spiegartelo. Ma non qui e non ora, non abbiamo tempo.”
“Mi sono perso,” esclamò Bill, con tutta la calma del mondo. “Mi hanno detto che sei stato tu ad uccidere... me.”
“Perché è stato lui,” ringhiò Chakuza.
“No,” insistette Fler.
“Eri accanto al cadavere quando ti abbiamo trovato!” Sbraitò Chakuza, avventandosi con tanta foga che Fler pensò bene di tirare su al volo una delle tante spade nemiche che erano a terra e prepararsi a parare con quella. “Avevi tanto di quel sangue addosso che non ti si vedeva la faccia.”
“Ma non sono stato io,” la voce di Fler si abbassò di un tono, diventò molto più seria e molto più triste.
Chakuza però non lo ascoltava, ed era evidente da come continuasse ad avanzare verso di lui, con i pugni alzati. “Non negarlo, maledizione! Eri lì con lui! Avresti dovuto proteggerlo!” Ringhiò e si gettò su di lui, sbattendolo contro il primo tronco d'albero. Lo colpì alla faccia senza che Fler riuscisse a reagire, anche se probabilmente non voleva farlo visto che non si mosse nemmeno quando arrivarono il terzo colpo e poi il quarto. “Come hai potuto?”
“Non sono stato io!” Fler urlò, lasciando andare la spada di lato. Chakuza si fermò, così vicino a lui da respirargli in faccia e lo guardò dritto negli occhi.
“Non sono stato io,” ripeté Fler, stavolta mormorando.
Chakuza colpì con forza il tronco ad un centimetro dalla testa dell'altro, poi si voltò per tornare indietro.
“E' stato Tony,” mormorò allora Fler, deglutendo.
Chakuza si fermò, senza voltarsi. Il suo viso era immobile mentre quello di Bill, poco distante, rappresentava la sorpresa di entrambi, con la bocca aperta e gli occhi sgranati.
“Bill voleva porre fine a quella guerra e pensava che parlando con Sido avrebbe risolto le cose. Voleva incontrarli e io l'ho aiutato a farlo,” continuò Fler. “Sono stato un cretino, ma non l'ho ucciso. Tony lo ha colpito prima che potessi rendermene conto. Ho cercato di fermare il sangue ma non è servito a niente. E... e quando sei arrivato, non mi hai lasciato spiegare.”
“Ed eri così affranto che sei passato dalla loro parte,” lo accusò. “Sei vissuto finora con loro, come puoi pensare che io ti creda?”
Fler si staccò dall'albero e lo raggiunse, incurante del fatto che Chakuza fosse probabilmente pronto a farlo a pezzi a mani nude. “Io non ho fatto vissuto con loro, Chaku!” Esclamò. “Io sono stato per conto mio tutto il tempo!”
“Fler...”
“Ho passato gli ultimi due anni ad impedire che Sido facesse saltare in aria il ghetto di Bushido. Ho sabotato quasi tutti i suoi attentati.”
“Eri sulla monorotaia,” realizzò Bill all'improvviso, ricordando gli occhi azzurri che aveva intravisto prima dell'esplosione. Ecco perché gli erano sembrati tanto familiari. “E la monorotaia è saltata in aria.”
“Ho detto quasi tutti,” puntualizzò Fler. “Ma non è questo il punto.”
“Direi che è il punto, se dici che eviti le esplosioni e poi fai saltare in aria una monorotaia,” replicò Bill, punto sul vivo e con le mani sui fianchi.
“Io non ho fatto... ma si può sapere chi ti ha interpellato?”
“Okay basta così,” Chakuza s'intromise secco nella discussione e andò in giro a recuperare le sue armi. Fler e Bill lo guardarono con aria interrogativa, così fu costretto a fermarsi e sospirare. “Io non so se crederti o no Fler.”
“Dovresti,” insistette lui. “Perché mi conosci.”
“Non so se voglio farlo,” precisò Chakuza, a fatica. “E al momento non mi importa. Devo continuare il mio viaggio. Grazie per l'intervento... l'aiuto... quello che era, ma stai lontano d'accordo? Bill, vieni.”
Chakuza prese il ragazzino per un polso e lo condusse verso la carrozza.
“Peter aspetta. Ascolta!” Fler lo fece voltare a forza e non fu contento finché non si fece anche guardare. “Ti spiegherò ogni cosa, va bene? Tutto quanto. E se quando lo avrò fatto non sarai ancora convinto, allora potrai prendermi a martellate. Ma adesso, metti da parte tutto quanto e stammi a sentire. Sido non ha mandato da voi soltanto Tony. Lui era un diversivo. Sono molti di più e attaccheranno presto. Dobbiamo impedire che prendano il Palazzo o sarà la fine per il ghetto.”
“Anis...” mormorò Bill.
“E chiunque viva a Palazzo,” precisò Fler. “Dobbiamo tornare indietro.”
“Quando attaccheranno?”
“L'attacco era previsto due giorni dopo l'arrivo di Tony e contando che sono quasi passati, abbiamo appena il tempo di invertire la marcia.”
Chakuza scosse la testa. “No, devo prima portare Bill al sicuro.”
“Io vengo con voi.”
“Tu non vai da nessuna parte,” risposero i due in coro.
“O vengo con voi o vengo con voi,” concluse Bill, incrociando le braccia. “Scegliete pure quello che vi torna più comodo.
Fler strinse un pugno e poi si voltò verso Chakuza. “Di questo qui ne parliamo dopo,” sibilò. “Venite, ho mezzi migliori di questa carretta.”



*


I mezzi migliori di cui parlava Fler consistevano in quello che, dall'esterno, sembrava un enorme modello di carroarmato, solo che aveva tre enormi ruote per lato al posto dei cingoli e nessun cannone montato sopra. Il muso era rettangolare, con un a striscia di vetro trasparente per permettere la visione verso l'esterno.
Era un affare talmente strano che Bill, colto di sorpresa, lasciò perfino che Chakuza lo aiutasse ad entrarci, tenendolo per la mano mentre saliva i tre gradini che portavano all'abitacolo.
L'interno era diviso in due parti dai sedili anteriori e, nella seconda metà, c'era spazio per fare entrare comodamente almeno dieci persone.
“E questo che cosa sarebbe?” Chiese Bill, accomodandosi su uno dei divanetti anteriori e guardandosi intorno, tastando le pareti di ferro.
“Un prototipo,” rispose burbero Chakuza, sedendosi al posto del passeggero. “Del quale qualcuno non avrebbe dovuto usare i progetti.”
Fler chiuse la propria portiera e cominciò a premere pulsanti da tutte le parti, perfino sul tettuccio. “Farò incidere il tuo nome da qualche parte sulla carrozzeria, va bene?” Lo accontentò, senza nemmeno guardarlo. “E quando metterò su la mia concessionaria di questi cosi, non mancherò di dire a tutti che il modello è tuo. Glielo dirò quando entrano, quando pagano, quando escono e ogni volta che pagheranno una rata.”
“Fanculo, Fler,” sbottò a ridere Chakuza. “Non so nemmeno dove li hai trovati tutti i materiali per metterlo insieme.”
“Li ho presi dai convogli Presidenziali,” fu la riposta. “E non fare quella faccia, non ho assaltato i camion uccidendo chiunque mi si sia parato davanti e ballato nel sangue delle mie vittime mentre trasportavo l'intero carico altrove per rivenderlo agli altri ghetti. Ho preso solo quello che mi serviva e non ho ammazzato nessuno.”
“Non stavo pensando a niente del genere,” replicò Chakuza, girando una manopola sull'enorme plancia.
“Certo, come se non ti conoscessi,” commentò Fler mentre tirava un paio di cloche e metteva in moto quel trabiccolo. Ci fu un rumore inquietante e metallico, un gorgoglio d'acqua e un fischio prolungato e assordante, poi l'affare fece un balzo in avanti e lì rimase a ronzare.
“Ci siamo!” Annunciò Fler, tirando un altro paio di leve e mettendosi in strada.
Bill decise di lasciare il suo comodo divano per avvicinarsi ai due. Aggrappato com'era ai sedili davanti, si sentì improvvisamente molto piccolo e di nuovo in macchina con i suoi genitori.
“Ti rendi conto, vero, che per quanto ne sappiamo questo affare potrebbe anche esplodere?” Chiese Chakuza, che si teneva ben stretto al sedile e guardava la strada come se si aspettasse di vederla per l'ultima volta.
“Rilassati, non lo ha fatto in due anni, vuoi che lo faccia adesso? E' solido, funziona,” replicò Fler, tranquillissimo. “E poi lo hai progettato tu, il che per quanto ti riguarda dovrebbe essere una garanzia sufficiente.”
“Non l'ho assemblato, però,” Chakuza sussultò quando il trabiccolo emise un brontolio inaspettato. “Vai più piano, prima che si sfasci qualcosa.”
“Riesce a reggere i cento chilometri orari, ma poi i pannelli laterali si staccano. Ho provato. Comunque se ci teniamo sugli ottanta, non dovremmo avere problemi. Piuttosto, parliamo di cose serie.” Fler indicò Bill alle sue spalle. “Questo qui, esattamente, chi è?”
“E' una lunga storia,” sospirò Chakuza.
“Hai tutto il tempo di raccontarmela. Sono curioso perché ha la faccia di Bill e il corpo di Bill ma palesemente non è Bill.”
“Sei il primo che se ne accorge,” commentò il diretto interessato.
Fler gli lanciò appena un'occhiata. “Perché hai incontrato solo gente cieca e sorda?”
“No, perché nessuno ha pensato a come parlava o si muoveva. Aveva quella faccia, quindi era lui,” protestò Chakuza. Poi sospirò. “Volevamo crederci.”
Fler si strinse nelle spalle. “Forse ad una prima occhiata, ma quando apre bocca...” fece una smorfia. “Comunque, questa lunga storia?”
“Sono davvero Bill, solo che vengo da un altro universo,” riassunse il cantante.
Fler non fece una piega. “Okay, quella vera, ora.”
“E' quella vera,” esclamò Chakuza, con una voce talmente lugubre che Bill quasi si sarebbe offeso se non fosse stato tanto felice di vederlo accettare con tale consapevolezza il fatto che non era lui l'amore della sua vita. Anzi, a ben pensarci era quasi orgoglioso del suo carpentiere. “David è riuscito ad attraversare lo spazio-tempo e ha trovato una specie di universo parallelo o qualcosa del genere in cui esisteva una copia esatta di Bill. Pensava che in questo modo il Presidente sarebbe rinsavito.”
“E l'ha fatto, immagino,” mormorò Fler, per nulla sconvolto dalla notizia. “Il bastardo lo adorava.”
“Ehi!” A Bill venne automatico tirargli una botta sul braccio.
Fler rise e alzò gli occhi al cielo. “E' un bastardo, tu non lo conosci.”
“Questo Bill ha un suo Bushido nel suo universo,” spiegò Chakuza. “E pare sia uguale al nostro.”
“Più o meno. Anche voi lo siete.”
“Un altro Chakuza, non oso immaginare,” sospirò Fler, prendendosi un pugno anche dal carpentiere. Poi si schiarì la voce. “Ed è tutto quanto... uguale a qui, nel tuo mondo?”
Bill scosse la testa e gli raccontò a grandi linee quello che aveva detto anche a Chakuza. Gli raccontò del suo lavoro e dei rapporti che intercorrevano tra loro nel proprio mondo. Quando finì, Fler e Chakuza si erano improvvisamente adombrati e avevano la stessa espressione tesa.
“Cosa c'è?” Chiese Bill, bloccandosi a metà di una frase quando si rese conto che i due guardavano ostinatamente la strada davanti a loro come persone molto impegnate a non fare vedere quanto erano arrabbiate.
“Stai insieme a lui anche nell'altro universo,” commentò Fler, con una risatina ironica. “A questo punto mi chiedo se questa catastrofe si possa impedire in qualche modo o se è destinata a ripetersi per sempre in ogni possibile mondo esistente.”
Bill esitò quei due o tre secondi, giusto per processare quello che gli era stato detto, quindi lanciò un'occhiata a Chakuza che continuava a guardare ostinatamente la strada deserta e quindi fece una smorfia incerta. “Perché avete tutti un problema con questa cosa?” Esclamò. “Cioè sì, d'accordo, posso capire Chakuza ma...senza offesa, tu cosa c'entri?”
“Se puoi capire Chakuza, immagino sia perché lui ti ha spiegato e....” Fler inchiodò di colpo, mandando Chakuza a sbattere la testa contro il parabrezza con un assolo di bestemmie. Bill avrebbe fatto lo stesso se Fler non lo avesse fermato al volo con un braccio, quasi con noncuranza. “Tu non gliel'hai detto!” Sbraitò in direzione del carpentiere.
“Cazzo....” Chakuza si tastò la fronte un paio di volte, gemendo. “Ma sei scemo o cosa? Frenare in quel modo.”
“Tu non gliel'hai detto,” ripeté Fler, tra lo sconvolto e l'incredulo. “Non posso crederci.”
“Non era così necessario,” protestò l'altro.
“Non era necessario?”
“Lui viene da un altro mondo e tu eri l'assassino. Anzi, per quanto ne so potresti esserlo ancora. Non ho ancora detto di crederti.”
“Però sei seduto sul mio carrarmato come se niente fosse! Cazzo, sono senza parole.”
“Questo non è il tuo carrarmato,” puntualizzò Chakuza.
“Non tentare di cambiare discorso con me, sai?” Fler alzò la voce. “Tu non gliel'hai detto. Hai veramente la faccia come il culo, Chakuza.”
“Ascolta...”
“Cosa ti passava per quel cervello? Giuro che non voglio nemmeno pensare a quello che ho in mente in questo momento perché farebbe di te una persona tremenda!”
Le guance di Chakuza si infiammarono mentre borbottava qualcosa di incomprensibile in direzione del pavimento.
Bill tossicchiò, un po' per l'imbarazzo e un po' per richiamare la loro attenzione visto che fino a due minuti prima stava parlando e lui non era abituato ad essere ignorato quando teneva i suoi comizi, fossero anche sui deodoranti del cesso. “Scusate, ma sarei ancora qui.”
Fler sbuffò e si appoggiò allo schienale del proprio sedile. “Avresti potuto dirglielo,” ripeté ancora.
“Come?” Esclamò Chakuza, rassegnato. “Come diavolo potevo dirgli una cosa del genere?”
“Beh com'è che gli hai detto di te, tanto per cominciare?”
“Non gliel'ho detto, infatti.”
“Ci sono arrivato da solo,” s'intromise Bill. “Ha provato a baciarmi, quindi mi sembrava chiaro che fosse abituato a farlo. E poi ha quell'occhio da triglia che...”
“Sì, posso immaginare.”
Chakuza aprì la bocca per difendersi, ma Fler lo zittì sollevando un indice. “Stai zitto. Zitto, ho detto. Qualunque cosa ti uscirà da quella bocca renderà ancora più imbarazzante la tua posizione, quindi taci finché non te lo dico io, che è meglio.” Quindi si girò bene sul sedile e appoggiò le braccia incrociate sul poggiatesta. “E quando gli hai detto di aver capito, lui come te l'ha spiegata, esattamente?”
“Posso almeno difendermi?” Tentò Chakuza.
“No,” sibilò Fler.
Bill sollevò un sopracciglio. “Beh mi ha detto che lui e Bill stavano insieme prima che Bushido decidesse di fare di lui la Luce di Tempelhof.”
Fler annuì copiosamente. “E basta?”
“Sì.”
“Chakuza, vuoi sopperire, per cortesia?”
“Perché non lo fai tu?” Sbottò il carpentiere, quasi incrociando le braccia al petto.
Fler si schiarì la voce. “La verità è che stavamo insieme,” chiarì Fler. “Io, Bill e lui.”
Qualunque cosa Bill avesse intenzione di dire – e non sapeva nemmeno lui cosa fosse – risalì velocemente la sua gola ma poi gli morì sulla lingua, senza un avvertimento, così tutto ciò che fece fu aprire la bocca ed emettere un suono gutturale e incomprensibile. Imbarazzato, si schiarì la gola e riprovò. “Cosa?” Chiese, con una vocetta stridula e strozzata.
“E' una storia complicata,” intervenne Chakuza.
“No, non lo è affatto,” lo liquidò subito Fler, inframezzandosi tra lui e Bill, così che il ragazzino potesse prestare attenzione solo a lui. “Ti ha raccontato la storia del carrozzone sul quale la tua copia è arrivata?”
“Sì, qualcosa del genere.”
“Okay, io conosco questo stronzo qui da una vita. L'ho conosciuto tirandogli una palla in testa, probabilmente è per questo che è scemo, non lo so. Comunque quando Bill è arrivato, noi ci conoscevamo già.”
“Ma non stavamo insieme!” Esclamò Chakuza.
“No, assolutamente no,” Fler scosse la testa con un certo impeto. “Anzi, prima che tu me lo chieda, io e lui non stiamo insieme, non stavamo insieme nemmeno quando c'era Bill. Era più una cosa io e Bill e lui e Bill, dove tutti erano presenti contemporaneamente, mi segui?”
“Sì e non so se voglio,” commentò Bill.
“Bene, dunque, Bill arriva su questo enorme carrozzone e si mette a vivere vicino a noi. Sua madre era matta come un cavallo, ma tanto gentile e suo fratello.... io non so come sia tuo fratello, ma il suo Tom era un cane da guardia, non lo lasciava da solo un attimo. Dovevamo, tipo, rapirlo per stare con lui. E Bill! Bill era una cosa deliziosa...”
Bill, quello vero, non poté fare a meno di darsi una certa importanza a quelle parole.
“Ci siamo innamorati entrambi all'istante. Capisci? A quel punto era chiaro che potevamo solo litigare e ammazzarci di botte perché né io né lui volevamo cedere. E siamo arrivati a quella soluzione.”
“E' stato Bill a decidere, naturalmente.”
“Naturalmente,” annuì Fler.
Quel qualcosa che era morto sulla lingua di Bill, improvvisamente, si risvegliò e rotolò fuori senza controllo. “E tanti cari saluti alla vergine dalle guance rosse e dalle caviglie fragili,” commentò con gli occhi sgranati.
Nel carrarmato calò un silenzio vagamente imbarazzato, finché Bill non cercò di ricomporsi e si schiarì la voce un paio di volte. “E insomma, poi è arrivato Bushido e ve lo ha portato via. Questo è molto triste.”
“Lui non ce lo ha portato via,” mormorò Fler. Chakuza tossicchiò per fermarlo, ma lui non lo sentì. “Bill non ha mai voluto stare con Bushido, era costretto. Gli unici momenti in cui non fingeva, erano quelli in cui stava con noi.”
Chakuza abbassò la testa, borbottando a bassa voce. “Avevo saltato anche questa parte.”
Fler guardò prima il carpentiere e poi Bill che si grattava vagamente la nuca.
“Okay, basta così,” deglutì il cantante, che non voleva dar loro modo di parlare oltre, rischiando di veder passare il numero degli uomini da tre a chissà quanti contemporaneamente. “Troppe informazioni su di me, credo, non ero pronto. Tutti questi uomini – cioè problemi! - problemi di relazione e... non dovevamo andare a palazzo?”
“Sì, naturalmente,” Fler si voltò, riavviò il motore e ingranò la marcia, il tutto in quattro secondi.
“A palazzo!” Esclamò convinto Chakuza, riprendendo improvvisamente a respirare.
Il silenzio calò di nuovo ricoprendoli tutti quanti con un velo di clamoroso imbarazzo, per eliminare il quale Fler si mise a fischiettare, Chakuza gli accese sopra la radio e Bill indicò oggetti a caso fra quelli che di tanto in tanto vedeva spuntare: una casa, un palo della luce, o ma che bel ponte laggiù.
“Comunque...” esclamò Bill dopo un po', costringendo Fler ad abbassare la radio per sentirlo “tanto per chiarire, io non ho intenzione di...”
“No, certo che no!” Replicò Fler.
“Ci mancherebbe!” Fece eco Chakuza.
Poi calò ancora altro silenzio.
Fler tornò ad alzare la radio. “Arriveremo fra un paio d'ore,” comunicò.
E quella, fortunatamente, fu l'ultima cosa che dissero per tutto il viaggio.



*


Con il prototipo di carrarmato e con la tendenza di Fler a superare i limiti consentiti dalla stessa struttura del mezzo la strada del ritorno fu molto più breve di quella dell'andata, il che fu un bene perché un altro paio d'ore rinchiusi dentro una scatola di latta a guardarsi in faccia senza la possibilità di ripensare a ciò che era stato detto e aleggiava tra loro pesantemente e, con ogni probabilità, si sarebbero impiccati.
Non è che Bill fosse scandalizzato dalla questione in sé, naturalmente, non sarebbe stato un buon cantante rock se si fosse lasciato sconvolgere da cose del genere, ma era comunque disturbante pensare alla relazione di quei due – e di Bushido – con quel ragazzo rendendosi conto che aveva la sua faccia. Era un po' come leggere in rete una fanfiction dove lui si faceva ogni singolo personaggio maschile presente nella storia; magari non lo lasciava turbato, però lo coglieva di sorpresa, ecco. Ci avrebbe messo un po' di tempo ad abituarsi a quest'ennesima versione di se stesso. Dover accettare che una sua copia necessitasse di un cavalier servente anche per salire e scendere le scale era stato già abbastanza complesso, ma dover cambiare idea per scoprire che sotto il velo e due metri di strascico aveva una vita più interessante della sua, cominciava ad essere fastidioso. Urgeva tornare il prima possibile a casa, dov'era l'unico e solo.
“Sembra che siamo arrivati in ritardo,” commentò Fler, chiudendo la portiera.
Le bandiere con il simbolo di Bushido sul tetto del palazzo presidenziale erano state sostituite con quelle che recavano la maschera di Sido, argentata in campo nero. La luna appena sorta, rotonda e pallida, rendeva lo skyline della città ancora più tetro ora che si apriva sotto l'ombra di quel simbolo nemico.
“Che significa?” Chiese Bill.
“Sido ha preso possesso del palazzo,” rispose Chakuza, aiutando Fler a scaricare l'attrezzatura che aveva previsto di usare. “Dobbiamo entrare.”
Bill iniziò diligentemente a rimboccarsi le lunghe e fastidiose maniche della maglia. “Bene. Qual è il piano?”
“Sarebbe meglio che tu restassi qui,” gli disse Fler, legando i rampini alle corde.
Bill non gli rispose nemmeno, si limitò solamente a guardarlo e l'altro capì che non ci sarebbe stato modo di convincerlo se non colpendolo ripetutamente alla testa e tramortendolo. Fler ci pensò anche un istante ma poi capì che, così facendo, Chakuza avrebbe faticato ancora di più a crederlo innocente. Così si rassegnò e gli passò l'imbracatura. “Tieni, mettiti questa.”
Bill se la rigirò tra le mani molto attentamente ma dopo due minuti di scrupolosa analisi non gli trovò il verso e Fler fu costretto a sospendere quello che stava facendo per vestire lui. “Saranno cinque anni che non lo facevo,” rise, indicandogli dove infilare le gambe e le braccia.
“Troppe informazioni,” lo avvertì, cercando di capire perché fosse legato come un salame.
Chakuza si avvicinò con aria competente e gli agganciò addosso tre moschettoni. “Okay, ci siamo,” commentò mentre insieme a Fler gli giravano intorno per controllare.
“Qualcuno mi dice cosa stiamo per fare? Giusto così per sapere,” commentò Bill ironico.
Fler agganciò la propria imbracatura. “La via più facile per entrare nel palazzo non visti è dal tetto,” spiegò Fler. “C'è un passaggio che porta direttamente ai generatori. Da lì possiamo raggiungere praticamente qualunque altro luogo.”
“Non sarebbe più facile usare il passaggio usato da Tony?”
“L'ho murato dopo l'interrogatorio,” rispose Chakuza, mentre tutti e tre si allontanavano dall'auto, verso un vicolo dietro il palazzo.
Fler si voltò verso Chakuza. “Tony è entrato dalla stanza di Bill?”
“E ha tentato di nuovo di ucciderlo, sì,” sibilò l'altro.
“Perché non hai chiuso quel passaggio subito dopo la sua morte?”
Chakuza sospirò. “Perché non ce n'è stato il tempo. Dopo il funerale e la sepoltura e tutto quanto il resto, Bushido fece sigillare la stanza prima che potessi metterci mano. L'abbiamo riaperta quando è arrivato lui e a quel punto me n'ero dimenticato.”
“Bill decise di far passare Tony e Sido da quel passaggio, in modo da non farlo sapere a Bushido prima del tempo,” spiegò Fler in favore di Bill, ma anche un po' di Chakuza che in effetti non conosceva tutti i dettagli di quel giorno tremendo. “Pensavo di murarlo io stesso una volta che tutto sarebbe stato a posto ma, ovviamente, niente è andato come doveva.”
“Quindi se Tony l'ha riutilizzato è colpa tua,” lo accusò il carpentiere. “Sei stato tu a mostrarglielo.”
“Sì, Peter. E' stata colpa mia,” mormorò tetro l'altro, mentre li guidava tutti all'interno di un caseggiato abbandonato proprio sul retro del palazzo presidenziale. Il loro obbiettivo era troppo alto perché potessero raggiungerne il tetto da terra, così l'unica era salire sul tetto più vicino e lanciarsi da lì. “Sei contento, adesso?”
Chakuza ci ragionò sopra per due rampe di scale prima di rispondere: “No, non proprio. Pensavo che sentirlo mi avrebbe fatto sentire meglio e invece non è successo.”
“Perché non funziona così,” lo liquidò Fler. “Dirlo ad alta voce ti aiuta solo a renderlo più sopportabile.”
Rimasero in silenzio finché i due uomini non ebbero finito di sistemare tutta l'attrezzatura, quindi Fler sparò uno dei rampini sulla cima quasi invisibile del palazzo presidenziale e fece cenno a Bill di avvicinarsi.
“Tu vieni con me,” gli spiegò, agganciandolo a sé tramite i moschettoni. “Tieniti.”
Bill non fece in tempo neanche ad annuire, che Fler premette un bottone su quella specie di pistola che teneva in mano e quella riavvolse da sola la corda, tirandoli verso l'alto ad una velocità spropositata. Bill cacciò un urlo di sorpresa e poi lo soffocò nascondendo il viso contro il petto di Fler. L'attimo dopo stavano poggiando entrambi i piedi sul tetto e Chakuza li raggiungeva altrettanto velocemente.
I due uomini si sganciarono in fretta l'imbracatura e liberarono Bill, quindi se lo tirarono dietro verso l'unica costruzione presente sul tetto, ossia un piccolo casottino circondato di antenne, esattamente quello che Bill si aspettava di trovare là sopra.
Oltrepassata la porta e una prima rampa di scale, si fermarono di fronte ad una parete di lamiera esattamente uguale a tutte le altre, ma Chakuza svitò i quattro bulloni di uno dei pannelli che copriva un passaggio segreto grande abbastanza per farli gattonare comodamente, ma di certo non per farli stare in piedi.
“Da qui in poi, non una parola,” disse Chakuza. “Questi sono i condotti dell'aerazione e attraversano tutte le stanze. I rumori vengono amplificati.”
Fler entrò per primo, seguito da Bill e da Chakuza che richiuse il pannello dietro di sé.
Bill si era aspettato di morire di claustrofobia molto in fretta, ma il percorso fu più facile del previsto. Nonostante le mille svolte che furono costretti a fare, Fler sembrava sapere perfettamente dove stava andando e dopo una decina di minuti, svitò un altro pannello e saltò fuori, allungando le braccia per aiutare Bill che lo lasciò fare, non troppo sicuro di poter saltare giù da un condotto dell'aerazione senza cadere di testa.
La stanza in cui erano arrivati era buia, con una sola minuscola finestra che proiettava sul pavimento una striscia di luce appena sufficiente perché si vedessero tra di loro e in sottofondo il costante ronzio di quelli che dovevano essere i generatori del palazzo.
Fler avanzò verso la porta e si mise in ascolto, quindi li chiamò con un cenno. Gli altri due si avvicinarono mentre apriva la porta e controllava il corridoio.
“Via libera,” sussurrò.
Bill non era mai stato in quella parte del palazzo e anzi, a ben guardare, non aveva mai superato il decimo piano. Era molo curioso di capire che cosa ci fosse da quelle parti.
Percorsero in fretta il corridoio, sempre con Fler ad aprire la fila e Chakuza a chiuderla, camminando di tre quarti per controllare la direzione da cui provenivano.
Scesero di quasi cinque piani senza incontrare nessuno, finché Fler non li fermò a metà di una scala, sollevando la sinistra e portandosi la destra alla bocca per dirgli di fare silenzio. Si appiattirono tutti e tre contro il muro, nel cono d'ombra in cima alla rampa. Sotto di loro passava un corridoio illuminato, a differenza di quelli che avevano percorso fino a quel momento. Sentirono delle voci avvicinarsi e poi l'ombra di due uomini si proiettò sul pavimento. Rimasero col fiato sospeso finché i due non furono passati, quindi Fler li riportò su di qualche gradino. “Okay, questo è il quindicesimo piano,” bisbigliò. “Supponendo che abbiano preso per prime le stanze presidenziali e siano poi saliti verso l'alto, hanno in mano almeno cinque piani, compresa l'armeria.”
“No. Abbiamo spostato l'armeria nel sottolivello, due anni fa,” lo informò Chakuza. “Con un po' di fortuna non sanno ancora che si trova lì.”
“Ottimo, se riusciamo a raggiungere l'armeria e a trovare qualcosa di più pericoloso di una spada e un martello da mezzo chilo, forse abbiamo una speranza di recuperare questo posto,” ragionò Fler. “Ma da qui all'armeria ci sono quindici piani sorvegliati.”
“Possiamo facilmente evitarli con i percorsi alternativi,” gli fece notare Chakuza. “Ci metteremo solo di più.”
Fler sospirò. “Speriamo che Sido si faccia prendere come al solito dalla sua vena epica e annoi Bushido con uno dei suoi discorsi chilometrici sul destino e i grandi piani di conquista, questo ci darà del tempo utile.”
“E speriamo che Bushido non faccia il coglione,” commentò Chakuza. “O Sido vorrà ammazzarlo in cinque minuti.”
Bill sospirò perché, in effetti, entrambe le cose sembravano molto probabili.
I percorsi alternativi previsti da Chakuza si rivelarono un groviglio tortuoso di passaggi segreti, scale ripide, condotti di areazione e scivoli per l'immondizia. Dopo essersi infilati nel primo passaggio disponibile, che era poco più di un buco nel muro e che costrinse Bill quasi a strisciare per terra, i tre si ritrovarono in una stanza gigantsca praticamente vuota se non per una lunga fila di librerie piene di volumi tutti uguali ed etichettati. Da lì, spostando una delle librerie, s'infilarono in un breve passaggio ricoperto di mattoni e infilarono in una stanzetta piena di cianfrusaglie che costrinse Bill ad operazioni circensi per muoversi senza inciampare portandosi dietro cataste di ciarpame rumoroso che avrebbe probabilmente richiamato non solo le guardie del palazzo ma anche quelle sparse per il quartiere. Non contenti, dovettero raggiungere l'entrata di un secondo condotto di aerazione posto talmente in alto che Fler dovette prima arrampicarsi fin quasi al soffitto, quindi tendere le braccia per prendere Bill che Chakuza dovette praticamente sollevare di peso. Dopo altri quattro corridoi talmente stretti che Fler dovette passare di traverso e uno scarico dell'immondizia che li proiettò dritti dietro le cucine del secondo piano, Bill stramazzò a terra e chiese mezzo secondo di pausa, quel tanto che gli bastava per lamentarsi.
“Non ti mettere comodo, c'è ancora un piano prima dell'armeria,” gli ricordò Fler, lanciando un'occhiata fuori da una finestra. Nella piazza sottostante il palazzo l'esercito di Sido stava radunando la gente e il palco di legno proprio al centro non prometteva niente di buono.
“Dammi solo un attimo, d'accordo?” Sbuffò Bill. “Questi passaggi sono un inferno. Si può sapere chi diavolo li ha costruiti?”
Fler rise. “Lui, no?” Indicò Chakuza, che però lo liquidò alzando il medio e guardando anche lui dalla finestra.
“E' un palco da impiccagione quello?”
“Bingo,” sospirò Fler, passandosi una mano sulla faccia. “Molto epico.”
“Vecchio stile,” borbottò Chakuza. “Sido è rimasto a trent'anni fa.”
Bill si alzò da terra e corse alla finestra, spostando il carpentiere quasi di peso per vedere anche lui. “Vogliono impiccare Bushido?”
“Sido vorrà spettacolarizzare la sua morte. Farlo sulla pubblica piazza darà risonanza al gesto.”
“E poi potrà lasciarlo lì a dondolare in modo che tutti possano vederlo,” si aggiunse Fler. “A Sido sono sempre piaciute queste manifestazioni di potere alla vecchia maniera.”
Bill si staccò dalla finestra con una faccia allucinata. “Volete piantarla, per favore?” Esclamò, guardandoli entrambi severamente. “Come fate a parlarne con tanta tranquillità? Stanno per impiccarlo.”
I due si guardarono senza capire. “Che cosa dovremmo fare?” Chiese Chakuza.
“Non lo so, preoccuparvi? Potrebbe morire.”
“Probabile,” annuì Fler. “Ma non subito. Il palco non è ancora pronto, non c'è pubblico e penso che Sido aspetterà comunque un momento più scenico. L'alba, per esempio. Quindi direi che per quello c'è tempo. Noi dobbiamo solo concentrarci per arrivare all'armeria.”
“E se questo non bastasse?”
Chakuza lo tirò via dalla finestra e lo spinse verso l'ennesima scala, dietro l'ennesimo muro. “Ricordi cosa ti ho detto sull'ottimismo?”
Bill sbuffò, ma si rimise in marcia.
Quando arrivarono alle prigioni, Bill si rese conto che non solo non c'era mai stato ma che non era mai sceso al di sotto del piano in cui si trovavano le stanze presidenziali, il che in sostanza significava non essersi mai mosso più di un piano sopra e sotto dalle sue stanze. C'era un mondo, in quel palazzo, e lui non sapeva nemmeno della sua esistenza.
Quello delle prigioni, naturalmente, era uno dei piani più sorvegliati che avessero visto fino a quel momento, escluse le stanze del presidente dove le guardie erano così tante che Fler aveva concluso di doverci entrare con un carroarmato per avere la meglio. C'erano circa una trentina di celle, con otto guardie a fare la spola tra i due corridoi principali. L'idea era quella di approfittare del breve lasso di tempo in cui uno dei due corridoi era vuoto per raggiungere il passaggio per l'armeria, e tutto avrebbe funzionato alla grande se Tom non fosse stato in una delle celle e Bill non ne avesse riconosciuto la voce.
“C'è Tom,” sussurrò, fermandosi in mezzo al corridoio e affacciandosi dietro l'angolo per sbirciare la copia del fratello, seduto in una delle celle.
“E questo è molto bello,” esclamò Chakuza, contando mentalmente i secondi che li separavano dall'arrivo del secondo gruppo di guardie. “Ma ci penseremo dopo.”
“Lui può aiutarci,” insistette Bill. “E' il capo delle guardie. Abbiamo bisogno di aiuto.”
Fler tornò indietro di qualche passo. “Il ragazzino ha ragione, Peter. Più gente abbiamo e meglio è. Liberalo, io penso alle guardie.”
“E io?” Chiese Bill.
“Tu stai buono. E non lamentartene perché non ho tempo,” concluse Fler, sparendo in fondo al corridoio.
Bill sbuffò e si avviò di malavoglia verso Chakuza che nel frattempo aveva raggiunto Tom.
“Cosa ci fai tu qui... Cosa ci fa lui qui?” Esclamò indicando alle spalle del carpentiere, il punto in cui Bill lo stava salutando con la mano. “Dovevate essere già molto lontani a quest'ora.”
“Siamo tornati indietro perché abbiamo saputo dell'attacco,” spiegò Chakuza, che aveva infilato due grimaldelli nella serratura della cella e ne teneva un terzo in bocca.
“Con lui?”
“Lui voleva venire,” tagliò corto Chakuza, facendo scattare la serratura. “Ora forza, muoviti. Abbiamo...”
L'esplosione di luce arrivò più debole, ma pur sempre visibile, e poi Fler comparve nel corridoio facendo loro cenno di muoversi. “Venite, via libera. State attenti a questi bastardi per terra.”
“Volete riprendere il palazzo, non è così?” Chiese Tom.
“Sì.”
“La guardia di Bushido è imprigionata su questo piano. Sono dieci uomini, ma meglio di niente,” suggerì.
Fler ringhiò qualcosa che somigliava vagamente ad un'offesa pesante verso il cielo perché non aveva mai tempo di fare le cose con calma e poi annuì. “D'accordo ma muoviamoci, quelli non rimarranno ciechi in terra per sempre.”
“Sei fissato con quelle bombe luminose,” commentò Chakuza, passandogli uno dei grimaldelli, mentre già lavorava ad una delle serrature delle celle.
“No, è che ho solo quelle,” puntualizzò Fler, facendo lo stesso. “Per questo voglio andare all'armeria.”
Bill, nel frattempo, andava avanti e indietro senza niente da fare. “La prossima volta che decidiamo di prendere un palazzo, voi mi aspettate in macchina. Almeno mi diverto,” protestò.
Per liberare le guardie ci volle più tempo del previsto perché le serrature erano vecchie e l'unico che riuscisse davvero ad aprire alla svelta era Chakuza; Fler cominciò ad agitarsi e Bill perse la pazienza molto prima di lui, ma alla fine, in quattordici infilarono il montacarichi nascosto – di cui Chakuza era molto orgoglioso, senza motivo visto che era comunque un catorcio – per raggiungere il sottolivello dell'armeria.
Tom aveva naturalmente sbraitato nel vedere Fler e aveva tentato di attaccarlo, così come avevano tentato di fare tutte le guardie contemporaneamente ed era stato lì che Bill era esploso e per non perdere tempo aveva detto a tutti di stare zitti e di obbedire, che se si fidava lui di Fler che era il suo assassino, potevano ben fidarsi tutti loro. E con questo erano andati avanti.
Fler si era gettato nell'armeria di testa, per uscirne ricoperto di bombe vere, pugnali da lancio e qualche altra cianfrusaglia che Bill non riconosceva. Chakuza ne aveva approfittato solo per prendere un martello più grande e Bill non sapeva se questo lo rendeva un uomo coerente o privo di fantasia. Le guardie si erano solo riprese quello di cui erano state private, millantando la necessità di dover essere sobri in battaglia. Necessità che gli altri due non sembravano sentire affatto.
E quindi era cominciata.

*


Bill non aveva mai partecipato alla presa di un palazzo, naturalmente, ma, nonostante Fler e Chakuza si fossero messi di grande impegno a non fargli fare assolutamente niente, lui stava cominciando a pensare che la cosa potesse piacergli. Chissà che cos'avrebbe detto Bushido se, una volta tornato a casa, avesse espresso il desiderio di imparare a menare la gente? Probabilmente lo avrebbe fatto sedere da una parte dandogli un bacino in fronte e promettendogli un paio di stivali nuovi se avesse smesso di pensare a queste stronzate, il che a ben pensarci era una bella soluzione anche quella. Poteva minacciare di gettarsi in una rissa rischiando la vita per farsi comprare vestiti nuovi.
“Come pensavo. Sta facendo il suo discorso sulla conquista dell'universo,” sospirò Fler, affacciandosi per controllare il corridoio di fronte alla sala presidenziale. C'erano due guardie davanti alla porta e, dall'interno, arrivava la voce di Sido, intento ad illustrare con toni marziali come il mondo sarebbe finito nelle sue mani.
Bill sollevò un sopracciglio. “E' pazzo,” commentò, quando lo sentì parlare di far diventare i ghetti un unico grande e illimitato regno sotto il comando della sua illustre persona.
“Molto,” annuì Fler.
“Quanti sono là dentro?” Chiese Chakuza.
“Una ventina di uomini, più la guardia di Sido e Sido,” rispose Tom. “Questo almeno quando sono stato rinchiuso. Potrebbero essere di più.”
“Siamo due a uno, forse tre. Ci serve un diversivo.”
“D'accordo, facciamo così,” propose Fler. “Io e Chakuza pensiamo alle guardie di fronte alla porta. Una volta aperta, Bill penserà ai fumogeni...”
Il cantante sgranò gli occhi. “Io?”
“Sì, tu,” annuì Fler. “Così la smetti di lamentarti che il mondo non ti fa fare mai niente. Cerca solo di non soffocarti mentre lo fai, perché spiegare a Bushido come sei morto stavolta sarebbe surreale. Poi, a quel punto Tom, guiderà l'irruzione.”
“D'accordo,” Il capo delle guardie annuì convinto e si alzò in piedi. “Pronti al vostro segnale.”
Fler consegnò i fumogeni a Bill mentre la squadra di guardie indossava le maschere antigas, quindi lui e Chakuza svoltarono l'angolo come se stessero facendo una passeggiata.
I due uomini di guardia alla porta li notarono subito ma furono troppo lenti a reagire e caddero a terra prima ancora di aver detto una parola completa. Fler emise un fischio breve e netto e Bill sgattaiolò fuori giusto in tempo per gettare nella stanza i fumogeni mentre gli altri due spalancavano la porta.
Vide Sido guardare nella sua direzione e inorridire, quindi l'attimo dopo la stanza fu invasa dal fumo e dalle guardie armate di maschera.
Bushido si accorse di quello che stava succedendo con quell'attimo di anticipo che gli serviva, così sfruttò la sorpresa dei presenti e tirò una testata al tipo che lo teneva fermo, coprendo la bocca e il naso per non soffocare.
Per un tempo lunghissimo si sentì solo il cozzare delle armi e le urla della gente e su tutto quanto Sido che urlava ordini a destra a manca, nel tentativo di recuperare il controllo della situazione. Se ne stava vicino all'enorme vetrata, con due dei suoi uomini a proteggerlo.
“Prendete Bushido!” Ringhiò, la voce ovattata dalla maschera e dalla tosse. Si piegò in due mentre lo diceva ma nessuno lo stava a sentire, tutti troppo impegnati a lottare con le guardie del presidente nonostante il respiro corto.
Il sistema di areazione si era messo in moto per cambiare l'aria, così il fumo andava diradandosi, ma molto, molto lentamente.
Il presidente si girò per piantare il gomito nello sterno di un uomo che lo stava attaccando alle spalle, ma quando si guardò intorno, ne aveva altri tre pronti a farlo fuori.
Chakuza vide la scena con la coda dell'occhio, ma era impegnato anche lui. “Fler!” Gridò, falciando gente con il martello. “Il presidente!”
Fler colpì un uomo alle sue spalle col dorso del pugno chiuso, quindi saltò sui mobili per evitare la rissa e coprire più velocemente la distanza che lo separava da Bushido. “Anis!” Gridò “Prendi! Ti spiego dopo!”
Bushido si vide arrivare due scimitarre da parte di Fler e le prese al volo, colpendo al collo e al busto chi gli stava davanti nel momento stesso in cui le impugnò. “Sarà bene che sia una bella spiegazione, Patrick,” ringhiò severo, girando su se stesso per abbattere un'altra guardia. “O giuro che ti faccio a pezzi.”
“Ti stupirò!” Urlò l'altro, per poi gettarsi nella mischia ed abbassarsi al momento giusto per evitare la rotazione del martello di Chakuza.
C'erano uomini che combattevano ovunque ormai perché, finiti quelli della stanza, erano arrivati anche quelli dagli altri piani. Sido continuava a sbraitare, ma si faceva sempre più indietro man man che i suoi perdevano e Bushido riprendeva il comando di ogni cosa. Quando vide che nella stanza i suoi uomini erano più distesi che in piedi, cominciò ad arretrare verso una porta laterale, guardandosi intorno per vedere se qualcuno lo stesse notando.
“Vai da qualche parte?” Gli chiese qualcuno.
Sido si girò colto di sorpresa, per ritrovarsi davanti Bill, con una mano su un fianco e l'altra a stringere un fioretto dritto davanti a sé.
Più rilassato, l'uomo sogghignò. “Principessa,” esclamò sussiegoso. “Posa quella spada, potresti farti male.”
“O potrei sbudellarti,” suggerì Bill.
“Non ne saresti capace,” commentò Sido, facendosi avanti con spavalderia.
In tutta risposta Bill gli premette la punta del fioretto sul petto, senza nessuna paura. “Vogliamo provare?” Chiese. “Io non ho niente da perdere, Sido. Quanto ci tieni ai tuoi intestini?”
“Non potresti mai uccidere un uomo.”
“Un uomo no, ma te sì,” concluse Bill, spingendolo indietro con lo spadino. “Vai in quell'angolo, muoviti. E fuori i polsi, devo legarti.”
“Adoro questo Bill,” commentò commosso Fler, osservando la scena mentre schiacciava a terra col piede l'ultimo uomo che aveva avuto la forza di aggredirlo. “Possiamo tenerlo, Chaku?”
Il carpentiere tirò un'ultima martellata, quindi strusciò la testa del martello sulla camicia dell'uomo ai suoi piedi e ragionò. “E' troppo impegnativo,” rispose. “Finirei per dovermene occupare da solo perché tu ti stuferesti.”
Fler si voltò a guardarlo storto. “Sei un deficiente,” commentò.
“E' colpa tua e della tua palla,” gli ricordò Chakuza ed entrambi scoppiarono a ridere.
Incurante del teatrino che stava avvenendo alle sue spalle, Bill continuò diligentemente nel suo lavoro e legò Sido come un salame, forse più del necessario, quindi si spolverò le mani felice.
Bushido lasciò le due scimitarre a terra e lo raggiunse abbracciandolo stretto. “Ottimo lavoro, principessa,” gli sussurrò contro l'orecchio.
Bill lo strinse forte e si lasciò coccolare un po'.

*


“D'accordo, bene così. Siamo pronti,” annunciò David, girando intorno alla pulsantiera e premendo tasti e leve apparentemente a casaccio. Di fianco ai comandi c'era una mezzaluna in metallo che emise una scarica elettrica azzurrognola e vagamente minacciosa.
Bill deglutì, ma poi si costrinse a chiudere gli occhi, inspirando ed espirando per trovare la calma. Quello era il suo passaggio per tornare a casa. Avrebbe funzionato, non c'era niente di cui preoccuparsi.
Dopo l'arresto di Sido, David aveva impiegato altre tre settimane per trovare il modo di costruire un portale, seppur parziale, che fosse in grado di piegare la realtà su se stessa e di rispedire Bill a casa sua.
In questo tempo, il Presidente aveva ripreso il controllo sul suo ghetto, annunciando la fine della guerra e la volontà di collaborare con gli altri capi di stato per ricostruire tutte le città colpite dagli scontri. Fler aveva chiarito la propria posizione – non tutta, naturalmente – ed era stato reintegrato nell'organico, al suo vecchio posto che, con grande sorpresa di Bill, era quello di consigliere strategico del Presidente. Chakuza sembrava credergli, alla fine, e a Bill piaceva vederli scherzare insieme, come se non avessero fatto nient'altro fino al giorno prima. A vedere il carpentiere sorridere in quel modo, si aveva come l'impressione che fossero due le persone che gli erano mancate in tutti quegli anni e Bill era contento di aver contribuito a riportargliene intera almeno una, visto che con l'altra proprio non poteva aiutare.
E, dal momento che ormai tutti avevano compreso che la persona che avevano davanti non era quella che conoscevano e amavano ma un'altra a cui volevano bene per quella che era, quelle erano state tre settimane felici e divertenti; per questo, adesso, la nostalgia lo mordeva alla pancia e alla gola, affondando i denti fino in fondo per farlo piangere. Quando Chakuza e Fler – che si muovevano in coppia sempre ma a maggior ragione quando si trattava di lui –, erano venuti a dargli la bella notizia, quella mattina, l'euforia che lo aveva tirato fuori dal letto aveva vacillato sullo sguardo intenerito ma un po' triste dei due uomini ai piedi del suo letto, per poi morire definitivamente nell'ultimo abbraccio di Bushido prima di spronarlo delicatamente verso il portale.
Sapeva che dall'altra parte c'era un altro Anis – il suo Anis – ad aspettarlo, eppure era spaventosamente triste lasciare questo indietro. E lasciare anche tutti gli altri che in quei pochi mesi avevano tentato di essere il suo mondo come lui aveva tentato ad essere il loro.
David abbassò l'ultima leva, la macchina emise un ruggito potente che si intenerì fino a diventare un ronzio sommesso, quindi un altra scarica elettrica disegno uno strappo nell'aria. Dall'altra parte c'era solo un vorticare violaceo di nubi e stelle. Niente che potesse riconoscere, niente che potesse fargli credere che ci fosse qualcosa di solido dall'altra parte. Doveva fidarsi. “Puoi andare, ora,” mormorò David. “Quando vuoi.”
Fece un respiro profondo e si avvicinò con lentezza al portale che emetteva un calore strano e attraente.
Chiuse gli occhi e avanzò senza guardarsi indietro per la paura di non avere poi la forza di tornare a casa.
Non fu doloroso, ma caldo e consolante. Gli sembrò di essere altrove, senza nemmeno essersi mosso.
Scomparve prima che le sue lacrime toccassero terra.
E fu tutto ciò che in quell'universo rimase di lui.
Personaggi: Bushido, Chakuza, Fler, Bill, Jorg, Gordon
Scritta a quattro mani con: Fedykaulitz
Genere: Fantasy, Romantico, Avventura
Avvisi: Slash, AU, Lemon, OOC, Violenza
Rating: NC-17
Prompt: Scritta per la seconda edizione del Big Bang Italia
Gift: Until you wake up, bellissimo fanmix fatto dalle manine sante di Def su cui riverserò amore per sempre.
Note: Questa storia è nata perchè Tabata stava guardando il film "L'uomo che volle farsi re" per motivi di lavoro, e ha descritto a Fedy una scena in cui un sultano arabo offriva le sue figlie (e i suoi figli maschi) ad alcuni esploratori ospiti del suo regno per allietare le loro notti. Era palese che in quel momento sarebbe scattata nella mente di entrambe la scintilla per tirarne fuori un'AU in cui infilarci tutti i loro pg preferiti. A furia di plottare, la trama si era ingigantita al punto che avrebbe potuto concorrere per il BBI, e quindi eccola, partecipante alla seconda edizione di bigbangitalia. Un po' divertente, un po' triste, forse un po' scontata? Ma non sottovalutate un probabile colpo di scena... Un esperimento di scrittura a quattro mani per un contest che sembra sia riuscito. Oh, e prevede un sequel. Dovevamo dirlo?

Riassunto: Bushido è a capo dell’esercito del regno di suo padre. Durante una spedizione di conquista, si trova a sostare con i suoi soldati nel territorio di re Jorg II, che lo accoglie e lo ospita per mesi nel suo palazzo come ringraziamento per aver sedato la rivolta di una tribù locale. Durate la sua permanenza, Bushido incontra Bill, uno dei cortigiani messi a sua disposizione, con il quale intesse un rapporto che sconfina al di là delle lenzuola.

REIGN OVER ME


Bushido osservò la distesa di cadaveri che si estendeva ai suoi piedi fino alle sponde del fiume, ormai rosso di sangue. Conosceva la guerra abbastanza bene da non illudersi che non ci fosse la mano del cielo dietro quella loro vittoria inaspettata. Dopo un viaggio di quasi due mesi, l'esercito era stato dimezzato dalla fame, dalle febbri e dalla disidratazione durante l'ultimo tratto nel deserto. Quando erano arrivati nella valle e l'esercito nemico si era abbattuto su di loro senza preavviso, non era stato certo che potessero farcela.
Il piano originale aveva previsto che si accampassero e che solo il mattino seguente gli esploratori fossero inviati ad osservare i dintorni per capire dove si trovassero i nemici e come affrontarli, ma era chiaro che la loro lunga colonna di marcia, mal disposta e sfiduciata dagli imprevisti, fosse stata avvistata molto prima di quello che credevano.
Bushido aveva avuto la fortuna che tutti i suoi luogotenenti fossero vivi e fossero ancora in grado di eseguire gli ordini, e che i pochi uomini rimasti a combattere avessero avuto ancora voglia di farlo.
Aveva avuto la prontezza di spirito di chiudere subito ogni via di fuga ad un esercito nemico più numeroso, sì, ma peggio organizzato del loro, e di spingere verso il fiume uomini che non si aspettavano di essere respinti. Ci aveva provato e ci era riuscito. Non facevano altro che dirgli che era dannatamente fortunato, anche contro ogni logica e, a quanto pareva, doveva essere vero.
“Sapevo che ti avrei trovato qui a ridere della tua fortuna sfacciata,” esclamò sorridendo il tenente Losensky, avvicinandosi a cavallo.
“Non ne stavo ridendo, la stavo solo contemplando,” rispose Bushido, senza perdere il buonumore.
La bestia sotto il capitano si agitò sbuffando dalle narici e l'uomo dovette stringere le redini, dandole pacche dolci sul collo per rabbonirla. “Temo che dovrai rimandare a più tardi l'auto-compiacimento, abbiamo un piccolissimo problema.” Losensky fece una mezza smorfia, indicandosi alle spalle. “In campo la gente sta dando di matto. Non vogliamo che tirino fuori il vino adesso, o sì?”
Bushido si lasciò andare ad una risata corposa e divertita. “Lasciali fare per un po',” disse, poi ci pensò. “Ma tieni il vino sotto chiave, dobbiamo prima montare l'accampamento.”
“Comandante!”
I due si girarono per veder arrivare il tenente Pangerl, che si fermò a qualche metro da loro. “Abbiamo visite,” annunciò, accennando al di là della collina. “Gli esploratori dicono che c'è un drappello in arrivo. Le insegne sono diverse.”
“Quanti sono?”
“Una ventina, signore,” rispose Pangerl. “A circa mezz'ora da qui.”
Bushido annuì un paio di volte. “Radunate gli uomini,” ordinò. “Li accoglieremo e vedremo di cosa si tratta. Tenetevi pronti.”
L'attesa fu snervante, sebbene venti uomini non costituissero una minaccia anche per quel poco che rimaneva dei loro battaglioni; ma chi poteva sapere che non fosse solo l'avanguardia di un esercito molto più esteso nascosto dietro le dune che non avevano ancora avuto modo di esplorare? E comunque, qualsiasi cosa appariva un problema a fronte del lungo viaggio, della battaglia inaspettata e di un intero campo ancora da montare.
Il drappello comparve all'orizzonte mentre il sole iniziava a calare e le ombre dei cavalli si allungavano sul campo e sui cadaveri dei nemici abbattuti. Bushido raddrizzò le spalle e fissò dritto davanti a sé, mentre i due tenenti al suo fianco facevano la stessa cosa, dando ordine ai propri battaglioni di tenersi pronti.
Bushido individuò subito il capo. Un diplomatico di qualche tipo o, forse, addirittura un sovrano, ma di certo non un soldato. L'uomo era abbigliato molto più vistosamente di quanto la situazione avrebbe richiesto per praticità, e lo spadone a due mani che gli pendeva da un fianco era senza dubbio un simbolo di comando e non una vera e propria arma, vista l'impugnatura più cesellata che comoda e le insegne sull'elsa che ad occhio ne compromettevano il bilanciamento.
L'uomo sollevò la mano destra e si fermò a pochi metri da Bushido e dai suoi uomini, salutandolo con un cenno del capo. Si guardarono a lungo, finché quello non ordinò ad uno dei soldati al suo fianco di farsi avanti. “Questo è re Jorg II, sovrano delle terre che state attraversando,” pronunciò quello nella lingua di Bushido, e il generale ne rimase sorpreso, pur senza darlo a vedere.
Accennò ad un mezzo inchino con il capo. “Generale Anis Ferchichi, figlio di re Ayech delle Terre del Sud, oltre la linea del Medjerda.”
Re Jorg, che a quanto pareva era in effetti un re, alla fine, disse qualcosa in una lingua che Bushido non comprese e poi guardò il proprio interprete che tradusse per lui. “Sua Altezza ci tiene ad informarla che quelli che avete appena ucciso erano uomini della tribù di El-Fahs.”
“Con tutto il dovuto rispetto,” replicò Bushido, stringendo le redini del proprio cavallo e sapendo, anche senza doversi voltare , che Pangerl e Losensky, alle sue spalle, erano già pronti a difenderlo, nel caso, “gli uomini della tribù di El-Fahs ci hanno attaccati senza motivo non appena siamo arrivati.”
Jorg parlò di nuovo e l'interprete sorrise. “E noi siamo incredibilmente felici che l'abbiano fatto, generale, perché così avete potuto sterminarli.”
Bushido scambiò un'occhiata con i suoi tenenti. La sua fortuna era evidentemente molto generosa.

*


Re Jorg II era diventato re dopo aver ucciso a randellate il suo precedessore, Jorg I naturalmente, il che la diceva lunga sull'arretratezza sociale di un regno in cui il sovrano non aveva neanche il buon gusto di avvelenare il cibo del proprio rivale per prenderne il posto, come avveniva in ormai quasi tutto il resto del mondo. A giudicare dal notevole numero di prostitute e cortigiane che si aggiravano seminude per il castello, Jorg doveva avere una gran passione per il sesso ma ben poca per la guerra, e questo spiegava perché combattesse da vent'anni con un numero inaccettabile di tribù che non avevano gradito la sua salita al trono e che ancora faticavano a riconoscerne l'autorità; questo, naturalmente, stando a ciò che il traduttore stava spiegando con solerzia a Bushido, seduto con alcuni dei suoi uomini al tavolo del banchetto allestito per loro.
“Ha detto che il suo regno si trova aldilà del fiume Medjerda?” Chiese Gordon, il traduttore, a nome del proprio sovrano.
“Sì, altezza,” confermò Bushido, “Appena qualche miglio più a sud.”
“E' molto distante da qui,” disse Jorg. “Che cosa porta lei e il suo esercito così lontano da casa?”
Bushido smise per un istante di mangiare e appoggiò la coscia di montone sul piatto, pulendosi le mani e prendendo tempo prima di rispondere. “Eravamo diretti a nord, verso Bizerte. Il regno di re Amir è stato vittima di attacchi da parte di truppe berbere ed essendo sotto la protezione di mio padre, abbiamo il compito di difenderlo.”
Non aveva neanche mentito poi troppo. Bizerte era stata davvero quasi rasa al suolo dalle truppe nomadi dei deserti che la circondavano, e la città era effettivamente sotto la protezione del regno di suo padre. O lo era stata, per lo meno, ma l'accordo fra i due regni si era sciolto con la morte di Amir e quindi, in sostanza, Bushido o suo padre non avevano alcun dovere nei confronti della città costiera.
Non c'era bisogno di informare Jorg di questo dettaglio, però, né del fatto che fosse stato Ayech stesso ad ordinare l'omicidio di Amir e che se l'esercito di Bushido era ora diretto verso la costa, era solo per prendere il comando di Bizerte una volta per tutte.
Re Jorg annuì compitamente, tornando al suo cibo e invitando Bushido a fare lo stesso con un gesto brusco ma amichevole.
La sala del trono era ampia ma molto spartana. Il trono stesso era un sedile in pietra, ben lontano da quello comodo e rivestito di velluto che suo padre occupava le rare volte che si decideva a passare a palazzo più di due giorni consecutivi. Bushido fu colpito dalla povertà generale degli arredamenti, dall'assenza di tappeti o cuscini sul pavimento, dalle pochissime tende appese alle finestre e dai gioielli dozzinali indossati dal re e dalla sua corte, composta peraltro dai soli funzionari del sovrano. Anche gli schiavi e le schiave che si aggiravano intorno al tavolo non indossavano nient'altro che cianfrusaglie mal tagliate, inappropriate perfino per il loro rango. Era più che evidente che il regno di re Jorg II si trovasse in seria difficoltà, al momento.
Bushido lasciò scorrere lo sguardo lungo la tavolata, alla quale erano seduti lui, i suoi tre tenenti, una serie di ospiti dei quali non si era preso la briga di ricordare i nomi e il re, che ogni tanto gli lanciava delle occhiate al di sopra di un piatto di cibo nel quale metteva direttamente le mani, prima di allungarle sulla schiava che gli passava di fianco.
“Bushido!” Lo chiamò il tenente Sido, seduto qualche posto più in là dall'altro lato del tavolo. “Prova questi.”
Il generale prese il vassoio che gli veniva passato e analizzò con attenzione i tortini che vi erano impilati sopra con grande attenzione. “Che cosa sono?” Chiese, mentre Chakuza e Fler allungavano subito la mano sul piatto per assaggiare anche loro.
“Non ne ho idea,” ghignò Sido, ridendo e mettendone in bocca uno praticamente intero, seguito a ruota dagli altri due. “Ma meritano il rischio, sono buonissimi.”
Bushido rise di cuore alla spensieratezza dei propri uomini, che avevano passato troppi giorni a vedere morire gente, convinti che sarebbero morti anche loro, per non gettarsi sul cibo e sulle donne non appena entrambi gli erano stati forniti. E non poteva certo biasimarli, lui stesso aveva bisogno delle due cose; o della prima, quanto meno, visto che non aveva mangiato altro che pane raffermo nelle ultime due settimane.
“Potrebbe essere merda di capra,” commentò Fler. “E sarebbe comunque buona dopo le gallette rafferme.”
“Tu non distingueresti la merda di capra dalle gallette nemmeno se avesse un cartello sopra, Fler,” lo prese in giro Chakuza, che aveva finito il tortino in due morsi e aveva deciso che nello stomaco aveva posto per un altro.
“Coglione!” Fler gli tirò del pane con poca convinzione.
Quando Bushido si voltò verso i suoi ospiti, trovò Gordon che lo osservava con un sorriso incerto, come se non avesse capito il dialogo a cui aveva assistito e fosse leggermente imbarazzato al riguardo. “Bushido?” Chiese, scuotendo la testa. “Pensavo che il suo nome fosse... Anis, dico bene?”
Bushido annuì, pulendosi discretamente le labbra con la tovaglia. “Sì, signor Gordon.” E poi sorrise. “Si sta forse chiedendo perché i miei uomini mi chiamano in un altro modo?”
Gordon si prese un momento per riferire il loro breve scambio al re che li guardava con aria interrogativa, prima di rispondergli. “Devo ammettere che la cosa mi incuriosisce.”
“Ognuno di noi ha un soprannome in battaglia,” spiegò Bushido. “Questi sono Fler, Chakuza e Sido, ma nessuna delle loro madri si sarebbe mai sognata di chiamarli così.”
“Non ne sarei troppo sicuro,” commentò Sido con noncuranza, rivolgendosi ad una delle discinte signorine che gli versava da bere e quella rise, pur non capendo le sue parole. “La vecchia era pazza.”
“Ora comprendo,” annunciò Gordon a nome del re. “E come dovremmo chiamarla, generale?”
“Con il nome che preferisce, io mi girerò comunque.”
La cena si protrasse un altro po' e gli invitati, insieme al padrone di casa, ebbero il tempo di ubriacarsi quel tanto che bastava a sciogliere il ghiaccio e a tirare fuori le questioni importanti che li avevano tutti riuniti in quella stanza. Bushido si sporse sul tavolo, allungandosi verso il sovrano in un gesto intimo e confidenziale. “Posso parlare francamente con lei, Altezza?” Chiese, dedicando a Gordon solo l'occhiata che gli serviva per intimargli di tradurre.
Re Jorg gli fece cenno di proseguire.
“Al momento dubito che se ci mettessimo in marcia riusciremmo ad arrivare a Bizerte con più di metà dei battaglioni,” annunciò con fare greve, e la pesantezza delle palpebre generata dall'eccesso di vino lo aiutò ad avere un'espressione molto solenne. “Avrei bisogno di riorganizzare l'esercito e di un posto per farlo.”
Gordon sembrò metterci un po' a districare le sue parole e a ripeterle al re in maniera comprensibile, e l'uomo rimase perplesso a lungo – tanto che quasi Bushido tornò lucido e si preoccupò – prima di scoppiare in una grassa risata, prevalentemente ubriaca. “Mi state chiedendo ospitalità, generale?”
“Una settimana, al massimo due,” confermò Bushido. “Il tempo necessario a rimettere insieme i miei uomini e ripartire alla volta di Bizerte. Non le daremo alcun fastidio.”
“Io ho un'idea migliore,” propose Jorg, raddrizzandosi sulla sedia e sbattendo sul tavolo il boccale di birra appena vuotato. Quando Bushido si rivolse a Gordon, non comprendendo, quello spiegò: “Sua Altezza vuole proporle un accordo.”
Bushido non amava gli accordi, soprattutto quelli presi con un uomo che non parlava la propria lingua e che dipendeva da un altro uomo che poteva benissimo riferirgli cose diverse ma, data la situazione, non aveva molta scelta. L'esercito era davvero provato, un castello e l'assistenza di una cittadina, seppur piccola e scalcagnata come quella, potevano fargli comodo. Se non ricordava male, l'ultimo rapporto sulle razioni di cibo era stato sconfortante, e Fler gli aveva chiaramente suggerito che gli uomini ne avevano abbastanza di marciare per miglia e miglia e farsi ammazzare dalla febbre. “Sentiamo,” lo invitò.
“Come lei sa, abbiamo non pochi problemi interni con le tribù,” spiegò Jorg, riuscendo ad essere incredibilmente fermo nonostante tutto quello che aveva bevuto. “Lei però ha un esercito ben addestrato e ha già sconfitto gli El-Fahs con grande facilità. Potremmo unire le due cose. Io ospiterò il suo esercito per tutto il tempo che sarà necessario, e lei farà in modo che io possa, diciamo, occuparmi di altre questioni senza più preoccuparmi dei miei confini. Che ne dice?”
Bushido capì prima ancora che Gordon finisse di tradurre, perché era piuttosto chiaro dove il re stesse andando a parare, ed era esattamente quello che aveva sperato di ottenere: ospitalità potenzialmente illimitata per poter fare le cose con calma. “Non sarà un problema,” rispose tendendo la mano al re. “Affare fatto.”
Il re gli strinse la mano solennemente e poi rimase a fissarlo a lungo senza dire assolutamente niente. Bushido sostenne il suo sguardo senza battere ciglio finché le labbra dell'uomo non si piegarono in un breve sorriso soddisfatto. Abbaiò un ordine e subito le schiave corsero a riempire loro i bicchieri.
“Ci vuole un brindisi per festeggiare quest'alleanza,” spiegò subito Gordon, sollevando il boccale. “E visto che siete suoi ospiti, re Jorg vuole che lei e i suoi tenenti rimaniate qui al castello. Ci sono abbastanza stanze per tutti.”
“Sarà un piacere.” Bushido bevve e il bicchiere gli fu riempito nuovamente. Mentre sorrideva e lasciava vagare lo sguardo lungo la sala che ora si era fatta più animata e, con l'aiuto del vino, sembrava meno spoglia e più accogliente di quanto non gli fosse sembrata all'inizio, notò qualcosa che prima gli era sfuggito. Dall'altra parte della sala, in un angolo, seduto su una pila di cuscini, c'era un gruppo di ragazze e ragazzi, vestiti di mezze tuniche rosse. Per quanto li fissasse, il loro sguardo non si dirigeva mai verso la tavolata, e se non erano impegnati ad occuparsi l'uno dell'altro, abbandonandosi a lunghi baci languidi, i loro occhi erano posati a terra, compostamente.
Bushido rimase quasi incantato dal modo in cui si comportavano, come se non si trovassero in quella stessa stanza, ma fossero altrove, soli, e lui li stesse guardando attraverso l'incantesimo di una sfera di cristallo.
Re Jorg dovette notare dove si posava il suo sguardo e batté le mani due volte. Sulla sala del trono calò all'improvviso un silenzio quasi innaturale e la più totale immobilità. I tre tenenti cercarono Bushido e lui si strinse nelle spalle, guardandosi intorno e chiedendosi perché mai ogni schiavo si fosse fermato, qualunque cosa stesse facendo, e avesse chinato il capo.
Dal loro nido di cuscini, i ragazzi e le ragazze si alzarono senza fare un rumore e vennero verso di loro in una fila ordinata, per poi disporsi a ventaglio alle spalle del sovrano. Il rosso delle tuniche era corposo e forte, un contrasto fortissimo con il grigiore della stanza. Le ragazze indossavano tiare fra i capelli e anelli alla mano sinistra, i ragazzi centinaia di bracciali e collane a più file, che scendevano in certi casi fino all'ombelico scoperto.
“Ecco dov'erano i gioielli”, commentò Fler, inclinandosi appena verso di lui e nascondendo le labbra dietro il boccale di birra. I suoi occhi erano incollati al corpo morbido della ragazza che aveva davanti. “A quanto pare il nostro sovrano ha tirato fuori l'artiglieria pesante.”
“Questi sono alcuni dei figli e delle figlie di re Jorg II,” si apprestò a spiegare Gordon. “Il sovrano ha visto che li guardavate, generale.”
Bushido si schiarì la gola. “Sono una splendida visione, senza dubbio.”
Jorg sorrise e fece cenno al suo interprete. “Il sovrano vuole ringraziarvi per i servigi resi al regno quest'oggi, e vuole fare a voi e ai vostri uomini un dono prezioso. Vi invita a scegliere la compagnia che più vi aggrada per la notte.”
Stavolta il generale fu colto così di sorpresa che non poté fare a meno di sgranare gli occhi, ma fu ben felice di scoprire che anche Fler e Chakuza al suo fianco avevano avuto più o meno la stessa reazione.
“Altezza?” Chiese incerto.
“Sono qui per voi,” confermò l'interprete. “Scelga pure la donna che preferisce. O l'uomo, qualunque siano le vostre preferenze. Siete ospiti di sua maestà, qualunque vostro desiderio è un ordine.”
“Coraggio generale,” lo chiamò Sido. “Non vorrai rifiutare un regalo.”
Il tenente non stava facendo assolutamente niente per nascondere la propria scelta, e se non si era ancora alzato per trascinare la biondina con i capelli lunghissimi che aveva già adocchiato, era solo perché spettava a Bushido rispondere per primo a quell'invito, e il generale era ancora piuttosto confuso al momento.
“Io...” balbettò, prima di schiarirsi la gola per tentare di ritrovare un po' di contegno. “Sono lusingato dal regalo di sua maestà, ma sono tutti così affascinanti che davvero non saprei quale scegliere.”
“Ne scelga due, oppure tre. Anche di più, se le aggrada,” disse Gordon. “Siete ospiti, non faccia complimenti.”
Non era la prima volta che Bushido si trovava nella condizione di ricevere dei doni da parte di altri capi di stato, anche della stessa natura, ma generalmente si trattava di inviti più o meno velati a guardarsi intorno e a prendere la prima schiava che avesse trovato di suo gradimento. Questa era la prima volta che il sovrano di un regno gli offriva i propri figli e le proprie figlie senza battere ciglio.
“Generale?” Lo richiamò Gordon.
Bushido si riscosse e aprì bocca per tirare fuori un'altra scusa che suonasse abbastanza gentile da far passare in secondo piano la scortesia del proprio rifiuto, ma re Jorg sollevò una mano per dirgli di aspettare e quindi chiamò a sé due dei suoi figli, una ragazza e un ragazzo, che fecero un solo passo avanti.
Disse qualcosa a Gordon ed egli annuì. “Il re vuole suggerirle questi due, generale,” spiegò l'interprete tornando a rivolgersi a lui.
Bushido osservò ciò che gli veniva presentato in dono. La ragazza era giovane, la pelle scura come la sua e un viso ovale, piccolo e grazioso. La sua espressione era illeggibile, Bushido non riusciva a decifrare niente del suo carattere dalla linea netta delle labbra o dagli occhi scuri che fissavano un punto oltre a lui. Era senza dubbio bella, ma niente che non avesse già visto altrove. Per questo il suo sguardo non si soffermò che qualche istante su di lei, prima di venir catturato dalla forma esile al suo fianco.
Il ragazzo aveva lineamenti molto delicati, tanto che Bushido non ne avrebbe probabilmente distinto il sesso se la tunica non fosse stata aperta sul petto e se non avesse indossato gli stessi gioielli che anche tutti gli altri ragazzi portavano. I capelli neri gli scendevano lisci fino alle spalle, e a differenza di lei che era bella ma non particolarmente attraente, c'era qualcosa nella figura del ragazzo che impediva a Bushido di allontanare lo sguardo prima di aver capito di che si trattasse. La sua espressione era neutra, ma non vuota. Gli occhi castani erano intensi e molto dolci, ben lontani da quelli severi di suo padre, e anche la forma del viso, la pienezza delle labbra e la linea decisa della mascella dovevano essere tutte caratteristiche che il ragazzo aveva ereditato dalla madre. Non lo guardava, naturalmente, ma non sembrava nemmeno aspettare la sua scelta, e il modo in cui posava, fermo ed elegante, dava l'idea che fosse estremamente sicuro del proprio valore. Una cosa che Bushido trovava molto interessante.
“A quanto pare ha già scelto, generale,” sorrise Gordon, con l'aria di uno che sembrava aspettarselo.
Ad un ordine del sovrano, la ragazza rientrò nei ranghi con un tintinnio dei braccialetti e il ragazzo si accostò alla sua sedia, in attesa.
“Se volete seguirlo, generale,” disse Gordon con un cenno del capo. “Bill vi mostrerà le vostre stanze.”

*


Bushido sedeva a gambe incrociate al centro dell’ampio letto nella camera allestita per lui.
L’armatura giaceva a terra accanto all’ingresso, sporca e ammaccata per via della battaglia di quella mattina. Il ragazzo l’aveva aiutato a spogliarsene, slacciandone ogni gancio con dita esperte, come se fosse stato addestrato apposta - probabilmente era vero, - e l’aveva lasciata dove un servo avrebbe potuto occuparsene in seguito prima di indicare al generale il materasso rialzato e invitarlo a prendervi posto. Si era poi inginocchiato alle sue spalle, sistemandosi anche lui sul letto dopo aver recuperato una fiala dal tavolino, messa lì apposta perché ne usufruisse lui, forse. Quando l’aveva stappata, l’aria si era riempita di un profumo dolciastro, un po’ pungente all’inizio, ma piacevole. Tra quello e le candele accese in ogni angolo della stanza, l’atmosfera si era fatta subito rilassante e Bushido aveva chiuso gli occhi appena aveva sentito le mani del ragazzino posarsi morbide sulle sue spalle.
Come indicato dal re qualche ora prima, Bill lo aveva guidato lungo i corridoi del castello fino all’ala adibita alla permanenza degli ospiti, ed era entrato con lui nella stanza, pronto a mettersi al suo servizio per rendergli più piacevole il ricovero dalle fatiche della guerra. Un massaggio con oli profumati era solo il primo passo del rituale che gli era stato insegnato per soddisfare gli ospiti del regno, ma ne aveva imparato la tecnica con abilità, la stessa che Bushido stava riconoscendo nelle le sue dita calde. Si era unto le mani, sfregandole per portare l’olio alla temperatura giusta, e ora le stava facendo scorrere contro la pelle scura dell’uomo, sfiorando le cicatrici che segnavano la schiena e le spalle ed evitando con grazia i tagli più freschi, quelli che ancora faticavano a rimarginarsi. Li accarezzò con lo sguardo, affascinato, riconoscente, perché quelle ferite avevano salvato il regno di suo padre. Sentiva l’impulso di toccarle anche con le labbra, baciarle in segno di rispetto, ma si limitò a passarci sopra le dita senza davvero fare contatto.
Scese a spalmare l’olio lungo tutta la schiena dell’uomo, raggiungendo l’orlo della stoffa che gli avvolgeva i fianchi, poi risalì verso l’alto mentre i bracciali dorati che gli adornavano i polsi tintinnavano nel silenzio, scandendo il ritmo dei suoi movimenti. Quando tutti i muscoli presero a luccicare alla luce delle candele, lasciò scivolare le mani in avanti, superando le spalle e scendendo a massaggiare anche il petto del generale.
Bushido continuava a tenere gli occhi chiusi, stanco per le fatiche dei giorni precedenti e perso nel movimento lento e rilassante delle mani di Bill. Sentiva l’olio ungergli la pelle e scaldarla, ammorbidirla, lenirgli anche i sensi mentre la tensione che gli contraeva i muscoli da giorni si scioglieva. Era affaticato, un po’ appesantito dal vino che avevano bevuto a cena, e il profumo che ormai riempiva la tenda lo stordiva piacevolmente, ma le mani esili e leggere che gli scorrevano addosso avevano tutta la sua attenzione. Si concentrò sulle carezze che gli massaggiavano le spalle e scendevano tra le scapole, spostandosi sempre più in basso. Sembravano seguire un percorso preciso nella mente del ragazzo, non esitavano mai e indugiavano su ogni muscolo solo il tempo necessario a rilassarlo. Ascoltò il suono dei bracciali di Bill echeggiare leggero nell’aria e, per un attimo, si chiese come sarebbe stato sentire il metallo fresco contro la pelle, ma lui non lasciava mai che lo sfiorassero, probabilmente per non contrastare bruscamente col calore che si era creato.
Quando sentì il tintinnio risuonargli più forte nelle orecchie e le braccia di Bill passargli attorno al collo, raddrizzò la schiena e gli permise di scendere a toccargli anche il petto, percependo le sue dita aprirsi sulla pelle e i suoi massaggi trasformarsi sempre più in semplici carezze. I movimenti si mantennero lenti, ma le mani di Bill pressarono di più contro il suo corpo, facendosi sentire mentre vi scorrevano sopra in circolo. Alla fine Bushido aprì gli occhi e sollevò un braccio, stringendo le dita attorno ad uno dei polsi del ragazzo. Lui si era già fatto più vicino, scivolando più avanti con le ginocchia sulle lenzuola, allargando maggiormente le gambe per fare posto al generale tra di esse, e aveva lentamente aderito alla sua schiena per avere più facile accesso ai pettorali e all’addome dell’uomo. Bushido interruppe il massaggio, gustando per un attimo la sensazione della mano morbida di Bill nella propria prima di tirarlo leggermente, scostandosi per lasciargli spazio in cui muoversi. Il ragazzino seguì docile i movimenti del suo corpo e obbedì alla sua richiesta implicita, sollevandosi e spostandosi da dietro di lui per aggirarlo. Lo scavalcò con una gamba anche quando si trovò di fronte a lui e gli si sistemò in grembo, dove Bushido l’aveva indirizzato. Lasciò che l’uomo gli facesse scorrere le dita dal polso lungo l’avambraccio, scuotendo i bracciali che tornarono a tintinnare e scivolando poi fino alla spalla. Bushido gli affondò la mano tra i capelli, modellando il palmo attorno alla nuca mentre fissava Bill negli occhi. Era rapito da quello sguardo, lo era da quando lo aveva notato nella sala del re, ammirando il modo in cui il nero con cui li aveva dipinti ne risaltava l’intensità. Non aveva mai visto un trucco fatto in quel modo; nel suo regno ne aveva visto poco in generale, a dire il vero, perché truccarsi non era una pratica molto usata.
Interruppe il contatto visivo solo per piegare la testa e abbassarsi a sfiorare la pelle candida del collo del ragazzo con la punta del naso, inspirandone l’odore. Intuì che anche lui doveva essersi spalmato un olio simile a quello che avevano appena usato, perché ne sentiva il profumo permeare a fondo la sua pelle. Era vagamente più muschiato di quello che era rimasto sul tavolino accanto al letto, più fresco, ma ugualmente piacevole, e trovava si accostasse alla perfezione all’odore che aveva adesso il proprio corpo.
Decise di assaggiarlo, posando brevemente le labbra sulla pelle morbida, e subito il ragazzino piegò la testa di lato e leggermente all’indietro, agevolandogli qualunque movimento avrebbe voluto eseguire su di lui. Bushido ne approfittò per muovere la bocca fino alla sua mandibola e poi tornare in basso, raggiungendo la spalla, ma senza mai baciarlo davvero. Lo sfiorò solamente con le labbra e avrebbe giurato di averlo sentito tremare e sospirare, ma quando si scostò per sollevare lo sguardo sul suo volto non notò alcuna differenza rispetto a prima. Gli fece scorrere le mani lungo il corpo sinuoso, seguendo la linea della schiena con un palmo mentre lasciava scivolare l'altro lungo un fianco. Poi raggiunse la fibbia che teneva chiusa la sua veste su un lato e la slacciò, scostandone i lembi per lasciarli ricadere oltre le spalle. Bill si inarcò contro di lui per sfilarsela dalle braccia e permettere che si ammucchiasse sul materasso dietro di sé, poi si scostò di nuovo per dare modo a Bushido di osservarlo, se era questo che avesse voluto fare.
Lui lo guardò, facendo correre gli occhi e poi una mano lungo il suo petto esile. Era piccolo, morbido e pallido, l’opposto del suo corpo in un modo che creava un contrasto meraviglioso. Per tutto il tempo non fece altro che sfiorarlo, accarezzandolo più con lo sguardo che con le dita, scendendo a scoprire che con la veste lo aveva spogliato di tutto, e allora la voglia di essere nudo a propria volta crebbe. Bill parve coglierlo nei suoi occhi scuri, o forse nel modo in cui le sue mani gli si posarono sulle cosce, calde e colte da un lieve tremito d’impazienza. Mantenne lo sguardo nel suo mentre allungava le braccia e andava a cercare il nodo che chiudeva la stoffa attorno ai fianchi del generale. Era pronto a fermarsi se avesse ricevuto un ordine diverso, ma Bushido gli permise di scostare il tessuto e lui lo fece cadere sul materasso come la propria veste, scoprendo del tutto il suo corpo. Si avvicinò a lui quando l’uomo gli accarezzò con decisione la schiena, facendo scorrere il palmo lungo la sua spina dorsale così che lui si inarcò e si mosse addosso al comandante, sfiorando il suo petto col proprio e soprattutto sfregando il bacino contro il suo. Si strusciò su di lui e Bushido strinse le dita attorno ai suoi fianchi, seguendo i suoi movimenti e trovandosi presto a guidarli, perché Bill si mise del tutto al servizio delle sue mani. Trovarono il ritmo giusto e il ragazzino continuò a seguirlo quando l’uomo ne staccò una dalla sua anca per fargliela scorrere sulla pelle morbida di una natica. La massaggiò, affondandovi le dita e spostandosi poi a cercare la fessura e l’apertura che nascondeva. La sfiorò con la punta di un dito e gli sembrò di trovarla leggermente umida, ma a quel punto Bill gli fermò con dolcezza il braccio riportandoselo in vita, e lui sollevò lo sguardo interrogativo. Il ragazzo gli sorrise morbidamente e scosse piano la testa, poi si sollevò sulle ginocchia, allargò un po’ di più le cosce e si sistemò in modo che la punta dell’erezione di Bushido, già pronta a prenderlo, lo sfiorasse dove era andato a toccarlo un attimo prima.
L’uomo emise un verso dal basso della gola come se stesse ringhiando. Lo strinse a sé con il braccio che già lo avvolgeva e gli posò la mano libera sul retro di una coscia, in modo da premere i loro bacini insieme e incastrarli nel modo migliore, creando il contatto perfetto. Si sentì scivolare contro l’apertura del ragazzino e premette, affondando tra i muscoli che cedettero all’istante per fargli spazio. Bill sospirò, un suono un po’ spezzato che gli si incastrò in gola in modo delizioso, e si lasciò andare in grembo all’uomo, aprendo gradualmente le cosce e scendendo fino ad aderire alle sue, così che il generale poté scivolare fino in fondo dentro di lui.
Da lì iniziò il rituale con cui più aveva famigliarità, il vero motivo per cui aveva accompagnato Bushido nelle sue stanze. Prese a muovere i fianchi con precisione ed esperienza, sollevandosi sul bacino dell’uomo per permettergli di muoversi dentro di lui, di scivolare quasi fuori mentre si stringeva in modo da non negargli alcuna sensazione. Ogni volta che tornava ad abbassarsi, il comandante gli stringeva i fianchi tra le dita, trattenendolo per il tempo necessario a spingersi ancora dentro di lui e permettendogli poi di muoversi piano su di sé.
Fu una cosa lenta, profumata d’oli e scivolosa. Le mani di Bushido scorrevano sulla pelle di Bill e si perdevano nella morbidezza, nel contrasto che si creava tra il suo colore più scuro e quello tanto pallido del ragazzino. L’altro sembrava essere tornato a massaggiarlo, con le dita che si posavano sulle sue spalle e poi si muovevano in basso lungo le braccia o il petto, perché la pelle era ancora unta e trovare un appiglio era impossibile. Gettò indietro la testa quando l’uomo fece scattare il bacino verso l’alto con forza, e gemette piano. Era diverso dalle schiave che Bushido era abituato a possedere nel palazzo di suo padre. Bill sapeva muoversi, stava conducendo il sesso tanto quanto lui, e sospirava e gemeva solo quando Bushido lo prendeva nel modo giusto, o lui stesso si calava sulla sua erezione in un modo che fosse in grado di soddisfare entrambi. Non sbagliava un movimento, e continuò a muovere i fianchi in circolo e ad alzarsi e abbassarsi al ritmo giusto finché Bushido non venne; lasciò che l’uomo stringesse la presa su di lui mentre lui la stringeva attorno al suo membro, seguendo il suo orgasmo fino alla fine. Si sollevò lentamente quando il comandante rilassò i muscoli, e lo lasciò libero di scivolare fuori dalla sua presa mentre gli premeva dolcemente le mani sul petto e lo invitava a sdraiarsi.
Bushido seguì il consiglio senza opporre resistenza, lasciandosi andare sul materasso morbido e distendendosi in modo da sciogliere i muscoli. Chiuse gli occhi, trasse un respiro e inalò il profumo d’olio che ormai si era affievolito e si era mischiato all’odore di sesso. L’aria era ancora dolciastra, un po’ pesante, ma non troppo spiacevole. Lui si sentiva intorpidito e si rilassò per recuperare le energie, senza preoccuparsi di ciò che il ragazzino stava facendo.
Quando tornò ad aprire gli occhi, lo vide in piedi accanto al tavolino che richiudeva la fiala dell’olio e la riponeva nel suo supporto, mettendo in ordine e compiendo ogni gesto con cautela per non disturbare il generale. Non si era ancora rivestito, né aveva accennato a lasciare la stanza, perché sapeva che non era suo compito farlo finché non ne avesse ricevuto ordine, ma era bravo a non imporre la propria presenza.
Bushido lo osservò per qualche istante, apprezzando il modo in cui era stato addestrato e pensando che avrebbe dovuto complimentarsene con il re; il dono che gli era stato fatto quella notte era stato di certo gradito. Lasciò correre lo sguardo lungo la schiena del ragazzino, partendo dalle scapole dove i capelli scuri erano leggermente attaccati alla pelle per scendere fino alla linea che separava le natiche, sentendo risvegliarsi il desiderio di affondare di nuovo lì dentro. Si schiarì la gola, e subito Bill alzò la testa e si voltò per tornare al suo servizio. Chinò leggermente il capo per non fissarlo negli occhi, ma mantenne lo sguardo su di lui, pronto ad obbedire ai suoi gesti dal momento che un ordine verbale non sarebbe probabilmente stato compreso, vista la differenza linguistica tra i loro popoli.
Bushido allungò un braccio, facendogli cenno di tornare verso il letto. Bill si mosse rapidamente ma con grazia, raggiungendolo all’istante e rimanendo in attesa della richiesta successiva. L’altro si era seduto sul bordo del materasso e lo stava osservando. Prese tra le dita una delle catene dorate che il ragazzo aveva al collo e la sfruttò per attirarlo ancora più vicino, mentre osservava quanto gli donassero quegli ornamenti quando non aveva altro addosso. Sembravano essere stati scelti apposta per far risaltare la bellezza del suo corpo nudo, per renderlo più desiderabile anche senza la sua veste. Il membro di Bushido si indurì del tutto quando Bill arrivò a toccare il bordo del materasso con le gambe, insinuandosi tra le sue. L’uomo lasciò andare la sua collana per fargli scorrere la mano sul petto e posarla poi sulla pancia, accarezzando il ventre piatto e giocando con l’ombelico con il pollice. Quando ebbe finito di esplorare quel corpo minuto con le dita, si alzò dal letto. Prese il ragazzo per mano e lo fece salire sul materasso. Bill parve intuire subito le sue intenzioni e obbedì all’ordine non ancora espresso di Bushido, inginocchiandosi sulle lenzuola prima di lasciare andare la mano dell’uomo e appoggiarsi con le braccia sul letto, a quattro zampe.
Il generale emise un verso di apprezzamento e prese posto dietro di lui. Ci volle poco perché entrasse di nuovo nel corpo del ragazzo, pronto ad accoglierlo come lo era stato già prima, abile nel riceverlo senza cadere in avanti e inarcandosi nel modo giusto per fargli più spazio. Bushido lo prese con forza, questa volta, e Bill capì che aveva lui il controllo dei loro movimenti. Lasciò che il generale gli tenesse fermi i fianchi e si spingesse dentro di lui al ritmo che preferiva, concentrandosi solo sul contrarre i muscoli attorno all’erezione che lo stava possedendo nel modo che riteneva migliore.
Andarono avanti a lungo, accelerando e rallentando più volte, cambiando angolazione e riempiendo ancora una volta la stanza di sospiri, ansiti e gemiti. Bushido spostò una mano dall’anca del ragazzino al fondo della sua schiena, premendo il palmo contro la pelle e muovendosi lungo la sua spina dorsale continuando ad applicare pressione, in una carezza forte che raggiunse la sua nuca e lo fece abbassare. Bill piegò le braccia e si appoggiò docilmente sui gomiti, aprendosi ulteriormente ad accogliere l’uomo sempre più a fondo. Portò una mano a toccarsi solo quando intuì che il comandante era prossimo al secondo orgasmo di quella notte, e prese ad accarezzarsi, ma non deviò mai la propria attenzione dalle necessità dell’uomo. Quando infine Bushido si riversò di nuovo dentro di lui, Bill si assicurò di accompagnarlo fino alla fine e solo allora si concesse di venire a propria volta, tra le dita, in modo da non sporcare il letto.
Bushido uscì da lui dopo un breve momento, accarezzandogli leggermente un fianco e lasciando poi il ragazzino libero di alzarsi. Recuperò la sua veste rossa e gliela porse, e Bill la indossò obbediente. Il suo compito era finito. Si inchinò di fronte al comandante e piegò la testa al suo cenno di ringraziamento. Non rimase a guardare l’uomo che si metteva a letto prima di avviarsi fuori dalla stanza, conscio che il desiderio dell‘uomo, adesso, era di riposare e non essere disturbato.
Bushido invece lo osservò mentre se ne andava, domandandosi se avrebbe potuto richiedere i suoi servizi almeno un’altra volta nella settimana seguente, prima di rimettere insieme l‘esercito. O magari anche dopo…
Si mise sotto le lenzuola e si sentì pronto a chiudere finalmente gli occhi e lasciarsi alle spalle tutta la fatica delle settimane precedenti. La prima notte di pace era sempre un momento che assaporava con piacere, e il risveglio sarebbe stato molto più appagante di quelli passati. Stava per sdraiarsi quando notò che il ragazzino si era fermato sulla porta, con una mano sulla maniglia e il pesante battente già aperto quel tanto che bastava per farlo uscire. Lo guardò, e si stupì quando lo vide aprire bocca.
"Grazie," lo sentì dire, e lo fissò esterrefatto. Non immaginava che avrebbe sentito la sua voce, quella notte. Non per rivolgersi a lui nella sua lingua, perlomeno. "Per il mio popolo." Era una frase un po’ stentata, ma Bushido la capì perfettamente, stupendosi della sua conoscenza.
Poi la porta si richiuse e Bill era scomparso, lasciandolo da solo perché potesse godersi il riposo che si era meritato.

*


Per organizzarsi davvero, in realtà, c'era voluta quasi una settimana perché Gordon faticava a capire le richieste di Bushido e, anche quando le capiva, queste non venivano poi eseguite nella maniera corretta.
Dopo una serie più o meno grave di equivoci, Bushido aveva fatto sapere al re che sarebbe stata sua premura non solo combattere le tribù ribelli, ma anche insegnare al suo esercito a farlo, cosa che peraltro si rivelò più facile a dirsi che a farsi.
Re Jorg disponeva di un esercito irrisorio in confronto alla grandezza del regno, e considerato che quest'ultimo non era grande, era ragionevole dire che il sovrano non possedesse uomini sufficienti ad assaltare una fattoria.
Quando Gordon gli aveva messo davanti una quarantina di uomini mal assortiti, mal vestiti, la metà dei quali senza armi adeguate, presentandoli orgogliosamente come “il grande esercito di re Jorg II”, Bushido aveva letteralmente girato sui tacchi ed erano tornato nella sua stanza, lasciando Gordon a sorridere come un deficente. Era stato Fler, con un discorso di quasi due ore, inframezzato dalle imprecazioni sempre più colorite di Bushido, a far notare al generale che se re Jorg avesse davvero avuto un esercito degno di questo nome, non sarebbe stato necessario che loro lo addestrassero. Bushido aveva dovuto ammettere che il tenente non aveva tutti i torti e che comunque, quaranta uomini in più o in meno non avrebbero fatto una grande differenza al momento di attaccare, quindi in realtà dare a quel gruppo di contadini rivestiti un addestramento militare serviva più a guadagnarsi la fiducia del sovrano che non a vincere le scaramucce con le altre tribù di contadini rivestiti. E lui aveva bisogno della fiducia di Jorg se voleva utilizzare le sue risorse per rimettere in piedi i suoi uomini.
Il giorno dopo, i quaranta uomini si presentarono ancora una volta nella piazza centrale e Bushido, guardandoli mentre, seduti, si pulivano le unghie dei piedi con dei legnetti, cercò di convincersi di poterne fare qualcosa.
“Non fare quella faccia, alcuni dei nostri non erano poi tanto meglio,” commentò Fler con un mezzo sorriso, guardando nella sua stessa direzione. Bushido si voltò verso di lui con un'occhiata talmente rassegnata che il tenente fece una risatina. “D'accordo, forse erano un pochino meglio, ma potresti prenderla come una sfida, no?”
Bushido sospirò. “Hai già fatto il censimento delle armi?”
“Lo stava facendo Chakuza,” rispose l'uomo, e indicò con un cenno del capo l'altro tenente che veniva verso di loro.
“Dammi delle buone notizie,” lo accolse Bushido, con la faccia di uno che non se le aspettava proprio per niente.
Chakuza ci pensò su un momento. “Dipende. Le fionde sono buone notizie?”
Fler scoppio a ridere, battendosi una mano sulla coscia.
Il Generale si passò una mano sugli occhi. “Sono armati di... fionde?”
“Non tutti,” rispose il tenente. “Alcuni hanno dei bastoni, uno ha una balestra semi-funzionante e due di loro hanno una zappa.”
Fler si mise a ridere ancora più forte.
“Una zappa,” ripeté Bushido. “Nessuna spada?”
“Tre,” annuì Chakuza. “Ma sono spadoni a due mani e nessuno di loro è davvero in grado di sollevarli. E in ogni caso credo che finirebbero per ammazzarsi tra di loro nel farlo. Dobbiamo partire da zero.”
“E dovremo equipaggiarli,” aggiunse il generale. “Abbiamo modo di farlo?”
“Metà del nostro equipaggiamento è andato perso durante la piena di quel fiume poco prima del deserto,” rispose Fler, quando finalmente riuscì a smettere di ridere. “Ma quello che possiamo racimolare sarà sempre meglio di quello che hanno.”
“E c'è un fabbro in città,” suggerì Chakuza. “Potremmo fargli costruire quello che manca. A spese del sovrano, naturalmente.”
Bushido annuì. “Sì, certo, mi sembra una soluzione. Fler, occupatene tu,” ordinò. “Chakuza, tu resta con me. Divideremo il gruppo in due e partiremo con le armi di legno. Se non imparano a gestire quelle, si decimeranno da soli nel giro di due giorni.”
Fler annuì e si allontanò per eseguire l'ordine mentre Chakuza abbaiava agli uomini del re di dividersi in due gruppi. Quelli sussultarono al suono improvviso della sua voce e si raddrizzarono di scatto, guardandosi intorno spaesati finché Gordon non tradusse per loro.
I primi giorni furono sfiancanti per tutti, non solo per gli uomini che si stavano addestrando, ma anche per Bushido e i suoi che sembravano avere a che fare con un branco di scimmie idiote. Qualunque cosa gli venisse chiesto di fare, quelli non sapevano farla. Dopo il terzo giorno consecutivo in cui uomini adulti gli dimostravano di non essere in grado di stare in piedi dritti per più di cinque minuti senza desiderare di accasciarsi sulla prima roccia disponibile, Bushido iniziò a pensare che la natura dovesse fare il suo corso ed estinguerli, in favore di creature più valide e utili.
Dopo una settimana, però, le cose iniziarono visibilmente a migliorare, come se qualcuno dall'alto dei cieli avesse deciso che avevano sofferto tutti quanti abbastanza. Da un giorno all'altro, o quasi, i nuovi soldati rispondevano agli ordini in modo preciso e, sebbene rischiassero ancora di inciampare e trafiggere loro stessi o qualcuno dei compagni, riuscivano almeno a marciare, fermarsi e capire in quale direzione si voleva che andassero.
“Per gli Dei, ce l'hanno fatta,” mormorò Bushido, meravigliato quando il piccolo esercito in miniatura eseguì una manovra accettabile proprio di fronte ai suoi occhi.
“Non credo si tratti degli Dei, quanto di Chakuza,” commentò Fler, addentando una mela. “Il piccoletto fa paura. E poi ne ha picchiati tre qualche giorno fa perché non eseguivano gli ordini.”
“Prego?”
Fler tirò un altro morso alla mela con noncuranza. “Ma sì, due bastonate sulle ginocchia. Sai com'è fatto, che si altera se le cose non vanno come dice lui. Quelli non collaboravano e lui non ha aspettato che Gordon traducesse. Adesso scattano tutti appena apre bocca. Penso abbiano iniziato a capire cosa dice per disperazione.”
Bushido sorrise e poi guardò con soddisfazione i quaranta uomini disporsi in formazione quasi perfetta. L'idea era quella di tenere un bel discorso di incoraggiamento come si conveniva in questi casi, rassicurare le truppe, logiarne i meriti e spronarli a migliorare ancora, ma l'occhio gli cadde sul porticato che circondava la piazza e sulla figurina esile che vi sostava, ben coperta dal sole di mezzogiorno.
“Qui pensaci tu,” disse a Fler senza guardarlo, mentre gli passava le redini del proprio cavallo e si avviava in quella direzione.
“Agli ordini...” borbottò l'altro, con mezza mela in bocca.
Nel vederlo arrivare, Bill chinò il capo in segno di rispetto e si passò da un fianco all'altro il bimbo di tre o quattro anni che teneva in braccio. “Generale,” mormorò con la sua pronuncia stentata. Bushido trovava straordinario che un semplice schiavo e non il re conoscesse la sua lingua.
Certo, conoscere qualche parola doveva tornargli utile nelle camere da letto, dove Gordon di certo non poteva entrare a dargli una mano, ma Bill era molto più avanti di così.
Bushido aveva richiesto la sua presenza altre due volte nel corso delle ultime settimane, e aveva avuto modo di notare che il suo vocabolario era piuttosto ampio e la sua capacità di usarlo abbastanza sviluppata da permettergli di conversare, seppur limitatamente.
“Che cosa ci fai qui?” Chiese. La domanda era stupida e lo sembrò ancora di più nel suonare sinceramente interessata. Quale che fosse il motivo che aveva portato Bill in quella parte della città, non erano di certo affari suoi. Per quanto ne sapeva, non c'erano luoghi vietati agli schiavi, anche se non ne aveva visti molti al campo di addestramento, se non quelli che il re aveva messo al loro servizio, i quali lavavano i loro vestiti, preparavano il bagno e si occupavano di servire i pasti alle sue truppe. Di quelli come Bill, comunque, non ce n'erano mai in giro. Da quanto aveva capito, anche se non li aveva visti, avevano appartamenti a loro dedicati all'interno del castello e da lì non uscivano mai. Ecco perché la presenza di Bill sembrava ancora più strana.
“Facevamo un passeggiata,” si sforzò Bill, indicando il bambino con un cenno della testa.
Il piccolo si girò al suono della sua voce, ma dopo aver dedicato un'occhiata a lui e anche a Bushido, tornò a giocare con i capelli di Bill, come se nessuno dei due uomini lo interessasse minimamente.
Bushido non andava molto d'accordo con i bambini. Non che non gli piacessero o li trovasse fastidiosi, era solo che non sapeva come gestirli o come comportarsi con loro; così si limitò ad accettare con un mezzo sorriso tirato che il bambino se ne fregasse di lui e di chi era girandosi dall'altra parte. “E lui chi è?” Chiese, premendogli una mano sulla schiena per invitarlo a camminare con lui.
Bill obbedì diligentemente. “L'erede al trono,” rispose.
“Figlio del re?”
Bill annuì. Faceva in modo di camminare sempre un passo indietro rispetto al generale, così che la sua ombra magra fosse un po' più in basso rispetto a quella dell'uomo, nonostante fossero alti uguali.
“Anche tu sei figlio del re,” constatò Bushido.
“Lui è un figlio legittimo,” specificò Bill. “La madre è una regina.”
Questo poneva l'intera situazione sotto una luce completamente diversa.
Dunque i figli illegittimi del re erano considerati beni di consumo. Non era strano che un sovrano avesse figli illegittimi, questo no; succedeva anche nel suo regno e Bushido aveva di certo qualche fratellastro o qualche sorellastra in giro per il mondo, che probabilmente aveva anche lo stesso compito di Bill, ma rimaneva comunque insolito che il sovrano ne riconoscesse pubblicamente la partenità, tanto da presentarli come figli propri anche quando li offriva in dono ai suoi ospiti.
“Non ho visto nessuna regina,” constatò ancora il generale, rimuginando su ciò che aveva appena appreso.
“E' morta, signore. Di febbre, due anni fa.”
“Oh, mi dispiace.”
“Grazie, signore.”
Per un po' camminarono in silenzio. Bushido con le mani dietro la schiena e Bill con passo leggero, il bambino sempre ben bilanciato su un fianco. Il generale aveva notato che sulle sue braccia e al collo c'erano ancora i gioielli che aveva indossato la prima volta e anche tutte quelle a seguire. Non ricordava di averlo mai visto senza, se non le volte in cui lui stesso glieli aveva tolti.
“L'esercito fa progressi?” Chiese Bill all'improvviso, e lo fece sussultare.
Una delle cose a cui Bushido non si era ancora abituato era il modo di comportarsi del ragazzo. Aveva l'atteggiamento ossequioso dello schiavo, ma non ne aveva esattamente l'umiltà. Sapeva quando e in che misura doveva aspettare ordini, ma in certi casi – come quel preciso istante e soprattutto molti altri durante le notti passate – era perfettamente a conoscenza di quanto gli fosse concesso prendere l'iniziativa.
Questo, immaginava Bushido, faceva di lui qualcosa di diverso da un normale schiavo, qualcosa che non sapeva nemmeno ben definire.
“Non li definirei progressi,” sbuffò perplesso, “ma è meglio di niente. Alcuni promettono bene, però. Forse riusciremo a passare alle spade vere entro la fine del mese.”
“Questa è una bella notizia,” annuì il moro. “Il regno ha bisogno di difendersi.”
“Non pensavo ti interessasse la politica militare”
“No, m'interessano solo i soldati,” rispose il ragazzo con un mezzo sorriso. “E poi, signore, sta addestrando anche mio fratello, e lui mi racconta cose affascinanti su ciò che succede qui.”
Bushido si fermò lì sul posto, costringendo il ragazzo a fare altrettanto. Per un istante si perse nel rumore vago dell'addestramento che si stava svolgendo qualche decina di metri alle loro spalle, anche se non si stava concentrando abbastanza per distinguere più che le urla di Chakuza e un frastuono insensato quando gli uomini cercavano di eseguire i suoi ordini. “Vuoi dire che uno dei tuoi fratelli e in mezzo a quel gruppo?” Indicò, senza voltarsi.
Bill annuì. “Si chiama Tom.”
Bushido cercò di ricordare se avesse mai sentito quel nome, ma non ricordava niente di simile. Era anche vero che quando Fler aveva cercato di fargli vedere qualcosa che poteva, in effetti, rassomigliare vagamente ad un censimento delle sue nuove truppe, lui era stato molto impegnato ad osservare come quelle si stavano azzoppando a vicenda con i bastoni di legno. Quindi forse qualcosa gli era sfuggito.
“Chiedo scusa, generale,” la voce del ragazzino lo riscosse dai suoi pensieri e dalla pietruzza rossa del mosaico sul lastricato di pietra sul quale aveva fissato gli occhi involontariamente. “Ma devo riportare l'erede nelle sue stanze.”
“Certo, sì,” annuì Bushido, prima ancora di essere tornato completamente al presente. “Va' pure.”
Bill chinò appena il capo e fece in tempo a fare un passo prima che l'uomo lo fermasse di nuovo. Sorrise.
“Ah, Bill?”
“Generale?”
“Potresti...” Ma si fermò, in qualche modo imbarazzato di fronte al bambino che adesso sembrava guardarlo come se capisse.
“Naturalmente, se lo desidera.”
Bushido lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava tra il tintinnare dei suoi braccialetti e pensò che desiderio era una parola fin troppo adatta alla sensazione improvvisa che gli aveva fatto stringere i pugni. L'esercito, doveva pensare all'esercito.

*


Alla fine ci aveva pensato anche troppo a quel gruppo di soldati che ancora faticavano a fare qualunque cosa. Potevano aver imparato a marciare e ad obbedire a Chakuza per puro terrore, ma Bushido iniziava a credere di essersi sbagliato quando aveva pensato che potesse essere giunto il momento buono per mettere loro in mano delle armi serie. Aveva deciso che fosse meglio interrompere l’addestramento quando uno degli uomini di Jorg era stato portato di corsa dal medico con una coscia sanguinante e il colorito cadaverico di chi è sul punto di morire – di paura, però, perché la ferita non era nemmeno lontanamente grave come quelle che si riportavano sul campo di battaglia, ma evidentemente era più di quanto quegli smidollati potessero sopportare.
Così aveva congedato tutti quanti e aveva quasi tirato un sospiro di sollievo nel vedere i soldati che si ritiravano, trascinandosi stanchi per la piazza in direzione dei loro alloggi, o più probabilmente di una locanda dove ubriacarsi. Aveva dato ordine a Chakuza e Fler di rimettere a posto le armi e organizzare gli allenamenti per i giorni seguenti, e poi si era concesso finalmente di rilassarsi. Aveva voglia di togliersi l’armatura e indossare qualcosa di più comodo, ora che non doveva più muoversi su un campo di battaglia, per cui tornò a palazzo pensando che avrebbe potuto farsi portare la cena in camera e farsi preparare un bagno nel frattempo. Sapeva dov’erano le cucine perché Gordon gli aveva fatto fare un giro del castello il primo giorno che aveva trascorso lì. Non era poi tanto grande da perdercisi, e Bushido aveva una buona memoria, per cui trovò immediatamente la stanza giusta e richiese un pasto al primo servo che gli capitò davanti, subito pronto a servirlo. Aveva notato che veniva tenuto in grande considerazione da quando aveva salvato il regno dall’attacco degli El-Fahs, per cui non dovette nemmeno cercare qualcuno che fosse disposto ad andare nelle sue stanze a preparargli il bagno, perché una ragazza si fece timidamente avanti da sola per chiedergli se gli servisse altro.
Quando ebbe dato tutte le disposizioni che riteneva necessarie, tornò nell’ala del palazzo adibita agli ospiti, con l’intento di recarsi nelle proprie stanze per sistemare alcune carte. Non molti giorni prima aveva ricevuto un messaggio nel quale suo padre gli chiedeva come procedessero i piani di conquista, e doveva mandare al più presto una risposta che riportasse la loro situazione perché il re non continuasse ad inviare messi. Era un uomo impaziente, e Bushido detestava sentirsi sotto pressione, specialmente ora che le cose si stavano facendo un po’ più complicate, con l’esercito di Jorg che si rivelava tanto difficile da gestire e lo impegnava più di quanto avrebbe sperato.
Svoltò nel corridoio che portava alla sua stanza e rallentò il passo quando vide una figura minuta uscire da una delle porte. La riconobbe all’istante e si avvicinò con la schiena dritta e un’espressione lievemente meno corrucciata di prima.
“Bill,” lo salutò, fermandosi a pochi passi da lui. Il ragazzo sollevò lo sguardo sorpreso, prima di affrettarsi ad abbassare di nuovo il capo ed inchinarsi profondamente.
“Generale,” mormorò. Quando si alzò di nuovo, si rimise a posto la piccola tunica rossa, sistemandosela addosso con gesti rapidi, come se non fosse certo di essere autorizzato a farlo di fronte all’uomo, ma sapesse comunque di non potersi mostrare impresentabile. Quando ebbe richiuso bene la fibbia che la teneva ferma su un fianco, unì le mani di fronte a sé e attese in silenzio che Bushido dicesse qualcosa o si allontanasse.
“Che cosa ci fai qui?” chiese il generale. Si rese conto che era la seconda volta che gli poneva la stessa domanda, ma era sicuro di non aver richiesto la presenza del ragazzo se non per un paio d’ore più tardi, quando avesse finito di sistemare quelle faccende urgenti e fosse stato pronto a riceverlo e dedicarsi solamente a lui.
Bill continuò a fissare il proprio sguardo a terra e parlò in modo piuttosto chiaro. La sua fluidità nell’usare la lingua di Bushido migliorava considerevolmente quando si trattava di lavoro, segno che il generale ci aveva visto giusto e che il ragazzino l’aveva imparata solo ed esclusivamente per facilitare il proprio compito. “Sono stati richiesti i miei servizi qui, Signore.”
“…Oh.” Bushido si rese conto che il ragazzo era appena uscito da una delle stanze delle sue truppe, davanti alla quale stavano sostando adesso. Per un attimo non seppe bene cosa dire, mentre il ragazzino di fronte a lui sistemava di nuovo qualche piega nella tunica. Raddrizzò un lembo di stoffa che non era al suo posto, scoprendo meglio il petto per mettere in mostra la solita collana di catene, e nel farlo attirò lo sguardo di Bushido sul suo ombelico. L'uomo si permise di far scivolare gli occhi sul ventre piatto e sulla parte dei fianchi che il tessuto rosso non arrivava a coprire, finché non si accigliò e allungò una mano d’istinto. Bill non si ritrasse, come il suo ruolo richiedeva, e lui scostò la tunica per sfiorare la sua pelle con le dita. Sentì i muscoli del ragazzo contrarsi sotto il suo tocco e cercare istintivamente di sfuggirgli quando sfregò piano contro la pelle più arrossata.
“Cosa hai fatto?” domandò Bushido, senza staccare gli occhi dal brutto segno sul fianco di Bill.
“Niente, Signore, devo aver…” Si interruppe, forse perché non trovava la parola adatta, non conoscendola, o per qualche altro motivo. Bushido, intanto, stava scoprendo maggiormente il suo corpo seguendo una scia di segni rossi che gli marchiavano il fianco, l’anca e parte della schiena.
“Con chi sei stato?” chiese all’improvviso, ritirando la mano e guardandolo negli occhi. Bill aveva piegato ulteriormente la testa e adesso stava cercando discretamente di coprirsi di nuovo.
“Signore?” mormorò incerto.
“Chi è che ha richiesto i tuoi servizi questa sera, a parte me?” ripeté il generale. Se era uno dei suoi uomini, voleva sapere quale. Giusto per tenerli d’occhio e non lasciare che si abbandonassero troppo ai piaceri, ecco.
“Il tenente Sido, generale,” rispose Bill, tornando a stringersi le mani in grembo. Bushido sospirò. Avrebbe dovuto parlargli presto; sapeva come tendeva a comportarsi il tenente quando si lasciava andare – cioè sempre, quando gustava la compagnia delle schiave, - e di solito lui lo lasciava fare, non avendo una vera ragione di rimproverarlo. Ma era suo dovere ricordargli che lì erano ospiti del re, e il ragazzo su cui aveva posato le mani era di sangue nobile, per quanto la sua condizione sociale sembrasse poter non richiedere, da sé, particolare rispetto. Sì, la mattina seguente ci avrebbe discusso seriamente.
“Hai altri… impegni, prima di raggiungermi nelle mie stanze?” disse intanto, pensandoci all’improvviso. Bill sollevò la testa con fare sorpreso, come se avesse voluto guardarlo negli occhi, ma ovviamente distolse subito lo sguardo mentre mormorava un “No,” sommesso. Bushido, però, notò che aveva un segno anche sul collo, e prese la sua decisione.
“Vieni con me, allora,” ordinò, e Bill si inchinò in silenzio e si preparò a seguirlo. Il generale si voltò e riprese il proprio cammino verso le sue stanze, senza guardarsi alle spalle perché era sicuro che il ragazzo sarebbe stato un passo dietro di lui ad eseguire il suo comando. Quando raggiunse la porta che dava ai suoi alloggi, la aprì e fece cenno a Bill di entrare per primo. Lui chinò la testa e gli passò accanto, superandolo ed infilandosi nella stanza. Il generale lo seguì e fu accolto da due ragazze che lo attendevano in piedi e composte davanti ad un separé che divideva un angolo della camera dal resto dell’ambiente.
“Il suo bagno è pronto, Signore,” disse una, inchinandosi mentre l’altra la imitava. Lui fece un cenno del capo e loro lasciarono la stanza, chiudendo la porta.
“Vuoi andare a lavarti?” domandò Bushido mentre si avvicinava al supporto per l’armatura che si trovava in un angolo e iniziava a slacciarne i ganci. Bill parve confuso, perché non rispose subito.
“No, Signore,” gli giunse poi la sua voce. “Quello è il suo bagno, io non…”
“Posso farne preparare un altro,” lo rassicurò l’uomo, togliendosi la parte superiore dell’armatura con un sospiro di sollievo, riponendola sul suo supporto e passando poi a slacciarsi i gambali.
“Non si deve preoccupare, generale,” balbettò Bill. L’uomo gli chiese se ne fosse sicuro, per cui proseguì: “A meno che non voglia… che le faccia compagnia.”
Bushido finì di spogliarsi dell’attrezzatura militare e si voltò indossando soltanto un paio di pantaloni di lino. Guardò il ragazzo, che subito abbassò gli occhi a terra e arrossì leggermente, chiedendosi forse se fosse stato troppo diretto o avesse detto qualcosa di sbagliato in qualche modo.
“Non ce n’è bisogno,” lo rassicurò Bushido, poi gli indicò nuovamente il separé dietro al quale lo aspettava il suo bagno caldo. “Vai. Prendi tutto il tempo che ti serve, tanto io ho delle cose da sistemare. Per me farò riempire di nuovo la vasca più tardi.” Usò un tono leggermente più fermo, questa volta, per cui Bill lo prese come un ordine e non esitò oltre. Si inchinò profondamente, ringraziando il generale, e scomparve dietro la tenda in fondo alla stanza.
Bushido sospirò e si passò una mano sul viso; si stava rivelando una giornata infernale, quella. Prendendo un respiro profondo e facendo mente locale, iniziò a mettersi al lavoro sui piani di conquista da mandare a re Ayech il giorno dopo. Doveva aggiornarlo sulla piega che aveva preso la situazione nel regno di Jorg e comunicargli le mosse che avrebbe messo in atto prossimamente. Aveva sempre meno voglia di seguire i piani di suo padre, e immaginò che fosse la stanchezza degli ultimi giorni a non fargli più trovare lo spirito di battaglia che lo guidava una volta. In ogni caso, doveva tornare a pensare seriamente ad una strategia, per cui si aggirò per la stanza in cerca delle carte di cui aveva bisogno per poi mettersi alla scrivania e comporre il messaggio da affidare al messo la mattina seguente.
Mentre passava davanti al separé, gli cadde involontariamente l’occhio sullo spiraglio che lasciava intravedere la vasca. Scorse la figura di Bill dargli le spalle, immersa nel catino di legno, e il suo sguardo seguì la curva della schiena che riusciva a vedere sopra il bordo della vasca. Notò i lividi che iniziavano a formarsi sulla pelle chiara e si accigliò, preparando mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Sido il giorno dopo. Quando vide Bill sussultare leggermente nel sfregarsi un brutto segno sul braccio, distolse lo sguardo e tornò ad occuparsi delle proprie faccende, lasciando che il ragazzo finisse di lavarsi via di dosso il disagio di quella sera.
Quando Bill riemerse da dietro il separé, aveva le punte dei capelli leggermente umide e arricciate, probabilmente per via del vapore, e le guance un po’ arrossate per lo stesso motivo. Si era asciugato e aveva indossato di nuovo la sua tunica e tutti i soliti gioielli, che tintinnarono mentre si avvicinava timidamente a Bushido.
“Generale,” annunciò con voce bassa la propria presenza, e si mise in attesa.
Bushido alzò lo sguardo dal proprio lavoro e si permise di osservarlo per qualche istante. Aveva un aspetto meno… sfatto, ora che si era ristorato con un bagno caldo. Gli fece un cenno in direzione del letto e poi tornò ad occuparsi delle sue carte.
“Accomodati pure. Io ho ancora delle cose da fare,” gli disse. Bill annuì, fece un piccolo inchino del capo e si mosse rapidamente verso il materasso, prendendo posto sul bordo e restando composto e con la schiena dritta ad attendere che il generale richiedesse i suoi servizi. Passò diverso tempo, durante il quale Bushido si concentrò solamente sul proprio lavoro e Bill rimase al suo posto per non disturbarlo. Un servo portò la cena all’uomo e lui la consumò in silenzio, sempre senza interrompere le proprie faccende. Solo quando ebbe mandato giù l’ultimo boccone posò anche la penna nel calamaio, e si alzò distendendo i muscoli leggermente doloranti.
“Vuole un massaggio, generale?” chiese Bill, permettendosi di parlare ora che Bushido non era più concentrato sui suoi compiti. L’uomo emise un verso di apprezzamento e parve pensarci per un attimo.
“Ammetto che sarebbe bello, ma è meglio di no. Preferisco solamente riposare, e tu dovresti fare lo stesso.” Si diresse verso il letto e tirò giù un lembo delle coperte. Bill, intanto, lo guardò confuso.
“Signore?” domandò incerto. Si alzò rapidamente dal materasso e si mise di fronte a Bushido, che si stava invece sedendo. “Che cosa devo fare, per lei?”
L’uomo lo guardò dal basso, soffermandosi sul livido che stava iniziando a coprirgli una piccola parte del collo vicino alla spalla. “Niente,” disse. “Credo che una notte di riposo ti farebbe bene, non pensi? Puoi rimanere qui, e se preferisci domani mattina faremo finta che tu abbia svolto il tuo lavoro.”
Con questo, fece per sdraiarsi e accennare al ragazzo di fare lo stesso, ma Bill lo fissò quasi sconvolto. “No!” esclamò. Arrossì e abbassò il capo in segno di scuse quando Bushido sollevò le sopracciglia. “Voglio dire… Sono pronto a soddisfarla, signore. Davvero. Sono qui per questo.”
Rimase in piedi davanti a Bushido in chiara attesa di un ordine su come muoversi, e lui sospirò di fronte alla sua determinazione.
“Va bene,” si arrese. “Vieni qui.” Allungò un braccio verso il ragazzo e Bill avanzò immediatamente tra le sue gambe, fino ad incontrare il bordo del letto. Lasciò che il generale gli accarezzasse i fianchi da sopra la tunica per poi insinuare le dita sotto la stoffa, stringendogli le anche tra le mani. Bill chiuse gli occhi quando Bushido si chinò a sfiorargli il petto con le labbra, scostando col mento le catene della collana e facendolo rabbrividire quando sfregò la barba contro la sua pelle sottile. Obbedì alla richiesta implicita di Bushido di salire con le ginocchia sul materasso, dettata dal fatto che il generale lo stesse attirando a sé, e si sistemò a cavalcioni su di lui.
Bushido lo strinse con più forza e fece in modo che i loro bacini si scontrassero. Sentì Bill sibilare accanto al proprio orecchio e gli lasciò andare un fianco, scivolando con la mano lungo la sua coscia e risalendo per insinuarsi sotto la veste. Non gliela slacciò, ma si limitò a cercare la curva delle natiche del ragazzo e passare un dito tra di esse, toccando immediatamente la sua apertura. Fece per forzarla, e sentì Bill tendersi sopra di sé, le sue gambe irrigidirsi ai suoi fianchi e il respiro spezzarsi leggermente.
Fu allora che si ritrasse e allentò la presa che aveva sul suo corpo, voltandosi per farlo scivolare sul letto e scostandosi da lui. Bill attese la sua prossima mossa, ma Bushido non ne fece una.
“Riposati,” gli ordinò, tuttavia il suo tono fu gentile. Fece per tirarsi su, ma il ragazzo lo fermò.
“Generale?” Lo guardò con la fronte aggrottata, sentendosi rifiutato.
“Non c’è bisogno che ti sforzi,” gli spiegò Bushido. “Per questa sera non richiedo nulla da te.”
Bill si accigliò, sollevandosi sui gomiti e rifiutandosi di accettare la decisione del generale. Conosceva i propri limiti, e soprattutto sapeva fare bene il proprio lavoro. Lo dimostrò accostandosi al corpo dell’uomo e facendo in modo di sfregare una gamba contro il suo inguine teso.
“Non mi pare che sia quello che desidera, signore,” disse in un soffio. Bushido trattenne per un attimo il respiro e lo lasciò andare quando Bill premette il palmo di una mano contro la sua erezione. Questa volta non oppose resistenza, riconoscendo la determinatezza del ragazzo, e lasciò che insinuasse le dita oltre l’orlo dei pantaloni per raggiungere il suo membro. Sospirò quando lo sentì avvolgervi le dita attorno e seguì l’altra mano che Bill gli stava posando sul petto, sdraiandosi sul materasso. Non poté più negare il proprio desiderio quando il ragazzo iniziò a massaggiarlo, stringendo il pugno attorno alla sua carne e muovendolo con esperienza. Quando le sue labbra si chiusero attorno alla punta, Bushido chiuse gli occhi e si abbandonò al suo tocco, alla lingua che lo avvolgeva e alla mano che completava i movimenti. Si perse nella carezza delle dita di Bill che si spostavano sulla sua coscia per poi scivolare verso l’interno, raggiungendo i testicoli e continuando a massaggiarlo. Si lasciò andare del tutto e godette di ogni attenzione, fino a quando i muscoli del ventre non gli si strinsero, le gambe si tesero e lui venne, permettendo a Bill di continuare a prendersi cura del suo membro fino a quando non tornò a rilassarsi di nuovo del tutto sulle lenzuola.
A quel punto il ragazzo si inginocchiò al suo fianco e chinò la testa composto. Bushido lo ringraziò, ricevendo un breve cenno del capo in risposta, e poi sollevò le coperte.
“Dormi. Domani mattina potrai tornare nelle tue stanze,” disse. Il ragazzo sembrò sul punto di aprire bocca, ma poi ci ripensò. Abbassò lo sguardo e annuì, rannicchiandosi sul letto per occupare meno spazio possibile. Era la prima volta che un soldato decideva di non servirsi di lui come meglio credeva perché lo vedeva provato dai servizi che aveva reso durante il resto della giornata. E soprattutto, era la prima volta che qualcuno se lo teneva nel letto senza essere crollato addosso a lui dopo una scopata piuttosto soddisfacente. Non sapeva come reagire a questa novità, e si sentì un po’ deluso di non essere stato in grado di svolgere il proprio lavoro al meglio come faceva sempre. Evidentemente non si era mostrato abbastanza attraente o convincente se il generale aveva deciso di fare a meno di ciò che poteva offrirgli. Eppure non era mai stato un problema per lui, in precedenza; era sempre stato bravo a sopportare un po’ di fastidio quando un ospite del regno ci andava un po’ pesante. Di sicuro avrebbe svolto il suo lavoro alla perfezione come sempre anche in quella occasione, ben più di quanto aveva fatto in realtà.
Non ebbe tempo di pensarci troppo a lungo, però, perché gli occhi gli si chiusero dopo pochi istanti quando ebbe posato la testa sul cuscino morbido del letto del generale.

*


Il bello di essere un generale, oltre al fatto che era oggettivamente la cosa migliore che potesse capitare ad un uomo della sua età e del suo rango sociale, visto che le alternative erano fare il letterato e fare il prete, era potersi permettere una pausa quando voleva e, generalmente, nella stanza più comoda del posto in cui si trovava. Qualsiasi posto fosse. Nel caso specifico, la stanza da letto che Jorg gli aveva messo a disposizione e che era grande il doppio di qualunque altra stanza fosse toccata agli altri ospiti.
Oltre a permettergli di correrci dentro, giocarci a freccette e probabilmente anche tirare con l'arco, comunque, la camera gli dava modo di tenere, come già detto, anche una scrivania sulla quale sbrigare la posta e, come in quel momento, redarguire i suoi tenenti per il loro comportamento.
I problemi con Sido erano la sua presunzione e la sua prepotenza, ma dal momento che erano due aspetti ben radicati del suo carattere e che aveva ormai trent'anni suonati, Bushido dubitava che lui o qualcun altro potessero in qualche modo cambiare la situazione. Certo le cose sarebbero andate meglio se suo padre non avesse deciso di punto in bianco, a due giorni dall'inizio del viaggio, di farlo tenente, alimentando il suo già smisurato ego, ma c'era ben poco che Bushido potesse fare al riguardo, ergo poteva solo tenerselo così com'era e tentare di limitarne i danni.
“Tu sai perché sei qui?” Chiese, chiudendo il piccolo quaderno sul quale appuntava giornalmente qualsiasi dato potesse avere un qualche interesse per suo padre, così che non avesse da ridire sulla quantità di informazioni che gli mandava nelle copiose lettere che scriveva mensilmente.
Sido stava in piedi non propriamente composto di fronte alla scrivania, ma di questo Bushido non poteva biasimarlo. Era talmente allergico alle formalità militari che tentava di tenerle al minimo quando nessuno poteva vederle. “Presumo di aver fatto qualcosa di disdicevole, altrimenti ne staremmo parlando di fronte ad una pinta di birra, signore,” rispose Sido, calcando su una formalità che i suoi tenenti non usavano mai se non era proprio necessario o, come in questo caso, se non venivano ripresi per qualcosa di grave.
Se si fosse trattata di una sciocchezza, sarebbero stati in una taverna, del resto. Bushido conosceva Sido da vent'anni e se doveva dirgli qualcosa, generalmente lo faceva senza perdere troppo tempo con convocazioni e gradi. Il punto era che se non avesse usato il suo grado adesso, lui non avrebbe capito l'importanza della questione, visto l'argomento.
“La nostra permanenza qui è necessaria,” esclamò il generale, cercando volutamente di ignorare la sua strafottenza per rendere quel colloquio il più breve possibile. “Al momento non possiamo fare molto altro, e lo sai bene. La tua noia, però, non giustifica il tuo comportamento.”
“Non capisco a cosa si riferisce, signore.” Ma Sido non sembrava affatto sorpreso. Anzi, a giudicare dall'espressione sul suo viso, Bushido poteva immaginare che sapesse perfettamente di cosa stavano parlando.
“Mi riferisco al ragazzo che era con te ieri sera,” precisò, trattenendosi a stento dal pronunciarne il nome. Sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi di Sido.
“Pensavo che ci fosse concesso usare gli schiavi.”
Bushido annuì, giocando con il pennino che teneva tra le dita. “Sì, naturalmente,” concesse, “ma questo non ti dà il diritto di maltrattarli.”
Sido spostò il peso da un piede all'altro, appoggiando l'avambraccio sull'elsa della spada che portava al fianco destro. “In tutta onestà, signore, non ritengo di aver fatto niente di male. Ho forse calcato un po' la mano, ma niente che il ragazzino non potesse gestire. E' ben addestrato.”
“Gradirei,” insistette il generale, “che ti comportassi in maniera più civile con la servitù.”
L'uomo sgranò gli occhi. “Sono soltanto schiavi,” gli fece notare, come se la cosa in sé fosse già una motivazione sufficente a giustificare il suo comportamento, il che in effetti lo era. Bushido era consapevole di non avere basi per dargli addosso come avrebbe voluto.
“Sono figli del re,” precisò.
Sido serrò le labbra ed espirò violentamente dal naso. “Con tutto il dovuto rispetto, signore,” replicò. “La sovranità di Re Jorg non sarà rilevante anc-”
“Tu ti comporterai civilmente con tutti gli abitanti di questo castello,” Bushido lo interruppe con violenza, alzandosi di scatto e riuscendo a sovrastarlo nonostante i pochi centimetri di differenza, “compresi gli schiavi che ti porti a letto, e questo perché noi non siamo dei barbari. ”
Sido lo fissò dritto negli occhi.
“Mi hai sentito, soldato?”
Sido rimase in silenzio, la mascella serrata.
“Ho detto: mi hai sentito, soldato?”
Il tenente annuì. “Sì, signore. Ho sentito.”
Bushido rimase a fissarlo ancora per un po' e poi riprese a sistemare la sua scrivania, senza più degnarlo di uno sguardo. “E ora fuori di qui. Non hai del lavoro da fare?”
“Sì, signore. Agli ordini.”
Il generale aspettò di sentire la porta sbattere e poi sbuffò un sospiro infastidito. Si lasciò andare seduto e si passò una mano sul viso. Era già stanco e non erano nemmeno le undici del mattino.

*


L’addestramento delle truppe reali era diventato presto l’attrazione popolare più intrigante del regno. Naturalmente, non tutti potevano assistervi, dal momento che gli allenamenti si tenevano all’interno delle mura del castello, ma chi viveva a palazzo finiva sempre a trovarsi ai bordi del campo per dare un’occhiata all’esercito straniero che insegnava agli uomini di Jorg come combattere. C’era chi si radunava proprio ai margini dell’area di addestramento, e chi invece preferiva lanciare qualche occhiata furtiva da lontano, come faceva spesso Bill.
Quel pomeriggio era stata Natalie ad insistere perché lui la accompagnasse in giardino. Anche lei era affascinata dagli ospiti del regno e da quello che si sentiva raccontare di loro a palazzo, e la possibilità di vederli finalmente durante il loro addestramento quotidiano la intrigava molto. Aveva supplicato Bill di portarla fuori appena avesse avuto del tempo da dedicarle, e lui aveva deciso di approfittare di un momento in cui la ragazza sarebbe stata affidata a lui per accontentarla. Se doveva essere sincero, lui stesso si era ritrovato più volte a passeggiare in quel giardino solo perché dava una buona vista del campo di addestramento militare. Da dove si erano seduti lui e Natalie, riusciva a scorgere perfettamente i soldati che marciavano con ordine e i gruppi individuali che si allenavano al combattimento. Il tenente Chakuza era al centro del campo di terra battuta, ad abbaiare ordini e mostrare il modo corretto in cui svolgere gli esercizi, mentre il generale percorreva lentamente il perimetro sorvegliando l’allenamento. Da quello che suo fratello gli aveva raccontato, sembrava che Bushido fosse un uomo paziente che assisteva ad ogni lezione e si esibiva lui stesso in dimostrazioni pratiche quando i soldati non riuscivano ad eseguire gli ordini. Bill era rimasto affascinato dalla sua costanza, e vederlo lì sul campo a vigilare sull’operato dei suoi uomini gli faceva rispettare la sua figura. Rispetto che andava ad aggiungersi a quello che aveva provato nei suoi confronti qualche sera prima.
“I soldati di Ayech sono molto bravi, vero?” sentì la ragazzina che si voltava verso di lui al suo fianco. Bill abbassò lo sguardo su di lei e annuì.
“Sì, sono ben addestrati e molto forti. È grazie a loro se non siamo più in guerra con le tribù, in questo momento,” le ricordò. Natalie sorrise e poi tornò a guardare il campo con ammirazione.
“E adesso anche i nostri soldati saranno forti come loro?” chiese ancora. Lui rise piano.
“Presto dovrebbero esserlo, sì,” concordò. “E tra un paio d’anni, anche tu ti metterai al loro servizio.”
“Perché non subito?”
Bill si voltò sorpreso, cercando di capire da dove fosse arrivata quella voce. Sussultò leggermente quando vide la figura che li osservava a qualche metro di distanza, sotto il portico che conduceva al giardino.
“S-signore?” domandò, piegando la testa in segno di deferenza e stringendo involontariamente la mano della ragazzina seduta al suo fianco. Sido avanzò sul prato per raggiungerli, procedendo con passi lenti e con una mano posata mollemente sull’elsa della spada che teneva al fianco.
“Questa bella ragazza non è già al servizio degli ospiti del regno?” chiese il tenente, rivolgendo un sorriso storto a Natalie che lo osservava curiosa cercando di non farsi notare. “Sarebbe uno spreco, se così non fosse.”
Bill deglutì, e intanto si alzò per potersi inchinare a Sido e conversare con lui nella postura più consona. “Mia sorella è ancora troppo piccola, signore,” mormorò. “Non ha ricevuto l’educazione necessaria, sarà pronta solo tra qualche anno.”
“Oh, ma a me non interessa che sia stata educata o meno. Ti assicuro che non è un problema,” ghignò l’uomo. Allungò una mano e accarezzò i capelli della ragazza, che tenne il capo chino come le si conveniva.
“No!” esclamò Bill. Sido ritrasse leggermente le dita, sorpreso, e si voltò a guardarlo. Sollevò un sopracciglio e per un attimo sembrò divertito e curioso, ma presto i suoi lineamenti si indurirono, oltraggiati. “Non-“ Bill esitò, abbassando immediatamente lo sguardo in segno di scuse. “Sono le regole del regno, signore.”
Il tenente parve incline a lasciar correre la leggera irriverenza di prima. Tuttavia, non lasciò cadere l’argomento.
“Con quale autorità mi parli di regole? Sono un tuo superiore, per quanto ospite di tuo padre, e per quello che mi riguarda, potrei prendermi questa ragazzina anche subito, se volessi.” Riprese a far scorrre le dita lungo i capelli di Natalie, fino a sfiorarle il mento e sollevarle il viso. Poi, però, volse la propria attenzione a Bill. “Oppure potrei prendere te, che effettivamente sei più bello e hai più esperienza. Almeno non dovrei poi occuparmi di piccole… seccature, se le regole a cui accennavi dovessero essere vere.”
Il ragazzo fissò lo sguardo sulla punta degli stivali di Sido, così vicini ai suoi piedi scalzi per via della prossimità dell’uomo, che avrebbe potuto sfiorarlo con un movimento minimo.
“Come desidera, signore,” rispose con un breve inchino. Quando sentì la mano del tenente posarsi sul suo fianco, scostò docilmente il braccio per permettergli di toccarlo come meglio credeva. Lui ne approfittò per tirarlo a sé e iniziò a trascinarlo verso il porticato, cercando una nicchia che fosse leggermente più appartata, ma soprattutto che avesse una parete contro la quale appoggiare Bill.
“C’è qualche regola sul dove dovrei averti?” domandò Sido con un ghigno mentre lo spingeva contro il muro di pietra, chiaro indice che delle regole gli importava ben poco. “Altrimenti pensavo di farlo qui. Sai, ho una certa fretta, e potrebbe far bene all’educazione della ragazzina, non credi?” Accennò a Natalie, che era rimasta accanto alla panca e li osservava dal giardino, senza perdere d’occhio Bill.
Il ragazzo non rispose, e neanche Sido gliene avrebbe lasciato il tempo, perché subito gli ordinò di slacciarsi la tunica mentre faceva scorrere le mani sulla pelle già scoperta delle braccia e delle gambe, in attesa di poterle insinuare anche sotto la stoffa. Quando Bill ebbe sganciato la fibbia sul fianco, l’uomo infilò immediatamente le dita tra i lembi dell’indumento e li aprì, andando ad accarezzargli con forza i fianchi nudi.
“Girati,” gli disse brusco, e ritrasse il palmo che gli aveva posato su una natica solo per permettergli di obbedire. Quando Bill si fu appoggiato al muro, riprese a toccarlo, sentendosi già pronto a prenderlo senza neanche averlo spogliato del tutto. Scostare la tunica sarebbe bastato.
“Tenente!”
Sido strinse per un attimo la presa sulla pelle chiara di Bill, così forte che lo sentì tendersi per un istante sotto le dita. Poi lo lasciò andare e si raddrizzò.
“Comandante,” disse tra i denti, facendo un cenno del capo in direzione dell’uomo che lo stava raggiungendo a grandi passi.
“Ti aspettavo al campo almeno venti minuti fa,” ruggì Bushido, e si fermò di fronte a lui. Il suo sguardo cadde sulla figura di Bill che si stava coprendo mentre si esibiva in un inchino di saluto, e abbassò la voce ad un sibilo. “Cosa stavi facendo?”
“Non è abbastanza chiaro?” sbuffò Sido, e non riuscì ad impedirsi un ghigno e un’occhiata al ragazzo, che si teneva la tunica chiusa con una mano senza però accennare a riallacciarne la fibbia, forse in attesa che qualcuno gli indicasse di poterlo fare. Lui, di certo, non glielo avrebbe ordinato.
Riportò lo sguardo su Bushido quando il generale gli si avvicinò di un passo, quasi minaccioso.
“Non ne abbiamo discusso solo l’altro giorno?” ringhiò. “Stai sfidando la mia pazienza e la mia autorità, Sido.”
Lui si trattenne a malapena dal roteare gli occhi. Raddrizzò la schiena in una posa più composta, ma soprattutto che raggiungesse l’altezza di Bushido.
“Non ho fatto niente di riprovevole, comandante.” Sostenne lo sguardo del generale finché lui non si voltò ad osservare di nuovo Bill. Rimase in silenzio per qualche istante, poi parve prendere una decisione.
“Ti aspettavo al campo venti minuti fa,” ripeté, questa volta in tono più basso. “Se vuoi concederti la compagnia di uno schiavo, lo fai quando non sei in servizio.” Sido non disse nulla. Serrò la mascella e attese che il suo comandante proseguisse. “Vai a dare il cambio al tenente Pangerl.”
Il tono non ammetteva repliche, per cui l’uomo non poté ribattere. Capì che la questione era chiusa e si limitò a superare Bushido per avviarsi verso il campo.
“Tu!” sentì ancora il generale che si rivolgeva al ragazzo. “Vieni nelle mie stanze appena terminano gli addestramenti. Richiedo i tuoi servizi fino a domattina.”
Stringendo il pugno sull’elsa, Sido accelerò il passo e svoltò un angolo.

*


Bushido si lasciò cadere sul materasso con un sospiro soddisfatto e un po’ stanco. Bill lo seguì per la seconda volta quella sera, concedendosi appena un istante per riprendere fiato prima di tornare padrone dei propri sensi e prepararsi ad obbedire alle prossime disposizioni del generale. Quel pomeriggio aveva riaccompagnato sua sorella a palazzo e poi aveva dedicato l’ora sguente a prepararsi per prestare servizio tutta la notte come gli era stato richiesto. Era tornato in giardino per osservare il campo di addestramento e valutare quanto ci sarebbe voluto prima che gli allenamenti si concludessero, poi si era presentato davanti alle stanze di Bushido pochi minuti dopo che lui vi era tornato, come ordinato. L’uomo l’aveva accolto approfittando all’istante della sua presenza. Se l’era tirato contro e poi l’aveva di nuovo spinto indietro appena era riuscito a chiudere la porta, premendosi contro di lui per inchiodarlo al legno massiccio. Non aveva fatto troppa pressione perché aveva ancora indosso l’armatura, ma gli aveva subito ordinato di aiutarlo a toglierla. Bill aveva obbedito come la prima volta che l’aveva servito, slacciando i ganci e rimuovendo ogni protezione che il generale gli aveva fatto lasciare a terra, senza prendersi la briga di andare a riporla ordinatamente sul suo sostegno. Una volta libero dal peso del ferro, si era spinto di nuovo contro il ragazzo e aveva aderito completamente al suo corpo, cercando una delle sue gambe con una mano per fargliela sollevare. Bill l’aveva avvolta subito attorno alla sua vita e gli aveva dato modo di spingersi contro di lui come avrebbe voluto, e Bushido ne aveva approfittato per sfregare l’inguine contro il suo e permettere alla propria eccitazione di raggiungere l’apice.
Alla fine l’aveva preso lì contro la porta, sollevandolo e sostenendolo con le braccia mentre si spingeva dentro di lui senza avergli nemmeno tolto o slacciato la tunica rossa. Gli aveva raccolto la stoffa intorno ai fianchi scoprendo le cosce, e poi aveva cercato la sua apertura quasi alla cieca. Si era preso il minimo tempo indispensabile per assicurarsi che fosse preparato come sembrava esserlo sempre, poi era affondato dentro di lui facendolo inarcare contro il legno della porta. Aveva stretto i denti quando l’aveva sentito contrarsi attorno a sé e non aveva fatto altro che aumentare la forza delle proprie spinte ogni volta che Bill stringeva i muscoli, in quello che avrebbe potuto essere un riflesso involontario o forse solo una mossa ben studiata che faceva parte della sua educazione ed esperienza. Era difficile dirlo.
Non si era fermato finché i muscoli delle braccia non avevano iniziato a bruciare per lo sforzo, già provati dal resto della giornata, e solo allora si era spostato fino al letto. Aveva lasciato cadere Bill sul materasso, dove aveva rimbalzato leggermente, e questa volta si era fermato ad aprire la tunica e sfilargliela, gettandola di lato per averlo nudo sotto di sé. L’aveva accarezzato in un unico gesto rapido e deciso, e poi con quella stessa mano l’aveva afferrato per un fianco e gli aveva fatto passare l’altro braccio sotto la schiena, sollevandolo nuovamente e tirandoselo in grembo, invertendo le posizioni. L’aveva guidato finché Bill non l’aveva di nuovo accolto dentro di sé e l’aveva lasciato muovere solo per i primi minuti, osservando il modo in cui ondeggiava i fianchi sopra di lui. Poi aveva ripreso il controllo e l’aveva mantenuto fino a quando non erano venuti entrambi, fino a quando non era riuscito a spingere il ragazzino fino al limite e gli aveva ordinato di lasciarsi andare per poterlo seguire, per rendere ancora più piacevole quegli ultimi attimi.
Dopo, Bushido si era fatto portare la cena in camera come era diventata spesso sua abitudine, e aveva ordinato che fosse preparato qualcosa anche per Bill. In realtà, si era poi perso sul corpo del ragazzo mentre attendeva che le serve salissero dalle cucine a portargli il cibo, e nella sua bocca poco prima che bussassero alla porta. Dopo aver cenato, l’aveva preso ancora una volta, facendolo voltare e osservando per tutto il tempo la curva della sua schiena e il solco che ne disegnava la linea della colonna vertebrale.
Ora che aveva momentaneamente placato il proprio desiderio, e la frenesia inspiegabile che l’aveva assalito nel momento in cui aveva preso la decisione di richiedere la presenza di Bill per quella sera, si permise di sciogliersi contro le lenzuola fresche del letto e di riposare un po’. Sentì Bill muoversi dopo pochi istanti, forse pronto ad alzarsi e sistemare la camera come aveva fatto la prima volta, per concedergli di rilassarsi indisturbato senza la sua presenza al fianco, ma lo fermò prima che potesse mettersi a sedere.
“Resta qui,” disse con voce ferma, e lui parve prenderlo come un ordine, perché seguì docile la mano che Bushido gli aveva avvolto attorno ad un braccio e tornò a stendersi vicino a lui. Rimase in attesa, aspettandosi ulteriori istruzioni o anche solo una mossa dell’uomo, ma lui non fece nulla. Non gli chiese di muoversi né si stese su di lui, e nemmeno accennò a voler iniziare qualcos’altro. Semplicemente se lo tirò un po’ contro e se lo tenne al petto con una mano posata mollemente sul suo fianco, le dita che gli accarezzavano ogni tanto la pelle morbida. Bill si irrigidì per un istante, ma poi seguì il movimento lento di quelle carezze e si concesse di lasciarsi andare sul materasso come lui.
“Che cosa fai durante la giornata?” chiese improvvisamente Bushido, dopo qualche istante di silenzio teso – almeno da parte di Bill, che non sapeva cosa fare non avendo ricevuto ordini. Il ragazzo parve confuso, per cui il generale proseguì. “Intendo, quando non stai… lavorando. Prestando i tuoi servizi come questa sera.”
Bill cercò il modo migliore di spiegarsi. “Faccio quello che mi viene richiesto, signore. Spesso aiuto nell’educazione dei mei fratelli e sorelle.”
“Quindi sei un insegnante?” indagò il generale, e il suo tono sembrava sinceramente curioso.
“No, signore,” rispose lui, e abbassò leggermente la voce e il capo come se si vergognasse. “Generale, io sono solo-“
“Anis,” lo interruppe Bushido. Bill ebbe per un attimo l’impulso di alzare lo sguardo e fissarlo nel suo, sorpreso, ma si trattenne. Non nascose tuttavia la sua confusione, e intravide l’uomo che sorrideva. “Mi chiamo Anis. Non c’è bisogno che continui a chiamarmi signore o generale, possiamo fare a meno delle formalità. Finché siamo solo noi due, almeno,” aggiunse alla fine. Il ragazzo non sapeva come rispondere, per cui si limitò a piegare la testa in cenno di assenso, un po’ incerto.
“Allora, dicevi che non sei un insegnante?” riprese il discorso Bushido.
“Esatto, sign-“ Si interruppe quando la presa dell’uomo sul suo fianco si fece leggermente più salda, e arrossì mentre si correggeva. “Anis… Mi occupo solo dell’educazione dei ragazzi. Sa, per prepararli a mettersi al servizio dei soldati e degli ospiti del regno.”
“Oh…” Bushido non seppe commentare in altro modo, e parve prendersi qualche istante per assimilare la risposta che aveva appena ricevuto. Poi tornò a parlare con un’altra domanda. “E’ da molto tempo che fai questo lavoro? Voglio dire, quando hai iniziato?”
“S-Sei anni fa, se ho contato bene…” mormorò Bill, sembrando un po’ insicuro della propria risposta. A quel punto Bushido si chiese quanti ne avesse lui, e quando glielo chiese scoprì che ne aveva compiuti a malapena una ventina. Emise un mormorio comprensivo, poi lasciò finalmente cadere la conversazione. Non sapeva nemmeno lui perché si stesse interessando tanto alla vita del ragazzo. Forse voleva solamente capire meglio quale fosse il modo di pensare in quel regno, le sue usanze e credenze. Era molto diverso da casa sua, e per questo stava cercando di conoscerlo meglio. Ultimamente aveva perfino provato ad imparare la lingua del posto, aiutato da Gordon e da alcuni libri che lui e il re gli avevano procurato. Era stato difficile capirne la struttura, ma forse ora iniziava a padroneggiare un po’ la grammatica di base. Aveva comunque ancora dei problemi con il vocabolario e soprattutto con alcune pronunce, che erano molto diverse da quelle della propria lingua.
“Ehi, ti andrebbe di aiutarmi con una cosa?” chiese all’improvviso, ricordandosi di una parola che non era riuscito a leggere durante i suoi studi la sera prima e sulla quale si era intestardito per ore.
“Certo, signore,” rispose immediatamente Bill, sorpreso ancora una volta dalla facilità con cui il generale cambiava argomento e gli poneva domande quella sera. Bushido sospirò e gli rivolse un sorriso mentre si alzava sui gomiti, sporgendosi verso il tavolino accanto al letto per recuperare un libro.
“Davvero, non c’è bisogno che ti rivolgi sempre a me con tanta deferenza. Anzi, ormai puoi anche darmi del tu, se vuoi.”
Bill piegò leggermente la testa da un lato. “Darle del…?”
Lui annuì. “Sì. Usare un tono un po’ più informale.”
“Oh,” capì il ragazzo. “In realtà…” Esitò un po’, alzandosi anche lui a sedere sul materasso quando Bushido si appoggiò alla testiera del letto. “Non so parlare così bene la sua lingua, Anis. Non saprei come usarla diversamente.” Abbassò lo sguardo quando pronunciò per la seconda volta il nome del generale. Era strano, per lui, avere il permesso di chiamare qualcuno per nome mentre era in servizio.
“Capisco,” disse Bushido, e sembrava pensieroso. “Magari potrei insegnartelo, un giorno…” Poi lasciò di nuovo perdere la cosa, tornando con la propria attenzione al libro che aveva tra le mani. “Ecco, guarda. L’altra sera stavo cercando di leggere questa frase, e ho provato un sacco di volte a decifrare questa parola, ma proprio non ci riesco. Sai dirmi come si pronuncia?” Porse il libro al ragazzo, tenendoglielo aperto alla pagina giusta e indicandogli con la punta dell’indice la parola in questione. Bill non lo prese, ma rimase immobile al suo posto a fissare le lettere vergate in nero sulla carta spessa, accigliandosi leggermente. Dopo un po’, tornò a fissare lo sguardo sulle lenzuola, chinando il capo e lasciando che alcune ciocche dei capelli scompigliati gli ricadessero davanti al viso.
“Cosa c’è?” domandò Bushido, aggrottando la fronte e continuando a tenere il libro nella stessa posizione. Poi abbassò leggermente il braccio. “Non è una parola della tua lingua?” Magari era per quello che non era riuscito a decifrarla; poteva essere un termine straniero, forse adottato dal linguaggio di una delle tribù vicine. Magari non era lui che non riusciva a capire.
Bill, però, si rigirò nervosamente un lembo del lenzuolo tra le dita.
“Non lo so, Anis,” mormorò. “Io… non so leggere.”
Bushido aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Non ci aveva pensato, eppure aveva un senso; non sempre i servi erano istruiti, e probabilmente non si riteneva necessario che sapessero leggere visti i compiti che dovevano svolgere. Il fatto che Bill avesse imparato la sua lingua non voleva dire niente, soprattutto perché aveva ammesso lui stesso che l’aveva fatto soltanto perché a volte gli tornava utile quando si trovava a servire ospiti del regno. Si riprese il libro e fissò la parola che gli aveva dato tanta pena fino a quel momento.
“Be’, magari puoi aiutarmi lo stesso,” esclamò alla fine, rompendo il silenzio un po’ imbarazzato nel quale si era chiuso il ragazzo dopo la propria risposta. Lo vide sollevare lo sguardo confuso e gli sorrise per l’ennesima volta in modo rassicurante. “Potresti riconoscere la parola se provo a leggere quel poco che ne capisco. Vai a orecchio,” gli spiegò. “In due magari ci riusciamo.”
Quando fu sicuro che il ragazzo aveva capito, tentò nuovamente di decifrare quel termine oscuro. Ci vollero diversi tentativi, durante i quali Bill si limitò dapprima ad ascoltarlo con la fronte aggrottata e un’espressione incerta sul viso, poi iniziò a suggerire parole che assomigliavano sempre di più ai suoni che pronunciava il generale. Alla fine sembrò trovare quella giusta, e Bushido si rese conto che aveva perfettamente logica inserita in quel contesto.
“Finalmente!” esultò, e vide Bill sorridere insieme a lui. Gli lesse la frase per intero, ed ebbe la conferma del ragazzo che era esatta. Allora distese ulteriormente le labbra e posò il libro sul materasso, voltandosi verso di lui. Sollevò una mano per scostargli i capelli dal viso e gli accarezzò una guancia pallida. “Grazie,” gli disse, e lo fece nella lingua di Bill, sempre con un sorriso morbido sulle labbra. Lui non fece in tempo a rispondere perché la bocca di Bushido trovò la sua.
Si lasciò stendere nuovamente sul letto e aprì le gambe per permettere al generale di sistemarsi tra di esse. Questa volta, quando Bushido entrò dentro di lui le loro lingue si stavano cercando.

*


L'esercito di Bushido avrebbe dovuto rimanere nel regno solo per qualche settimana, che si era poi trasfromata in un mese e poi in due, finendo, per un motivo o per l'altro, per prolungarsi ulteriormente. Mentre segnava un’altra croce sul calendario, Bushido si rese conto che erano lì da quasi tre mesi e mezzo, ormai, e che il tempo era volato anche troppo velocemente.
I suoi soldati si erano lamentati del posto per tutte le prime settimane, perché il regno di lord Jorg era situato proprio in mezzo al deserto ed era piccolo e arretrato, assolutamente privo di qualsiasi interesse per un gruppo di uomini nel fiore degli anni abituati ai fasti di Tunisi, ma poi, lentamente, si erano adattati – anche perché Bushido aveva ignorato qualunque lamentela – e non dubitava che qualcuno di loro avrebbe chiesto di rimanere, una volta che le cose sarebbero state sistemate. Probabilmente avrebbe dovuto pagare qualche congedo, qualche matrimonio o l'arrivo di qualche erede, come capitava sempre quando ci si fermava troppo a lungo in un posto in cui ci fossero delle donne. E, per l'appunto, Jorg gliene aveva fornite una scorta.
Anche l'addestramento dell'esercito locale procedeva bene, anzi, meglio di quanto avesse sperato. Alla quarantina di uomini iniziali, se n'era aggiunto un altro centinaio, provenienti dalle altre tribù che, una dopo l'altra, erano state rimesse al loro posto. Ora Jorg disponeva di un'intera compagnia, perfino in grado di marciare e sedare con una certa organizzazione una ribellione di piccole dimensioni, come quella che si era scatenata la settimana precedente a Zaghouan, un paesino appena qualche chilometro più ad est rispetto a dove vivevano gli El-Fahs. Gli abitanti del villaggio avevano attaccato e ucciso gli esattori delle tasse, quindi avevano occupato la città, rifiutandosi di riconoscere l'autorità del re.
Bushido l'aveva trovata un'occasione perfetta per testare sul campo il nuovo esercito e, già che c'era, far fare un po' di moto a quello vecchio che stava mettendo su qualche chilo – lo specchio, peraltro, cominciava ad essere impietoso perfino con lui. Così aveva preso il battaglione di re Jorg e metà dei propri uomini, affidandoli al comando di Chakuza.
C'era voluta soltanto mezza giornata per fare irruzione attraverso le porte di legno sprangate e rimettere la situazione sotto controllo. Era anche morta poca gente, e solo perché si era intestardita col voler attaccare i soldati. Bushido era sostanzialmente una persona paziente, ma c'era un limite al numero di sassate che poteva sopportare. Quando la folla inferocita si era lanciata verso l'esercito per la terza volta, aveva dato l'ordine di reagire. D'altronde, non poteva rischiare di perdere uomini per colpa di un branco di contadini.
Il piccolo esercito di Jorg si era comportanto più che bene. Evidentemente, l'addestramento impartito a forza di urla era servito a qualcosa. Una volta rientrati in città, i nuovi soldati avevano festeggiato con i vecchi, orgogliosi della propria impresa, anche se non esattamente epica. Il tutto mentre Jorg faceva giustiziare su pubblica piazza il capo dei rivoltosi che era stato portato al suo cospetto come prigioniero da giudicare.
Bushido non era stato molto d'accordo sull'esecuzione sommaria, ma aveva potuto fare ben poco per impedirla, dal momento che era stato avvertito quando ormai dell'uomo non rimanevano che le ceneri. Chakuza era arrivato in camera sua correndo, per avvisarlo che Jorg aveva deciso di saltare il processo e passare direttamente alle vie di fatto; il tutto era avvenuto mentre lui e gli altri tenenti si godevano un momento di meritato riposo. Il risultato era stata una gran puzza di carne bruciata e tanti cari saluti ad un sistema giudiziario civile e doveroso.
Quando Jorg era venuto da lui a rallegrarsi per l'ottimo lavoro compiuto con le truppe e per esprimere il proprio sollievo nel sapere di essersi liberato di un ribelle, Bushido gli aveva fatto notare che forse l'uomo, per quanto colpevole, avrebbe avuto diritto ad essere giudicato e poi, nel caso, magari imprigionato; Jorg, però, lo aveva liquidato con una pacca sulle spalle, esclamando che era davvero un cuore tenero. “I rivoltosi vanno sedati subito e con forza,” aveva esclamato nella sua lingua piena di consonanti, battendosi il pugno sulla mano aperta. “Schiacciati come formiche!” E poi se n'era andato fischiettando, con altre due pacche sulle spalle al generale e l'invito a trovarsi una compagnia piacevole per la notte.
Bushido, però, non aveva seguito il consiglio perché aveva avuto questioni urgenti di cui occuparsi e, per quanto l'idea di Bill nelle sue stanze fosse molto allettante, non aveva potuto rimandarle.
Doveva ringraziare l'impegno della sera precedente se adesso il messaggero lo trovava sveglio ad occuparsi dei riepiloghi settimanali, invece che assonnato e senza la minima idea di dove fosse e di come si chiamasse, con il corpo dello schiavo avvinghiato al suo, esattamente com'era successo spesso negli ultimi tempi, complice la cena e soprattutto il vino, che ormai spesso accompagnavano la presenza di Bill in camera sua.
Non che la cosa lo disturbasse in generale, ma il messaggero era stato mandato da suo padre Ayech e da suo padre doveva tornare; c'erano buone probabilità che, oltre a consegnare la posta, quell'uomo dovesse anche riferirgli come andavano le cose ed era meglio che non gli desse l'opportunità di aumentare l'impazienza e il nervosismo del re.
“Generale!” Esordì il messaggero, sull’attenti.
Bushido annuì e lo liquidò con un gesto veloce della mano, mentre appuntava ancora qualcosa sul suo quaderno. “A riposo, soldato.”
Il messaggero batté i tacchi ma ubbidì, frugando subito nella propria borsa. “Ho qui una missiva da parte di suo padre, signore” annunciò. “Sua maestà le fa sapere che è urgente e che richiede risposta immediata, signore.”
Il che significava leggere il papiro del vecchio e rispondergli su due piedi, perché il ragazzo non se ne sarebbe andato se non con in mano un nuovo rotolo di papiro da consegnare al re.
La scrittura di suo padre era un guazzabuglio di segni poco riconoscibili perché quell'uomo non si era mai davvero preso la briga di imparare a scrivere decentemente. Sosteneva che per quello c'erano gli scribi e che quello che lui doveva imparare a fare era dirigere le truppe, vincere le guerre e generare figli maschi che guidassero l'impero per lui quando sarebbe morto in battaglia, con tanto onore e gran profusione di lacrime, naturalmente. Per il momento, gli era riuscito soltanto di guidare l'esercito, perché di figli maschi aveva avuto solo lui, il quale si chiedeva da anni perché non li usasse, questi benedetti scribi che dovevano scrivere, invece di mandargli paginate di geroglifici. Strinse meglio il foglio e cercò di inclinarlo di tre quarti con disinvoltura, nel tentativo di trovare un senso a quello che c'era scritto sopra. Fortunatamente, aveva passato l'infanzia a decifrare i messaggi che il padre gli faceva avere durante l'addestramento per ricordargli di non fallire, pena il disconoscimento e la perdita di ogni beneficio, una cosa che sua moglie non gli avrebbe permesso comunque, dal momento che amava Bushido più di quanto amasse il marito.
Il tono della lettera era sbrigativo e nient'affatto amichevole, quindi del tutto nella norma.
Suo padre non sprecava tempo e spazio a chiedergli come stava, né a dargli anche una sola vaga idea della situazione in cui versava il regno, che lui non vedeva da quasi un anno e che, a conti fatti, poteva anche essere distrutto. In sostanza l'intera lettera si riduceva ad una sequela di ordini e l'invito a darsi una mossa con la questione primaria che lo aveva portato in quella zona, o sarebbe venuto lui stesso ad occuparsene. E Bushido questo non lo voleva perché Ayech non aveva altro modo di occuparsi delle cose se non distruggendole, e lui non aveva esattamente programmato la questione in quel modo.
Arrotolò in fretta la lettera, prese un foglio nuovo e buttò giù due righe, chiedendo a suo padre come stava e sottolineando con ironia che tutte quelle informazioni che gli aveva dato sul resto della famiglia e del regno lo avevano quasi soffocato, che la prossima volta, magari, poteva riassumere in modo da rendere il tutto più sostenibile. Quindi lo rassicurò che tutto era pronto e che avrebbe portato a termine la propria missione nei tempi prestabiliti. Firmò, sigillò col proprio apposito simbolo e quindi consegnò il tutto al messaggero nel giro di una ventina di minuti.
Il ragazzo era scattato di nuovo sull’attenti. “C'è qualcosa che devo riferire, signore?” Chiese, vedendo che Bushido si era alzato dalla scrivania e, apparentemente si preparava a lasciare la stanza.
“No, direi che nella lettera c'è scritto più o meno tutto,” rispose, e poi sospirò. “E ora datti una mossa, prima che parta lui stesso per venirsi a prendere di persona la risposta.”
Il messaggero batté i tacchi e si allontanò.
Non gli restava che avvisare Fler e mettere in moto le cose. Così imboccò il corridoio che portava alle loro camere, le mani dietro la schiena e lo sguardo pensieroso. Salutò con un cenno del capo un soldato che gli veniva incontro con la mano alla fronte, ma passò oltre senza considerarlo.
Bussò alla porta della stanza di Fler tre volte senza ottenere risposta, prima di decidere che un'entrata a sorpresa era giustificata in un simile frangente.
Spalancò la porta in modo da fare rumore e scoraggiare qualunque tipo di attività, mentre si annunciava con un potente: “Tenente Losensky!” guardando dritto davanti a sé.
Quello che ne seguì fu il muoversi sgangherato di qualcuno nel letto e poi la figura seminuda del tenente Fler che sbucava sull’attenti da sotto le lenzuola. “Comandi!”
Bushido si trattenne dal passarsi una mano rassegnata sul viso per mantenere un minimo di contegno. Lui spediva a suo padre la certezza che avrebbero agito, e intanto i suoi uomini fidati dormivano all'alba delle undici di mattina. “Esci immediatamente da quel letto,” ordinò, avviandosi verso la scrivania per darsi qualcosa da guardare. “E per l'amor di Dio, fallo vestito.”
Il tenente alle sue spalle riuscì a mettersi, imprecando, almeno i pantaloni, quindi si schiarì la voce per richiamare l'attenzione del suo generale. Bushido si voltò, preparandosi a mantenere la faccia seria, e scoprì che non avrebbe poi dovuto sforzarsi tanto per riuscirci.
Il suo sguardo ignorò Fler che cercava di darsi un tono e le due schiave nude che erano alle sue spalle e stavano faticosamente cercando di districarsi l'una dall'altra e dalle lenzuola nelle quali erano annodate; ignorò l'intera scena per posarsi sulla curva della schiena di Bill, ancora pigramente appoggiato ai cuscini viola del letto. I suoi capelli erano sciolti e scarmigliati, sparsi ovunque proprio come li aveva visti appena il giorno prima.
“Signore?” Lo chiamò Fler, che ne aveva approfittato per afferrare anche una maglia, già che c'era.
“Che cosa stavi facendo?” Sibilò il generale.
Fler si accigliò, sollevò un sopracciglio, poi l'altro, aprì e chiuse la bocca inclinando la testa di lato nel tentativo di trovare una risposta accettabile a quella domanda senza dover necessariamente dire che stava dormendo nel tentativo di farsi passare la sbornia e di riprendersi da quella che era stata probabilmente la migliore notte di sesso della sua vita, ma non trovò niente di sensato da dire, così improvvisò. “Dormivo,” esclamò, e quando Bushido lo guardò come a dargli la possibilità di correggersi prima che fosse troppo tardi, aggiunse, “E' stata una serata... affollata.”
Le due ragazze si inchinarono rispettosamente di fronte al Generale e, rivestitesi in fretta, si misero buone in un angolo, in piedi, in attesa di ordini. Bushido non si mosse mentre Bill le seguiva, muovendosi deciso ma lento a gattoni sul letto. Si scostò i capelli dal viso e deglutì, strizzando gli occhi. Quando sollevò lo sguardo e notò il generale, si svegliò di colpo e si affrettò a rassettarsi, tenendo la testa bassa.
“Siamo... Sono un po' confusi,” commentò Fler, vagamente a disagio non tanto per la situazione in cui era stato trovato – non era certo la prima volta – ma perché Bushido non parlava, che fosse per dirgli cos'era venuto a dirgli o per rimproverarlo. Fissava soltanto i tre schiavi che faticavano a stare perfettamente dritti come al solito. “C'è stato del vino, ieri sera, e ci siamo divertiti parecchio,” colpo di tosse, “non so se mi spiego. Le ragazze non erano abituate e lui... beh, lui neanche, a dire il vero. Il che non dovrebbe sorprendermi perché non è esattamente il tipo di fisico che regge l'alcol.”
“Stai zitto,” ordinò Bushido, senza voltarsi.
“Sto zitto,” annuì Fler, schiarendosi poi la voce.
Bushido continuava a fissare il ragazzo con insistenza, tanto che Fler si sentì quasi ignorato.
Lo stesso generale, in effetti, si rese conto di stare esagerando, ma non riusciva a staccare gli occhi da Bill per mille motivi diversi, uno più irrazionale dell'altro, e il fatto che se ne rendesse conto rendeva la cosa ancora più assurda. Inannzitutto, avrebbe dovuto sapere che Bill serviva gli altri soldati così come serviva lui, quindi trovarlo nella camera del suo tenente non avrebbe dovuto irritarlo in quella maniera. Solo che lo aveva avuto per le mani così tante volte, negli ultimi tempi, che gli sembrava evidente che il ragazzo fosse una sua scelta personale. I suoi uomini avrebbero dovuto capire altrettanto. Nessuno si sarebbe mai sognato di montare il suo cavallo, quindi non vedeva perché dovessero... D'accordo, Bill non era un cavallo, ma il paragone calzava perfettamente.
Non poteva dare la colpa di questa situazione a Bill che, essendo un bravo schiavo, non si sarebbe mai permesso di far notare a qualcuno che era al servizio del generale se quel qualcuno decideva di prenderselo. C’era una sorta di regolamento non scritto per il quale erano gli altri a non doversi azzardare, non lui a doversi negare. Il punto era che Bushido non era troppo sicuro di aver reso chiara la situazione.
Fler si schiarì la voce da qualche parte alla sua destra, e lui fu costretto a distogliere lo sguardo dal ragazzo, che comunque teneva la testa china e non lo guardava. “Generale?”
“Ti ho detto di stare zitto,” commentò Bushido in automatico e poi, finalmente, si voltò. “Ho delle questioni urgenti da discutere con te.”
Aveva fatto in modo di calcare sulle due parole fondamentali – questioni urgenti – e Fler capì al volo di cosa si trattava, tanto che annuì immediatamente. “Certo, naturalmente.”
Bushido indicò i tre in un angolo con un gesto del capo, ma senza guardarli. “Che cosa ci fate ancora lì, voi? Andate!” Esclamò severo. Bill e le due ragazze si affrettarono a recuperare gli ultimi vestiti e ad uscire dalla stanza, senza correre, ma a passo svelto.
Il generale aspettò che la porta si chiudesse prima di rilassarsi leggeremente e Fler, di fronte a lui, rilasciò il fiato che stava trattenendo per mantenersi impettito. “Odio le formalità,” borbotto il tenente.
“Non ti farebbe male essere formale, ogni tanto,” sbottò il generale, burbero. “E magari porti dei limiti, già che ci sei.”
Fler sollevò un sopracciglio. “Era il mio giorno libero, signore.”
“Ieri,” specificò Bushido.
Fler tossicchiò.
“La prossima volta che ti chiamo a rapporto e ti trovo in questo stato, ti metto in consegna un mese...”
“Signore...”
“... per ogni persona che ti trovo nel letto,” concluse Bushido, guardandolo storto.
“Ma...”
“... due mesi a persona.”
Fler sospirò. “Sì, signore.”
Bushido si ostinò a guardarlo male ancora per qualche minuto e poi si ricordò che era lì per qualche motivo. Tutto sommato, la lettera di sollecito di suo padre non era poi così ingiustificata. “Ho ricevuto una lettera di mio padre, questa mattina. Vuole che acceleriamo i tempi o verrà qui di persona, ed è una cosa che vorrei evitare.”
“Non ne dubito,” commentò il tenente. Ricordava ancora con orrore il periodo passato sotto gli ordini di Ayech e non ci teneva a ripeterlo ora che era riuscito a passare sotto il comando del figlio. Inspirò nel tentativo di liberarsi la testa dal dopo-sbronza e dal dopo-nottata in generale. “Quali sono gli ordini?”
Bushido si guardò intorno per la stanza e poi individuò un gruppo di grossi fogli arrotolati in un angolo. Ne tirò su un paio finché non trovò quello che gli serviva e lo distese sulla scrivania del tenente. “In questa stanza c'è troppa confusione, tenente,” commentò mentre osservava la piantina che aveva davanti agli occhi con molta attenzione. “Quanti uomini ci sono al castello?” Chiese.
“Quaranta, più i dieci lungo il perimetro,” fu la risposta.
Bushido annuì. “Raddoppia il numero. E voglio uomini qui,” indicò sulla mappa “qui e anche qui. Fai in modo che sia graduale, nessuno deve accorgersi di nulla.”
Fler annuì. “Farò entrare gli uomini in piccoli gruppi e ne farò uscire una parte. La gente noterà il viavai e non si renderà conto di quanti uomini sono rimasti all'interno.”
Bushido annuì, sempre intento a guardare la cartina. “Voglio uomini ai quattro angoli della città e un'intera squadra che controlli l'esercito locale. Non voglio nemmeno dover ingaggiare battaglia con quei disgraziati, teneteli fermi e basta. Chiaro? L'ultima cosa che mi serve è un gruppo di patrioti improvvisati che mi costringe a far fuori tutti.”
Fler prese mentalmente nota.
“Tu, Chakuza e Sido sarete a cena con il re e la corte, insieme a me. Quando sarà passato abbastanza vino, chiuderemo le porte e a quel punto sarà fatta. Una volta preso Jorg, la città cadrà di conseguenza. E nel caso non lo facesse....” Bushido sospirò. “Saremo preparati all'evenienza.”
“Quando agiremo?”
“Stanotte,” rispose Bushido.
Fler boccheggiò, ma si riprese quasi subito. “Stanotte?” Esclamò. “Ci vorrà più di una giornata per mettere in moto le cose.”
“Allora ti converrà muoverti subito,” commentò Bushido, continuando a scrutare la cartina. “Siamo stati qui senza far niente fin troppo a lungo. Facciamola finita.”
Il tenente annuì. “Certo, signore.”
Il rumore improvviso li costrinse entrambi a girarsi, ma nessuno dei due vide la ciotola rotonda che era caduta a terra e ancora girava, troppo impegnati a fissare Bill che l'aveva lasciata cadere e che li guardava sconvolto e spaventato insieme.
“Bill...” azzardò Bushido, senza muoversi come di fronte ad un animale colto di sorpresa e sul punto di scappare ad ogni minimo gesto. “Cosa ci fai qui?”
Bill deglutì. “Sono venuto per...” Scosse la testa, come a cercare le parole, ma le mani gli tremavano mentre raccoglieva il vassoio e un piccolo bracciale che era stato proprio accanto alla ciotola, prima che li buttasse in terra entrambi. “....avevo lasciato....” Agitò il gioiello, come se fosse una spiegazione migliore. “Il braccialetto. Volevo riprenderlo.”
Bushido piegò la testa di lato, come se lo stesse studiando. “Da quanto sei qui?” Chiese.
“Da poco, signore,” deglutì Bill, “solo qualche istante. Il tempo di far cadere la ciotola, signore.”
Ma Bushido seppe che mentiva l'istante esatto che iniziò a parlare. Da quando lo conosceva, Bill non aveva mai avuto quell'espressione sconvolta negli occhi, né aveva mai tremato tanto alla presenza sua o di uno dei suoi uomini. “Bill,” lo chiamò, ma quando fece un passo avanti Bill lesse nei suoi occhi quanto lui aveva letto nei suoi e fece per imboccare la porta e scappare. Bushido gli fu addosso subito, fermandolo prima che potesse lasciare la stanza. Lo placcò da dietro, stringendoselo addosso e tappandogli la bocca con una mano. “Chiudi la porta,” ordinò a Fler, mentre trascinava dentro la stanza il ragazzino che scalciava e si agitava nel tentativo di liberarsi.
Quando Fler ebbe eseguito, Bushido lasciò la presa e il ragazzino si precipitò subito contro la porta, nella speranza di riuscire ad aprirla, ma il tenente era proprio lì davanti e allora si rintanò nell'angolo, lontano dai due uomini, appoggiando la schiena al muro e guardando alternativamente prima l'uno e poi l'altro. “Lasciatemi andare,” e Bushido non si stupì di sentirlo chiedere, invece che pregare.
Il generale cercò di avvicinarsi, ma Bill si schiacciò ancora di più contro il muro e afferrò la prima cosa che si trovò sotto mano, ossia uno di quei bastoni su cui venivano avvolte le pergamene. Forse non molto lungo, ma abbastanza pericoloso se lo prendevi nel viso, e Bill lo stava brandendo come un randello. Così Bushido restò lì dov'era e sollevò entrambe le braccia. “Bill, calmati,” esclamò “Nessuno ti farà del male.”
“Tu sei un traditore,” lo accusò, l'accento che riaffiorava prepotentemente per la rabbia, dopo mesi in cui era quasi sparito del tutto.
Bushido sospirò; non è che avesse grandi giustificazioni da dare, e non aveva mai creduto a quelle che il padre rifilava di solito in occasioni del genere: vi porteremo la cività, l'organizzazione, il vostro regno fiorirà come non lo avete mai visto prima. Cazzate. Se tutto andava bene, il regno di re Jorg sarebbe diventato un avamposto militare per il rifornimento delle truppe. La città era sulla costa, quindi comoda per preparare le truppe prima di imbarcarle e spedirle a conquistare i territori aldilà del mare e questo era stato l'obbiettivo di suo padre fin dall'inizio. Ne avrebbe fatto una sorta di accampamento stabile, di quello che c'era non sarebbe rimasto più niente.
“Mio padre si fida di te!” Esclamò Bill, continuando a fissarlo con tanto di quell'odio negli occhi, che Bushido avrebbe potuto esserne respinto quasi fisicamente. “Ti ha trattato bene! Eri suo ospite!”
“Bill, ti prometto che né a tuo padre né a voi verrà fatto alcun male,” gli assicurò Bushido, sperando che questo potesse essere sufficiente almeno a calmarlo, se non a farsi perdonare.
Si fece avanti di nuovo, per tentare di disarmarlo, ma Bill si spinse avanti, brandendo il bastone sopra la testa con gesti secchi e scordinati. “Sei un infame!”
Bushido lo intercettò a metà del movimento, fece leva sul bastone stesso e mandò Bill a ribaltarsi sul letto poco distante. Quindi lasciò andare quell'arma improvvisata e fermò il ragazzino che si era rialzato e cercava di colpirlo. “Ti prego, Bill, calmati ora!” Esclamò, fermandogli i polsi. Fler si fece avanti per dargli una mano, ma Bushido scosse la testa. “Stai indietro. Ci penso io.”
“Lasciami!” Sibilò il ragazzino. “Lasciami, ho detto!”
“Bill,” il generale forzò la presa e lo costrinse a star fermo, se non voleva farsi male. “Guardami!Non ho altra scelta, credimi! Ma farò in modo che nessuno si faccia male. Andrà tutto bene!”
Bill si fermò e il generale quasi sospirò di sollievo, ma il ragazzino lo aveva fatto solo per poterlo guardare con più disgusto e con più ferocia. Esclamò qualcosa nella sua lingua, qualcosa che Bushido non comprese, e poi gli sputò dritto in faccia, senza mai abbassare lo sguardo.
Bushido imprecò e lo lasciò andare in malo modo.
“Chiudilo dentro,” ordinò a Fler, pulendosi il viso con la manica della maglia. “E facciamola finita.”
Quando uscirono nel corridoio, sentì Bill battere inutilmente le mani contro la porta sprangata, strinse i pugni e passò oltre. Non c'era ritorno, adesso.

*


Bill aveva urlato, battuto contro la porta, aveva perfino pensato di calarsi dalla finestra, ma la stanza si trovava a quasi dieci metri da terra e le lenzuola, legate insieme, coprivano soltanto metà strada e dubitava che un volo di cinque metri potesse servire a lui o a suo padre.
Affacciandosi, aveva tentato di attirare l'attenzione di qualcuno che potesse aiutarlo, per scoprire che nel cortile non c'era più uno solo dei soldati di suo padre, ma soltanto quelli di Bushido. E nessuno dei servi. Cominciava a capire come sarebbero andate le cose.
Bushido aveva fatto in modo che suo padre fosse ben distratto dalla cena e dai soliti bagordi che ne seguivano e intanto, mentre tutti erano intenti a cenare, i suoi uomini avevano lentamente sostituito quelli di re Jorg, e adesso il castello era praticamente già preso. Anzi, era praticamente sempre stato loro, visto che l'esercito di suo padre era in mano a Bushido da quasi tre mesi.
Maledizione! Si preparavano da tanto di quel tempo, forse erano arrivati lì solo per quello, e Bill si sentiva un idiota all'idea di tutto ciò che aveva pensato di Bushido e dei suoi uomini senza sospettare assolutamente niente. E suo padre...
“Maledizione!” Sbraitò nella sua lingua, tirando l'ennesimo calcio alla porta. Ci andò a sbattere con entrambe le mani e col corpo. “Aiuto! Mi sentite? Sono chiuso dentro! Il castello è in pericolo! Mi sentite? Fatemi uscire di qui!”
Bill smise di battere contro la porta quando si rese conto che non stava ottenendo più risultati che a calarsi dalla finestra e schiantarsi al suolo. Si lasciò scivolare a terra e sospirò, immaginandosi quello che stava succedendo. In quel momento, probabilmente, suo padre si stava sedendo a tavola con il generale e i suoi tenenti, c'era musica e un sacco di cibo che andava avanti e indietro per gli ospiti. I suoi fratelli e le sue sorelle erano seduti in un angolo sui cuscini e si tenevano pronti per la serata nel caso qualcuno avesse richiesto la loro presenza in camera da letto. Forse qualcuno di loro si era accorto che lui mancava – dovevano per forza averlo fatto, visto che si era guadagnato con fatica il suo posto centrale – ma nessuno di loro poteva muoversi per venirlo a cercare visto che non era permesso alzarsi e lasciare la stanza.
O forse si era già ben oltre. Forse Bushido aveva già messo in atto il suo piano schifoso e adesso la sala era già piena di sangue. Vedeva già suo padre sgozzato e gettato in un angolo mentre Bushido ne prendeva il posto e i suoi soldati violentavano le sue sorelle e i suoi fratelli. Il generale gli aveva promesso che non avrebbe fatto del male a nessuno, ma quanto valevano le promesse di un uomo che aveva già tradito la sua parola una volta?
Si alzò di nuovo in piedi e riprese a battere sul legno con entrambe le mani e con il bastone che aveva usato come arma poco prima. Forse non era tutto perduto, forse era ancora in tempo, se solo fosse riuscito ad uscire di lì!
Con l'ultimo colpo, il bastone gli scivolò via di mano e andò a colpire un vaso alle sue spalle mentre una scheggia gli si conficcava in un dito. “Cazzo!” Imprecò, agitando la mano e saltellando in maniera ridicola su un piede solo per il dolore. Si portò la mano alla bocca, cercando di togliere la scheggia con i denti.
“Bill?”
Il ragazzo smise di saltellare e guardò la porta con aria perplessa, succhiandosi il dito ferito.
“Bill, sei tu?”
“Natalie!” Esclamò, e sorrise al pensiero della sorellina dall'altra parte della porta. “Oh, grazie al cielo, sei qui! Sono chiuso dentro, devi tirarmi fuori!”
Natalie ridacchiò. “E cosa ci fai chiuso là dentro? Non è la stanza del generale, questa?”
Bill contò fino a dieci, socchiuse gli occhi e inspirò per calmarsi. “Te lo spiego dopo, d'accordo?” Disse, cercando di mantenere la voce calma e rassicurante. “Ora fammi uscire di qui.”
Sentì trafficare dall'altra parte, ma non successe niente.
“Natalie?”
“Non ci sono le chiavi e la porta non si apre,” esclamò la ragazzina, tirando la maniglia e facendo tremare la porta senza alcun ulteriore risultato.
Bill appoggiò la testa al legno e sospirò di nuovo. “Questo lo so, Nat. Devi trovarle tu le chiavi.”
“E dove?”
“Il fabbro,” le spiegò. “Ha la copia di ogni singola chiave.”
“Non me le darà mai.”
Bill strinse i pugni e digrignò i denti. “Trova il modo, Nat. Recita, d'accordo? Ti ho insegnato a farlo. Digli che uno dei soldati è rimasto chiuso in una stanza. Puoi farcela!”
Ne seguì una lunga pausa in cui pensò che la sorella se la fosse data a gambe in preda al panico, ma poi la ragazzina rispose. “Okay, d'accordo.”
“Corri e non farti vedere dai soldati stranieri.”
“Cosa?”
“Fa' come ti ho detto e muoviti.”
Quando la sentì correre via, si lasciò andare di nuovo a terra e sperò di riuscire a liberarsi prima che Bushido avesse portato a termine il suo piano.

*


Bushido era nervoso.
L'operazione sembrava semplicissima e, come ogni operazione semplice, rischiava di finire male per via di un'incognita non calcolata. Erano più le battaglie perse per la convinzione che fossero un gioco da ragazzi che non le guerre combattute senza un vero e proprio ordine. La fortuna tendeva ad aiutare quelli che tentavano imprese folli, non quelli come lui che avevano un regno già in mano e gli sarebbe bastato chiudere le dita per impossessarsene. A quelli come lui la fortuna generalmente mandava un colpo di scena quasi alla fine.
“Vuole dell'altro vino, generale?” Chiese una voce.
Bushido si riscosse dai suoi pensieri e si guardò intorno, per capire da dove provenisse. Davanti a lui, Gordon sollevò un sopracciglio e gli indicò la schiava con la caraffa di vino alla sua destra. “Un altro po' di vino, generale?”
Bushido guardò la ragazza e quella sorrise, accenando a versargli il vino, così sorrise vago e diplomatico e lasciò che quella gli riempisse il bicchiere.
“La vedo un po' distratto questa sera,” continuò Gordon con un sorriso dietro alla sua coscia di pollo. “C'è qualcosa che la turba, generale?”
Bushido rivolse la propria attenzione all'uomo, cercando di mantenere sotto controllo anche ciò che avveniva nella stanza. Sido, Chakuza e Fler erano seduti al tavolo con lui, ma c'erano dieci uomini fuori dalla sala pronti ad entrare al momento opportuno. All'interno non c'erano guardie del re, soltanto i suoi figli, Gordon e una ventina di ospiti disarmati secondo la regola della casa.
Lui sedeva alla destra del sovrano, a non più di venti centimetri dalla sua gola, e sarebbe toccato a lui dare il via alla sequenza di azioni – sperava velocissima – che avrebbe portato alla conclusione della storia e alla felicità di suo padre.
“Niente di particolare, no,” rispose a Gordon. “Sono solo un po' stanco.”
“L'addestramento delle truppe richiede moltissima energia, immagino.”
Bushido annuì, sforzandosi di mangiare qualcosa. “Molta più di quella che sembra, sì.”
Gordon spezzò un pezzo di pane e annuì con convinzione. “Sa, anche io ho rischiato di fare il soldato,” lo informò. “Ma mia madre ha impedito a mio padre di farmi intraprendere la carriera militare, sostenendo che sarei sicuramente morto presto con la mia costituzione e il cielo sa quanto avesse ragione, visto che sono molto cagionevole. Non vi ammalate spesso voi, vero?”
Bushido lo stava ascoltando con un orecchio solo, del tutto disinteressato alle questioni personali dell'infanzia del traduttore. Tra l'altro, sorridergli e fingere interesse con metà della faccia mentre con l'altra teneva d'occhio la stanza lo avrebbe senza dubbio portato ad una paralisi. “Non molto, no,” rispose, vago.
“Lo sospettavo. D'altronde, se così fosse, sarebbe difficile mandare avanti una guerra con metà dell'esercito in infermeria per l'influenza,” continuò Gordon. “Quando, esattamente, vi è permesso rimanere a letto?”
“Quando siamo morti,” fu la risposta secca di Sido, che aveva scostato indietro la sedia per allungare le gambe e stare più comodo. “Nell'esercito non c'è malattia, soltanto gente che muore.”
Gordon lo guardò colpito, sgranando gli occhi. “Certo, immagino che sia una vita difficile,” commentò, deglutendo a disagio.
Sido allungò un braccio per battergli una mano sulla spalla. “Non s'immagina nemmeno quanto. Meglio starsene chiusi fra quattro mura, dia retta a me,” rise. “E' molto più sicuro.”
Bushido gli lanciò un'occhiata storta, ma poi lasciò perdere. Se non altro Gordon si era zittito, il che permetteva a lui di concentrarsi.
Quattro serve vestite di niente, nessuna figlia del re, fecero nuovamente il giro della tavola per riempire i bicchieri degli ospiti, i quali cominciavano a dare i primi segni di cedimento. Ad un capo del tavolo c'era chi parlava ben più forte del necessario, e qualcuno si era già alzato in piedi per importunare le cameriere.
Il re accanto a lui aveva perso interesse nelle loro discussioni e non chiedeva più da almeno mezz'ora che gli venisse tradotta ogni parola. Beveva più di quanto mangiasse e ogni volta che una ragazza gli passava di fianco, gli finiva in grembo prima di poter proseguire, esattamente il genere di atteggiamento che Bushido si aspettava da lui. Tra non molto sarebbe stato così fuori di sé da consegnarsi personalmente se solo lo avessero fatto arrestare da una schiava nuda con una corda in mano.
Sido gli lanciò un'occhiata e ad un suo cenno, lentamente, si alzò da tavola mordendo una mela. Chakuza, Fler e Bushido fecero la stessa cosa, e a quel punto Gordon alzò la testa per capire cosa stesse accadendo. La musica non si fermò, né lo fecero gli altri ospiti, troppo presi dalle loro conversazioni ubriache per potersi rendere conto di quattro uomini che si alzavano in piedi.
“Qualcosa non va?” Chiese Gordon.
Bushido non gli rispose e si voltò verso Chakuza, che fischiò al gruppo di soldati appena fuori dalla porta, i quali fecero immediatamente irruzione, entrando e disponendosi ordinatamente per tutta la stanza mentre due immobilizzavano il re prima che potesse effettivamente rendersi conto di cosa stesse accadendo.
Nel vedere i soldati entrare armati e prendere il re, alcune delle schiave e parte degli ospiti si misero ad urlare. I figli di Jorg si strinsero gli uni agli altri, i ragazzi più grandi che facevano scudo a quell più piccoli, ma nessuno di loro aprì bocca o accennò a dare segni di panico. C'era in loro la stessa dignità del padre, che era in piedi, le mani legate dietro la schiena, e fissava Bushido rabbioso. “Generale, esigo delle spiegazioni,” disse nella sua lingua, ma non ci fu bisogno di Gordon perché Bushido lo capì benissimo e, per farglielo sapere, gli rispose nella sua lingua.
“In nome di mio padre, re Ayech di Tunisi, io, Anis Youssef Mohamed Ferchichi I, prendo il comando di questo regno.”
Jorg lo fissò, sorpreso di sentirlo parlare nella sua lingua, e anche Gordon lì accanto spalancò la bocca, incapace di dire qualunque cosa.
“Non opponete resistenza e non vi succederà niente,” continuò Bushido, rivolgendosi a tutti i presenti, sebbene piano e con qualche incertezza. “Non abbiamo alcuna intenzione di fare del male a qualcuno.”
Intanto i suoi soldati facevano il giro della stanza, legando gli ospiti e gli schiavi in piccoli gruppi.
“Voi non potete fare questo,” esclamò Jorg, aggrottando le sopracciglia cespugliose con l'aria di chi è ancora convinto, nonostante una sala piena di soldati nemici, di avere ancora in mano la situazione e di poterne uscire, se non vivo, per lo meno vincitore. Bushido apprezzava quel tipo di atteggiamento.
“Con che diritto...?” Aggiunse Gordon, incurante del fatto che nessuno gli aveva dato il diritto di parlare.
“Con il diritto che noi siamo in cinquanta e voi in due,” tagliò corto Sido, tirandolo a sé nello stringergli le corde intorno ai polsi.
Jorg capì perfettamente quando uno dei soldati gli puntò un pugnale alla gola per ribadire il concetto e si lasciò legare, senza mai staccare gli occhi da Bushido. “Hai tradito la mia fiducia,” esclamò, e nella testa di Bushido rieccheggiarono le stesse parole pronunciate da Bill. “E pagherai per questo.”
Il generale era troppo preso dalla somiglianza nella determinazione e nel modo di parlare tra Bill e suo padre per potersi curare della minaccia. Aveva visto la stessa identica rabbia e lo stesso tradimento nei loro occhi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, che se avesse pensato di rinunciare – come aveva in effetti deciso ad un certo punto degli ultimi mesi – suo padre sarebbe arrivato con le catapulte, a distruggere la città pezzo per pezzo, consapevole che gli sarebbe costato ben poco ricostruirla, e se anche avesse voluto mettersi contro di lui, e non ce n'era davvero motivo per quel piccolo buco, lui e i suoi uomini non sarebbero durati due giorni. Con quella piccola manovra, nessuno si era fatto male e forse avrebbe potuto contrattare con Ayech, magari le cose potevano sistemarsi. Magari...
A quel punto avrebbe dovuto farlo chiudere in cella, giusto per sistemare l'insediamento e decidere cosa fare, ma fu allora che l'incognita di cui vagheggiava all'inizio della serata fece irruzione urlando nella stanza con tutto il fiato che aveva e i capelli neri scompigliati.
Bill si abbattè con forza sulla prima guardia che si ritrovò davanti, brandendo una spada più grande di lui e troppo pesante perché potesse davvero fare dei danni. L'uomo, colto di sorpresa come quasi tutti nella stanza, si fece colpire di striscio ad una gamba, ma fu abbastanza perché si accasciasse al suolo come un sacco vuoto, e Jorg ne approfittò per tirare una testata sul naso dell'uomo che lo tratteneva e colpirne altri due quando si fecero sotto. Per un attimo ci fu il caos. Bushido percepì contemporaneamente le urla di sostegno degli schiavi di Jorg e il grugnito delle guardie che venivano colpite, mentre guardava Bill non riuscendo a capire come potesse trovarsi lì.
Il ragazzino continuava ad avanzare, minacciando chiunque con la spada, e nessuno dei soldati era riuscito ancora ad avvicinarsi abbastanza da togliergliela di mano.
L'intera sala si era animata di gente pronta a combattere in ogni modo possibile per sostenere l'entrata di Bill e il salvataggio del re. Non erano in molti quelli che potessero davvero fare qualcosa, ma il frastuono prodotto dalle urla era già abbastanza per creare confusione.
Nel caos generale, Bushido riuscì a percepire la vibrazione finissima che precedeva il disastro. Fu come un tremito, l'istante prima che accadesse. “Che nessuno si muova!” gridò, riuscendo a gettare il re a terra, ma quando gli puntò il coltello alla gola per tenerlo fermo, Bill si gettò verso di lui.
Fu una corsa di qualche passo, il tempo di sentirlo gridare di no e poi uno dei soldati, spaventato che potesse fare qualcosa, lo colpi con la spada alla schiena e Bill cadde a terra, con un tonfo talmente sordo e pesante che a Bushido si mozzò il respiro.
L'attimo dopo era calato il silenzio. Completo e quasi solido, come può esserlo solo dopo un grande frastuono.
Bushido deglutì, un ginocchio sulla schiena del re che guardava la scena esattamente come tutti gli altri, ma il cui sguardo non tradiva le sue emozioni.
Sido fu il primo ad avvicinarsi al corpo del ragazzo e a tastargli il collo. Il generale cercò i suoi occhi non appena Sido sollevò la testa. “E' vivo,” decretò il tenente. “Ma lo sarà ancora per poco.”
“Chiamate un medico!” Abbaiò il generale, lasciando il sovrano nelle mani di Chakuza “E tu!” Indicò il soldato che aveva sferrato il colpo. “Se questo ragazzino muore, farai la stessa fine, mi hai sentito? Ci penserò io stesso a staccarti la testa dal collo!”
Poi gettò la spada in terra con stizza e lasciò che il clangore del metallo sul pavimento riempisse di nuovo la stanza, la sua testa e anche il cuore.

*


Il medico era arrivato subito e si era portato via Bill con l'aiuto di una barella e di due soldati di Bushido che avevano l'ordine di scortarlo e non perderlo mai di vista. Bushido lo aveva visto preoccuparsi di fronte alla profonda ferita che il ragazzo aveva sulla schiena. Aveva scosso la testa piano, mormorando qualcosa, e il generale aveva scelto di non pensare a cosa fosse. Furioso, aveva minacciato di morte anche il medico se non fosse riuscito a salvare il ragazzo.
Re Jorg era stato portato nelle segrete e rinchiuso in una cella finché Bushido non avesse deciso che cosa farne esattamente, se non voleva ucciderlo. La notizia della cattura del re aveva già fatto il giro del piccolo regno, così adesso là fuori c'erano persone che aspettavano di capire che ne sarebbe stato di loro.
“Signore,” Chakuza annunciò il proprio arrivo nella stanza.
Bushido annuì con la testa, per fargli capire che aveva sentito, ma rimase piegato sulla sua scrivania a tentare di scrivere a suo padre la lettera che si aspettava, qualche riga epica e trionfale che trasudasse una felicità di conquista che non sentiva assolutamente.
“Rapporto,” ordinò.
“Le sommosse in città sono state sedate senza problemi, ci sono venti feriti ma nessun morto,” rispose Chakuza, alle sue spalle. “Abbiamo radunato i civili nel castello secondo le sue disposizioni e gli uomini dell'esercito di Jorg sono pronti a passare sotto il suo comando, signore. La città e il regno sono nostri.”
Bushido sospirò. “Bene,” esclamò atono. “Il ragazzo?”
“Ancora niente,” Chakuza scosse la testa. “Il medico dice che dobbiamo vedere se passerà la notte.”
Il generale strinse il pugno. “D'accordo, puoi andare.”
Bushido rimase immobile finché la porta non si chiuse.
La città era presa, il volere di suo padre compiuto e la conquista iniziata.
E lui non si era mai sentito così vuoto.
Si alzò e in silenzio raggiunse l'infermeria. Bill era su una delle brande ed era pallido come se fosse già morto, la pelle delle sue braccia distese lungo il corpo quasi si confondeva tra le lenzuola.
Gli si sedette a fianco e lo fissò senza nulla da pensare. Qualunque cosa sembrava inappropriata. Non si sentiva in diritto di chiedere scusa e, pur sperando che si svegliasse, lo immaginava mentre gli diceva che niente di tutto questo sarebbe successo se non avesse conquistato il regno. Ed era vero.
“Signore, non c'è bisogno che stia qui,” mormorò il medico, rigido eppure gentile.
Bushido scosse la testa e non disse niente.
Se la conquista di quella città poteva diventare positiva in qualche modo, lo avrebbe fatto solo se Bill apriva gli occhi. Gli prese la mano e giurò che non avrebbe costruito un nuovo impero sulla sua morte.
“Rimango qui,” gli disse “finché non ti svegli.”
E quando lo farai, potrò rimettere le cose a posto.
Personaggi: Bill, Bushido, Chakuza, Fler, Eko, Saad
Genere: Humor
Avvisi: Slash
Rating: PG 15
Prompt: Vale per la HMS Maouropia Treasure Hunt di Fanfic_Italia
Note: C'era un tempo in cui scrivevo cose sensate... ma ora non più! Ora ci sono queste micro-fic completamente fuori dalla Grazia di Dio. Bei tempi quelli in cui ancora si poteva leggere qualcosa di mio e credere che ci fosse una qualche ragione logica dietro ogni parola. *sospira pensando ai bei tempi andati*
E per chi sta per aprire bocca e dirmi: ma il punto G non ce l'avevano solo le donne? La risposta è chi se ne frega. E poi, vi ho forse mai dato l'impressione che per me Bill fosse maschio? Io non capisco o.o

Riassunto: Nessuno sa dove sia, ma tutti sanno che c'è, da qualche parte"
CROSS ME FOR GOOD


Un giorno Bushido è arrivato e li ha messi tutti seduti intorno ad un tavolo, tanto che loro si sono preoccupati e hanno messo su la faccia da gangster, quella che di solito riservano solo alle copertine delle riviste patinate su cui qualcuno vuole che appaiano per qualche strano motivo di marketing. Anche Bushido è serissimo, anzi sembra quasi affranto e, se Fler deve farne una valutazione oggettiva, allora sembra pure invecchiato di dieci anni, il che fa di lui un trentenne piuttosto sbattuto ma un quarantenne coi fiocchi, se proprio bisogna essere pignoli.
Bushido li ha guardati e ha detto: “Ragazzi, abbiamo un problema” e loro si sono subito immaginati che l'ultimo cd non ha venduto abbastanza, che hanno finito tutti i guadagni comprando il mega-schermo su cui hanno visto i mondiali e che ora rischiano di morire di fame oppure, se proprio è più grigia del previsto, che Bushido si è messo di nuovo nei casini rigando la macchina di qualche giudice, pestando ragazzini o facendosi rinchiudere in gattabuia in Austria, cosa che costringerebbe Chakuza ad andare in avanscoperta tra la sua gente e vedere che aria tira. E Chakuza non vuole affatto.
Ma il problema sembra essere tutt'altro, perché Bushido infila una mano in tasca e srotola sul tavolo questo pezzo di carta bianco e tutti si avvicinano per vedere cos'è. Sopra c'è disegnata una figura che è provvista, in mezzo alle gambe, del simbolo internazionalmente riconosciuto per indicare l'apparato genitale maschile, il che dice loro due cose: uno, che la figurina è un maschio. Due, che Bushido non sa disegnare.
“Questo è Bill,” dice serio e tutti inclinano la testa a destra e a sinistra, ma proprio non riescono a vedere la principessa in quel disegno. E si impegnano così tanto a vedercela senza prestare attenzione a Bushido che lui sbuffa e disegna velocemente una cresta in testa all'ometto. “Meglio così?”
Non sembrano molto convinti, ma il re decide di andare avanti comunque perché non ha tempo da perdere con chi non ha abbastanza fantasia.
“E insomma?” Chiede Fler, perché in effetti non capisce cosa stiano lì a fare di fronte ad un disegno stilizzato dell'attrezzo del suo ragazzo.
“Non lo trovo,” risponde Bushido.
Tra i ragazzi intorno al tavolo corre un'occhiata interrogativa, allucinata e a tratti anche vagamente preoccupata per l'uomo che dovrebbe guidarli e che invece se ne sta qui a disegnare oscenità.
“Che cosa non trovi, esattamente?” Chiede Chakuza.
“Il suo punto G,” risponde Bushido. “E ora voi mi aiuterete a trovarlo.”
Non è che possano ribellarsi, d'altronde, perché Bushido non sopporta due cose: gli italiani e l'insubordinazione, e visto che già sopportare Chakuza che è amico di Camora che è italiano, gli scatena delle crisi psicotiche non indifferenti, forse è meglio dargli retta.
Bushido si arma di pennarello rosso e inizia a tracciare una serie di X lungo tutta la figura disegnata. “Non è né qui,” dice segnando il collo, “né qui,” l'interno coscia, “né qui,” il fianco. “E naturalmente sono da escludere i posti ovvi come questo,” conclude, nascondendo alla vista degli altri le pudicizie della principessa. Anche se finte. Quindi rimane immobile a fissare lo schema, grattandosi distrattamente il mento con il pennarello.
“Non è che magari...” azzarda Chakuza “... è, come dire, interno?”
Bushido scuote la testa, senza voltarsi e continuando a guardare la mappa del corpo di Bill come se fosse il tabellone del Risiko e non sapesse come eliminare l'ultimo degli stupidi carri armati viola dallo stupido Kamchatka e dichiararsi così imperatore del Mondo. “Negativo,” risponde. “Ho già provato ogni inclinazione umanamente possibile.”
Tra i presenti corre un brivido che rasenta il raccapriccio, ma tutti tentano di non darlo a vedere, nascondendo il proprio disgusto dietro colpi di tosse, soffiate di naso e improbabili ricerche di lenti a contatto mai portate.
“Nelle ultime settimane ho concentrato le mie ricerche in queste due zone,” continuò Bushido, come se la situazione fosse normale, loro fossero normali e alcuni dei più famosi rapper tedeschi non si fossero ridotti a giocare a “Trova Wally” sul corpo nudo di una figurina disegnata. Con il pennarello rosso, il re cerchia il petto e il pube. “Ma niente.”
Gli altri lo guardano con un sopracciglio sollevato e lui si affretta a correggersi. “Ovviamente non niente-niente; ma non quello che sto cercando io.”
“Magari è nei piedi,” prova Fler. “A molte persone piace.”
“Oppure dietro le ginocchia,” suggerisce Chakuza. “Potresti provare.”
Gli altri a rotazione tentano altre opzioni e Bushido le segna una per una con un piccoli tondini verdi come promemoria. “Una volta la mia ragazza, aveva un debole per un punto appena dietro la schiena,” dice Eko, contorcendosi come un'anguilla nel tentativo di indicare ciò che sta dicendo.
“Molti dicono che anche l'interno del gomito sia molto sensibile,” si unisce Saad, suscitando la curiosità di Bushido che prova a premerlo, giusto per capire.
Quando Bill entra nella stanza, ciò che vede è un contorcersi di uomini che si toccano a vicenda in parti assurde. Chakuza, per dire, è in piedi e Fler dietro di lui sta disperatamente cercando di capire di che parte esatta del ginocchio stia parlando.
“Un po' più in là” dice l'austriaco. “A destra, Fler! Destra! Te l'hanno insegnata all'asilo.”
Saad è perplesso ma per nulla sconvolto dalle dita di Bushido che gli premono la pelle, perché non sembrano sortire alcun effetto. “Sei sicuro che il punto sia questo?” Chiede il tunisino.
“Non è che mi ricordi un granché bene.”
Sono tutti così presi che nessuno si cura di Bill, il quale ha tutto il tempo di avvicinarsi e studiare bene la mappa di se stesso con un sorriso. “Ecco cosa stavi facendo mentre ti aspettavo in camera!” esclama, sollevando la sua caricatura ricoperta di croci come un cimitero.
Gli uomini colti sul fatto si sentono molto in imbarazzo anche se non stavano in effetti facendo niente di male e si fermano lì come sono, uno con il ginocchio dell'altro fra le mani, o le braccia intrecciate, a guardare la loro strana principessa che li osserva e sorride ben consapevole di avere tutte le carte in regola per prenderli in giro. Stranamente, però, Bill non lo fa e preferisce che sia Bushido ad arrampicarsi sugli specchi, cercando una giustificazione sensata a quella scena.
Bushido naturalmente, non è uno che si giustifica, è uno che tira due pugni nelle spalle di chi lo circonda, imponendogli di ricomporsi e poi si schiarisce la gola cercando di apparire tanto attraente ed irresistibile che la sua principessa deciderà di non prendere provvedimenti..
Bill mette la mano aperta sul foglio e lo volta di centottanta gradi, così da poterlo osservare meglio. “Che cosa stavi cercando, esattamente?” Chiede Bill, ripetendo senza saperlo la domanda di Chakuza.
“Il tuo punto G,” risponde Bushido senza pudore. E d'altronde, anche ad averlo il pudore, cos'altro poteva mai cercare sullo schema nudo di Bill, a meno di non fargli credere che gli stava facendo la mappa dei nei a memoria?
Bill sorride. “Facciamo così,” dice, stringendo le dita e accartocciando il disegno in una pallina. Prende il pennarello dalle dita dell'uomo e sorride. “Io me lo segno addosso con una X e tu vieni di là a cercarlo con me, che ne dici?”
Bushido è già in camera da letto prima ancora che abbia finito la frase.
A Bill non resta che stappare il pennarello e salutare gli altri con la mano, prima di chiudere la porta e dare inizio alla caccia al tesoro.
Personaggi: Bushido, Bill, OFC
Genere: Commedia, Romantico
Avvisi: Slash, Lemon, Language
Rating: R
Note: Dunque, questa storiellina nasce da due esigenze fondamentali: mettere Bushido in ridicolo e scrivere qualcosa su Spartacus: blood and sand, la mia fissa del momento. Dal momento che mi sentivo molto ferrata sulla prima, ma non abbastanza sulla seconda, l'ambientazione già utilizzata da lisachan in Cliché mi permetteva di unire le due cose, quindi perché non usarla con il beneplacito della gioiosa autrice?
Per chi non lo sapesse, Spartacus è una serie televisiva statunitense che narra le vicende di Spartaco (dai?) ed è dunque ambientata nell'antica Roma, più precisamente a Capua, ancora più precisamente in un Ludus (una palestra gladiatoria) di proprietà di un uomo meraviglioso che risponde al nome di Batiatus (che, tra le innumerevoli cose che lo riguardano, è anche interpretato da John Hannah – quello che faceva il fidanzato what if di Gwyneth Paltrow, per intenderci. E sua moglie in questo telefilm è nientemeno che Lucy Lawless). Il telefilm ha una fotografia stupenda ed è girato ispirandosi a film come 300, per cui scene di estrema violenza al rallentatore, secchiate di sangue sullo schermo e denti che volano, ma – giusto perché altrimenti non ci interesserebbe – così tanto sesso da darti la nausea, un infinito numero di pairing canon ma anche un numero infinito di pairing potenziali (e/o suggeriti), dello slash (canon!) e anche uomini quasi costantemente nudi coi pirulini di fuori. Non vi viene voglia di vederlo?

Riassunto: Volete che torni nella mia cella?
CLICHE' - VOL. II


Bushido sapeva di aver compiuto un bellissimo percorso nella sua vita.
Era partito malissimo – non per sua scelta, naturalmente – con un padre violento e una madre incapace di contrastarlo, e un'adolescenza fra le strade del ghetto a fare uso di droga, coltelli a serramanico e imbrattando i muri e le fiancate dei treni con il proprio nome, nella speranza che un giorno quel King of Kingz scritto a lettere quadrate e puntute potesse finalmente arrivare sulla bocca di tutti, come meritava. Avrebbe potuto finire male, con lui in galera, con lui morto, con lui buttato in qualche angolo di strada senza più niente in cui credere se non la necessità di farsi ancora una volta prima di crepare nel proprio vomito. E invece aveva fatto grandi cose perché lui era un grande, l'aveva sempre saputo, e i grandi erano sempre destinati a vincere.
Il simbolo della sua grandezza era senza dubbio la Villa Gialla, che rappresentava non solo il punto di arrivo della sua carriera ma era anche la dimostrazione tangibile di quanto lui fosse figo e gli altri facessero schifo. Un concetto che gli premeva fosse ben chiaro a chiunque. Aveva comprato quella villa per dimostrare di poter pagare due miliardi di euro sull'unghia come niente fosse – anche se la cifra era esagerata per quella casa e anche se una casa di quelle dimensioni non gli serviva minimamente – e l'aveva recintata perché quando la gente ci passava davanti per darci un'occhiata potesse ragionevolmente morire di invidia e curiosità nel non riuscire a scorgere che le finestre del piano superiore. Per questo era bello tornarci: per rilassarsi e per gettare in faccia al mondo la propria indiscussa superiorità. La Villa Gialla era il suo piccolo tesoro e provava per lei un affetto da padre orgoglioso; la conosceva così bene che non gli sarebbe sfuggito nemmeno un graffietto sull'intonaco della facciata posteriore, figurarsi se poteva non notare la rivoluzione che era avvenuta in sua assenza, senza per altro nessun permesso da parte sua.
Innanzi tutto il cancello automatico non aveva funzionato, quindi gli era toccato scendere dalla BMW e aprirlo a mano, passare e poi riscendere per chiuderlo, sequenza di azioni che già di per se potevano rovinargli la giornata. E poi i cani gli erano corsi incontro in un parcheggio completamente deserto, cosa che lo aveva portato a chiedersi dove fossero finite tutte le sue automobili. Posto che aveva un servizio di sorveglianza che era lì proprio per evitare i furti e quindi le sue meravigliose, preziosissime auto dovevano essere da qualche altra parte, voleva capire chi si fosse preso la briga di spostarle senza il suo permesso e per qualche cazzo di motivo, per altro.
Quando entrò in casa ed ebbe gettato le chiavi sul mobile dell'ingresso – scoprendo per altro che non c'era più un mobile dell'ingresso – le cose strane aumentarono così tanto di numero che perse subito il conto. Innanzi tutto dal salotto erano spariti il televisore al plasma, l'impianto stereo e con buona pace della sua sanità mentale anche i divani e il tavolino di cristallo, e alla sua destra, appena un secondo dopo la sua entrata, era comparsa una figura che non era sicuro di voler riconoscere.
“Karima?” Chiese. Ad una prima occhiata, gli sembrò che la donna indossasse un abito tradizionale tunisino ma poi si rese conto che lui non aveva idea di che aspetto avesse un abito tradizionale tunisino e che comunque, qualunque aspetto avesse, di certo non sarebbe stato quello. La sua domestica aveva addosso quella che poteva solo supporre essere una specie di tunica, sopra una tuta coprente color carne.
“Non chieda,” sibilò lei, le mani in grembo e lo sguardo ridotto ad una linea orizzontale, come nei cartoni animati giapponesi.
Bushido sentì un brivido percorrergli la schiena mentre nella sua testa si faceva strada una consapevolezza che non avrebbe voluto avere perché alle volte era meglio vivere nell'ignoranza che conoscere il proprio destino senza poterlo evitare. “Immagino tu abbia qualcosa da dirmi,” sospirò, togliendosi il cappotto. Si guardò intorno in cerca dell'attaccapanni e, non trovando nemmeno quello, decise di lasciarlo cadere per terra.
“Tutto questo non rientra tra i miei compiti,” sibilò ancora la donna, che aveva i capelli acconciati in una specie di crocchia e una coroncina di plastica sulla sommità della testa.
“Lo so, Karima.”
“Lei dovrà risarcirmi per i danni morali,” continuò, senza sollevare la testa e senza che il suo sguardo si addolcisse o diventasse qualcosa di diverso da quello pietrificante della Medusa che era al momento.
“Ne sono consapevole e sarò disposto ad ascoltare le tue richieste una volta che questo martirio avrà avuto fine,” concordò, annuendo sempre più rassegnato.
“E una volta uscita da quella porta, non mi rivedrà per una settimana,” commentò Karima, “anzi due, perché mi prendo le ferie e vado a trovare mia sorella a Tunisi.”
A questo punto Bushido poteva soltanto immaginare di che proporzioni fosse questa tragedia se anche la sua domestica non aveva potuto sottrarvisi e, soprattutto, se era così tanto imbestialita da acconsentire di lasciarlo solo in cucina per più di tre giorni. “Ne hai tutto il diritto, naturalmente,” mormorò.
“Bene,” constatò lei. “Ora procediamo con questa follia, così potrò andarmene.”
“Procedi pure.”
Karima si schiarì la voce e fece schioccare la lingua. “Sei convocato,” commentò con poco sentimento, leggendo le due righe scritte sul palmo della mano. “Dalla... domina.”
“Dalla cosa?” Commentò Bushido, aggrottando le sopracciglia.
“Non ne ho idea e non m'interessa,” rispose sbrigativamente Karima, togliendosi la coroncina storta e piantandogliela in mano con mala grazia.
“Ma cosa– ?“ Bushido si voltò per seguirla con lo sguardo mentre recuperava il soprabito e la borsetta nascosti dietro una libreria e si affrettava a passi svelti verso la porta. “Karima!”
“Buona fortuna,” commentò lei, prima di sbattersi la porta alle spalle. “Ne avrà bisogno.”

*


Bushido avrebbe voluto rimettersi il cappotto, recuperare le chiavi dell'auto e quindi fuggire a gambe levate a casa di qualcun altro, evitando di salire le scale che portavano ai piani superiori, ma non lo fece. Sapeva bene, infatti, che evitare adesso la fatica mentale che lo aspettava in cima alla rampa di scale, non avrebbe fatto che aumentare il dolore fisico che sarebbe venuto dopo, quando chi lo aspettava lo avrebbe infine trovato. Era una questione di scegliere il male minore, lo aveva imparato a proprie spese.
Salì la rampa cercando di indovinare a cosa stesse andando incontro ma, anche quando il suo cervello sfiorò la soluzione giusta, si rifiutò di accettarla perché era davvero improponibile.
Aprì la porta di camera con il sacro terrore di un uomo che sa verrà costretto a fare cose che non vuole. Per un istante gli tornò in mente l'immagine di un innaffiatoio a forma di papera e vasi di azalee. Rabbrividì.
A prima vista la stanza sembrava vuota, ma sapeva di non essere un uomo benedetto da questa fortuna, così sospirò e volse lo sguardo finché non incontrò quello annoiato di Bill, in piedi davanti alla finestra.
“Ci hai messo tanto,” mormorò il ragazzo, allontanandosi dalle tende che stava accarezzando e guardandolo come se avesse disubbidito a qualche regola; il che era probabile, giacché nessuno lo aveva informato di quali fossero. “Devi obbedire, quando ti chiamo.”
“Bill...” iniziò.
“Domina,” puntualizzò il moro, con una stilettata degli occhi.
Bushido prese un respiro profondo e cercò di rammentarsi perché questo ragazzino appena ventenne si trovasse nella sua stanza, nella sua casa e, cosa ancora più importante, nella sua vita. Perché, in nome di una qualsiasi divinità disponibile al momento, non lo aveva preso di peso e scaraventato fuori da una finestra quando gli si era presentato, intenzionato a diventare il suo fidanzato? “Tesoro,” iniziò. “Non avevamo forse deciso di smetterla l'ultima volta?”
Bill non si mosse. Era nudo, fatta eccezione per una specie di lunga vestaglia quasi trasparente e legata all'altezza del bacino con una spilla microscopica che faticava a tenere coperto alcunché. Una situazione che rendeva difficile a Bushido anche rammentarsi perché adesso stesse facendo storie sul gioco di ruolo, a dire il vero. “Non ti è bastato il giardiniere messicano?” Tentò, inutilmente.
“Oh ma Anis, questa è tutta un'altra cosa!” Saltò su Bill, mentre la sua gelida maschera da seducente padrona di casa si frantumava nel suo sguardo esaltato ed infantile. “Sarà meraviglioso.”
Bushido non lo pensava affatto. “Dove sono finite le auto?” Chiese invece. “E il televisore, lo stereo... il salotto in generale.”
“Ho fatto sparire tutto,” rispose con orgoglio Bill, battendo le mani, “i ragazzi mi hanno aiutato a portare tutto in cantina.”
Bushido immaginò i suoi uomini che, agli ordini di Bill, si issavano mobili sulle spalle e pensò che alla fine della giornata avrebbe dovuto pagare anche loro. “Perché?” Piagnucolò.
“Perché siamo a Capua, Napoli, e mio marito possiede un Ludus,” esclamò il ragazzo, con aria più seria, rientrando nella parte molto prima di quanto il tunisino avrebbe voluto.
“Che diavolo è un Ludus?” Esclamò Bushido terrorizzato, seguendolo mentre gli girava intorno come a valutarlo, nemmeno fosse un cavallo al mercato. “E di quale marito stai parlando?”
Bill scosse la testa con noncuranza, passandogli due dita sul petto. “Non devi preoccuparti di lui, è andato al mercato a condurre i suoi affari e non sarà di ritorno prima di qualche ora.”
“Mi fa piacere,” commentò l'uomo, assurdamente infastidito all'idea di un marito immaginario, possessore di un qualcosa che non sapeva cos'era ma che di certo doveva essere importante perché Bill non avrebbe mai impersonato la moglie di un poveraccio. E poi il tipo aveva una serva.
A tal proposito... “Hai coinvolto anche Karima in questa cosa?” Chiese, ricordandosi di non usare la parola pagliacciata, per il bene suo e anche della casa, che Bill avrebbe probabilmente incendiato in caso contrario.
Bill fece una smorfia. “Ho dovuto, Tomi non era disponibile,” commentò sbrigativo. “E Chaku si è rifiutato di farmi da serva. Possiamo punirlo?”
“No, non possiamo, Bill.”
“Domina,” lo corresse. “Significa padrona.”
Bushido strinse le dita per impedirsi di commettere spropositi. “E' una donna anziana,” tentò, cercando di fargli capire l'ovvio.
“Infatti le ho fatto mettere quell'orrenda tuta color carne sotto al vestito,” esclamò Bill. “Avrebbe dovuto essere nuda, ma ho dovuto accontentarmi.”
“Meno male,” esclamò Bushido agghiacciato. “Non mi sarei mai più tolto l'immagine dalla mente.”
“Per questo ci sono qua io,” Bill lo guardò, tentando di essere sensuale e lascivo, ma ne venne fuori una smorfia impostata che lasciò Bushido perplesso. “Così puoi guardare me, gladiatore, e non quella stupida serva.”
Nonostante Bill fosse nudo e profumasse di qualcosa che gli stava oggettivamente dando alla testa, Bushido rimase immobile. “Gladiatore?”
“Sì, sei un gladiatore” sussurrò Bill, strusciandoglisi addosso “e hai appena interrotto i tuoi faticosi allenamenti per venire da me, come ti ho ordinato.”
“Bill...”
“Domina,” sussurrò Bill, lasciando scorrere le dita più in basso per poi stringere e strappargli un versetto sorpreso e preoccupato. “Impara a chiamarmi così, o ti farò frustrare.”
“Ok, ok, basta così,” Bushido mise le mani avanti e si sottrasse con attenzione alla stretta non proprio forte ma preoccupante delle dita di Bill. “Amore, tesoro,” ghignò in una smorfia isterica. “Che cosa stai dicendo, per l'amor di Dio?”
A quel punto Bill rilasciò uno sbuffo frustrato e indispettito. “Anis, non è difficile!” Esclamò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. “Siamo ai tempi degli antichi romani, tu sei uno dei gladiatori di mio marito e io sono la padrona di casa zoccola che ne chiama uno per farsi scopare,” spiegò. “Tu devi solo dire 'Sì, domina.' E' una parte facilissima!”
Bushido si passò una mano sulla faccia, stancamente. “Ho lavorato dodici ore,” gli fece presente.
“Esattamente!” Esclamò Bill esaltato. “L'allenamento di un gladiatore è sempre molto duro e sfiancante, così tu sei sudato e ansimante, i tuoi muscoli sono scolpiti e tesi. Questo e la tua forza maschia e selvaggia ti rende sessualmente irresistibile ai miei occhi, così ti faccio convocare dalla mia serva perché tu venga a soddisfarmi nelle mie stanze. Tutto chiaro?”
“Forza maschia e selvaggia?”
“A tal proposito, dovresti indossare questo per me. Per rendere il tutto più realistico.”
Bushido abbassò lo sguardo su questo paio di mutande di iuta, tremende e irragionevolmente piccole perché lui potesse anche solo pensare di indossarle. “Cosa?”
“Voglio vedere i tuoi muscoli sudati e guizzanti da gladiatore,” mormorò Bill, preso benissimo, mentre iniziava a spogliarlo. “E poi nessuno nel Ludus è mai così vestito.”
“No, non se ne parla,” scosse la testa.
“Anis, andiamo!”
“Non posso semplicemente spogliarmi?” Tentò di mediare. Meglio nudo che con le mutande di iuta.
Bill mise il broncio. “Ma non puoi essere arrivato qui nudo!”
“Magari quando sono arrivato qui avevo quelle addosso e tu me le hai strappate a morsi, preso dalla libido,” sputò Bushido, nell'ultimo estremo tentativo di essere conciliante ma mantenere un po' di dignità.
Bill sembrò valutare la proposta e poi alla fine annuì, anche se di malavoglia. “D'accordo, allora facciamo che ti ordino di spogliarti e tu lo fai,” concluse. “Spogliati.”
Bushido sospirò, evitando di alzare gli occhi al cielo per il semplice fatto che questo avrebbe, come sempre, istigato Bill all'isteria, quindi iniziò a spogliarsi. Bill batté le mani, quindi con una scrollata di spalle rilassante, si calò di nuovo nella parte e prese a guardarlo con l'espressione dell'allevatore di cavalli, qualcosa che non stuzzicava la fantasia di Bushido proprio per niente.
“Tu rimani vestito?”
“Zitto,” lo apostrofò Bill mentre lui se ne stava lì nudo a prendere gli spifferi della camera da letto. “Non ti ho dato il permesso di parlare.”
Il moro gli girò intorno, sfiorandolo appena con la punta delle dita e poi si avviò verso il letto, dandogli le spalle, per poi lasciar cadere la vestaglia a terra e regalargli un'ottima visuale del suo fondoschiena. Ecco, questa era una cosa su cui Bushido poteva lavorare, anche interpretando il gladiatore. Rimase immobile a guardare Bill che si stendeva sul letto e si teneva su con i gomiti per poterlo osservare attraverso le palpebre semi-chiuse. Da quel preciso punto in poi Bill avrebbe potuto lasciar correre, bearsi del gioco di ruolo fin quando era durato e godersi l'obbiettivo raggiunto. E soprattutto smettere di dire idiozie e starsene zitto. Bushido sarebbe stato perfettamente d'accordo; nella sua parte di gladiatore selvaggio era pronto a prendere la padrona di casa per dritto e per rovescio in modo che si dimenticasse di avere un marito impegnato al mercato. Anzi, soprattutto perché si dimenticasse di avere un marito da qualche parte.
Ma Bill non era mai bravo a capire quando piantarla, quindi, mentre Bushido gli si distendeva addosso e trovava felicemente la strada tra le sue gambe, già dimentico dell'impero romano, delle sue auto scomparse e del suo salotto in cantina, il ragazzino non trovò niente di meglio da fare che reclinare la testa ed esclamare un: “Prendimi qui e ora, il tuo padrone non tornerà che fra qualche ora,” esalando esageratamente e, in generale, agitandosi come un'anguilla.
“Bill,” gli sussurrò contro la pelle del collo, mentre tentava di fermargli le mani sopra la testa, un po' perché rientrava nel gioco ma soprattutto perché rischiava di prenderle in faccia.
Il cantante gli piantò le unghie nella schiena e lo guardò rabbioso. “Domina,” sibilò. “E così che devi chiamarmi.”
“No, guarda Bill, così non va.” Bushido si divincolò dalla stretta delle sue gambe e si sedette lì di fianco, nudo com'era, scuotendo la testa.
“Anis, che ti prende?” Mormorò Bill che con i capelli tutti arruffati e le guance un po' rosse sembrata tutto tranne che quello che voleva essere.
“Che mi prende?” Esclamò Bushido. “E me lo chiedi pure? Cos'era quella roba sul letto?”
“Quale roba?”
“Tu che ti agiti!” Sospirò. “Bill, seriamente, non potremmo scopare e basta?”
La trasfigurazione del viso di Bill avveniva a velocità così elevate che forse avrebbero dovuto studiarla. Il faccino preoccupato si trasformò istantaneamente nella maschera dell'odio e del tradimento. “No che non possiamo scopare e basta! Perché dobbiamo sempre fare questo discorso?” Sputò con un mezzo singulto da diva navigata; ci mancò quasi che gettasse un braccio in aria e chinasse la testa a favore di camera. “Perché non fai mai uno sforzo per assecondare le mie fantasie?”
“Ma tesoro,” replicò lui, allungando un braccio che venne puntualmente scostato di malumore. “Io le assecondo le tue fantasie, ma tu devi anche capire che c'è un limite. E c'è un motivo se mi rifiuto di vestirmi da Spartaco o di chiamarti Domina quando, vivaddio, riesco a schienarti. Lo capisci, sì, che ho trent'anni e non mi drogo più abbastanza per convivere col pensiero di aver fatto cose del genere?”
Bushido sapeva che per qualche strana ragione aver avuto quello stesso dialogo nemmeno due mesi prima non era servito a niente. Il problema con Bill era che se pensava di avere ragione su una cosa, difficilmente ti permetteva di contraddirlo. Solo nel caso in cui replicavi in maniera tanto seria da sembrare sul punto di sfanculare lui e le sue idee allora s'imbronciava e s'intristiva e decideva che per quel momento preciso poteva pure fingere di aver capito la follia nelle sue azioni. Ma non è che ammettesse di avere torto. Così Bushido aveva potuto anche lamentarsi di non voler fare il giardiniere messicano e ottenere che si finisse con quella pagliacciata, ma in sostanza quello che Bill gli aveva concesso era solo che non si dovesse più vestire da giardiniere, non che fosse esonerato per tutto il resto della sua vita dall'impersonare uomini che lo attizzavano sessualmente. Ma questo lo aveva scoperto adesso, per dire.
L'unica differenza tra lui e Bill era che Bill si fissava su qualcosa senza mai davvero cercare una soluzione che soddisfacesse entrambi – perché era un ragazzino e si aspettava che lo facesse lui – mentre lui, appunto, lo faceva, perché non sapeva come non viziarlo.
Bill comunque non rispondeva. Anzi, si era seduto a gambe incrociate e giocava con il lenzuolo, regredito improvvisamente ai cinque anni, cosa che impediva a Bushido di essere davvero innervosito con lui ma, contemporaneamente, anche di farci pace senza sentirsi inappropriato. “Bill?” Chiamò. Il moro non rispose e fece anche finta di non notare il sospiro rassegnato che Bushido emise l'attimo successivo.
L'uomo lo prese per una spalla e, nonostante i tentativi di Bill di opporre resistenza, lo stese di nuovo tra le coperte. “Lasciami andare,” esclamò subito lui, strattonando con le mani che Bushido gli teneva inchiodate al materasso. “Non voglio più.”
“Mi avete convocato apposta,” gli sussurrò sulle labbra. Evitare di chiamarlo padrona era necessario, ma non per questo doveva rinunciare al resto. Lo baciò anche se sapeva che Bill non avrebbe risposto subito e quindi cercò la strada tra le sue gambe, aspettando di vederlo sussultare ed emettere quel sospiro minuscolo che gli scappava ogni volta, prima di aggiungere. “Volete che torni nella mia cella?”
Bill faticò a trovare la voce tra le sue dita che lo accarezzavano, e scosse la testa a scatti, già troppo perso per controllare un muscolo qualsiasi del proprio corpo. Il che era un bene perché almeno aveva smesso di agitarsi. “Resta,” ansimò alla fine. “Resta e scopami come se fosse l'ultima volta.”
Bushido lo accarezzò più forte e più a lungo, solo per vederlo ansimare di più. “Non sarà l'ultima volta,” commentò, chinandosi a baciarlo.
“Non hai paura di morire, gladiatore?”
Bushido ringhiò, decidendo che l'ambientazione gli permetteva di divaricargli le gambe senza preavviso e prenderlo come meglio credeva senza la minima cortesia. “Un gladiatore affronta la paura,” sibilò tra i denti, “L'abbraccia...”
“... e la scopa,” concluse Bill in un ansito impaziente.
L'uomo se lo fece sedere in grembo e Bill gli avvolse quasi istantaneamente le braccia intorno al collo, solo un attimo prima che Bushido entrasse in lui, strappandogli il proprio nome dalle labbra. Ad ogni spinta Bill gli si stringeva deliziosamente intorno senza farsi mancare i mugolii che avevano smesso di essere doloranti dopo il primo, che aveva dovuto sopportare solo perché Bill non era Bill se non si lamentava almeno un pochino. “Dio...” iniziò il moro, ma non finì la frase quando Bushido usò quel poco di lucidità che gli era rimasta per stenderlo di nuovo e spingersi più forte e più a fondo. Bill reclinò la testa. “Anis... “
Si spinse un'ultima volta, con molta meno precisione ma con più forza, venendo e trascinando con se la padrona di casa.
Quando ebbe ripreso fiato, il che avvenne molto più tardi di quando in effetti lo riprese Bill, che stava già disegnando arabeschi sul suo petto da qualche minuto, pensò che alla fine non era andata poi così male e che l'antica Roma, per quanto ridicola, gli aveva concesso le sue soddisfazioni.
“Ricordami di fingere più spesso di possedere un gladiatore,” esclamò Bill, quando finalmente si accorse che anche lui era tornato dal limbo post-orgasmico nel quale finivano sempre.
“Scordatelo,” rise il tunisino, tirandoselo addosso. “Anzi, voglio che tu mi consegni immediatamente tutti i DVD di quel telefilm sui gladiatori perché io possa farne un enorme falò.”
“Ma Anis, me li ha prestati mio fratello!”
Bushido zittì le sue proteste strappandogli un bacio a tradimento. “Meglio.”
“Sei un cretino.”
“Mai quanto quello che ti sei sposato.”
Bill lo guardò storto, ma poi Bushido gli strinse piano le dita tra i capelli e riprese a baciarlo. Così dimenticò quello che voleva dire e fu improvvisamente contento che non dovessero temere davvero il ritorno di nessun marito.
Personaggi: Chakuza, Eko, Bill, Bushido
Genere: Hurt/Comfort, Drammatico, Romantico
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: R
Prompt: Prova finale (come agli esami) del F3.U.CK.S. Fest di fanfic_italia
Note: Sono piuttosto soddisfatta di cosa è venuto fuori, perché è una storia puccina e io voglio bene a questi due rintronati che hanno sempre grosse difficoltà a mettersi insieme in tutte le mie storie *sospira depressa* Bon, so much for the 10k. Spero che vi piaccia :)

Riassunto: Se fai il ragioniere, il tuo capo non ti chiede di nascondere le sue scopate alla sua ragazza o di occuparti della sua ragazza quando questa scopre le sue scopate – che poi significa che tu, per inciso, non hai fatto bene il tuo lavoro – ma è uguale, in fondo. E' il concetto di base che conta: che il mio capo è uno stronzo e io ci passo sopra perché come tutti ho bisogno di un lavoro.
OPEN YOUR EYES


Io non sono una persona che ama i locali.
Non sono neanche uno che ama le feste, in realtà, e forse per questo ho sbagliato lavoro. Se mi piaceva solo la musica, forse avrei dovuto imparare a suonare uno strumento da camera, trovarmi un posto in un'orchestrina e quindi passare il resto della mia vita seduto su uno sgabello nelle salette comunali a suonare la nona di Beethoven insieme ad altre quaranta persone troppo impegnate a fare bella figura per poter pensare di ubriacarsi prima o dopo l'esibizione. E sì che mio padre sarebbe anche stato contento di poter dire a tutti i vicini che suo figlio Peter suonava il trombone, per dire. O l'oboe; che se dovessi dire cos'è esattamente, non saprei nemmeno definire se è un ottone oppure un legno. Ma già il fatto che io conosca l'esistenza di queste due categorie vi fa capire che non sono affatto un cretino come siete stati abituati a credere e che c'è una parte oscura del mio passato in cui io effettivamente ho rischiato di suonare il flauto traverso, ma grazie a Dio ciò non è mai avvenuto e io posso ragionevolmente continuare a raccontarvi tutt'altro senza vergognarmi anche di questo.
La mia adolescenza l'ho passata a fare tutt'altro. Facevo sport, per esempio, che poi è stata l'unica cosa che mi ha salvato dall'essere un emarginato sociale. Quando fai qualcosa di fisico e lo fai bene, in genere la gente ti ammira. Io facevo palestra, principalmente. Così ho anche risolto un altro problema, che era quello di inventarmi da zero qualità che mi mancavano alla partenza, il che mi ha poi portato a risolvere la questione consequenziale delle ragazze che generalmente non vengono dietro a chi è a malapena poco più alto di loro. A me mancavano centimetri in altezza e, di lì a poco, anche i capelli ma avevo due spalle abbastanza larghe da far passare la cosa inosservata.
In tutto questo però, non ho mai amato i locali, non ho mai amato ballare e, se dovevo bere, ho sempre preferito i pub.
Quindi, tornando al discorso iniziale, per uno come me, a cui stare seduto in un posto buio a bere con brutta musica sparata a livelli disumani fa schifo, gli afterparty sono il male supremo. Se non fosse che sono obbligato ad esserci perché Bushido pretende di averci tutti intorno anche quando è impegnato a fare altro – tipo adesso – io me ne starei a casa mia. Okay, magari non starei proprio a casa e andrei in giro a divertirmi a modo mio, magari chiamerei qualcuna delle donne che stanno sulla mia agendina per un motivo solo – quello –, farei altro, insomma ma di certo non starei qui.
E invece mi tocca starci e mi rompo anche parecchio. Tra le altre cose qui con me c'è Eko che, diciamocelo, non è proprio il ragazzo più sveglio della compagnia. Mi sta parlando da mezz'ora di ragazze in bikini e noci di cocco, e non ho ancora capito dove voglia andare a parare.
Ed è lì, mentre tento di ignorare da una parte Eko che blatera e nemmeno lo sento in questo casino, e dall'altra il casino stesso, che lui compare sulla porta del locale.
Il nostro privé è rialzato dal resto della sala, così da quassù abbiamo una bella visuale, anche se poi non è che stiamo lì appesi alla ringhiera a vedere cosa cazzo fa la gente mentre noi siamo qui. A Bushido piace solo il fatto di stare più in alto di tutto e di tutti, come al solito.
Comunque, dicevo, siamo in alto, da qui si vede tutto, quindi vedo anche l'entrata e lui quando ci passa attraverso è parecchio visibile visto che è una pertica con una cresta di capelli. Mi sporgo per vedere meglio e noto che è da solo. Bill non dovrebbe essere qui. Soprattutto non da solo, perché se è da solo significa che è venuto a cercare noi, cioè Bushido. E Bushido in questo momento sta scopando – mi giro a controllare e non è un modo di dire, sta proprio scopando – con due tizie che poco fa sono passate di qui a chiedere un autografo e lui, evidentemente, ha deciso di farglielo interno.
“Quello là non è il ragazzino di Bushido?” Esclama Eko, sfoggiando una notevole quantità di acume, mentre manda giù una manciata di noccioline. “S'incazzerà di brutto quando si accorge che Bushido se la fa con quelle due.”
“Non deve accorgersene, infatti,” gli batto una mano sulla spalla, mentre inizio a scendere le scale che portano in sala. “Muoviti, dobbiamo fermarlo prima che gli dicano dove siamo.”
Eko alza le mani. “Non guardare me, sono qui per caso. Non sono in servizio.”
“Non puoi rimanere qui mentre il ragazzino ci cerca.”
“Guardami mentre posso,” replica lui. “Io non voglio averci niente a che fare.”
“Eko!”
“Non sono qui per Bushido.”
“E sei qui per...?”
Lui scrolla le spalle. “Una cosa qualsiasi, scegli pure da solo,” risponde, finendo quel che rimane di un bicchiere a caso che probabilmente non è suo.
Io scuoto la testa e scendo le scale di corsa. “Ekram, vaffanculo.”
“Buona serata anche a te, austriaco.”

*


Sembra che la fortuna stasera non giri dalla mia parte.
Generalmente, dall'entrata alle scale che portano al privé c'è tutta una sala strapiena di gente che balla senza lasciarti nemmeno lo spazio per respirare, figurarsi camminare a passo spedito da una parte all'altra del locale, quindi pensavo di avere il tempo di scendere le scale, intercettare Bill a metà strada e magari portarlo anche abbastanza lontano da evitare che senta o veda cose che non deve sentire o vedere se per caso alza la testa e la musica smette di colpo. I lamenti estatici della biondina che Bushido si è tirato addosso con tanta veemenza e che ora è già quasi mezza svestita sono fin troppo alti per essere veri. E Bushido, a mio avviso, dovrebbe rifletterci sopra, ma è chiaro che quell'uomo mira all'atto in sé e non ai benefici che ne trarrebbe se quell'atto fosse fatto come Dio comanda. Anche se non credo che Dio comandi di farsi donne palesemente ubriache e per questo solo parzialmente consenzienti in mezzo ad un locale. E sto perdendo il filo perché sono nervoso.
Il fatto è che io sono qui per questo. Non per divagare, intendo, ma per assicurarmi che non accadano cose come questa, cioè che Bill si presenti a sorpresa in un posto in cui assolutamente non doveva essere. O che non vada dove non deve andare. Insomma che non scopra mai, per nessuna ragione al mondo, che Bushido si concede un po' tutto quello che vuole, anche quello che non potrebbe. Come le due ragazze di cui sopra.
Tutto è iniziato quando Bushido ha deciso che doveva farsi quel ragazzino. Quell'uomo non segue mai una vera e propria logica – per quanto lui cerchi di convincerti del contrario, ben inteso – tutta la sua esistenza è regolata dai suoi capricci. Se una mattina si fosse svegliato deciso a scoprire i nuovi e mirabolanti misteri della zoofilia, probabilmente adesso saremmo allo zoo e io starei evitando che qualcuno lo veda copulare con una capra o chissà cos'altro. Ora, Bill Kaulitz assomiglia un po' ad una scimmietta a volte, ma non lo è, il che è anche peggio perché immagino che se lo fosse lo chiuderemmo in una gabbietta con un paio di banane ogni volta che Bushido ha voglia di divertirsi altrove e non correremmo il rischio di una tragedia imminente quasi ogni sera. Invece, tralasciando le battute sulle banane che mi sono venute in mente – anzi no, ve le dico. No, meglio di no – Bill è libero di comparire a sorpresa nel locale in cui siamo ed è qui che entro in gioco io.
Bushido usciva con Bill da tre settimane quando mi ha preso da parte e mi ha detto “Chakuza, devo parlarti,” con quell'aria da cospirazione governativa che usa sempre in questi casi. Ti mette una mano sulla spalla, si guarda intorno serio come se lo stessero inseguendo gli spacciatori colombiani e poi, dopo questo preambolo, ti spara una cazzata colossale e tu devi far finta di essere sulla sua lunghezza d'onda perché sennò s'incazza e diventa violento, che non è per niente un bello spettacolo e di solito finisce con qualcuno al pronto soccorso e lui in galera a gettare i soldi dalla cella di contenimento direttamente sul poliziotto che l'ha arrestato.
Quel giorno in particolare mi ha detto “Chakuza,” serissimo “Posso fidarmi di te?” Quando inizia così, la miglior risposta è sempre la fuga, ma io non potevo fuggire visto che avevo lui davanti e un muro dietro, quindi lui ha avuto tutto il tempo di dirmi che quella di Bill era una questione, per così dire, delicata ed era meglio che non venisse a sapere di certe sue... necessità. Necessità è una bella parola che usiamo tutti quanti per definire le scopate non programmate che saltano fuori dopo un concerto, questo tanto per chiarire che Bushido non ha necessità di un tipo che Bill potrebbe condividere con lui. A meno che non si organizzino per una cosa a tre, cosa che dubito sia possibile e poi comunque non sarebbero affari miei.
Il fatto è che Bushido non ha preso la cosa seriamente. Non è affatto innamorato di Bill, il che potrebbe essere perfettamente comprensibile se entrambi – lui e Bill – fossero consapevoli della cosa, ma non è così. Bill lo venera, per usare un eufemismo.
Questa storia d'amore, dal suo punto di vista, è una cosa molto romantica – anche se fatico a capire che cosa ci sia di romantico in un uomo che sostanzialmente ti tratta come un bell'oggetto prezioso di cui lui è l'unico proprietario e che crede di avere su di te ogni tipo di esclusiva, ma non è questo il luogo in cui analizzerò i baratri più oscuri del cervello di un ragazzino che accetterà il fatto di essere maschio solo quando dovrà cambiare sesso.
Questo è però il luogo in cui io impedisco a quel cervello di realizzare che il grande amore della sua vita è in realtà uno stronzo – io ho grande rispetto per Bushido, ma è uno stronzo – e porto il ragazzino lontano da qui.
“Bill!” Esclamo, appena giù dalla scala. Non so come abbia fatto ad arrivare tanto velocemente, ma non dovrebbe averlo fatto. Mi appoggio quasi disteso sul corrimano, non so se sembro tanto a mio agio. Non lo sono. “Che ci fai qui?”
Lui risplende in mezzo alla discoteca. “Sorpresa!” Esclama allargando entrambe le braccia.
“Sorpresa,” ripeto io fingendo entusiasmo, e vorrei che Zeus esistesse, fosse seduto sul tetto di questo edificio e mi fulminasse ora.
“Mi sono liberato all'ultimo momento e sono venuto a trovare Anis. E' qui?” Mi chiede, facendo un passo avanti. Io gli sbarro la strada.
“No,” rispondo.
“No?” Bill sembra confuso. Lo vedo spostare l'anca tutta da un lato e appoggiarsi una specie di borsa da donna contro una gamba. “Ma ho visto la sua auto nel parcheggio.”
Naturalmente ha visto la sua auto nel parcheggio. Mai che Bill – generalmente incurante di qualsiasi cosa lo circondi, perché lui solo è il centro del mondo – non notasse solo ed esattamente quello che per una volta avrebbe dovuto ignorare. “Volevo dire che è qui ma non nel privé,” mi correggo.
“Oh e dov'è allora?” Mi chiede, guardandosi intorno come se fosse davvero possibile distinguere una persona dall'altra in mezzo a questa calca.
“In giro,” annuisco. Quindi lo prendo per le spalle e lo trascino giù dalle scale e verso la pista. “E' una brutta serata questa. Sai, affari, gente che gli chiede favori, forse è meglio se lo chiami domattina.”
“Ma voglio solo salutarlo!” Protesta lui.
“Lo sai come reagisce quando lo si interrompe mentre lavora,” insisto. “Perché non... perché non ci prendiamo una cosa da bere e poi ti riporto a casa? Che ne dici?”
“Grazie Chaku, ma sono venuto con la mia macchina.”
“Potremmo mandarla a prendere dopo,” insisto io. “Se bevi non puoi tornare a casa da solo.”
Lui sorride. “E tu vorresti dirmi che sei abbastanza sobrio da riaccompagnarmi?”
“No,” ammetto, “ma reggo l'alcol meglio di te.”
Lui ridacchia, quindi mi dà un bacio veloce su una guancia e poi mi supera prima che io possa effettivamente impedirglielo. “Solo cinque minuti, promesso!” Mi dice, voltandosi mentre sale le scale. “Non lo disturberò troppo!”
“Bill aspetta!” Gli corro dietro ma lui fa, tipo, tre scalini alla volta e io non posso fisicamente competere con una giraffa in corsa.
In cima alle scale incrocia Eko, che è ancora impegnato ad ingurgitare salatini. Sento solo il turco dire “Ciao Bill,” con tono rassegnato prima che l'aria, letteralmente, si raffreddi e chiunque nel raggio di tre metri rimanga paralizzato nell'ultimo gesto compiuto. Quando arrivo in cima alle scale è troppo tardi. Bushido ha avuto la decenza di fermarsi, almeno, ma ha ancora la bionda sulle gambe e quella guarda Bill e gli altri come se non capisse cosa sta succedendo. D'altronde, dal suo punto di vista, non vede il motivo per cui Bushido dovesse smettere di scoparla. Come darle torto?
Bill è in piedi e osserva Bushido come se non credesse ai propri occhi e, anche dal suo punto di vista, così come da quello della bionda, non gli si può dare torto. Per lui Bushido era perfetto fino a due secondi fa. In due secondi è diventato, posso azzardare, un viscido traditore bastardo.
Non dice una parola. Si volta e inizia a correre. Sia io che Eko vediamo le lacrime che gli rigano le guance, solo che lui esclama “Addio Bill,” con lo stesso tono di prima mentre io mi volto verso Bushido e scopro con una certa quantità di disgusto che non ha fatto altro che riprendere da dove era stato interrotto. D'accordo, io gli ho retto il gioco fino a questo momento e non ne vado fiero, ma ho un limite che lui evidentemente non ha problemi a superare.
“Atze, non hai intenzione di fare niente?” Chiedo.
Lui solleva la bocca dal collo della bionda. “Gli passerà,” mi dice. Poi sembra valutare la situazione e sospira, lanciandomi le chiavi della BMW.
“E che cosa dovrei farci?”
Lui si stringe nelle spalle. “Trovalo e portalo dal fratello. Ci penserà lui.”
Non posso nemmeno dirgli che Bill è venuto con la sua auto perché ha già ripreso a mordere il collo della bionda.

*


Nel momento in cui Bushido mi ha ordinato di recuperarlo, io non ho davvero pensato a ciò che mi ha detto perché, se lo avessi fatto, forse lo avrei mandato a fanculo. Ci sono cose che io proprio non sopporto e una di queste è la mancanza di rispetto. Mi si potrebbe anche dire che forse, se non sopportavo la mancanza di rispetto, potevo cantare da solo, o magari fare il ragioniere, anche darmi all'omicidio seriale volendo, ma di certo non mettermi a cantare con Bushido che il rispetto – se non si parla di quello che gli altri devono a lui – non sa nemmeno dove sta di casa. E in effetti è così, non ho nessuna argomentazione in proposito. Se mi facessi un esame di coscienza, scoprirei che Bushido rappresenta tutto ciò che io odio e che se volessi essere coerente con me stesso forse dovrei lasciarlo a bollire nel suo brodo di onnipotenza e fare di testa mia. Mi consolo dicendo che tutti hanno un capo di merda che non sopportano e che io non faccio eccezione. Certo, se fai il ragioniere, il tuo capo non ti chiede di nascondere le sue scopate alla sua ragazza o di occuparti della sua ragazza quando questa scopre le sue scopate – che poi significa che tu, per inciso, non hai fatto bene il tuo lavoro – ma è uguale, in fondo. E' il concetto di base che conta: che il mio capo è uno stronzo e io ci passo sopra perché come tutti ho bisogno di un lavoro.
Mi riesce difficile passarci sopra quando vedo Bill, però, perché il ragazzino sembra proprio distrutto e io, ad essere sinceri, non so bene come prenderlo perché a conti fatti gli ho mentito quanto Bushido. E anche se non l'avessi fatto, come lo prendi un ragazzino che credeva tantissimo in una relazione e ha scoperto che il suo compagno lo tradiva ripetutamente e non ha avuto nemmeno le palle di andargli dietro quando lui l'ha scoperto? Insomma, sono suo amico, non la sua amica del cuore. Non so cosa diavolo fare.
Lo trovo subito appena fuori dal locale. C'è un muretto basso e lui ci sta seduto sopra, gli avambracci appoggiati alle ginocchia. Ora che non ha più quella cascata di treccine, non può più nascondere il viso piegando la testa. In realtà mi aspettavo di trovarlo singhiozzante o qualcosa del genere, ma piange in silenzio. Forse neanche me ne accorgerei senza la traccia nera del mascara che gli attraversa la guancia fino al mento. “Ehi,” mormoro, perché non so cosa dire. Spero che, come al solito, aprendo bocca e dando fiato ai denti – come diceva mia madre – tra la marea di cazzate che usciranno, ci sia anche qualcosa di utile. Non credo di poter fare nient'altro.
Lui solleva la testa e i suoi occhi si posano su di me un secondo soltanto prima che torni a fissare un punto indefinito di fronte a sé, tira su col naso ma non dice niente. Mi siedo accanto a lui e intreccio una mano con l'altra, guardando la strada e ascoltandolo respirare.
Qui finisce tutto quello che so riguardo alla consolazione di un altro essere umano. Io credo che riuscire a dare conforto ad un'altra persona sia qualcosa che hai dentro di te. O ce l'hai o non ce l'hai, non è che lo impari col tempo. Voglio dire, se proprio sei privo di grazia, se sei uno che non sa dire le cose in un certo modo, per dire, ecco in quel caso puoi imparare a stare zitto o a morderti la lingua e non dire mai la prima cosa che ti viene in mente, scegliendo di dire la seconda; ma per quanto ti sforzi, non potrai mai – e dico mai – imparare qual è la cosa giusta da dire.
Per capire una persona che sta male, bisogna percepirne il dolore come se fosse proprio o saper immaginare quanto male possa fare un certo tipo di dolore. Fatto questo, bisogna chiedersi di cosa abbia bisogno questa persona per allontanare quel dolore. E tutta questa serie di domande e risposte non può avvenire nel corso di una vita, il processo deve prendere al massimo due o tre secondi, la reazione dev'essere quasi immediata perché una persona che sta male conta su di te per stare un po' meglio.
Ecco, io mi fermo al punto uno: non sono per niente empatico. Se c'è qualcosa che ti far star male, io posso oggettivamente capire il motivo per cui stai male – cioè mi rendo conto del perché Bill abbia il cuore spezzato – ma non ricordo come ci si sente a stare come stai tu. Mi è sicuramente capitato di stare allo stesso modo, solo che non lo ricordo perché dimentico in fretta le sensazioni e questo m'impedisce di provare ad immaginare cosa provi tu adesso, anche se fosse la stessa identica cosa che ho provato io. Finisce che questa cosa non me la sento addosso e per questo non ne sono coinvolto. Quando questo succede, in genere, ti viene detto che sei insensibile o che non te ne frega niente degli altri, in realtà non è affatto così. Se davvero non mi importasse di qualcosa, non perderei nemmeno tempo a chiedermi come dovrei reagire. Quello che appare come menefreghismo è, in realtà, l'incapacità di gestire la situazione, ma naturalmente non è che puoi stare lì a spiegarlo alla gente, di sicuro non posso spiegarlo a Bill che – posso supporre – ora si sta chiedendo cosa farsene degli ultimi cinque mesi in cui ha fatto avanti e indietro dalla camera di Bushido, per essere considerato apparentemente come una delle tante donne che c'erano passate già prima di lui.
Il ragazzino mi conosce però. Abbiamo passato un sacco di tempo insieme ultimamente e, visto che a lui piace lamentarsi di qualunque cosa, già sa che io non sono mai stato capace di consolarlo, quindi è lui a parlare per primo. “Da quanto?” Chiede. E' una pessima domanda. Lo guardo e sto per rispondergli, quando scuote la testa. “No, lascia perdere, non voglio sentirtelo dire. E' già abbastanza deprimente così com'è senza che tu aggiunga altro.”
Rimaniamo in silenzio per un tempo lunghissimo e sono così concentrato sul disegno dissestato delle mattonelle sul marciapiede che non sento più neanche il chiacchiericcio e la musica provenire dal locale. Forse adesso dovrei, non so, battergli una pacca sulla palla e dirgli “Su, coraggio,” credo. O forse non è abbastanza. Insomma, cosa significano quelle due parole messe lì così? Che coraggio vuoi che abbia, mica può farci niente.
“Poteva almeno venirmi dietro, no?” Esclama all'improvviso, tirando su col naso. Io lo guardo e lui sbuffa una risatina nervosa. “Anche solo far finta che gli importasse qualcosa...”
“Bill...” Non faccio in tempo a finire – non faccio in tempo a dire per intero una cazzo di frase che sia una stasera – che il ragazzino scoppia a piangere e mi si getta tipo addosso, nascondendomi il viso nella maglietta. Stringe forte la stoffa tra le dita e, singhiozzando, si scuote tutto. Per un attimo rimango con le mani un po' sollevate, senza toccarlo, mentre lui praticamente prende possesso dei miei vestiti per piangerci dentro e mi ricorda un po' mia sorella Clara che bene o male fa la stessa cosa quando piange. Anzi, fa la stessa cosa in generale: si mette con degli stronzi e poi finisce da me in lacrime a chiedermi perché se li trova tutti stronzi e io vorrei risponderle che deve avere un radar per queste cose e non posso. Posso solo abbracciarla e dirle che si rimetterà tutto a posto.
Così quando, tra un singhiozzo e l'altro e anche un po' di bavetta, Bill mi chiede: “Peter, ma perché l'ha fatto?” io lo abbraccio e gli appoggio il mento sulla testa, con un sospiro.
“Perché è uno stronzo, Bill,” dico. Lui si scuote ancora un po' e finisce di usare la mia maglia come fazzoletto. “Ma si rimetterà tutto a posto, vedrai.”

*


Alla fine l'ho portato a casa io, anche perché non era affatto in condizioni di portarsi a casa da solo. Però abbiamo preso la mia macchina e quando gli ho chiesto se voleva andare da Tom, mi ha risposto di no. Da qui a casa sua, che si trova dall'altra parte del mondo, c'è voluta quasi mezz'ora e lui ha smesso di piangere durante il tragitto, anche se adesso ha ripreso a guardare le cose con l'occhio un po' perso e quindi più che discutere con lui e tirarlo su di morale, sto facendo un monologo, blaterando prevalentemente a caso. Quando arriviamo al suo palazzo, devo fisicamente accompagnarlo dentro. Saluto il portiere che mi conosce e lo trascino dentro l'ascensore, spingendo il bottone del quarto piano. Lui aspetta che le porte dell'ascensore si chiudano per appoggiarsi di nuovo a me come ha fatto finora ogni volta che poteva. Sembra quasi che da solo non riesca più a reggersi in piedi e credo che sia normale, deve essersi svuotato a furia di piangere. Lo accompagno fin dentro casa e penso di aver esaurito il mio compito quando lui praticamente si lascia andare come morto sul divano e ha tutta l'intenzione di rimanerci per sempre, lì com'è, lungo disteso sui suoi discutibili cuscini zebrati. Quando faccio per salutarlo e andarmene però, lui mugola qualcosa di incomprensibile e io sono costretto ad avvicinarmi.
“Resti un po' qui?” Mi chiede. E io penso che non voglio davvero restare qui perché sono già le due e lui, mi sembra, ha una gran voglia di piangere quindi lo farà e sarà tremendo e io dovrò stare qui a consolarlo finché, con ogni probabilità, non gli si prosciugheranno gli occhi e collasserà nel sonno più profondo che si sia mai visto. Senza che per altro io gli abbia detto una sola parola utile o che sia stato utile in generale, con la mia presenza. In ogni caso...
“Certo,” dico. Che altro posso fare? D'altra parte mi sento un po' responsabile della situazione visto che in un certo qual modo l'ho resa possibile e cercare di evitare che il cantante dei Tokio Hotel si suicidi stanotte per i suoi problemi sentimentali è un buon modo per espiare.
Restare lì con lui significa ritrovarselo addosso perché Bill non è capace di processare le sue depressioni senza farsi coccolare. Così mi siedo sul divano e lui mi gattona di fianco l'attimo successivo, sistemando la testa nell'incavo del mio collo incurante di cose basilari come il mio spazio fisico personale e l'osso della mia spalla che non può piegarsi nell'angolo che servirebbe a lui; però sembra così rilassato quando finalmente trova la posizione comoda, che non me la sento di muovermi e rimango rigido a fissare il suo appartamento avvolto nel buio perché lui entrando ha acceso solo una minuscola lampada da tavolo – a strisce anche quella – e io volevo andarmene per cui non mi è venuto di mettermi ad accendere lampadari.
“Grazie,” mormora alla fine, rompendo il silenzio. E quando io non rispondo, all'ovvia ricerca di qualcosa per cui dire prego, lui aggiunge: “Per essere stato qui con me, anche se non dovevi.”
“Siamo amici, no?”
Lui a quel punto si solleva un po' e rimango sorpreso quando mi bacia su una guancia, guardandomi da sotto due ciglia pesantissime.
Sto ancora sorridendo intenerito per il gesto quando le sue labbra scivolano sulle mie e lasciano un bacio anche lì. “Bill?”
Lui mi prende il viso tra le mani e mi bacia ancora, sedendomisi addosso e impedendomi qualunque movimento che non sia quello di ribaltarlo lì dov'è, cosa che per istinto non farei mai. Sento il suo corpo sistemarsi tra le mie braccia, o sono loro a sistemarsi intorno a lui. Non lo so, so solo che è automatico e non riesco a fermarmi o a fermare lui che ha schiuso le labbra, leccando le mie, in un invito che provo a rifiutare solo finché lui non mi spinge forte contro lo schienale del divano e mi si pressa contro con un'urgenza così disperata che non posso fare a meno di accoglierla, fosse anche solo per tranquillizzarlo.
In tutto questo io dovrei sapere che stiamo facendo in due una cazzata enorme, anzi forse la sto facendo soltanto io perché sono più lucido, più grande e dovrei capire meglio di lui che lui si comporta così solo perché è molto triste o molto arrabbiato o sa il cazzo cosa, sta di fatto che non lo so e quando lui mi morde le labbra e mugola infastidito e ansioso perché non riesce a togliermi la maglia, io lo aiuto. E mentre io mi spoglio, lui fa lo stesso, maneggia la zip dei pantaloni che è ancora in ginocchio su di me e ogni tanto si china a baciarmi come se avesse paura che se interrompe il contatto, forse i nostri cervelli ripartiranno con un vago rumore di benzina bruciata e allora sarà un gran casino e dovremmo spegnere la luce per guardarci in faccia.
I nostri cervelli non si riprendono affatto e io faccio spazio sul divano, gettando ovunque quegli orrendi cuscini zebrati e tirando giù lui che mi si abbarbica addosso, una delle sue gambe allacciate alla mia schiena e l'altra da qualche parte che si scosta per farmi spazio sopra di lui.
Mi adatto un po' come viene, perché io con un uomo non ci sono mai stato e mi muovo seguendo il suono dei suoi gemiti, ma sembra funzionare perché lui reclina la testa e mugola in un modo che potrebbe anche bastarmi così. Quello che provo io, invece, è una sensazione talmente forte che ad un certo punto potrei anche esplodere da quanto sto bene, finché lui non mi tira giù e mi bacia aggrappandosi a me e credo di perdere il controllo. Lo afferro meglio, appena sotto il sedere e me lo tiro addosso un'ultima volta. Quando mi sciolgo dentro di lui, Bill emette un sospiro forte che mi scende fin quasi in gola, poi crolliamo distesi lì dove siamo e ad occhi chiusi penso sia meglio che domattina non arrivi mai.

*


La mattina arriva anche prima del previsto perché sono appena le otto quando un rumore fortissimo giù in strada mi sveglia di soprassalto e balzo in piedi praticamente all'istante, convinto che si tratti di due colpi diretti a me e usciti dalla Heckler che Bushido si ostina a tenere infilata nei pantaloni anche se poi non la usa mai.
Magari stavolta l'ha usata perché io ho messo le mani sul suo ragazzo anche se tecnicamente non è più suo visto che Bill lo ha scoperto a scopare con qualcun altro. Certo non si sono detti che si lasciavano, ma Bushido lo ha mandato ampiamente a fanculo, per cui è ragionevole pensare che non stiano più insieme. In ogni caso, io non lo so cosa pensa Bushido. Magari pensa che anche se lo ha lasciato, meno di otto ore è un po' poco per prendere e scoparsi il suo ragazzo che magari non lo è più ma diciamo che è ancora in odore di essere suo. Magari ci vogliono più giorni, o che so, dei mesi, perché un ragazzo di Bushido non sia più effettivamente suo. Un po' come con certe analisi che tu le fai e poi per fare la stessa analisi una seconda volta devi lasciar passare un certo periodo di tempo. Magari è così e io non ho aspettato abbastanza, cioè Bill non ha aspettato abbastanza perché ad onor del vero io volevo andarmene via – non avevo nemmeno acceso la luce tanto ero di fretta! – e Bushido è venuto a vendicare il suo onore, le regole del ghetto o chissà cosa. Insomma sono morto. Sono morto e sono in piedi in mutande nel salotto di Bill a guardare il mio corpo privo di vita tra i cuscini zebrati. Che morte atroce.
Mi accorgo che non sono morto quando Bill entra nella stanza e guarda me, non il mio ipotetico cadavere sul pavimento, quindi o è un sensitivo oppure io non sono una creatura ormai ectoplasmatica rimasta su questa terra perché ho ancora delle questione irrisolte. Per un attimo sospiro di sollievo e poi mi rendo conto che anche se non sono morto, la questione irrisolta ce l'ho e siamo io e Bill, che dev'essere sgattaiolato via stanotte mentre dormivo.
“Ciao,” mormora.
“Ciao,” sorrido mentre recupero i miei pantaloni e cerco di darmi una sistemata. Lui ha su il pigiama che gli pende addosso come se dentro lui in realtà non ci fosse. Mi vesto in fretta e lui si guarda i piedi. Quando mi chiede se voglio un caffè, io gli rispondo di sì anche se non mi va, così ha una scusa per andarsene dalla stanza come desiderava nel momento esatto che ci ha messo piede e si è accorto troppo tardi che ero sveglio.
Ci sediamo intorno al tavolo in silenzio e lui spinge verso di me prima la tazzina e poi la zuccheriera senza dire una parola. Dopo un po' il suono dei cucchiaini che sbattono contro la ceramica comincia ad irritarmi, così decido che posso essere io quello che inizia questa discussione.
“Ascolta Bill...”
“E' stato un errore,” fa subito lui, che non è esattamente la frase che mi aspettavo. Intendiamoci, da un certo punto di vista mi solleva che lui non abbia deciso così su due piedi che sono l'amore della sua vita perché non sono sicuro di vederla in questo modo nemmeno io. Però, ecco, essendo lui il personaggio che è, me lo aspettavo un po' più confuso.
“Eri molto scosso,” annuisco. “E io molto poco presente. Avremmo potuto evitarlo ma se siamo entrambi sicuri della situazione allora possiamo fare come se non fosse--”
“Non dovevo farlo,” m'interrompe. “Non è così che sistemerò le cose con Bushido. Tu non glielo dirai, vero?”
Non glielo dirò perché non sono un suicida, ragazzino, ma ciò non significa che lui possa uscire da questa casa e voler davvero sistemare con Bushido. Insomma, non capisco cosa ci sia da sistemare, cosa lui creda di poter fare. “Bill, io non credo che tu capisca,” tento.
“Non ci ho parlato, ieri sera.” E quando alza gli occhi su di me, c'è così tanta determinazione nei suoi occhi che io penso Oh Gesù ed è lo stesso Gesù che mi viene in mente quando mi tocca accompagnarlo a fare spese e lui decide che in due ore possa attraversare la città evitando il traffico dell'ora di punta e avanzando abbastanza tempo da visitare qualche altro negozio. No! E' un suicidio! Non ce la faremo mai quindi Oh Gesù!
“Parlarci? Bill era con un'altra donna!” Protesto e lui mi guarda. “Okay, con una donna! Quello che voglio dire è che-”
“Ha sbagliato,” conclude lui. “Tutti sbagliano. Anche noi lo abbiamo fatto ieri sera.”
Con l'unica differenza che Bill era molto sconvolto e io vagamente ubriaco, mentre Bushido sbaglia dal giorno dopo che si è messo insieme con Bill, quando lui e quattro tedesche di Amburgo si sono chiusi in camera sua e non ne sono usciti per un week end, ma come dirlo ad un ragazzino che, già lo vedo, è partito per la sua crociata personale, pronto a cambiare in meglio il suo tormentato uomo?

*


L'unica cosa che sono riuscito ad ottenere dopo quasi quaranta minuti di preghiere, è di accompagnarlo. In fondo la sua macchina era rimasta al locale e, a meno di non voler prendere i mezzi con il suo faccino universalmente riconosciuto anche dal più anziano venditore di calzini in uno sperduto paesino dimenticato da Dio nella Santa Madre Russia, doveva per forza farsi portare dal sottoscritto. Per altro con la macchina del suo uomo che ieri sera s'è fatto trovare con un'altra. Questa situazione è talmente surreale che se me la fossi inventata, non sarebbe venuta più assurda.
Durante il tragitto ho provato a dissuaderlo da questo folle piano in cui lui si presenta alla Villa Gialla, chiede udienza, la ottiene e dopo una plateale scena di vicendevole perdono, i due si amano di nuovo follemente.
Bill è così convinto che il loro malinteso – che detto così sembra che Bushido non abbia capito l'ora giusta per andarlo a prendere, non che si sia infilato in orifizi anatomici che non gli competono – sia, innanzi tutto, un malinteso appunto, e che sia anche risolvibile. Suppongo che nella sua testa si stia svolgendo un dialogo surreale, del tipo “Bill, mi dispiace tanto, sono inciampato e lei veniva di strada: il suo corpo mi ha impedito di fracassarmi al suolo” “Certo, ho solo frainteso quello che stavo vedendo!” o una roba simile. E io non so come fare ad impedire che questa tragedia di proporzioni epiche si compia. Non ho idea di come inizierà di preciso, ma di sicuro so come andrà a finire, perché conosco Bill ma soprattutto conosco Bushido che consegnandomi le chiavi della BMW ieri sera, non si aspetta minimamente che io gliela riconsegni con dentro Bill. Né si aspetta che Bill gli suoni il campanello di casa alle undici del mattino, con addosso i suoi occhiali da sole da diva del cinema in bianco e nero e me lì di fianco, in piedi come un deficiente.
Io comunque, aspetterò fuori, perché questi sono affari loro e anche per una buona dose di fifa, visto che ho sempre addosso la sensazione che ci sia un proiettile per me da qualche parte. In più sono quasi certo che quando uscirà di corsa e in lacrime da questo stesso cancello che adesso si sta aprendo dopo che ha fatto il suo nome alla domestica attraverso l'interfono, Bill avrà bisogno che qualcuno lo recuperi al volo, prima che si getti di testa nel primo fiume disponibile. A quanto pare il mio ruolo in questa faccenda è impedire che milioni di ragazzine nel mondo piangano la morte del loro cantante, suicidatosi per amore.
Aspetto più di quanto pensavo avrei aspettato. Finisco anche per sedermi a terra, appena fuori dal cancello e a giocare con Skyline che fa capolino col muso tra le sbarre e scodinzola, da quel gran cane da guardia che è. Poi, quando ormai penso che davvero, probabilmente, quei due di sono messi a posto nel modo in cui Bill aveva progettato – in fondo Bushido è completamente fuori di testa e Bill così innamorato che magari è passato sopra alla stronzaggine, alle donne, alle corna, qualunque cosa – ecco che sento la porta di casa sbattere con forza e il cancello si apre con un rumore metallico. Il labrador si sposta per non essere investito e scodinzola ancora più forte quando Bill gli passa davanti a grandi falcate, gli occhiali da sole che non coprono le lacrime nere di trucco e la borsa stretta sottobraccio. Una cosa che generalmente mi dà da pensare su di lui – e da poco anche su di me, visto quello che è successo ieri sera – ma che adesso non noto nemmeno perché il ragazzino sembra tanto sconvolto da non ricordarsi che sono stato io a portarlo qui e che l'ho anche aspettato.
“Bill!” Lo chiamo, quando vedo che esce in strada e parte in quarta, Dio solo sa dove. Nel sentire il suo nome si ferma e guarda in giro, tirando su col naso e cercando di cancellare le lacrime già versate come se non avessi già potuto vederle e come, appunto, non si ricordasse minimamente che questo fra me e lui non è uno di quegli incontri casuali che capitano proprio al momento sbagliato.
Lo raggiungo a passo svelto e lo giro per una spalla. “Ehi, aspetta. Che è successo?” Non gli chiedo com'è andata solo perché è evidente. Il che presuppone da parte mia un notevole sforzo mentale e di coordinazione cervello-bocca. Quasi mi compiaccio da solo.
“Niente,” mormora lui. “Non è successo assolutamente niente.”
Sospiro perché sarà più lunga del previsto. Mi ricorda sempre di più mia sorella quando decide di fare di testa sua nonostante i pareri contrari di tutta la famiglia e di qualsiasi persona sia venuta a conoscenza del suo problema. Generalmente, di qualunque cosa si tratti, poi ovviamente va a finire male, lei finisce in lacrime e quando tu le chiedi cosa sia successo, non è mai successo niente. E' interessante quante cose mai successe siano in grado di far piangere un adolescente fin quasi a prosciugarsi gli occhi.
Bill intanto si agita sul posto, come avesse fretta di andarsene. “Vuoi che ti riporti a casa?” Gli chiedo.
Lui fa un sospiro profondissimo, neanche l'aria rimasta l'avesse in fondo ai piedi e dovesse tirarla su da lì – e sarebbe tanta strada visto che è lungo. “E con cosa ci andiamo a casa? Con la macchina di Bushido?”
Su questo ha ragione e pure io potevo pensarci. Dal momento che non credevo assolutamente possibile che questa cosa tra i due si risolvesse in questo modo, avrei dovuto prendere la mia e riportare l'auto a Bushido in un secondo momento. Ora siamo senza auto, io non posso entrare alla Villa Gialla solo per riportare le chiavi della BMW per poi uscirne subito dopo e riaccompagnare lui non so come. “Prendiamo un taxi?” Offro.
Lui non risponde, fa spallucce. Come se non gli fregasse niente di tornare a casa o di rimanere lì. Immagino che nella sua testa la sua vita sia finita e che il mondo può andare tutto quanto in malora se proprio deve, che tanto ormai per lui non c'è più speranza. Sempre Clara, naturalmente.
Chiamo un taxi e, intanto che aspettiamo, ci sediamo sul marciapiede. Lui si avvolge la testa con la sciarpa e si calca bene gli occhiali sul viso. Penso che se qualche ragazzina scalmanata passa di qua in questo momento – alle volte capita che vengano a fare pellegrinaggio di fronte alla casa di Bushido come se fosse un luogo sacro, tipo la Mecca, per dire – Bill se la mangerà viva e si pulirà i denti con le sue ossa, che è un'immagine molto cruenta ma, vi assicuro, molto plausibile. Non è solo triste come ieri sera, è anche arrabbiato e frustrato. Gli tremano le mani mentre cerca in borsa il pacchetto di sigarette e ne accende una. Le sue dita ci mettono un po' ad obbedire quando prova a far funzionare l'accendino.
“Ma quando arriva questo cazzo di taxi?” Sputa fuori, dopo nemmeno due minuti. Se stare qui seduti in silenzio con qualcosa di non detto che aleggia nell'aria è per lui imbarazzante anche solo la metà di quanto lo sta diventando per me, allora posso capire che voglia vedere il taxi comparire dal nulla.
Recupero un bastoncino dal marciapiede e mi metto a disegnare figure nel terriccio sotto l'albero piantato lì di fianco. In verità non so nemmeno cosa fare. Non posso dirgli che glielo avevo detto, perché perfino io so che è l'ultima cosa da dire in questi casi. E, naturalmente, lo so per esperienza perché prima di capirlo mi sono fatto mandare a fanculo da molte persone diverse.
Mi schiarisco la voce, pregando che qualcuno lassù – chiunque sia all'ascolto, non fa molta differenza, io sono aperto a tutte le religioni quando possono togliermi dai guai – veda la mia miseria, la compatisca e mi dia una mano a liberarmene. “Vuoi dirmi com'è andata?”
“No.”
Ottimo. Avevo sperato che mi lasciasse uno spiraglio aperto, un qualcosa a cui attaccarmi, anche un'offesa, per dire, qualcosa a cui io potessi rispondere e da lì proseguire. E invece mi ha bocciato il tentativo sul nascere. Mi gratto la nuca e guardo all'inizio della strada. Adesso mi chiedo anche io dove sia il cazzo di taxi che ho chiamato ben tre minuti fa.
Rimaniamo nuovamente in silenzio, ed è un silenzio pesantissimo. Uno di quelli che ti fa venir voglia di alzarti, pulirti le mani sui pantaloni e dire: beh, io ho molto da fare. E' stato bello, ci vediamo. E poi camminare il più in fretta possibile, proprio per non dare modo all'altra persona di fermarti e tenerti lì ancora un po'. Un silenzio dal quale ti immagini di fuggire via in un lampo, con la nuvoletta dietro, come nei fumetti.
“Non mi ha fatto nemmeno parlare,” esclama Bill all'improvviso, dopo non so quanto tempo, che io ormai ho disegnato per terra un arabesco enorme. E per un attimo non capisco di cosa stia parlando: il mio cervello ha lasciato perdere l'argomento istantaneamente dopo la sua negazione. Ora per riprendere il discorso lo sento girare al contrario, come quando premi il pulsante della segreteria per riascoltare i messaggi registrati. Sento proprio il ronzio delle rotelle ed è così forte che quasi mi chiedo come non faccia a sentirlo anche lui. Ma Bill è troppo preso per prestare attenzione a me o alle mie rotelle arrugginite. “Sono entrato nel suo studio e mi ha chiesto cosa diavolo ci facessi lì.”
D'accordo, Bushido. E non mi sorprende che lo abbia accolto così. D'accordo, forse un po' di gentilezza non avrebbe guastato, ma Bushido non è uno gentile. Se deve convincerti di qualcosa, parlare ai microfoni in televisione o portarsi a letto una donna, allora si trasforma e diventa l'elegante uomo d'affari tunisino che si è ripulito dal ghetto ed è diventato un gentiluomo. Quello che con i sorrisi stende le giornaliste; ma se gli arrivi in casa senza preavviso e gli chiedi spiegazioni su una cosa che, presumibilmente, era molto chiara, ti manda a quel paese senza tante cerimonie. Che non è affatto carino, ma è lui, appunto. E questo Bill non lo sapeva perché Bill era quello che Bushido doveva convincere e portarsi a letto, quindi con lui è sempre stato fascinoso e gentile e dolce. Tutte cose che non è, se lo conosci. Ma io non posso dirlo, questo, al cosino qui, che mi siede accanto e che non so se sia incazzato con Bushido perché ha fatto lo stronzo, con me perché non gliel'ho detto o, peggio, con se stesso perché non ha voluto, per nessuna ragione al mondo, leggere i segni che erano sparsi ovunque – e dire che una donna che cavalca il tuo uomo è un segno al neon bello grosso, direi.
Ma esattamente come mia sorella, ed è brutto da dire ma come ogni donna dell'universo, lui non ha veramente bisogno di sentirsi dire un bel niente, ma solo di qualcuno che lo stia a sentire, giusto perché se si mette a sbraitare da solo per strada poi arriva qualcuno che lo vorrà portare in manicomio. Quindi in sostanza, non devo far altro che stare lì ad ascoltarlo.
“Gli ho chiesto se potevamo parlare,” continua, guardando di fronte a sé. “E lui mi fa: e di cosa? E io: di quello che è successo ieri sera! E lui dice: mi sembrava che la situazione fosse chiara!”
Come ho appena detto, appunto.
“Chiara?” Continua Bill e questa volta si gira proprio verso di me, cerca comprensione e io sento di nuovo il panico che se ne stava andando – convinto che il ragazzino avrebbe iniziato e finito da solo – e che invece ora torna indietro, mi si abbarbica ad una gamba e riprende a risalire il mio corpo, per quanto poco ce ne sia. “Che cosa vuol dire chiara? Voglio dire, non abbiamo parlato per niente! Non ti pare?”
“Tu... glielo hai detto, questo?” Provo.
“Certo che gliel'ho detto! Gli ho detto: Ma Anis, non ne abbiamo nemmeno parlato! Cioè io me ne sono andato e tu non mi hai neanche seguito, insomma, magari dovremmo parlarne, no?”
Mi guarda come se io fossi Bushido, così mi schiarisco la voce e mormoro: “S-sì?” che spero sia la risposta che lui vuole sentirsi dire. Di sicuro so che non è quella giusta in generale; perché davvero non so cosa si aspettasse: se è consapevole che quell'uomo non lo ha seguito – ripetiamolo: non. lo. ha. seguito. - non gli viene in mente che forse non voleva? Che forse era un modo come un altro per togliersi un peso, lui, e finirla lì nel modo più facile possibile? No, non gli viene in mente perché è piccolo, lo ama, ha il prosciutto sugli occhi e tutte quelle cose lì.
“E lui sai che cosa mi ha detto?”
“No,” sospiro.
“Di che cosa vuoi parlare?” Risponde. “Mi ha detto: di che cosa vuoi parlare? Come se non fosse successo niente, cioè ma c'ero solo io in quel locale ieri? Io non lo so.”
“Bill, ascolta...”
“Voglio dire, se te ne frega qualcosa magari ne discuti no?” Continua lui, imperterrito. “Okay, ho capito, c'era quella tipa... è successo. Mi hai fatto male, ma spiegati! Giustificati! Magari posso pure passarci sopra, no? Cioè non sempre, ovvio, ma può capitare credo, che uno si lasci andare. Può capitare, no?”
E mi guarda, agitato. Le sue mani hanno ripreso a tremare e so che siamo di nuovo sull'orlo delle lacrime, una cosa che peggiora la mia già rovinosa situazione. Io sono qui seduto su un marciapiede a disegnare i cerchi nel fango, con più informazioni di quante dovrei possederne – e di quante lui sappia, per altro – e non so cosa fare. “Sì, può capitare che uno abbia una sbandata,” la prendo larga. “Ma, Bill-”
“Appunto!” Esclama lui. “Appunto. Io sono arrabbiatissimo, d'accordo, ma lui viene prima. Noi veniamo prima, quindi io penso: okay, mi hai tradito e mi hai fatto male, ma possiamo superarla questa cosa, no? Se ne parliamo! In fondo non è morto nessuno!”
“Sì, in una situazione normale, forse...” arranco. “Ma Bushido...”
“Bushido cosa?” M'incalza lui.
E io faccio una smorfia perché pensavo non mi stese ascoltando, come non ha fatto finora. Pensavo che avrebbe continuato a blaterare a caso finché non si fosse rimesso a piangere e a quel punto io gli avrei battuto su una spalla cercando di tirargli su il morale. E invece no, stavolta ascoltava. Bushido cosa? Eh, Bushido cosa. “Forse...” inizio e poi mi schiarisco la gola. “Forse avevate due idee diverse di questa relazione.”
Silenzio. Non esattamente la reazione che mi aspettavo. Così mi volto e riprendo a fare ghirigori per terra. Forse se chiudo gli occhi scompare. Se sto zitto, cambia argomento. Sto regredendo a quando avevo otto anni e mia nonna mi sgridava perché avevo combinato qualcosa. Il che è assurdo perché io in questa situazione non ho colpe, per una volta.
“Che cosa vuoi dire?”
Sospiro e poggio il bastoncino. “Bill, parliamoci chiaro, okay?” Dico alla fine, perché poi, come con mia nonna, alla fine mi stufavo di fare il vago ed era meglio dirle che sì, il cancello dei maiali aperto lo avevo lasciato io. Il maiale aveva rischiato di fuggire, punizione e via. Fine della storia. “Tu hai volutamente fatto finta di non vedere tante cose.”
“Spiegati,” e cala il gelo. Tipo che improvvisamente a Berlino è il quattro dicembre, ci sono meno venti gradi e forse ho anche un po' di neve sulla testa.
“Bushido non è un principe azzurro,” mormoro. “Non è mai stato quello che pensavi che fosse. Vi siete divertiti, ma...”
“Divertiti?” Sbraita. E lì capisco di aver scelto male le parole. Divertimento non è la descrizione giusta di quello che passava nel cervello di Bill quando compariva elegantissimo alla Villa Gialla. Divertimento non è la parola con la quale dipingeva questo idillio romantico che solo lui vedeva quando si svegliava nel letto di Bushido e in salotto c'eravamo noi tutti ma non lui. Divertimento è la realtà, amore sono le fette di prosciutto che aveva sugli occhi e che, per altro, sembra avere ancora. “Io lo amo!”
Ecco, appunto. Non ho il coraggio di dirgli niente. Quindi sto zitto.
“Chakuza, cazzo, dì qualcosa!”
“Che cosa vuoi che ti dica?” Esplodo alla fine, e lui si scosta un po', gli occhi sgranati perché non si aspettava questa reazione. “Lo so che ci sei rimasto male, credimi! Non volevo che succedesse! Ma lo hai trovato con un'altra e lui non si è preso nemmeno la briga di venirti dietro! Ha mandato me!”
Lui mi guarda, le labbra dischiuse.
“Che cosa ti aspettavi?”
In quel momento mi rendo conto che Bill, da ieri sera, non ha ancora fatto il collegamento più palese di tutti. Ieri era troppo triste per quello che aveva visto e qualche secondo fa troppo arrabbiato per la reazione di Bushido; di quello che è chiaro se ne accorge adesso, e vedo la consapevolezza che compare improvvisamente nei suoi occhi, mentre mi guarda. Vorrei riavvolgere gli ultimi tre o quattro minuti di conversazione e portare la sua attenzione altrove. “Tu lo sapevi,” mormora. Inspiro e apro la bocca per dire qualcosa, ma non me dà il tempo. “Lo hai sempre saputo! Eri lì per quello!”
Dal suo migliore amico, all'ennesimo stronzo in meno di tre secondi netti. Forse ho battuto dei record, dovrei controllare.
“Bill, ascolta...”
“No, tu eri lì per quello,” ripete. Si alza e io lo imito, giusto per non essere a terra nel caso iniziasse ad agitare quelle lunghissime gambe. “Sei sempre stato lì per quello! Chissà quante volte è successo!”
“Non volevo che tu ci stessi male.”
“Tu non...” inspira e scuote la testa. “Non lo volevi ma intanto non hai impedito che succedesse! Anzi probabilmente era a quello che servivi, tu? Non è così? A distrarmi quando lui non c'era.”
“No!” Esclamò, anche se è vero. “Ascolta...”
Lui mi spinge indietro. “Sei un bastardo,” mormora. “Siete tutti dei gran bastardi. Quanto vi siete diverti alle mie spalle? Dio... che schifo.”
“Non sapevo che diavolo fare,” mi giustifico in una maniera che non sta né in cielo né in terra, me ne rendo conto, ma non so cosa dire. In verità non avevo ancora pensato a come spiegargli la mia posizione. Ero troppo impegnato ad evitare che si facesse mandare a fanculo da Bushido, cosa che non mi è riuscita tanto bene, mi pare evidente.
“Tu hai sempre saputo che a Bushido non fregava un cazzo di me e hai fatto in modo che non lo scoprissi.”
“Speravo che lo capissi da solo!”
“E come? Come facevo a capirlo se tu lo coprivi! Hai fatto un ottimo lavoro, complimenti! Sei fiero adesso?”
Io sospiro. “No,” mormoro. “Non ne sono fiero e non lo sono mai stato. Ma non avevo molta scelta.”
Il taxi si avvicina mentre noi stiamo ancora discutendo.
“Anche ieri sera, faceva parte del piano?” Mi sibila addosso. “Lui mi scarica scopandosi la prima che passa e tu ti scopi me. Magari l'avevate anche programmata!”
“No! Non era assolutamente programmato!”
“Hai preso la palla al balzo allora,” fa lui, annuendo e aprendo la portiera. “Spero ti sia divertito, almeno. Così non ti sentirai da meno quando ne parlerete.”
“Bill, non è così!” Provo a fermarlo, ma lui mi scosta con uno spintone ed entra nell'auto, dando all'autista l'indirizzo di casa sua. Batto le mani sulla portiera. “Aspetta!”
Lui non si volta a guardarmi e l'auto riparte prima che riesca a pensare a qualcosa per impedirlo.
Merda.

*


Sono a casa da quattro ore e non riesco a stare fermo.
Ho cucinato per un reggimento ed ho finito anche per lavare i piatti a mano, un evento storico che non capitava da anni e per assistere al quale mia madre avrebbe probabilmente dato via qualche organo interno. Credo che da qualche parte nel mondo lo stiano catalogando come il primo vero segno che la fine del mondo si sta avvicinando, altro che scomparsa delle api. Non sono arrivato ancora a rimettere a posto il salotto per il semplice fatto che non so effettivamente che cosa si nasconda fra il ciarpame che si è stratificato sopra i miei mobili e, ad essere sinceri, ho un po' paura di infilarci le mani dentro. In più, ora che tutti i miei piatti brillano e che, anche volessi, non avrei più cibo da cucinare, sono troppo impegnato a fare solchi nel corridoio andando avanti e indietro per pensare a qualcos'altro che non sia quello a cui sto pensando da quando sono rientrato in casa: come rimetto a posto le cose con Bill?
Dentro di me sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Voglio dire, io sono abbastanza approssimativo come essere umano dotato di raziocinio, ho sempre dei grossi problemi ad afferrare certe dinamiche, ma era impossibile perfino per me non rendermi conto che questa situazione non poteva andare avanti per sempre e che un bel giorno, se Bill non lo avesse scoperto da solo, sarebbe toccato a me prenderlo da parte, farlo sedere, e dirgli cortesemente che poteva anche smettere di farsi vivo da queste parti perché Bushido si era divertito abbastanza e ora aveva trovato altri trastulli.
Ora, si fosse trattato del primo caso, poteva avvenire mentre non c'ero – improbabile ma non impossibile – e in quel caso sarebbe stato piuttosto semplice aiutarlo, perché avremmo gettato insieme merda su Bushido e lo avrei convinto che era un infame e che non se lo meritava uno come lui. Fine della storia.
Mi fosse invece toccato davvero prenderlo da parte e liquidarlo al posto del tunisino, sarebbe stata più dura – anche perché, come ho già detto, non sono per niente diplomatico né bravo a consolare la gente – ma in qualche modo ne saremmo usciti perché lui sarebbe stato molto triste ma io sarei stato ambasciatore che non porta pene. E invece lui è comparso mentre Bushido scopava e io gli facevo da palo: praticamente la situazione catastrofica da manuale. Se Bill non si è reso conto subito della parte da stronzo che avevo io in tutta la faccenda, sono solo stato fortunato.
Naturalmente, in tutto questo, io che cosa vado a fare? Ci vado a letto. Col ragazzino, il quale è troppo confuso per capire cosa sta facendo e cosa ho fatto io finora. “Sei un deficiente,” mi dico guardandomi allo specchio del corridoio come se quest'uomo riflesso non fossi io. “Sei un deficiente di proporzioni epiche, Peter.”
E ora – ora che Bushido gli ha dimostrato di persona quanto è stronzo e che lui è più lucido, più sveglio e meno immerso nell'amore eterno e imperituro – Bill ha fatto due più due e, dalle prove che ha di fronte, ovviamente due più due fa quattro e non cinque, come dovrebbe essere in questo caso specifico.
Io non ho certo fatto tutto quello che ho fatto per poi approfittarmi della situazione e di lui, soprattutto. Punto primo, perché non ho certo bisogno che Bushido scarichi la gente che si scopa perché me la scopi io. Punto secondo, perché non sono uno stronzo – anche se ai suoi occhi devo sembrarlo – e un merdata come questa non gliel'avrei mai fatta. Nemmeno se non fossimo stati amici, cosa che per altro eravamo prima che lui scoprisse tutto. E ora invece se chiamo nemmeno mi risponde al telefono.
Riprovo, non si sa mai. Ho perso il conto delle volte che ho appoggiato e ripreso il telefono a distanza di mezzo minuto. Squilla e poi, dopo un po', lui risponde solo per riattaccare. Mi consola soltanto il fatto che non abbia spento il telefono. Se davvero non volesse sentirmi, allora lo avrebbe già fatto; o almeno questo è quello che mi dico per darmi un minimo di speranza.
Non so bene cosa fare; però so che devo parlarci e devo spiegargli come stanno realmente le cose perché lui non può decidere di non vedermi più rimanendo nella convinzione che ho tramato alle sue spalle insieme a Bushido e che ieri notte su quel divano io mi sia approfittato di lui e della situazione. Se non vuole più vedermi, d'accordo – no, d'accordo no perché io lo voglio vedere – ma non voglio che pensi che sono uno stronzo. Perché io non sono uno stronzo e non lo so cosa mi è preso ieri sera, ma di certo non volevo divertirmi. E' Bill, cazzo. Non l'avrei mai fatto. Cazzo, cazzo, cazzo.
Devo inventarmi qualcosa.

*


Quando apre la porta, Bill ha su un musino triste che non gli vedevo addosso dai tempi in cui è uscito quel film ispirato al cane che è rimasto ad aspettare il padrone davanti alla fermata del treno, finché poi non è morto anche il cane e gli hanno fatto una statua e ora tutti i giapponesi che si danno un appuntamento, se lo danno sotto la statua del cane morto. Una roba tremenda, piena di inquadrature intense e il piano delle grandi tragedie che suona quasi costantemente in sottofondo. L'abbiamo visto insieme perché Bushido si è guardato bene dal sorbirsi la tortura e mi ha mandato un messaggio un'ora prima dell'inizio del film, dicendomi di sostituirlo. Io sono arrivato al cinema con la speranza di poter dirottare il ragazzino su qualcosa di più accettabile – fosse anche una maratona di film storici sulla guerra in Crimea sottotitolati in arabo – ma lui aveva già preso i biglietti e stava saltellando di fronte al poster di questo film, dove c'era un cucciolo di cane minuscolo e lui era già tutto preso, come se la presenza di cani piccoli non fosse già di per sé indicativa della mattonata che poi sarebbe stata il film.
Durante il film io volevo suicidarmi e proprio quando stavo per farlo, piantandomi nel collo la cannuccia della bibita dalla parte appuntita, ecco che lo sento singhiozzare. Non un pianto sommesso, veri e propri singulti, così ho messo da parte i miei propositi di suicidio e gli ho chiesto se stava bene. E quando si è girato lui aveva il musino che ha adesso sulla soglia di casa, solo che ci sono io con un mazzo di fiori in mano, non un cane morto. E non è morto nessun cane nemmeno nei giorni passati, sebbene cane e Bushido nella stessa frase – anche senza il morto – forse in questo frangente ci stanno.
“Ciao,” esordisco in maniera poco originale. E questo, ovviamente, sembra non colpirlo minimamente.
Si appoggia allo stipite della porta con tutto il corpo, costringendomi a stazionare sullo zerbino, a meno che non voglia finirgli addosso. E non voglio, quindi sto sullo zerbino.
“Che cosa vuoi?” Mi chiede.
“Parlarti,” rispondo. Questa la so. Quello che non so è di cosa, esattamente. Cioè, come al solito, una volta compreso quello che dovevo fare, ho preso il giubbotto, mi sono fiondato in auto e sono corso qui, ma non so esattamente come affrontare il discorso.
“Non hai niente da dirmi, Peter,” risponde lui e fa per chiudere la porta. Io di getto ci metto un piede in mezzo con il risultato che gli impedisco, sì, di chiuderla ma siccome lui è delicato come uno scaricatore di porto, me lo fracassa, costringendomi a tirare una di quelle bestemmie che avrei preferito evitarmi mentre tentavo di scusarmi con lui.
Mi piego in due come un riccio di mare, cercando di trattenere le lacrime, dal momento che saltellare su un piede solo in giro per il pianerottolo è già abbastanza imbarazzante.
“Oh cavolo, Chaku mi dispiace!” Fa lui, del tutto dimentico della porta. “Ti sei fatto male?”
“No, rimarrò solo zoppo per tutta la vita,” rispondo.
Mi aiuta a trascinarmi verso il muro, dove mi appoggio e provo a rimettere il piede in terra. Fa un male cane, ma non così tanto da essere rotto, quindi forse non è così grave. Alla fine sospiro e mi chino a raccogliere i fiori che mi sono portato dietro. “Non era esattamente l'inizio che avevo in mente,” commento. “Ti va se ricomincio? Giuro che avevo un motivo per essere qui.”
Lui fa un sorrisetto impacciato, poi si morde un labbro e sospira. “Visto che ti ho quasi spezzato tutte le dita del piede, ti meriti una possibilità. Vieni, entra. Ti offro una birra.”
Lo vedo che occhieggia il mio mazzo di rose, ma non dice niente. Io le nascondo dietro la schiena e lo seguo dentro casa. Sto zitto finché lui non torna con le birre e ho il sospetto che sia andato a raccogliere il luppolo per farle personalmente visto che ci mette una vita. Quando torna e dopo avermene passata una, lo vedo che si appoggia contro l'isola della cucina e guarda altrove con sguardo rassegnato prima di tornare a guardare me. “Prima che tu mi rifili qualche giustificazione preconfezionata, dimmi che quel mazzo di fiori è per tua madre,” commenta.
Mi viene istintivamente da gettarlo fuori dalla finestra, ma alla fine non lo faccio. Anche perché già mi vedo la scena di questo bouquet che vola giù per quattro piani e colpisce un'anziana signora che muore d'infarto. Così, per evitare di avere una donna morta sulla coscienza, appoggio i fiori sul tavolino da caffè, un po' più vicini a lui, ma non troppo, così forse compiranno la loro funzione ma in maniera meno imbarazzante che non dandoglieli in mano. “In realtà sarebbero per te,” balbetto. Ma sto seriamente prendendo in considerazione l'ipotesi di portarli a mia madre.
“Perché?” Fa lui, guardandomi come se le avesse ormai provate tutte con me e si trovasse ora di fronte alla necessità di ammettere la propria pesante sconfitta.
“Per chiederti scusa,” rispondo. Sono andato dal fioraio a chiedergli esattamente questo: dei fiori per chiedere scusa. Lui mi ha risposto: le rose. Ma, a mio avviso, le rose erano troppo compromettenti – voglio dire, non mi ha mica trovato insieme ad un'altra mentre stavamo insieme. Non stiamo nemmeno insieme! – così, visto che a quanto pare non ci sono fiori specifici per chiedere scusa quando hai coperto il fidanzato del tuo migliore amico mentre lo tradiva e, nel mentre, ti sei pure infilato nelle mutande dell'amico in questione così che lui ora pensa che tu sia uno stronzo, il buonuomo mi ha detto: rose rosa! Illuminandosi tutto. E io ho pensato che era così preso bene che non potevo dargli contro e poi mi sembrava una buona soluzione: le rose chiedono scusa, il rosa attenua la colpa. Chiaro.
“Rose rosa, Chaku?” Chiede ancora, Bill. E non mi sembra che condivida il ragionamento mio e del buonuomo.
“Non ti piacciono?”
Lui fa di nuovo quel sospiro privo di speranza. “Non è questo il punto è che...” sospira di nuovo e scuote la testa. “Fiori?” Ci ritenta.
A questo punto penso che non possiamo starcene qui a chiederci dei fiori e a risponderci che le rose rosa mi sembravano una buona idea. Scosto il bouquet che finisce in terra. “Okay, senti, lascia perdere i fiori, va bene?” Propongo. “Il punto è che io sono qui a chiederti scusa e a dirti che mi dispiace per tutto quello che è successo.”
“E pensi che un mi dispiace possa bastare?” Esclama sconvolto.
“No, ma da qualche parte dovrò pur cominciare!” Replico.
Lui sussulta e mi guarda di nuovo in quel modo strano. Probabilmente è perché in questa situazione io dovrei semplicemente continuare a scusarmi mentre lui si sfoga accusandomi di qualsiasi male del mondo e poi sperare che, dopo tutto questo, alla fine accetti anche le mie scuse. “Mi hai deliberatamente tenuto all'oscuro di quello che il tuo capo mi stava facendo.”
“Vero.”
“E per tanto è come se lo avessi aiutato.”
“Sì, però...”
“Non solo! Ma quando poi l'ho scoperto, hai pure fatto l'amico e mi sei saltato addosso!”
No, questo no. “Ma se mi hai baciato tu!”
“Adesso è colpa mia?”
Se dico di sì, posso anche prendere i miei fiori e uscire da questa casa, ma non è del tutto colpa mia, e non ho intenzione di addossarmela. “No, ma-”
“Allora lo vedi che è come dico io?” Mi interrompe. “Lui ti ha pure dato le chiavi dell'auto per riportarmi a casa! Non cercare di giustificarti!”
“Bill mi fai parlare o vuoi fare tutto da solo, come tuo solito?” Sbotto alla fine. Lui si zittisce subito e guarda offeso da un'altra parte, incrociando le braccia al petto con l'aria di quello che mi sta facendo un favore a lasciarmi parlare ma tanto lo sa già che sto dicendo idiozie. E io faccio finta di non vederlo, perché lo conosco e so che gli piace battere i piedi, quindi vediamo se per una volta riesco a farlo ragionare come Dio comanda e non come comanda lui.
“Bushido si è comportato da stronzo e io che gli sono stato dietro-” fa per aprire bocca ma sollevo un dito per dirgli di non azzardarsi a farlo. “... e io che gli sono stato dietro, non sono stato meno stronzo di lui. Ma non sapevo che cosa fare!”
“Potevi dirmelo!”
“Come?” Esclamo. “Come facevo a dirti che tu eri in giro con me perché così lui potesse farsi qualcun altro? Come facevo a dirti che al tuo prezioso Anis di te non è mai importato niente?”
“Smettila...” mormora lui, rabbuiandosi.
“Avrò anche sbagliato, ma non l'ho fatto perché fossi d'accordo con lui, chiaro?” Commento. “Non l'ho fatto solo perché sono un coglione e ogni volta che ti sentivo parlare di lui come se fosse l'ottava meraviglia del mondo non avevo il coraggio di dirti che così non era.”
Lui continua a non guardarmi. Attendo qualche istante ma non dice niente e non si volta, così penso che in realtà non sto sortendo alcun effetto e forse sono solo io quello a cui interessa rimettere le cose a posto. Alla fine, visto che non reagisce, ne concludo che stare qui non ha alcun senso.
“D'accordo, lascia perdere,” espiro e mi avvio verso la porta. “Comunque, tanto per chiarire, l'altra sera non avevo programmato di venire a letto con te, proprio per niente,” concludo. “Ma sei stato tu a dire che è stato un errore, non io.”
Ho già aperto la porta quando mi chiama. “Chaku, aspetta.”
“Che c'è?”
“Lo pensi davvero?”
“Cosa?”
“Che non sia un errore,” specifica, guardandomi dritto negli occhi.
Mi stringo nelle spalle. “Se lo è,” rispondo, “è uno di quelli che potrei rifare.”
Mentalmente penso che non so da dove mi sia uscita questa frase e mi vergogno anche come un cane per averla pronunciata. Il punto è che è vera e come tutte le cose più o meno vere che mi passano per il cervello, mi è uscita pure di bocca, come se avesse una corsia preferenziale. Senza filtri.
Forse non è stato proprio prudente decidere di andare a letto insieme in quel preciso momento, ma la cosa in sé no, non era sbagliata. Io gli voglio bene a questo ragazzino e di certo l'ho trattato meglio io di quanto abbia fatto Bushido in tutto questo tempo, anche se per loro – visto che ufficialmente stavano insieme – sembrava giusto andare a letto insieme e invece non lo era affatto.
Mentre lo vedo che un po' diventa rosso, ed è palesemente in imbarazzo, mi chiedo se potrei davvero pensare di stare insieme a lui e penso che in un certo senso già ci sono stato, visto che a lui ho pensato io finora, ci manca giusto esattamente quello che poi è successo nel momento sbagliato.
Quindi non lo so, magari non ha senso affrettare i tempi – siamo su un terreno minato e lui è ancora troppo confuso per poter pensare a dove mette i piedi – ma non ha senso nemmeno escludere a priori la possibilità.
“Io non so cosa pensare...” mormora alla fine incerto. “Non so perché è successo.”
“Perché mi hai baciato,” lo prendo in giro.
Lui solleva lo sguardo e poi mi mostra la punta della lingua, come a farmi una pernacchia. “Forse non lo avrei fatto se non fossi stato tu,” ammette alla fine.
E io sorrido. “E io non sarei stato d'accordo, se non fossi stato tu,” commento.
“E allora, che cosa saremmo noi di preciso?” Chiede alla fine, alzando gli occhi sgranati. “Voglio dire, se non è un errore e tu lo volevi e... lo volevo anch'io, che cosa siamo? Fidanzati? Amici?”
“Niente,” rispondo.
Lui solleva un sopracciglio. “Come niente? Ma se abbiamo appena detto-”
Gli metto due dita sulle labbra giusto perché le chiuda e la smetta di riversare su di me e su se stesso una quantità di parole senza senso che poi dovremmo spazzare via o nascondere sotto il tappeto perché sono inutili e a lasciarle in giro poi ci si inciamperebbe, facendoci male.
“Facciamo le cose con calma, vuoi?” Propongo. “Cerchiamo di non affrettare i tempi e vediamo come va. Se deve essere, succederà. Non ha senso che iniziamo a ragionare su qualcosa di cui non siamo nemmeno sicuri.” Quasi mi sorprendo di me stesso perché questa cosa sembra avere davvero un senso, dico in generale, non solo nella mia testa.
Bill annuisce. “Un po' per volta.”
“Un po' per volta,” concordo. “Per esempio, potremmo iniziare andando al cinema.”
Gli si illuminano gli occhi come al mio fioraio o come gli avessi detto che lo porto in vacanza, cosa che non posso fare perché sono al verde. “Potremmo andare a vedere qualcosa di carino.”
“Ma senza cani,” commento.
Lui ride. “Senza cani, va bene”, acconsente. Poi lo vedo che torna indietro verso il divano e recupera le mie rose, risistemando un po' il bouquet spampanato. Quindi mi prende per mano. “Andiamo?”
Andiamo. E vediamo dove arriviamo.
Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Drammatico
Avvisi: Slash, Drabble
Rating: PG 13
Prompt: Scritta per la quinta settimana del F3.U.CK.S. Fest di fanfic_italia (prompt: "Kiss the rain" 4.29 - tabella: LA di Settenote)
Note: Giusto perché la frase Dopo la morte di Bushido... è un po' diventato il mio motto e non riesco a scrivere altro.

Riassunto: Era stato in una stanza d'albergo, proprio davanti alla porta del bagno. Anis era appena uscito dalla doccia, l'asciugamano bianco in vita e in mano il rasoio.
KISS THE RAIN


Dopo la morte di Bushido, Bill non aveva più avuto belle giornate.
Aveva smesso di riposarsi quando dormiva e aveva smesso di svegliarsi convinto che potesse essere una giornata stupenda. Ogni volta che apriva gli occhi, era un giorno in più senza di lui e Bill non sopportava lo scorrere del tempo dall'ultima volta che l'aveva visto ridere.
Era stato in una stanza d'albergo, proprio davanti alla porta del bagno. Anis era appena uscito dalla doccia, l'asciugamano bianco in vita e in mano il rasoio.
Bill gli aveva chiesto di tornare a fargli compagnia sul letto, cercando di essere invitante e Bushido aveva sorriso di fronte ai suoi goffi tentativi di essere seducente con i capelli spettinati e il segno del cuscino su una guancia. Bill non si era offeso, però; sapeva che se Bushido non aveva ceduto non era perché non fosse abbastanza attraente anche così ma perché era di fretta, aveva un volo da prendere.
“La prossima volta faremo le cose con calma.” Anis aveva promesso senza sapere che non ci sarebbe stata un'altra occasione, che dopo quella mattina non si sarebbero toccati mai più.
Ad ogni stanza d'albergo in cui la cercava, quell'immagine felice di Anis si faceva più sbiadita e Bill temeva il giorno in cui non sarebbe più riuscito ad evocarla, in cui avrebbe guardato di fronte a sé e non ci sarebbe stato niente del corpo che adesso gli appariva nitido e violentemente reale, anche settimane dopo la sua sepoltura. Si chiese cosa avrebbe fatto, cosa sarebbe successo quando sarebbe rimasto davvero completamente senza di lui.
Alzò gli occhi sulla finestra quando sentì la pioggia battere sui vetri e sorrise un po', perché era una risposta. Ed era il dolore a fargli credere che fosse quella di Anis. Uscì sul terrazzo e lasciò che il vento gli portasse la pioggia sul viso, le braccia lungo i fianchi come faceva se lui se lo stringeva addosso per baciarlo.
Quando il suo aereo era caduto, pioveva.
Bill immaginava che il suo corpo si fosse disperso tra le nuvole e che parti microscopiche di lui ricadessero durante i temporali. Quando ne aveva bisogno, quando il pensiero di lui non lo riscaldava abbastanza, era bello fingere di averlo addosso attraverso le gocce di pioggia. Chiudeva gli occhi e lui era di nuovo lì, nel profumo di terra bagnata, nell'acqua che dal cielo gli baciava il viso come lo faceva lui, com'era stato quell'ultimo giorno, ancora umido della doccia, profumato di dopobarba. Solo un po' più triste. Solo un po' più doloroso. Solo un po' più romantico.
E forse, goccia a goccia, avrebbe imparato a lasciarlo andare.
Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Angst, Humor, Romantico, Drammatico, Introspettivo, Hurt/Comfort
Avvisi: Slash, Lemon, Drabble
Rating: R/NC17
Storie: 11 (di 10)
Community: Settenote

SET: Disney

CLAIM:BILL/BUSHIDO @ SETTENOTE
1. BELLA NOTTE 2:34 (video)
2. IL CERCHIO DELLA VITA 4:03 (video)
3. TI VADA O NO 2:18 (video)
4. IL MONDO E' MIO 2:44 (video)
5. RIFLESSO 2:29 (video)
6. E' UNA STORIA SAI 4:04 (video)
7. I COLORI DEL VENTO 3:32 (video)
8. DIO FA QUALCOSA (I e II) 3:46 (video)
9. I SOGNI SON DESIDERI 2:45 (video)
10. KISS THE GIRL 2:46 (video)
Progresso 11/10



01. BELLA NOTTE

“Non ero mai stato in un ristorante italiano,” dice Bill.
“Non sai mentire, principessa” rido e mi poso il tovagliolo sulle ginocchia.
Bill si finge imbarazzato e si scuote in maniera affettata, come una signorina. Poi controlla di sottecchi se lo sto guardando e, quando vede che ho gli occhi incollati a lui, allora scoppia a ridere e torna maschio, così all'improvviso. Lo sento quasi fare pop! e trasformarsi; come faccia ad essere entrambe le cose è un mistero che ancora mi affascina.
“D'accordo,” si corregge. “Io e te non eravamo mai stati in un ristorante italiano. Insieme.”
Lo osservo in silenzio mentre arrotola gli spaghetti e quando mi guarda mi perdo come un deficiente nei suoi occhi. Mi sento io la ragazzina, adesso. E' colpa dei suoi lineamenti, della dolcezza degli zigomi che sprofondano nella linea dritta della mascella. E' colpa sua che è bello, cazzo.
Sono così preso da non accorgermi che stiamo masticando lo stesso spaghetto e che se i suoi occhi sono così vicini è perché ci stiamo avvicinando. “Era una vita che volevo farlo,” mi sorride, quando i nostri nasi si scontrano. Io spezzo la pasta con i denti ma non mi allontano. Premo piano le labbra contro le sue e non chiudo gli occhi finché lui non chiude i suoi.
Non m'importa chi si perderà per primo, stanotte.
L'importante è non ritrovarsi più.

02. IL CERCHIO DELLA VITA

La Tunisia è bellissima.
Bill non c'è mai stato ma è sicuro che lo sia. E pensa che Bushido sia bello allo stesso modo.
Il suo uomo sa essere caldo come il sole che brucia allo Zenith ma anche freddo come le notti nel deserto e, del deserto, la sua pelle ha anche il colore. Quando Bill chiude gli occhi ed inspira il suo profumo, lo trova dolciastro e speziato esattamente come s'immagina debba essere quello che si sente per le strade di Tunisi e nei suoi mercati. E non importa che in realtà nemmeno Bushido sia mai stato in Tunisia perché lui la Tunisia se la porta addosso per eredità genetica e Bill toccando lui può attraversarne le valli e le montagne, perdersi nei laghi neri dei suoi occhi e può godere del fatto che gli odori, i sapori e i colori di quella terra siano tutti lì fra le sue dita.
Bushido è bellissimo. Il bambino, invece, non lo è affatto.
Quando Bill lo osserva attraverso il vetro che divide il corridoio dalla stanza in cui lo tengono, non vede nient'altro che un fagottino anonimo, appoggiato accanto ad un'altra decina di fagotti più o meno grandi, più o meno colorati, che non hanno niente di particolare.
Il bambino non gli assomiglia affatto – come potrebbe? – ma non assomiglia nemmeno a Bushido e questo, sì, è un peccato. Bill riesce a pensare solo questo mentre lo guarda chiudere le mani a pugno e fare una smorfia mentre sogna sogni da neonato che Bill non sa e non vuole immaginare.
La vita non ha previsto un bambino come lui. La gente si conosce, si fidanza, si sposa e poi fa dei figli. Il cerchio della vita, lo chiamava sua madre quando lui e Tom erano piccoli e le chiedevano com'è che nascessero i bambini.
Lui e Bushido però non hanno fatto così. Si sono conosciuti, fidanzati, poi sono andati a vivere insieme che è un po' come sposarsi e poi Bushido ha chiesto ad una donna di partorire suo figlio perché Bill non poteva farlo. Il bambino è loro, naturalmente. Di lui e di Bushido, non della donna. Ma il bambino non assomiglia a nessuno dei due e allora il cerchio non si è chiuso ed è per questo che Bill non ha provato niente quando lo ha visto la prima volta.
Hai rovinato il mio cerchio, pensa. E smette di guardarlo.

03. TI VADA O NO

C'erano cose che un vero uomo non faceva mai, di questo Bushido era certo.
O, almeno, lui non era disposto a farle e tanto bastava perché questa diventasse automaticamente una legge primaria dell'universo. La lista – che comprendeva il divieto di piangere ma non quello di depilarsi le ascelle – diceva anche che un vero uomo non si innamorava. Non che lui fosse innamorato di Bill. Questa era la cazzata più grossa che si potesse dire su di lui.
Che fosse un buffone, d'accordo. Che non sapesse cantare, probabile. Che fosse un pazzo ad annusare il culo di un ragazzino di dieci anni più giovane? Forse, ma avrebbe avuto degli aneddoti da raccontare al riguardo. Che si fosse innamorato, però, proprio no. Che idiozia! Chiamare Bill ogni sera era solo buon senso, doveva sincerarsi che stesse bene, altrimenti poi lo accusavano di strapazzarlo. E portarlo a fare spese non era gran cosa se i negozi venivano di strada. In quanto alla nostalgia che ogni tanto sentiva se si trovavano troppo distanti, e Berlino-Vienna era una distanza oggettivamente deprecabile, era normale. Il ragazzino sapeva come rendersi insostituibile. “Ti vada o no, lo ami,” gli aveva detto Chakuza, ridendo. Bushido lo aveva pestato come meritava, ma cazzo il nano pelato aveva ragione.
Lo aveva picchiato per quello del resto.

04. IL MONDO E' MIO

“Ti fidi di me?”
Bill ricorda molto bene quando Bushido lo ha detto la prima volta, tendendo la mano verso di lui alle soglie di Templehof. Ha riso nel sentire quelle parole, perché ricordava il cartone animato ed era divertente che anche Bushido fosse color nocciola e quasi arabo e che venisse dal ghetto, come Alladin. Certo, questo faceva di lui la principessa, ma non era forse così che già lo chiamavano i ragazzi? La Principessa, per farlo arrabbiare.
A lui, però, piace essere la principessa dell'Ersguterjunge. Di Templehof. Ma soprattutto di Anis.
Quella volta Anis lo ha preso per mano e lo ha portato a vedere il quartiere che l'ha cresciuto e nascosto ogni volta che ce n'era bisogno. Niente tappeto volante, ma un'auto coi finestrini oscurati perché non è un mondo di fiaba, quello.
Quella notte ha visto i locali fumosi, ha visto il fiume che nasconde i segreti e ha baciato Anis seduto sul muro che ancora porta il marchio della sua prima tag, ristrutturata come un quadro d'autore dai ragazzini di zona che lo venerano.
“Ti fidi di me?” Dice Anis adesso, abbracciandolo stretto, che quasi sembrano una persona sola. Bill trema, ma si fida degli occhi di Anis. Si fida della sua voce e del suo profumo, si fida del fatto che non mente mai e gli ha promesso di essere gentile.
Si fida dell'uomo che gli ha donato il suo mondo mettendogli in testa una corona.

05. RIFLESSO

Io non vado bene.
Il pensiero scivolò fra le maglie allentate della sua testa quando posò gli occhi sullo specchio nel quale il suo riflesso e quello di Bushido si stagliavano avvinghiati e ansimanti. Allontanò le mani dalle sue spalle scolpite e si distrasse a guardare i suoi stessi occhi che lo guardavano, incurante di Bushido che gli allargava le cosce e delle sue dita che si facevano strada impazienti dentro al suo corpo. L'immagine gli apparve d'improvviso grottesca, con lui disteso sulla schiena, le gambe larghe ad avvolgere il corpo teso di Bushido che aveva una mano a stringere la sua erezione e l'altra a stringergli un fianco per tirarselo addosso, spingersi a fondo ed essergli dentro completamente. - Se fossi una donna... - mormorò all'improvviso.
- Non saresti tu – Lo sguardo di Bushido era incoerente mentre lo sollevava dalle lenzuola per tirarselo in grembo – E non ti vorrei.
Riuscì a strappargli un gemito di piacere, ma non gli occhi dallo specchio. Bill studiò il proprio viso mentre i movimenti di Bushido si facevano più erratici, lo sentì contrarsi e poi spingersi e perdersi e morderlo, finché non venne umido e caldo dentro al suo corpo, il fiato che gli solleticava il collo.
- Davvero? - Chiese, cercando i suoi occhi, quelli veri.
- Pensi che ti direi una cazzata?
Ed erano limpidi, perciò dovette credergli.

06. E' UNA STORIA SAI

Oggi gli hanno chiesto com'è iniziata.
Gli è già capitato in passato di dover parlare di Bill, ma questa è la prima volta che vogliono sapere com'è cominciato tutto. E Bushido non sa cosa rispondere, esattamente.
Sarebbe facile dire che è stato quando ha fatto apprezzamenti pesanti sul ragazzino in televisione e poi qualcuno gliel'ha riferiti, ma non è così che è andata. Si conoscevano già, allora.
E' stato ad una festa, anche se Bushido non ricorda bene né dove né quando né a casa di chi, ma sa che lui era là e che ha visto Bill in mezzo alla folla, guardarsi intorno come non sapesse cosa fare di se stesso. Bushido ricorda di essersi chiesto come potesse uno come lui sentirsi fuori posto proprio in un luogo del genere. “Sembri un pesce fuor d'acqua,” ha esordito. Se lo ricorda, perché Bill si è voltato sgranando gli occhi come avesse davanti qualcosa di impossibile invece che lui – il quale ha un'opinione altissima di se stesso, ma non così alta da considerarsi un'apparizione miracolosa.
Bushido ricorda che Bill ha detto: “Sei proprio tu?” come una principessa che attende da anni in cima ad una torre l'arrivo del suo principe azzurro; ma, al pensiero, Bushido non è riuscito a fare nemmeno una battuta delle mille possibili. Aveva la gola secca a guardare quel ragazzino bellissimo. Ha risposto solo: “Sono io, sì,” che adesso suona un po' come Alla fine sono arrivato da te, scusa il ritardo ma allora non aveva molto senso.
Sono stati amici a lungo, tanto a lungo da non rendersi conto che non lo erano più.
E poi, una sera, mentre si dipingeva le unghie sul letto del rapper, Bill ha detto 'noi due' in un modo che Bushido all'improvviso ha capito che non voleva più farlo tornare a casa sua. Non voleva che quel noi due tornasse a dividersi mai più in Bill e Bushido. Restiamo noi due per sempre, ti va? Non gliel'ha detto però, perché si vergognava. Si è alzato, invece, dalla poltrona e, a Bill che ha alzato gli occhi dalla manicure, ha dato un bacio in punta di labbra. Un po' per vedere com'era, un po' per scoprire se sarebbero rimasti un plurale oppure no. Bill ha sorriso, condividendo quella nuova consapevolezza inespressa e ha ripreso a pitturarsi le unghie.
“Con un noi,” ha risposto Bushido. “E' iniziata con un noi.”

07. I COLORI DEL VENTO

La casa è stata il palcoscenico di una tragedia, la stessa che si ripete a cadenze regolari e per motivi sempre diversi. Non sono le porte sbattute di Bill a preoccuparlo. Bushido sa che due persone che si amano intensamente, litigano con la stessa intensa passione con la quale stanno insieme. Per quanto lo riguarda, Bill può fracassare tutta la cristalleria che si trova sotto mano, o gettare dalla finestra i cuscini del divano, se vuole; ma minacciarlo di andarsene con quella convinzione negli occhi, no. Questo è spaventoso.
Ha esagerato, Bushido ne è consapevole ma il proprio orgoglio gli impedisce di fare un passo indietro e scusarsi. Non ammetterebbe mai che durante la cena con i ragazzi, qualche ora prima, la gelosia gli ha dato alla testa e ha visto una complicità inesistente tra Bill e uno dei suoi uomini.
Bill stava solo parlando, sorridendo. Stava solo essendo Bill, ma Bushido era alticcio e troppo possessivo. “Ce ne andiamo,” ha detto, nonostante fossero appena arrivati. Lo ha strappato dal tavolo con uno strattone e riportato a casa di peso. Come facesse parte del vestiario: la giacca, il cappello e Bill, appoggiato con cura su una sedia lì di fianco, a fare bella mostra di sé con gli ospiti, per poi recuperarlo alla fine della cena.
Bill scuote la testa. “Non facevo niente di male.”
“Ho visto come vi guardavate.” Bushido non sa perché non si scusa, preferisce infierire quando sa che lo sta solo spingendo con le sue mani fuori dalla porta. “Tu sei mio.”
Gli occhi di Bill si fanno tristi e rassegnati. “Credi che ogni cosa ti appartenga, Anis, che ti sia dovuta solo perché sei tu, ma quando poi qualcosa è tuo davvero, tu lo tratti come se non contasse niente.”
Se chiedesse scusa, Bill rimarrebbe. Bushido lo sa. Ma sa anche di essere troppo orgoglioso.
Se parlasse, se ammettesse...
“Scusami,” mormora. Ma la porta è ormai chiusa e Bill è lontano.

08. DIO FA QUALCOSA [1]

Queste cose capitano sempre quando meno te le aspetti e in realtà questo succede perché non te le aspetti mai davvero. Pensi "Prima o poi succederà che..." e a seguire una disgrazia o l'altra, indifferentemente, ma non sei preoccupato davvero, pensi solo di doverlo essere.
Prima o poi, pensi, un giorno. E alla fine quel poi arriva e quel giorno non è più quel giorno, è oggi, è ora e ti ritrovi con il suo corpo tra le braccia e una manciata dei minuti che gli restano senza sapere cosa farci. Non hai mai visto tutto questo sangue, non hai mai sentito i tremiti di un corpo che sta per spegnersi, lo senti vibrare sotto le dita, lo senti scattare di colpo e contorcersi e non sai cosa fare. Anis ti guarda dritto negli occhi ma è spaventato e tu hai paura che ti stia dicendo qualcosa, che ti stia chiedendo qualcosa che lo salverebbe ma non hai la più pallida idea di cosa sia. Non sei tu che prendi le decisioni.
Anis, amore, non ti capisco. Non aver paura. Tu non ne hai mai.
Morirà, urla qualcosa nella tua testa, morirà su questo fottuto marciapiede e non avrai fatto niente per fermare il sangue, per impedire al suo cuore di fermarsi per sempre. "Dio fa qualcosa," mormori quando ti stringi Bushido addosso e lui vomita altro sangue, altre lacrime, altro del tempo che gli resta. Con il sangue se ne va anche lui e quando sarà finito tutto, di lui non resterà più niente. Ti convinci di questo perché il sangue sembra non finire e pensi di avere l'eternità su quel marciapiede ma lui se ne andrà prima, Bill, non aspetterà di aver macchiato di rosso tutto ciò che vi circonda. E tu lo sai e questa consapevolezza ti artiglia lo stomaco: non puoi evitarlo, ragazzino, ti direbbe lui. Non possiamo, nessuno di noi due può.
Quando è il momento, l'ultimo sospiro dalle sue labbra si posa sulle tue: piangi ma non fai rumore per non coprire il suono quasi impercettibile di quell'ultimo ti amo.

08. DIO FA QUALCOSA [2]

Bushido non credeva in Dio.
Se anche c'era qualcosa nell'alto dei cieli, di certo se ne sbatteva il cazzo di cosa succedeva sulla terra agli uomini di buona volontà, perché altrimenti suo padre sarebbe stato un uomo buono e rispettoso di sua madre. Perché altrimenti la gente non sarebbe morta per strada, in guerra, di fame.
Bushido non credeva in Dio, ma di certo credeva che le buone azioni venissero ripagate. Se fai lo stronzo, poi ti ritrovi merda, pensava; ma se mi comporto bene, allora forse qualcosa di buono dal bene deve venire. Ma ora capiva che erano cazzate anche quelle o forse era troppo tardi per sperare di avere qualcosa di bello dopo tutti gli sbagli fatti, non lo sapeva.
Lui per Bill aveva rigato dritto. Il punto è che puoi uscire dal ghetto, ma non puoi sperare che lui esca da te perché ti si tatua addosso appena nasci, ti entra in gola quando lo respiri, e lì rimane a covare rabbia anche quando tutto ciò che provi è amore per un ragazzino talmente innocente da non avere idea di come si ammazzi una persona o come si scopi con qualcuno. Un ragazzino come tu non sei mai stato.
Bushido non credeva in Dio, ma era pronto a crederci adesso se questo poteva servire a fermare il sangue dal foro nella testa di Bill. Si ripeteva che la ferita non era grave, che c'era speranza. E c'era perché non poteva non esserci. Per Bill non poteva finire così: forse era stato ferito, ma di certo non era grave. Lui non c'entrava niente col ghetto; se c'era, Dio doveva saperlo questo. Dio non poteva togliergli la vita in questo modo.
“Dio fa qualcosa, cazzo,” si tirò addosso il corpo di Bill e lo strinse. Avrebbe voluto vederlo girare gli occhi un po' opachi, forse, ma vivi e poi sorridere e dire che stava bene e non c'era da preoccuparsi. Ma non respirava. Non respirava da ore. Se n'era andato insieme al proiettile che era servito per ammazzarlo. E Dio non s'era fatto vivo.

09. I SOGNI SON DESIDERI

Non si può dire che Bill sia uno con i piedi per terra, anzi è strano che la testa non gli fluttui a mezzo metro d'altezza incurante di cosa faccia nel frattempo il corpo. E non ci sarebbe niente di male, in questo, se considerasse i sogni soltanto sogni.
Lui, però, dopo un'intera vita da favola, è convinto che i sogni si avverino.
D'accordo, nel suo caso questo è vero in più occasioni: voleva cantare e canta. Voleva farsi le trecce, tingersi le unghie e truccarsi, e l'ha fatto. Voleva essere donna e ci siamo quasi. Però il concetto non dev'essere necessariamente valido in ogni ambito della sua esistenza. Per esempio la sua vita privata; per esempio e soprattutto, io.
Ora si è messo in testa che devo incontrare sua madre.
“Ma Anis-tesoro!” Pigola. “Eri seduto con me a mangiare pasticcio di broccoli. L'ho sognato! E i sogni sono desideri. E' evidente che una parte del mio subconscio lo desidera immensamente.”
Se il tuo subconscio sogna che ti sbranano i coccodrilli, amore mio, io comunque non ti porto in Sud Africa a farti fare a pezzi dal primo alligatore di passaggio, chiaro?
Quindi, al diavolo il tuo subconscio.
Dovrei dirlo ma sto zitto e mangio il pasticcio di broccoli, che nemmeno mi piace. E dico a sua madre “Ma che bella casa, signora” perché forse i sogni non si avverano sempre, ma gli incubi sì, se Bill non ha quello che vuole.

10. KISS THE GIRL

Ho la febbre, il raffreddore e un inizio di broncopolmonite perché ho un fidanzato scemo.
Vicino a casa abbiamo un grande parco, con un in mezzo un lago in cui nuotano paperotti gialli.
Bill mi dice “Anis-tesoro, mi porti in barca?” e io penso “Ma anche no” però Bill me lo chiede mostrandomi il sedere, il che in lingua corrente significa “Fai questo per me e ti darò carta bianca su cose che forse sono anche illegali in alcuni paesi del mondo.” Quindi io lo porto in barca.
Dopo due ore che remo trovo il modo di fermare questa cazzo di barchetta sotto un glicine. Potremmo almeno limonare, se proprio non vogliamo mettere a rischio il precario equilibrio della barca scopando.
Ma appena allungo le mani, lui si divincola: “Non ti sembra come ne La sirenetta?” e canta “Kiss the girl” come se fosse un granchio, io un principe scemo e se tutt'intorno a noi un'orchestra di grilli e anatre che percuotono tartarughe suonasse questa melodia tremenda. “Bill?” tento, mentre lui ormai preso mi fa tutta la coreografia di salti e “shallalalla!” finché la barca non si ribalta e finiamo in acqua.
Starnutisco e vorrei strangolarlo con le mie mani perché domani ho un concerto e non so come canterò con trentanove di febbre. Poi però lo vedo spuntare dalla cucina col brodo di pollo e mi sciolgo. Posso ben baciarla “la ragazza” anche se è un disastro.
Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Introspettivo, Angst
Avvisi: Slash, Fluff
Rating: PG
Prompt: scritta per la seconda settimana del Warning Week Fest di Fiumi di Parole (prompt: Domestic!Fluff). La si può considerare legata a "Il cerchio della vita", ma anche no. Come volete.
Note: La fic destinata a concorrere per la seconda settimana del WWF non era questa, ma d'altronde chi sono io per decidere quale fic deve concorrere per cosa? Decidono loro. Comunque sia, dopo aver scritto "Il cerchio della vita" mi ero sentita molto male, così dovevo rimediare. Ho rimediato. Piace?

Riassunto: Quello non è suo figlio. Ecco che cosa pensa ogni volta che guarda il neonato nella culla.
ACCEPTANCE


Quello non è suo figlio.
Ecco che cosa pensa ogni volta che guarda il neonato nella culla.
Lo pensa da quando sono tornati a casa dall'ospedale, ed è stato strano perché ci sono entrati in tre ed è sempre in tre che sono usciti. Avrebbero dovuto essere uno in più e invece no: sembra assurdo che, per loro, neanche la matematica della maternità faccia tornare i conti. Della madre biologica del bambino non hanno più saputo nulla dal momento stesso in cui lo ha messo al mondo.
Bill pensa: “Non è mio figlio”, ma anche “E' figlio di Anis” che non migliora affatto le cose, e anzi forse le rende più odiose.
Anis è un bravo padre, questo Bill può dirlo anche senza provare qualcosa per il bambino. O forse è un bravo padre perché il neonato è suo, ecco perché Bill invece non riesce neanche a toccarlo. Anis pensa sia ancora a disagio e abbia paura di romperlo – è una paura comune, dice, ti passerà – ma non è così. La verità è che non vuole toccarlo, come non toccherebbe il figlio di un'estranea qualunque che incontra al supermercato. Non è suo.
“Non riesci a dormire?” Chiede Bushido, avvolgendolo in un abbraccio. Bill si appoggia contro il suo petto e socchiude gli occhi, crogiolandosi stupidamente nel fatto che è di nuovo lui, ora, ad essere coccolato.
“No,” mormora.
“Sei ancora in ansia,” Bushido gli sorride contro una tempia, e lascia lì un piccolo bacio.
Sì, sono in ansia. Sono in ansia per colpa di quel bambino. Perché tu potresti andartene. Perché io non ti appartengo come ti appartiene lui. “Non preoccuparti, con il cucciolo andrà tutto bene.”
Il bambino agita le mani e sembra quasi tossire un singhiozzo come se anche piangere fosse una fatica tremenda per qualcosa di piccolo come lui.
“Il tuo bambino piange,” dice Bill con voce monocorde e non si accorge nemmeno di dirlo. E' solo che lo sta guardando e questo è quello che vede.
Bushido è pronto a prendere in braccio il neonato; non gli fa versi, lo prende soltanto in braccio e gli dice che non c'è niente da aver paura. La voce di Bushido da sola basta a farlo smettere di miagolare e Bill non può biasimarlo: funziona anche con lui. “Non è il mio bambino,” dice Bushido e il suo sguardo è severo. “E' nostro.”
Bill vorrebbe dirgli che non è vero ma sa perfettamente quello che Bushido intende; è che non ci crede.
Così sta zitto mentre l'uomo culla il bambino che gli si preme addosso e biascica mugolii.
“Siediti,” ordina Bushido. E Bill si ritrova a farlo senza nemmeno pensare alla possibilità di rifiutarsi. Si siede sulla poltrona e, quando lo fa, Bushido gli passa il neonato che un po' mugola e un po' no, come non fosse convinto di qualcosa.
“Anis io-” ma Bushido gli lascia in braccio il bambino senza aspettare che lui abbia accettato di tenerlo, così Bill lo tiene per non farlo cadere. E quando lo stringe, ed è dannatamente piccolo e leggero, quello si preme anche contro il suo petto e per un attimo – uno solo – spalanca gli occhi grigi su di lui come a riconoscere la sua presenza. Smette di piangere e si addormenta.
Bill non si accorge delle lacrime che scendono finché Bushido non li abbraccia entrambi e allora i singhiozzi sono liberi di uscirgli di gola quasi con violenza. E' il bambino di Anis, pensa. E si è addormentato tra le mie braccia. E' il figlio di Anis, ma è anche un po' mio.
Personaggi: Bill, Bushido
Genere: Commedia
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Note: Dunque, questa shot nasce dal fatto che per raggiungere la soglia minima di Gennaio per FDP mi mancavano esattamente 666 parole, quindi mi sembrava d'obbligo scrivere una storia che ne contasse esattamente questo numero. Il titolo proviene da una spilla che io bramo da sempre e che recita, appunto, 668 neighbour of the Beast. Questo non è decisamente il Bushido che sono abituata a scrivere e la storia non è un granché, ma io le voglio molto bene perché non ha fatto tante storie per farsi scrivere. *Spuccia shottina* Per chi non lo sapesse, quella delle circostanze confuse è ovviamente una citazione di Liz!Eko. Era un tormentone irrinunciabile :)

Riassunto: Io sono Bushido, okay? Vogliamo ripeterlo, sì? Io sono una leggenda.
668, IL VICINO DELLA BESTIA


Io sono un uomo sicuro di me stesso.
Quando prendo una decisione, non la rimpiango mai, anche se il resto del mondo magari mi guarda e si chiede se invece non dovrei farlo. E' una questione di orgoglio maschile e di orgoglio del ghetto, due elementi che non andrebbero mai mischiati insieme dal momento che danno vita a miscele esplosive dei cui effetti negativi la mia persona è un esempio più che perfetto.
Tutte le mie decisioni nascono dall'estro del momento, il che equivale a dire che se qualcosa mi fa partire la brocca io decido un certo corso di eventi e poi, generalmente, ne affronto le conseguenze. Ora, dal momento che faccio sempre le cose senza realmente pensare a queste conseguenze, ma piuttosto scrollando le spalle e decidendo che qualunque esse saranno io sarò ben in grado di sopportarle, visto che io posso tutto, mi ritrovo sempre a dover risolvere una serie di problemi collaterali. Generalmente si tratta di gente che mi odia, gente che mi vuole morto e gente che prova a farmi fuori, quindi è facile. Insomma, io ci sono nato in mezzo a queste cose, non è che siano difficili da gestire. Non era mai capitato prima di oggi che non mi riuscisse. Io sono Bushido, cazzo, sono il re dei re. Io non solo riesco in tutto ciò che faccio, ma quello che faccio è tipo la cosa migliore che potesse essere fatta nel preciso momento in cui la faccio io.
Io sono Bushido, okay? Vogliamo ripeterlo, sì? Io sono una leggenda.
Eppure stavolta guardo fuori dalla finestra e mi tocca ammettere che ho sbagliato – anzi no, perché il sottoscritto non sbaglia mai – diciamo che circostanze confuse mi hanno indotto in errore. O qualcosa del genere. Insomma, io ho visto Bill Kaulitz, ci siete? La prima volta, intendo, quella che tutti nel mondo condividiamo, ossia quando accendi la televisione e lo scambi per una femmina, presente? Lo abbiamo fatto tutti. Ecco, io lo vedo e dopo averlo visto quella volta lì, lo vedo altre mille volte, tipo, ovunque e mi rendo conto che il ragazzino si sta impossessando della Germania armato solo di un paio di ciglia finte – perché di cantare, vero, non è mica capace. Un paio di ciglia finte, non so se mi spiego. E la Germania è mia. Non posso permetterlo. Così dopo che l'ho visto sculettare un paio di volte penso che non posso perdermi quest'occasione. Immagino che serva qualcuno con una faccia come il culo che vada in televisione e lo castighi. E' chiaro che servo io. Mi immagino che dopo che gli ho chiesto un pompino, per lo meno mi denunci per molestie. Sarebbe un sacco di pubblicità gratis. E invece quello prende casa vicino a me e mi riempie la cassetta della posta di lettere. La veranda di rose. E il muro di fronte – che Dio lo fulmini – dei testi strampalati delle sue canzoni di merda. Io decido di essere disgustoso e lui s'innamora.
E la demoniaca insistenza con la quale mi perseguita è intollerabile, senza contare che questa storia l'ho iniziata io, quindi dovrei essere io a tormentarlo. Non ha senso, deve finire. E quasi mi chiedo se non dovrei chiamarlo io il mio avvocato e denunciare lui per molestie.
Quando suona il campanello, sono già pronto ad avvisarlo che lo lascerò in mutande a furia di denunce. “Senti ragazzino io-”
“Stai zitto,” mi fa, gettandosi alle spalle il piattino con i biscotti che si era portato dietro per fingere di seguire la regola del buon vicinato. Mi si pianta lì davanti con le mani sui fianchi e continua inviperito: “Le lettere non le leggi, i bigliettini nei fiori neanche e, a quanto pare, nemmeno le scritte sui muri sono abbastanza esplicite. Cosa devo fare con te? La risposta è sì.”
“Di cosa diavolo stai parlando?”
Lui sospira teatralmente come la diva navigata che è e mi spinge dentro casa senza dire una parola. L'attimo dopo capisco. A quanto pare sarà davvero lui a lasciarmi in mutande.
Personaggi: Fler, Chakuza, Bill, Bushido
Genere: Commedia
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Prompt: Storia scritta per la maritombola di Mari di Challenge (prompt nr. 66: "Perché dovrei farlo io al posto tuo?").
Note: Io che scrivo di un Chakuza così poco carino nei confronti di Bill è credibile come la neve in pieno agosto, ma ci stava perché il fulcro della narrazione (senti come parlo difficile, nemmeno le scrivessi con un minimo di senso, queste storie!) erano Chakuza e Fler e la loro incredibile frustrazione di fronte ad una principessa tanto fastidiosa.

Riassunto: Fler annuì, lentamente. “Posso chiedere perché dovrei farlo io al posto tuo?”
PRINCESS BABYSITTING


C'erano volte in cui Fler si era chiesto per quale motivo lui e Bushido avessero litigato.
Durante le lunghe notti Berlinesi, col solo conforto di una birra tremenda nella bettola più sconosciuta del ghetto, si era domandato perché avessero litigato - cioè, non il vero motivo, quello lo sapeva, più che altro il motivo per il quale avevano deciso che quel motivo era valido per continuare a litigare. In fondo, non era poi successo un granché: Eko aveva messo le mani in un barattolo di marmellata non suo e lui aveva trovato giusto offenderlo pesantemente per questo. Bushido la pensava diversamente, d'accordo, ma erano cose che si potevano risolvere, giusto? Lo aveva pensato spesso e poi, ubriaco come un tacchino, non aveva saputo trovare la risposta e si era addormentato scomposto sul divano di casa sua.
Adesso, dopo molti anni di faida e qualche mese di riappacificazione sotto i riflettori, Fler si chiedeva esattamente il contrario: perché mai non avevano continuato a litigare, offendendosi a turno per qualsiasi stronzata e, possibilmente, cercando di prendersi vicendevolmente per il culo ogni volta che facevano uscire una canzone?
La birra non aveva una risposta neanche stavolta, anche se era costosa e servita in un bicchiere di vetro finissimo, nella hall di un albergo a troppe stelle nel centro di Los Angeles.
Il problema era che, come al solito, a decidere tutto era stato Bushido. Il tunisino era un uomo che non ti chiedeva se volevi fare qualcosa o, al massimo, come volevi farla. Ti diceva come, quando e perché l'avresti fatta, qualche minuto prima che succedesse, quindi Fler era passato dall'una all'altra domanda tempo zero. In più si erano aggiunte al problema altre questioni che inizialmente non aveva previsto, e che al momento complicavano la sua vita in maniera non indifferente.
Una delle due, la più alta, era attualmente nel suddetto albergo, a fare Dio-solo-sapeva cosa. L'altra, la più bassa, gli sedeva davanti, su una poltrona in pelle bianca, con un broncio da manuale e una birra austriaca.
Fler sospirò e bevve un altro sorso di birra, nel tentativo d far passare altri due o tre secondi, giusto per ridurre il tempo d'attesa. Chakuza, dal canto suo, si appoggiò allo schienale della poltrona, sbuffò come una vecchia zitella inacidita e gettò uno sguardo annoiato fuori dalle porte scorrevoli dell'albergo.
Fler sospirò di nuovo a quell'ennesimo tentativo di farsi notare e quindi decise che, se doveva aspettare, tanto valeva passare il tempo dandogli ascolto. "Che cosa-"
"C'è che mi sono rotto le palle," rispose Chakuza, prima ancora che potesse finire di fare la domanda.
"Di cos-"
"Di Bushido e della Principessa. Che poi devi spiegarmi perché continuiamo a chiamarlo con questo nome del cazzo. E' un ragazzo, Cristo Santo."
Chakuza bevve un altro sorso della sua birra austriaca e poi riappoggiò la bottiglia sul tavolo, ignorando del tutto il suo bicchiere di vetro finissimo. Si sistemò il cappello e Fler attese che si calmasse prima di aprire bocca di nuovo. "Non sei stato tu a chiamarlo co-"
"Era un'offesa!" Sbraitò Chakuza, agitandosi tutto.
"Vuoi farmela finire una domanda o no?" Commentò Fler, guardandolo torvo. Chakuza sostenne lo sguardo dei suoi occhi azzurrissimi ancora un po', poi espirò come fanno i veri uomini duri e quindi gli fece cenno di proseguire.
Fler si appoggiò alle proprie gambe con gli avambracci e addolcì lo sguardo. "Sono solo le dieci del mattino. Lo recuperiamo, lo portiamo dove dobbiamo portarlo, ce lo lasciamo e a quel punto siamo assolutamente liberi di fare quello che avevamo deciso di fare."
"Che era rimanere a letto per le prossime 48 ore. Direi che siamo già fuori programma," borbottò Chakuza.
"Ok.. ok.." Fler decise per la via dell'accondiscendenza. "Non proprio come lo avevamo deciso, ma nessuno ci vieta di tornare in camera."
Fler aveva scoperto di essere bisessuale e che gli piacevano gli uomini muscolosi e calvi tutto nello stesso momento, il che era stato un grande shock da dover superare. Senza contare poi che la più grande rivelazione della sua vita dopo il fatto che le fragole gli facevano venire le bolle, era avvenuta subito dopo la riconciliazione con Bushido e la conseguente campagna pubblicitaria per il CCN2. Gestire Bushido in pieno fervore mistico da fratellanza del ghetto, la propria consapevolezza di voler effettivamente scopare con Chakuza e trattenere l'austriaco dal farlo ad ogni angolo di strada era stata un'impresa titanica, dalla quale era uscito spossato e senza più forze. E quando pensava di essere ormai salvo - con Bushido distratto dalle riprese per il film - aveva organizzato quella piccola vacanza per calmare anche Chakuza, il quale, abituato ad una discreta media era un uomo estremamente sacrificato al momento.
Peccato che a Los Angeles, il luogo che aveva scelto per chiudersi dentro un albergo e dare sfogo alla sua nuova omosessualità, fosse venuto anche Bushido per assecondare i capricci della sua Principessa e peccato che il suddetto Bushido si fosse trovato a dover affrontare certi impegni telefonici improrogabili per cui Bill ora era nelle loro mani. E per quanto centinaia di ragazzine trovassero la cosa assolutamente idilliaca sui forum di mezzo mondo, loro due erano molto, molto seccati.
“Ma quanto ci sta mettendo?” Chakuza guardò l’orologio che non gli comunicava un’ora granché differente da due minuti prima, quindi gettò un’occhiata molto infastidita alle scale da dove, presumibilmente, Bill sarebbe sceso, avvolto in una nuvola di profumo e in uno scintillare di lustrini. “Perché si restaura ogni volta che deve uscire? Fosse carino, poi.”
Fler sbuffò una risata, badando di non farsi vedere. Ricordava perfettamente la faccia di Chakuza, la settimana prima, quando Bill si era presentato in tutta la sua principesca figura, con un nuovo taglio di capelli, un nuovo trucco e l’intero guardaroba di Kelly Rowland. Per una gloriosa frazione di secondo l’intera Ersguterjunge aveva creduto di avere finalmente di fronte una donna vera, poi Bill aveva aperto bocca e – nel recuperare la borsa – aveva mostrato due braccia da spaccalegna del Canada, e la magia si era infranta.
Fler aveva ancora ben chiara in testa l’espressione estasiata di Peter Pangerl un attimo prima che le sue illusioni paradisiache venissero fracassate sotto l’impietoso tacco dodici di un ragazzino alto quasi due metri capace di ancheggiare come una diva del cinema. Aveva provato della pietà per quell’uomo. Davvero. Doveva esserci un limite al dolore che gli veniva inflitto ogni volta che, per colpa di una memoria labile, si dimenticava sia che la donna del suo capo era un uomo, sia che lui stesso scopava con un uomo. Chakuza era una persona difficile.
Quando ormai Fler si era già rassegnato a vedere la bocca di Chakuza aprirsi di nuovo e riversare nell'aria un'altra sequenza di sproloqui infastiditi, la porta dell'ascensore si aprì per mostrare al mondo l'esile figura della principessa, inguainata in un paio di pantaloni di pelle e nascosta dietro un paio di occhiali enormi. “Siete qui,” esclamò senza naturalmente scusarsi per l'increscioso ritardo, per poi frugare nella borsa e tirarne fuori un foglietto che passò a Fler. “Questa è la lista.”
Fler scorse velocemente la ventina, forse più, di negozi segnati sul piccolo pezzo di carta. “In quale dobbiamo...”
“In tutti, naturalmente,” Bill si guardò intorno. “Dov'è la macchina?”
“Sul retro,” rispose Chakuza, tanto per darsi qualcosa da fare in alternativa all'omicidio. “Qua davanti c'è già un gruppo di ragazzine scalmanate che smaniano per vederti.”
Bill si avviò alla macchina senza una parola di più e i due lo seguirono sospirando.
“Quanti negozi ci sono là sopra? Venti? Trenta?” Sbottò Chakuza sibilando, certo che la sua voce sarebbe stata coperta dal furioso ticchettio dei tacchi di Bill. “Ci metteremo tutta la giornata.”
“Vedrai che si stancherà prima.”
“Non gli darò il tempo di stancarsi,” sbottò Chakuza. “Io prendo l'autostrada e lo lascio al primo autogrill come un cucciolo di cocker, con il collarino brillantinato!”
Fler nascose a stento una risata, che finì per uscirgli dal naso come un borbottio confuso.

*


Mentre Bill si provava il centoventiseiesimo paio di pantaloni, che poi puntualmente non avrebbe comprato perché troppo stretto, troppo fuori moda, troppo rosso oppure troppo giallo, tanto che ti veniva da chiederti perché avesse in primo luogo scelto proprio quel modello, Fler ripensò a come e perché lui e Chakuza erano finiti in quella situazione.
Ripensò a come Bushido si fosse presentato da lui in tutto lo splendore dei suoi trentuno anni appena compiuti e con un sorriso da pubblicità del dentifricio avesse esclamato: “Patrick, ho un compito per te,” che in lingua corrente suonava più o meno come: Qualunque fossero i tuoi piani per la giornata, li ho appena cambiati e a te non resta che annuire.
Fler, naturalmente, aveva annuito, perché lo faceva da dieci anni e perché tanto sapeva che ad iniziare una discussione con il re dei re non se ne cavava mai niente di buono e, generalmente, si perdeva più tempo che a dargli retta subito.
“Bill vuole andare a fare shopping oggi ma non posso accompagnarlo,” aveva spiegato il sovrano, mentre guardava fuori dalla finestra scostando leggermente le tende. Un'abitudine che difficilmente si sarebbe tolto, anche se era difficile che in pieno centro a Los Angeles sarebbe arrivato qualcuno a sparargli da una finestra.
“Che cosa incresciosa,” aveva commentato Fler, ironico.
“Già, gli avevo promesso che sarei stato con lui tutto il tempo e invece ho delle questioni di lavoro da risolvere,” aveva sospirato Bushido con aria affranta e, per altro, senza rendersi conto dell'ironia dell'amico.
“Insomma, che devo fare?” Aveva chiesto Fler, tanto per accelerare i tempi, dal momento che Bushido tendeva ad essere eccessivamente drammatico in queste situazioni.
“Prendi Chakuza e insieme accompagnate Bill ovunque voglia andare.”
Fler annuì, lentamente. “Posso chiedere perché dovrei farlo io al posto tuo?”
“Prego?”
Fler non si lasciò intimorire dal sopracciglio piegato del tunisino, che era chiaramente sorpreso di non vederlo reagire con cieca obbedienza. “Voglio dire, siamo approdati in America con un esercito di guardie del corpo pronte a smontare ogni ipotetico aggressore della tua bella principessa come un tavolino dell'IKEA. A cosa serviremmo io e Chakuza?”
Bushido sospirò. “Siamo in vacanza, Fler,” spiegò con calma. “E a Bill non piace essere circondato da guardie del corpo anche quando sta comprando vestiti. Anzi, soprattutto quando sta comprando vestiti. Solo che non può veramente uscire da solo senza che lo infastidiscano. Voi dovete proteggerlo, senza stargli troppo addosso.”
“Capisco.”
Fler aveva capito, sostanzialmente, che Bill voleva fare shopping senza guardie del corpo, ma anche senza che nessuno gli rompesse le palle. Una cosa pressoché impossibile se eri una star del suo calibro che, per l'appunto, aveva anche sfondato in America proprio di recente. Solo che nessuno poteva far notare al ragazzino la sua incoerenza intrinseca e meno che mai la si poteva far notare a Bushido, per il quale Bill era una creatura perfetta e loro una manica di stronzi, incapaci di sostenerne la bellezza e la smisurata meraviglia.
Chakuza cominciò di nuovo ad agitarsi sul pouf sul quale era seduto, di fronte ai camerini. Non disse niente di particolare, ma a Fler bastava il modo in cui muoveva gambe e braccia per rendersi conto che, se gli fosse stata data la possibilità, avrebbe probabilmente buttato giù la boutique a suon di bestemmie. “Se non altro stiamo a sedere,” provò a fargli notare.
“Non me ne frega un cazzo di stare a sedere,” sputò l'austriaco.
“Lo so.”
“E poi devi spiegarmi perché io sono qui. Lo ha chiesto a te, no?”
“No, lo ha detto a me ma lo ha chiesto ad entrambi,” precisò Fler. “E comunque non posso farlo da solo.”
“Che cosa? Stare qui seduto di fronte ad un camerino a dire ad una checca isterica se un paio di pantaloni gli fanno o meno il culo grosso? Certo è un lavoro da almeno due persone.”
“Il punto è-”
“Questi pantaloni mi ingrossano il sedere, secondo voi?” Chiese Bill, uscendo dal camerino di prova con un tempismo notevole e sbattendo in faccia ad entrambi il sedere rotondo come un mandolino.
Chakuza smise per qualche istante di inveire contro l'universo tutto e si dimenticò chi avesse di fronte e, cosa ancora più importante, chi avesse di fianco. Rimase a fissare il sedere di Bill con un'espressione mista tra l'ebetismo e la concupiscenza, finché Fler non gli tirò uno spintone che lo ribaltò sul pavimento. “No, Bill. Ti stanno bene,” commentò il tedesco alto due metri, con tono professionale e la voce che non tradiva affatto la presenza di un austriaco accartocciato lì di fianco.
Bill guardò Fler attraverso lo specchio, ignorando del tutto Chakuza che si rialzava. “Non lo so sai? Mi sembra che abbiano un po' troppe tasche.”
“Quelli di prima ne avevano troppo poche,” sospirò Fler.
“Perché non trovo mai quello che cerco?” Si lamentò Bill, piagnucolando e tornando dentro il camerino con altre quattro paia di pantaloni.
Chakuza si arrampicò di nuovo sul pouf. “E questo per che cos'era?”
“Oh non lo so,” sibilò Fler, guardandolo storto. “Per il fatto che sbavavi dietro al culo di Bill?”
“Io non stavo...”
“Sì che stavi.”
Il ghigno che si aprì sulle labbra di Chakuza gli arrivò da orecchio ad orecchio. “Ti stai arrabbiando per Bushido o per te stesso, fammi capire?”
“Taci, cretino.”
Bill finì per non comprare nessuna delle trecento paia di pantaloni che si era provato e uscì dal negozio con due maglie completamente nere e anonime ma di marca, del costo complessivo di seicento euro, accreditati sulla carta di Anis-tesoro, come lo chiamava Bill.
Fler doveva ancora capire perché dovesse pagare Bushido, dal momento che Bill guadagnava ben più di lui, ma poi ne concluse che doveva avere qualcosa a che fare con le incredibili abilità di Bill a letto di cui Bushido parlava sempre e di cui loro non avrebbero voluto sapere mai.
“E adesso?” Chiese Fler.
“Ho fame,” commentò Bill, seduto sul sedile del passeggero.
“Ha fame,” gli fece eco, Chakuza, da dietro. Le braccia incrociate al petto e gli occhi ridotti a due fessure che guardavano infastiditi fuori dal finestrino.
Fler lanciò a Chakuza un'occhiata di traverso, quindi si rivolse a Bill mentre svoltava. “E dove vorresti andare a mangiare?”
“Al MacDonald.”
“Chiaro, figuriamoci se per una volta evitiamo di farci del male al fegato,” sibilò Chakuza.
Fortunatamente, il locale non era pieno come si aspettavano di trovarlo, il che permise loro di trovarsi un angolo in cui nascondere la pertica agghindata perché non venisse travolta dalla folla di ammiratrici adoranti, le quali, comunque, lo avevano già adocchiato non appena messo piede nel locale e ora se ne stavano lì in un gruppetto indeciso e squittente a chiedersi se potessero riversarsi in massa accanto a lui oppure no.
Bill posò la borsa su una sedia vuota, si tolse il cappellino ma tenne gli occhiali, quindi sorrise amabile in direzione di Fler e gli sciorinò un'ordinazione lunga quattro minuti. “Tutto chiaro?”
Fler annuì. “Certo. Chakuza, vai per favore?”
“Perché devo andarci io?” Chiese Chakuza.
“Perché io devo fare altro,” commentò Fler, cercando di sorridergli, invece che spaccargli la testa tonda contro l'angolo del tavolino.
“Cosa di grazia?” S'informò l'austriaco.
“Le vedi quelle?” Fler indicò le ragazzine. “Non appena uno di noi due si allontanerà dal tavolo, lo prenderanno d'assalto.”
“Una ragione in più per restare.”
“Qualcuno deve pur prendermi da mangiare,” commentò Bill, con la boccuccia aperta ed indignata. “Non vorrete mica che faccia la fila!”
“Chakuza?” Lo invitò Fler, con un'occhiataccia che, fra tutte le cose, lo avvisava che gli conveniva fare come gli era stato ordinato se voleva vedere il suo culo, quella sera.
“Mi spieghi perché dovrei farlo io al posto tuo?”
“Perché sei basso e se quelle assalgono il tavolo, io posso tenerle a bada e tu no. Ora muoviti, per cortesia.”
Chakuza si allontanò verso le casse borbottando qualcosa sul fatto che forse sull'autostrada avrebbe lasciato anche Fler, ma senza il collarino brillantinato.
Come previsto, non appena si allontanò di un passo, il branco di sciacalli circondò il tavolino e una di loro, alta e slanciata, esclamò sicura: “Sei tu, vero?” in direzione di Bill.
Bill sorrise magnanimo, allungò una mano ungulata e disse: “A chi devo mettere?”

*


Quella di Bill non era un'ordinazione, era la lista dei generi alimentari spediti in Kosovo durante la guerra se fosse stata scritta da un vegetariano, con un'ossessione quasi maniacale per il McFlurry.
A parte la fila di venti minuti, Chakuza aveva poi avuto un colloquio di altri venti minuti con l'operatrice perché Bill voleva determinati panini, ma li voleva senza la carne, alcuni anche senza le cipolle e quelli che voleva con le cipolle li voleva senza i cetrioli. Senza contare le due insalate che aveva chiesto e i dolci e il benedetto McFlurry che doveva essere con i pezzi di cioccolata ma non mescolato e fatto dopo e non prima delle patatine, cosa che l'operatrice alla cassa lo aveva quasi rispedito al suo posto a calci nel culo.
Al momento, Chakuza aveva due vassoi – uno per mano – e stava faticosamente cercando di tornare al loro tavolo che era sparito. Dopo aver girato a vuoto almeno due volte, si rese conto che nell'angolo in cui pensava dove esserci il tavolo, c'era effettivamente il tavolo – con buona pace del suo senso di orientamento, affilato in anni di allenamenti tra i monti – ma era sommerso di ragazzine urlanti.
“Permesso!” Gridò, cercando di non rovesciare l'ordinazione della principessa e di oltrepassare il muro di scalmanate che stavano porgendo a Bill ogni genere di fotografia, foglio e quant'altro da firmare. “Ti sposti un po' più in là? Grazie!”
Dall'altra parte del tavolo, Fler era in piedi come un Bronzo di Riace accanto a Bill e osservava che nessuna delle ragazzine, allungasse le mani più del dovuto. Quando si accorse di Chakuza, piccolo e affaticato, fra le adolescenti in tempesta ormonale – ed era già strano che non si fosse accorto di tutto il ben di Dio che volente o nolente gli veniva agitato davanti – lo recuperò praticamente con una mano sola. “Ce l'hai fatta?”
“Sì,” sibilò l'austriaco, rimettendosi il cappellino. “Chi è tutta questa gente?”
“Fan,” fu la risposta.
“Fan.” Chakuza rimase in silenzio, facendo appello a quel poco di pazienza che possedeva per sopportare il cicaleccio di sei ragazzine estasiate di fronte al loro cantante preferito, ma la cosa non funzionò molto a lungo. “Okay!” Sbottò alla fine, alzandosi in piedi senza che nessuna notasse in lui alcun cambiamento. “Signorine, il vostro scarabocchio lo avete avuto. Ora per cortesia, se poteste andare ad agitare le tette da un'altra parte, ve ne saremmo grati. Tanto a lui non interessano, mi pare sia chiaro, ormai. E per noi siete troppo minorenni.”
“Chakuza!” Fler gli tirò uno spintone, mentre sorrideva amabile alle ragazzine e le invitava più gentilmente ad allontanarsi. “Bill deve mangiare, adesso. E' stata una giornata faticosa, grazie a tutte.”
Aspettarono tutti e tre che il branco fosse passato, non senza girarsi tre o quattro volte a salutare con la mano, poi Bill si appropriò del suo cibo e Fler si avventò su Chakuza con i denti quasi snudati. “Sei scemo o cosa?”
Chakuza si voltò a guardarlo con un sopracciglio rossiccio sollevato e la cannuccia della sua coca in bocca. “Perché?”
“Quelle erano fan,” ripeté il ragazzo. “Tu non puoi dire roba simile a ragazzine che vengono qui a farsi fare un autografo.”
“Ce le siamo tolte di torno, o no?” Commentò il ragazzo, addentando una patatina mentre Bill, dall'altro lato del tavolo, decideva di finire la sua insalata mangiandone una foglia per volta.
Fler rimase per almeno due minuti buoni in piedi immobile di fianco a lui, con la bocca aperta, come se davvero non capisse come l'austriaco potesse starsene lì a mangiare tranquillo dopo aver probabilmente creato il più grosso incidente diplomatico transoceanico della storia dei Tokio Hotel. Anche se, bisognava ammetterlo, nemmeno Bill si stava strappando i capelli, ma Bill non si sarebbe strappato i capelli in nessun caso – visto quant'erano preziosi – e, ora che Fler ci pensava, Chaku stesso non se li poteva strappare neanche se avesse voluto. Comunque, non era quello il punto.
“Ce le siamo tolte di torno?” Sbraitò il rapper più alto, facendo il giro del tavolo per guardare l'altro dritto negli occhi. “Tu la cortesia non sai nemmeno dove sta di casa, vero?”
“La cortesia?” Chakuza poggiò il panino e si pulì le mani sui pantaloni. “Parla quello che nelle sue canzoni usa solo parole approvate dall'oratorio!”
“Le canzoni sono un altro paio di maniche!”
“Beh, sai dove te le puoi mettere le tue maniche?” Replicò Chakuza, alzandosi e cercando vagamente di apparire minaccioso. Ci riuscì, in parte, solo fino a quando Fler non decise di sfruttare tutta l'altezza di cui Madre Natura lo aveva così generosamente dotato.
“Se non stai attento, finisce male Peter,” replicò.
“Oh voglio proprio vederla questa.”
L'intero locale si girò ad osservarli, tranne Bill che stava mandando sms a suo fratello ed era molto impegnato a masticare la stessa foglia di insalata da almeno cinque minuti.
“Io vorrei solo capire che cos'hai nel cervello!” Sbraitò Fler, incrociando le braccia al petto e facendogli così tanta ombra che Chakuza era praticamente al buio. “Siamo qui con un compito ben preciso e ci si aspetta da te una certa professionalità se proprio non riesci a dare fondo agli insegnamenti di tua madre e a comportarti come un essere umano!”
“Io sono qui perché tu non sai dire di no a quel coglione che spacci per il tuo migliore amico!” Sbottò Chakuza, osando perfino battergli un dito rotondo sul petto.
“Quel coglione è anche il tuo capo se non ricordo male.”
“Non è il mio capo, è un collega!”
“Che possiede metà della tua etichetta!” Replicò Fler, inclinando la testa di lato.
“E si può sapere questo cosa c'entra col fatto che dobbiamo portargli in giro la fidanzata, come fossimo due guardie del corpo, cosa che non siamo e anche se fossimo non ci pagherebbe?!”
Senza voltarsi, Fler indicò Bill che stava sempre mangiando insalata e non li degnava della minima attenzione, mentre scriveva messaggi. “E' un maschio!”
“Quello che è!” Sbottò Chakuza, lanciando le braccia in aria.
Ne seguì un momento di silenzio e fu solo per quello che sentirono il cellulare di Fler squillare.
Fler indicò all'altro di stare zitto un minuto e Chakuza borbottò qualcosa di vago, tornando ad infilare patatine nella maionese.
“Dove cazzo siete?” Fu la prima cosa che arrivò quando Fler accettò la chiamata.
“Al McDonald's,” rispose il rapper e poi, subito dopo. “Sì, certo che è qui.”
“E' tardi, cosa ci fate ancora in giro a quest'ora?”
Fler pensò che le sei del pomeriggio non fossero poi un'ora così tremenda per portare a spasso le principesse, ma si guardò bene dal dirlo, anche perché Bushido si alterava irrazionalmente quando c'era di mezzo Bill, come se senza la sua regale persona quel ragazzino potesse sempre essere in pericolo di vita.
“Voleva mangiare al fast food e ce lo abbiamo portato,” spiegò con calma, mentre quasi mezzo metro più in basso Chakuza ricominciava con la tiritera che se al re premeva tanto sapere dov'era il suo ragazzino, che ci stesse lui in giro a servirlo e riverirlo. Fler gli tirò un calcio.
“Beh, vedete di riportarlo a casa. E subito, anche.”
“E' Anis?” Cinguettò Bill, probabilmente percependo il tono sostenuto che usciva impunemente dalla cornetta. “E' Anis, vero? Me lo passi?”
Fler gli porse il telefono e Bill si mise letteralmente a saltellare. “Amore, ciao! Ho comprato un sacco di cose stupende!”
“Dobbiamo andare,” annunciò Fler a Chakuza mentre, alle sue spalle, Bill si perdeva nel raccontare che cosa avesse comprato di preciso e anche cosa pensava di comprare e poi invece aveva lasciato in negozio.
“Non ho ancora finito di mangiare,” gli fece presente Chakuza, indicando il panino morso solo a metà.
Fler inspirò ed espirò per ritrovare la calma, quindi si chinò verso quella piaga austriaca così soddisfacente a livello sessuale eppure così esasperante in tutti gli altri campi della sua esistenza e gli parlò all'orecchio. “Prima riportiamo il prezioso culo della principessa al suo legittimo, snervante e prepotente proprietario, prima possiamo dedicarci a quello che volevamo fare oggi.”
Chakuza smise di masticare e mandò giù il panino per intero, quindi si alzò e in meno di tre secondi era già praticamente pronto. A tutto.
“...E poi ho comprato un paio di stivali argentati con le perline che-tesoro ma mi stai ascoltando?” diceva intanto Bill. “No, tu non mi stavi a sentire. Che cos'ho detto?”
Mentre Bill si faceva giurare e spergiurare da Bushido che era stato attentissimo e non si era perso nemmeno la descrizione del più minuscolo dei bottoni, Fler sospirò e lo aiutò ad entrare nel giubbotto, infilandogli lui stesso prima un braccio e poi l'altro come con i bambini.
Chakuza aveva già le chiavi in mano. “Preparo la macchina.”

*


Fler non ricordava già più che cosa avesse detto Bushido quando avevano bussato alla porta della sua camera da letto e vi avevano lasciato scivolare all'interno Bill sano e salvo. Era certo che si trattava di qualcosa di molto epico ma che non comprendeva nessun ringraziamento. Poteva anche giurare, senza sbagliarsi di troppo, che Bill aveva squittito, per poi saltellare, per poi gettarsi fra le braccia del tunisino, strusciandosi e mugolando indegnamente. Da lì in poi tutto si faceva confuso. Chakuza lo aveva certamente preso per un polso, trascinato per tutto l'albergo e infilato nella sua camera ma Fler non si ricordava precisamente come ciò fosse avvenuto. Un attimo prima stava dicendo a Bushido che Bill era sano e salvo e l'attimo dopo era schiacciato contro il materasso e Chakuza lo stava baciando. Ora, a meno che non si volesse attribuire all'austriaco un potere di teletrasporto di qualche tipo, evidentemente dovevano aver camminato.
Fler si chiese se avessero iniziato a limonare già dopo aver chiuso la porta di Bushido e se qualcuno li avesse visti, ma fu solo un lampo di lucidità nella piena oscurità della sua libido e, soprattutto, di quella di Chakuza che, da sola, li aveva già avvolti entrambi.
Il fatto che nemmeno mezz'ora prima avessero litigato furiosamente di fronte a Dio solo sapeva quante persone e che, per altro, lo avessero fatto come due checche isteriche, non sembrava avere nessuna importanza per l'austriaco, al momento. E, a dirla tutta, nemmeno per lui. Il fatto era che non gli veniva tanto bene rimanere arrabbiato quando finalmente riusciva a portare a termine il suo unico piano per la giornata – farsi scopare – e quando le mani di Peter erano nel posto in cui dovevano stare – nelle sue mutande.
Mugolò qualcosa, mentre Chakuza gli tirava la maglia. Ci fu un momento in cui rischiò di venir soffocato ma fortunatamente ne uscì abbastanza vivo da poter mettere mano ai pantaloni dell'altro e spogliare anche lui. Mentre Peter lo appoggiava di nuovo tra i cuscini, quasi fin troppo dolcemente per i suoi standard, Fler notò quanto fosse morbido il letto e profumate le lenzuola, quanto fossero pesanti le sue braccia e le sue gambe, e quanto fosse difficile tenere gli occhi aperti mentre Chakuza lo baciava.
Sentì vagamente i baci di Chakuza scivolare dalle labbra al mento, dal mento al collo, fino a posarsi su una spalla e lì restare, con Chakuza in una posizione scandalosamente indecente e ridicola.
“Stai dormendo?” Chiese Fler.
“No,” mugolò Chakuza, senza muoversi. Poi gli strusciò il naso addosso, fino a piantarglielo nel collo e sospirò, mugolando qualcosa di incomprensibile.
“No, infatti, nemmeno io.”
Accompagnare sua maestà a fare spese era un lavoro da uomini duri e ben allenati. Magari potevano dormire un paio d'ore e ricominciare alla grande subito dopo. Fler gli strinse un braccio intorno alle spalle e Chakuza si sistemò meglio.
Un attimo dopo, dormivano entrambi.
Personaggi: Bill, Fler, Bushido
Genere: Malinconico, Romantico
Avvisi: Slash, Lemon
Rating: NC-17
Serie: Stages of Grief
Prompt: Storia scritta per la maritombola di Mari di Challenge (prompt nr.82: "Chiacchiere in chiaroscuro").
Note: Questa storia era nata per essere una storia BillxTutti, ma poi Fler se l'è portato via per farlo soltanto suo e io gliel'ho lasciato fare perché Fler mi fa cose (tanto per auto-citarmi sempre e comunque). Ed era nata anche come una one-shot che si apriva e si chiudeva qui, per non venire mai più riaperta, crollasse il mondo; ma queste cose non vanno mai come le programmi e arriva sempre qualcuno che ti suggerisce che forse ci sono anche altre cose da dire. Forse, vedremo. Intanto c'è questa ;)

Riassunto: Bill sapeva che Bushido non aveva alternative. Con il film in uscita, la vecchia e la nuova casa di produzione, i concerti e i nuovi album da preparare, avrebbe dovuto essere Dio per avere altro tempo da dedicare ad un’attività qualsiasi. Sapeva che, se avesse potuto, avrebbe dilatato le ore per lui, solo che non poteva. Bill però si conosceva anche troppo bene per poter fingere di non aver bisogno d'altro.
1. DENIAL
(Stages of Grief)


La villa gialla era completamente avvolta di luci, quella sera.
Un’altra delle esagerazioni di Bushido per riscattarsi dal buio della propria adolescenza e contemporaneamente l’ennesimo regalo per scusarsi della sua quasi costante assenza.
Bill poteva contare sulle dita le volte che si erano svegliati nello stesso letto, negli ultimi sei mesi. E gli bastava una mano sola per ricordarsi quante di quelle volte avevano fatto sesso.
Si era così abituato a dover buttare intere cene intatte nel cestino, alle telefonate di giustificazioni e ai regali per compensare trovati sul cuscino in scatole di raso, che ormai non si arrabbiava nemmeno più. Era diventata la routine, lo stato normale delle cose.
Non aveva idea di quando la discesa fosse iniziata, non c’era un confine netto fra quando Anis passava tutto il suo tempo con lui e quando aveva iniziato a passarlo altrove. Era successo, lentamente, una trasformazione lieve ma costante, finché un giorno si era svegliato nel letto della villa e si era reso conto che ci viveva da solo da quasi due settimane e che poteva fare soltanto due cose: fare le valige e andarsene, oppure aspettare.
Bill sapeva che Bushido non aveva alternative. Con il film in uscita, la vecchia e la nuova casa di produzione, i concerti e i nuovi album da preparare, avrebbe dovuto essere Dio per avere altro tempo da dedicare ad un’attività qualsiasi. Sapeva che, se avesse potuto, avrebbe dilatato le ore per lui, solo che non poteva. Bill però si conosceva anche troppo bene per poter fingere di non aver bisogno d’altro.
Le feste alla villa gialla erano eventi di rilevanza quasi nazionale.
Tutto lo star system tedesco entrava in fibrillazione alla sola idea di passare qualche ora a ballare sui pavimenti lucidi di casa Ferchichi. Gli inviti erano elargiti con parsimonia e si faceva la guerra per ottenerli. Chi non ci riusciva, finiva comunque per presentarsi, tirato a lucido, sperando in un po’ di fortuna o nel buon cuore del padrone di casa che alle volte scendeva magnanimo le scale e faceva passare qualcuno che non era in lista. Bill, generalmente, gli camminava di fianco, sorridendo ai fotografi che avevano superato l'euforia di vederli insieme almeno due anni prima e adesso non facevano che cercare lo scandalo, le tracce di qualcosa di torbido sui loro visi. Erano mesi che cercavano gli amanti dell'uno e dell'altro ma Bushido non aveva tempo per la propria vita, figuriamoci per averne un'altra, e Bill nascondeva la propria intimità da troppo tempo per preoccuparsi di un paio di uomini di mezz'età costantemente appostati nel suo giardino.
Quella sera però, era da solo a scendere le scale, perché Bushido aveva dovuto trattenersi ovunque fosse ed era chiaro che gli onori di casa toccassero a lui. Sarebbe arrivato solo con un paio d'ore di ritardo, aveva detto. Era una promessa.
Bill sospiro e si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio mentre quell'ennesima promessa, già infranta mentre veniva pronunciata, andava a depositarsi sul fondo della sua testa, con tutte le altre cose poco importanti.
Nella stanza che si apriva davanti a lui c'erano centinaia di persone che bisognava intrattenere. Produttori con cui parlare, uomini carichi di soldi a cui sorridere, dando l'impressione che qualsiasi cosa volessero fosse possibile. Era stato divertente, i primi tempi, recuperare contatti per Anis, semplicemente sbattendo le palpebre, perché poi ne ridevano insieme, nella vasca da bagno, tra quintali di bollicine e lo champagne più costoso a cui Bill riuscisse a pensare. Adesso era solo un'incombenza che doveva sbrigare da solo e che tendeva a togliersi di mezzo in fretta. Scandagliò la stanza con lo sguardo, osservando di fretta ogni volto che gli capitasse a tiro, così allenato ad incontrare umanità che gli bastava uno sguardo per riconoscere ogni singolo ospite. Quella non era che una metà degli invitati e fra loro non c'erano altro che conoscenti e gente di spettacolo. I ragazzi non c'erano ancora.
Chakuza aveva chiamato nemmeno mezz'ora prima per avvertirlo che stavano arrivando e, dalla voce, Bill poteva ben intuire che avevano tutti già bevuto abbastanza birra da non essere esattamente adeguati alla serata che Bushido aveva voluto mettere su. Bill non capiva come si potesse pretendere di rinchiudere nella stessa stanza i suoi amici del ghetto e i figli di papà che si era fatti amici nell'ambiente con la sua bella faccia e la sua parlantina. Chakuza e gli altri non erano come lui. Erano fidati, simpatici e tutto il resto ma erano indisciplinati e Bushido tendeva ad ignorare la loro volgarità, coprendola con il suo modo di fare. Bill aveva una mezza idea di come sarebbero andate a finire le cose se Bushido non si dava una mossa, e non voleva essere lì se quella mandria di animali avesse cominciato a comportarsi come suo solito proprio quella sera. Lui poteva ben avere due modi di porsi col mondo, loro però ne avevano uno solo e non era il caso di renderlo pubblico. Le feste private della crew non erano esattamente un esempio di educazione e buona società, per dire.
Due Gin Tonic e un Mojito dopo, la folla era aumentata, Bushido non si era ancora visto e lui aveva già parlato con almeno un centinaio di persone di troppo rispetto alle previsioni. Si appoggiò al bancone del bar e sorrise al barista che gli aveva chiesto se volesse qualcos'altro. "Sono a posto così, grazie," rispose sollevando il bicchiere con le ultime gocce di menta.
Sospirò cercando con lo sguardo suo fratello, ma era una mera illusione sperare di trovarlo ancora in pista a due ore dall'inizio della festa. Qualunque fosse la sciacquetta poco famosa che aveva rimorchiato, poteva scommettere che era già distesa su uno dei letti al piano di sopra. Si appoggiò al bancone di schiena e piegò la testa all'indietro, finendo il suo cocktail. Attraverso il fondo opaco del bicchiere vide il gruppo di uomini attraversare le porte della sala e sospirò.
"Sperare che non facciano troppo casino è del tutto inutile, lo sai," disse una voce alla sua sinistra.
Bill sorrise, senza voltare la testa e osservando Saad, in lontananza, prepararsi a tradire la moglie con una bionda qualsiasi fra quelle che avrebbe trovato nel corso della serata. "Non posso fare molto altro," rispose. Sentì lo sguardo dell'uomo al suo fianco percorrere tutto il profilo del suo corpo, lo sentì fermarsi sul collo, sul mento e sulle labbra prima che l'indice di una mano grande e forte percorresse delicatamente la stessa identica strada.
"Patrick..."
Fler aveva in mano una bottiglia di birra e se la portò alle labbra prima di accomodarsi di fianco a lui e guardare la folla. "Anis dice che ne avrà ancora per un'altra ora."
"E poi per quella successiva, fino alla fine della notte," mormorò il moro.
"Bill..."
Il cantante si voltò e si strinse nelle spalle. "Dimmi almeno se sta davvero lavorando."
"Tu non sei nella condizione di poter parlare."
"E tu in quella di farmi la predica, ti pare?" Chiese il moro, togliendogli la birra dalle mani e bevendone un sorso. "E poi io credo che lo sappia."
Fler sbuffò una risata che gli uscì dalle labbra appena dischiuse. "Oh, non credo," disse. "Lui..."
"Vieni?"

*


“Chiudi la porta."
Bill gli dava le spalle, in piedi contro l'enorme vetrata nella camera sua e di Bushido.
Fler rimase sulla soglia, la luce del corridoio lo rendeva un'ombra scura. "Bill, io non credo che sia una buona idea."
Il moro si voltò e sorrise, anche se i suoi occhi sembravano guardare altrove. "Non è la prima volta che lo facciamo qui."
"Non è questo..."
"Non è la prima volta." Insistette. Allungò una mano a sfiorarlo appena e solo quando Fler non si scostò, si permise di appoggiare il palmo della mano sul suo petto. Alzò il viso a sfiorargli piano una guancia, sorridendo fra sé al pensiero che Patrick fosse l'unica persona che lo costringesse ad alzarsi sulle punte dei piedi per essere baciata. Gli lasciò scorrere le mani lungo le braccia, fino ai polsi forti.
Infilò le dita magre sotto il cinturino d'acciaio e lo sganciò con un movimento secco nell'esatto istante in cui chiudeva le labbra intorno sul suo collo. "Rilassati, ok?"
Fler lasciò che gli togliesse l'orologio e che lo appoggiasse là dove dopo non lo avrebbero trovato e lui sarebbe impazzito a cercarlo, per non lasciarlo dov'era e poi dover spiegare ad Anis per quale motivo il suo orologio fosse nella sua stanza e per nascondere il segreto suo e di Bill che non sembrava farsene un problema.
Provò a fermarlo di nuovo ma Bill poggiò le labbra sulle sue, la lingua sulla sua e non lo lasciò parlare. Gli passò le braccia intorno al collo e pressò il proprio corpo contro quello massiccio di Fler, lasciò che sentisse la sua eccitazione contro la gamba mentre si tirava su, aggrappandosi alle sue spalle, e Fler non poté fare altro che afferrarlo saldamente sotto le ginocchia.
“Mi spogli?" Ridacchiò, guardandolo dritto negli occhi, la fronte appoggiata alla sua.
Fler sapeva che quello era il momento in cui avrebbe dovuto dire di no, scostare Bill dal proprio corpo e allontanarsi, magari perfino abbandonare la festa per evitare di peggiorare una situazione che aveva iniziato ad essere grave quand'erano andati a letto la prima volta e che si era fatta disastrosa quando poi avevano continuato. Fler era consapevole che qualunque fosse il meccanismo che li portava a dividere il letto ogni volta che erano soli doveva interrompersi il prima possibile, ma non aveva abbastanza forza d'animo per resistere alle tentazioni e Bill era ingovernabile, capriccioso e ostinato come solo un bambino poteva esserlo.
Credere alla scusa che fosse colpa dell'irruenza di Bill era l'ultima cosa che in genere faceva prima di spogliarlo e sentirlo sotto le mani, caldo e morbido e bellissimo, nonostante il dettaglio – quasi morboso – che fosse steso tra le lenzuola da centinaia di euro di Bushido.
Fler registrò vagamente il rumore ovattato della festa oltre la porta chiusa mentre gli sganciava i pantaloni, fra le risatine di Bill che teneva le braccia appoggiate ai cuscini e gli porgeva il bacino per facilitargli l'operazione. “Sbrigati,” gli respirò nell'orecchio. “Non abbiamo molto tempo.”
“Non dire cose del genere,” gli disse.
“Ma è vero che non ne abbiamo,” Bill rise ma la sua risata era priva di allegria, piena della stessa disperazione che riempiva anche i suoi baci e le sue carezze. Come se avesse bisogno di toccare, baciare e premersi senza soluzione di continuità, perché sapeva che il vuoto tra un'azione e l'altra si sarebbe colmato di ragionamenti da fare e decisioni da prendere. I loro incontri erano composti in realtà da quell'unica sola carezza che affondava tra le sue gambe e lo derubava di tutti i pensieri.
Fler non voleva essere la mano che gli concedeva quella liberazione, ma non aveva avuto scelta. Non quando Bill aveva deciso che tutta la sua disperazione dovesse iniziare e finire con lui.
Seguì con lo sguardo l'inarcarsi morbido del corpo di Bill quando le sue dita scesero a prepararlo. Si concentrò sulle sue unghie che gli affondavano senza pietà nelle spalle e su quel lieve dolore, mitigato soltanto dal brivido di aspettativa e piacere che gli si attorcigliava intorno alla spina dorsale quando Bill gettava la testa all'indietro e mugolava il suo consenso all'intrusione, puntando i piedi fra le lenzuola, a disfare un po' di più quel territorio vietato.
Bill gemette impaziente, con la voce liquida che si scioglieva in mugolii ogni volta che spingeva più a fondo le dita. “Scopami,” gli lasciò sulle labbra un bacio appena accennato, il tempo di esalare quell'unica parola in un respiro che gli andasse dritto in bocca e togliesse ossigeno più che darlo. “Ora, non farmi aspettare.”
Quelli di Bill non erano ordini, ma suppliche al sovrano che si era scelto per quei pochi attimi. Chiedeva per il solo fatto che ormai sapeva che Fler non era mai in grado di dirgli di no. Non poteva farlo. Avrebbe dovuto essere abbastanza maturo da negargli questa follia, e invece gli divaricò le gambe ed entrò in lui, gli strinse i polsi magri e lasciò che gridasse, che chiamasse il suo nome in un urlo che non aveva quasi niente di liberatorio e che era sempre stato pieno di lacrime di rabbia.
Quando si stese su di lui, Bill lo accolse soltanto per l'attimo che gli serviva a riprendere fiato, poi si liberò da quella stretta e si stese sulla sua metà di letto. Non voleva essere abbracciato.
Fler aspettò che i suoi respiri avessero smesso di sfuggirgli e quindi voltò la testa, seguendo il profilo del corpo di Bill nella penombra della stanza. Dalla sua spalla, fino alla curva appena accennata del fianco, c'era un percorso che adesso gli sarebbe piaciuto seguire con le dita, per vedere dove conducesse, come se quella strada immaginaria disegnata sulla pelle del ragazzo racchiudesse una qualche soluzione al loro attuale problema, invece di rappresentarlo. Ma non si mosse.
“Perché lo fai, Bill?” Chiese invece, con un sospiro quasi stanco.
“Non mi sembrava di essere da solo, poco fa,” rispose Bill e si voltò su un fianco, lontano da lui.
Anche questo faceva parte della loro inconsueta routine. Dopo la voglia, veniva il rifiuto. E dopo il rifiuto, soltanto chiacchiere, nascoste nel chiaroscuro di una stanza mai illuminata, per non vedere quello che avveniva e lasciare che restasse il ricordo di odore e sapori senza immagini.
“Ora non metterla in questo modo.”
“Non la sto mettendo in nessun modo,” insistette il moro.
Fler lo guardò, senza sapere bene cosa fare, come ogni volta che succedeva e, probabilmente, ogni altra volta ancora che li aspettava. Chissà in quale stanza, in quale casa e a quante ore dal ritorno di Bushido. Avrebbe fatto la doccia un attimo prima che arrivasse, come al solito. “Vorrei solo che non dessi a me la colpa, dopo.”
“Non lo sto facendo.”
Fler allungò una mano, ma la lasciò sospesa sulla sua pelle. “Posso toccarti?”
“No.”
Mentre ritraeva la mano, però, Bill si voltò e gli si arricciò contro, come se, allontanandosi, avesse tirato un filo. Gli nascose il viso nel petto per non fargli vedere le lacrime, così a Fler non restò che accarezzargli i capelli e pensare che si ritrovava tra le mani un ragazzino tutto diverso da quello che gli aveva chiesto di essere spogliato. Non sapeva se preferiva quello o l'altro, però.
Lo lasciò piangere per un po', quindi gli sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. “Calmati,” mormorò e, quando Bill alzò gli occhi, Fler già non lo stava più guardando. Aveva lo sguardo perso oltre la finestra, sul giardino della villa di cui non vedeva che le cime degli alberi sotto la luna. “Non ha senso piangere adesso.”
“L'ho fatto anche prima.”
“Sai perfettamente che cosa voglio dire.”
Bill rimase in silenzio ancora a lungo e Fler lo sentì quasi immobile contro il proprio corpo. “Non verrà stasera,” disse alla fine.
“Lo farà, te l'ha promesso.”
“Come promette tutto il resto,” mormorò il moro.
“Dovresti avere fiducia in lui,” Fler guardò gli alberi muoversi appena, nel vento notturno. “Lui ce l'ha in te.”
“Te l'ho detto, io credo che lo sappia.”
“Questa è la scusa che ti sei inventato, ragazzino. Non lo sa. Lui non ha la minima idea di quello che succede qui e tu... noi dovremmo smetterla.”
Bill si districò dall'abbraccio che aveva cercato e rabbrividì non appena la sua pelle si allontanò da quella di Fler. “Devo tornare alla festa,” mormorò di fretta, avvolgendosi nel lenzuolo.
“Bill...” Fler, sospirò e si alzò per andargli dietro.
“Ho capito,” lo anticipò subito lui, gli occhi serrati, come se avesse mal di testa. Gli agitò una mano davanti, per non farlo avvicinare. “Ho capito, ci penserò. Ora lascia...”
“Aspetta.” Per Fler fu facile afferrargli le dita e portarsele piano alle labbra e poi al naso. “Hai il mio odore addosso,” mormorò. “Non farti trovare così.”
Bill annuì, incerto.
“Bill?”
Il moro evitò il suo sguardo con un sospiro, ma annuì. “Ho degli ospiti di cui occuparmi.”
Fler lo osservò un'ultima volta, prima di lasciare la stanza.

*


La festa sembrava essere rimasta al punto esatto in cui l'aveva lasciata, se non per il fatto che adesso la metà dei ragazzi di Bushido non si vedeva ed era probabilmente dispersa nello scandaloso numero di stanze da letto libere presenti nella casa. Solo Eko Fresh si aggirava intorno al tavolo del buffet e lanciava agli altri invitati qualche occasionale occhiata come a chiedersi cosa ci trovassero di tanto interessante nel ballo quando c'era una tavola così piena di cose buone. Bill provava una gran voglia di raggiungerlo perché, in quel preciso momento, Eko rappresentava quello stralcio di normalità – lì col suo piattino in mano – che lui stava disperatamente cercando di riconquistare. Solo che non poteva, dopo essere sparito per quasi un'ora, farsi nascondere in un angolo dal turco, così mise su il suo sorriso collaudato e si lisciò la maglia, gettandosi nella folla.
Lasciò che fossero le chiacchiere degli altri a trascinarlo da una parte all'altra per tutta la sera e tentò di ignorare il fatto che Fler stesse cercando di togliersi il suo odore di dosso, abbracciato ad una bionda dall'altra parte della stanza. Bill lo vide infilarsi una mano in tasca per recuperare il telefono e leggere un messaggio. Si scambiarono un'occhiata aldilà del corpo di lei e Fler gli fece segno che il re stava arrivando. Bill controllò sul cellulare, il cuore che gli batteva più forte di quanto credeva possibile: c'era un messaggio anche per lui.
Chiese scusa alla persona con cui stava parlando, chiunque fosse dal momento che non le aveva prestato la minima attenzione, e si allontanò a grandi passi in direzione di Fler, invitandolo con gli occhi a liberarsi della troia di turno. L'uomo sospirò e si scostò gentilmente dalla ragazza, raggiungendolo, proprio mentre la porta si apriva per lasciar passare il padrone di casa, scintillante Dio solo sapeva come, anche dopo ore di lavoro.
Ci volle qualche minuto prima che Bushido fosse effettivamente in grado di raggiungerlo anche se, una volta messo piede nella stanza, lo aveva subito cercato con gli occhi e localizzato, di fianco al suo migliore amico.
“Vedo che questa festa sta andando alla grande anche senza di me,” scherzò, passando un braccio intorno alla vita di Bill e posandogli un bacio sulla tempia. “Che cosa mi sono perso?”
“Niente che tu voglia davvero sapere,” sorrise Bill, a disagio solo la metà di quello che sembrava essere Fler dopo quella frase. “Hai mangiato?”
Bushido fece segno di no con la testa. “Assolutamente no. Ho intenzione di ubriacarmi il più in fretta possibile e il cibo rallenterebbe il processo.” Si guardò intorno e poi recuperò tre flute che gli passavano accanto su un vassoio. “Coraggio, fatemi compagnia.”
Bill non sapeva se la confusione che aveva in testa dipendesse dall'atteggiamento travolgente di Bushido o dallo champagne, ma non importava poi molto.
Quando Bushido se lo strinse al fianco, Bill sentì il suo cuore riprendere a battere e il respiro soffiargli di nuovo tra le labbra come se, fino ad allora, il tempo si fosse fermato, congelato nell'ultimo attimo in cui Anis era stato al suo fianco e sospeso nell'attesa che Anis tornasse.
Ora il sangue scorreva e l'aria gli contraeva i polmoni. Tutto era a posto.
Perché senza il cuore e il respiro, niente contava davvero, non era forse così?
Ignorò volutamente la risposta negli occhi di Fler e portò il bicchiere alle labbra, sorridendo a Bushido.
Personaggi: Bushido, Bill, Tom
Genere: Comico
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Prompt: scritta in occasione della Divano!Challenge
Note: Questa breve storiellina era stata iniziata cinque milioni di anni fa (tra un dinosauro e l'altro) e mai finita. Poi ieri me la sono ritrovata per caso tra le mani e pur di non scrivere ciò che in realtà devo scrivere, l'ho finita. La storia è collocabile in qualsiasi mese, di qualsiasi anno, in quasi tutti gli universi paralleli ed è valevole anche per qualsiasi altro personaggio in circolazione (ma questi tre erano più bellini). E insomma, non che ci sia molto da dire. E' una cosina così xD

Riassunto: Quella del divano, in casa Kaulitz, era una faccenda complicata.
BATTLE FOR THE COUCH


Quella del divano, in casa Kaulitz, era una faccenda complicata.
Non che lo fosse prima. Lo era diventata dopo. C’era stato un tempo in cui il divano, come mobile atto a poggiare il culo di fronte alla televisione, non era affatto argomento di grandi discussioni. L’oggetto in questione, bello, di pelle nera e lucida, era abbastanza grande per ospitare entrambi i gemelli Kaulitz senza grossi problemi, tantopiù che ai gemelli, per dire, stare su quel divano in due, annodati come calzini spaiati in lavatrice, era anche piaciuto per un certo periodo. E questo era appunto il prima. A seguire era arrivato Bushido che, di per sé, col divano non aveva niente a che fare. Non era suo, il divano. Né era sua la casa. Né tanto meno i gemelli Kaulitz. Uno sì, magari, ma l’altro non era affar suo. Nonostante questo, come sempre succedeva quando c’era lui di mezzo, dopo il suo arrivo, era cambiato tutto. E questo era appunto il dopo.
Come si evince, dunque, un prima e un dopo c’erano ed erano anche importanti, per la questione in oggetto, che poi era il divano.
Bushido in casa Kaulitz c’era entrato per vie piuttosto comuni. La richiesta pubblica di sesso orale non c’entrava niente. Bill nemmeno l’aveva considerata, quella, gli era entrata da un orecchio per poi uscire dall’altro, senza nemmeno sballottare un po’ nella cassa di risonanza creata da un cervello spesso assente. Così, escluse tutte le porcate da scandalo televisivo, come le proposte di matrimonio, oppure lui stesso medesimo che si leccava tutte le dita con aria poco fraintendibile, Bushido aveva dovuto faticare e guadagnarselo, il ragazzino, a furia di orologi costosi, di scarpe ancora più care e di un numero incalcolabile di biglietti d’aereo. Bushido in quella casa c’era entrato dalla porta, dopo un corteggiamento da primi del novecento, senza vedere le grazie di Bill nemmeno da lontano. Nemmeno per sbaglio. Così quel divano era diventato la sua unica possibilità di allungare le mani. Come un ragazzino, stendeva il braccio con noncuranza sulla spalliera del divano e appoggiava le dita sulla spalla di Bill, ci provava almeno, e se quello non si muoveva, allora stringeva la presa. Se lo tirava anche un po’ addosso magari, ecco, tanto per sentire la pelle calda attraverso la stoffa. Si consolava così.
Il divano era il massimo che potesse chiedere a Bill, che ogni tanto si dimenticava le regole e gli si spalmava addosso durante i film romantici e tra un bacio e l’altro ci stava anche una palpatina, una soltanto, perché a darne di più Bill si ricordava che dovevano fare le cose con calma. Bushido si chiedeva ancora se questa calma sarebbe mai diventata fretta, un giorno. Uno qualsiasi, ma un giorno, per Dio, sì.
Il punto, e qui si tornava alla disquisizione sul divano, era che la casa era appunto dei Kaulitz, che erano indubbiamente in due. Tom non aveva preso bene il passaggio tunisino dal prima al dopo. Improvvisamente, da un giorno ad un altro, aveva sviluppato un amore tale per quel divano da negare categoricamente di poterlo lasciare libero ai due innamorati.
- Devo vedere la tv, - era la scusa più usata, in genere. C’era sempre un film interessante, che non poteva assolutamente perdere. Così si piazzava ad un’estremità del divano, e relegava gli altri due all’altra e quelli, ovviamente, non è che potessero fare più di tanto, se non guardare il film.
Bushido inizialmente aveva preso la cosa con filosofia, forte dei suoi trent’anni e del proprio autocontrollo. Aveva riso, si era tirato contro il suo fidanzatino di inizio secolo e aveva guardato il film. Questo per le prime dodici volte. Poi i suoi trent’anni gli avevano fatto notare che non scopava da mesi, lui che aveva medie non propriamente comuni, e quindi aveva cominciato ad irritarsi. Lo aveva fatto ancora di più rendendosi conto che Bill nemmeno si era accorto della presenza del fratello. A lui bastava accoccolarsi al suo fianco con i suoi dolcetti, le sue caramelle o i suoi pop corn e vedersi il film. Tom non era per lui di nessun ingombro. E dire che Bushido faticava a capire come non si potesse trovare ingombrante un essere di un metro e ottanta che ti guarda così male da farti un foro nella testa col solo sguardo.
Quella era una di quelle sere. Bushido era arrivato, era stato salutato dagli urletti festosi del suo fidanzato in ghingheri e quindi si erano sistemati sull’unica metà di divano che Tom già non avesse colonizzato con i suoi chilometri di arti. Ora, Bushido si era preparato un lunghissimo discorso per spiegare a Bill che la situazione non era più sostenibile, che le cose dovevano cambiare – per la miseria – e che se gli voleva un po’ di bene - neanche tanto, bastava un po’, giusto l’affetto che rivolgi ad un essere umano quando questo, palesemente, ti venera, - bisognava che parlasse con suo fratello e che i due venissero a patti in qualche modo. Bill non voleva forse accontentarlo un pochino? Bushido non chiedeva nemmeno del sesso – cioè lo chiedeva, per Odino e tutti gli Dei Nordici, ma non era questo il punto della questione. Ora come ora gli sarebbe bastato poter avere un cazzo di divano per intero su cui sopportare due ore di film e annusare Bill di sfuggita. Insomma, era già abbastanza castrante non poterselo portare a letto, che per lo meno gli si concedesse la possibilità di limonarselo con un po’ di riservatezza. Quindi, aveva preparato questo discorso ma Bill era già in stato euforico zucchero-indotto quindi parlarci era pressoché impossibile. Quando il numero degli zuccheri di Bill superava quello delle cellule neuronali, il moro non capiva niente che non fossero cose incredibilmente stupide per le quali entusiarmarsi senza ritorno, il che poteva includere alternativamente, o anche tutte insieme, le seguenti cose: bambini, cuccioli, alberi, fiori, casette, cartoni animati e Nena. Quindi introdurre la spinosa questione di un fratello da traslocare altrove era fuori discussione. Per altro, era fuori discussione anche parlare con Tom, perché quello di lui non ne voleva sapere. “Tunisia, forse non hai capito,” lo aveva apostrofato un giorno, tornando a sedersi sulla sua metà di divano con una lattina gigante di coca e una ciotola di pop corn nella quale suo fratello, nemmeno cinque minuti dopo, avrebbe infilato tutta la testa. “Io con te non ci parlo.”
Bushido aveva avuto due possibilità: far buon viso a cattivo gioco e sorridere, oppure massacrarlo di botte finché di lui non fosse rimasta che una poltiglia di ossa e sangue. Siccome la seconda opzione avrebbe posticipato le riprese del suo film di quasi dieci anni, diciamo, aveva preferito ripiegare sulla prima. Questo era successo molto tempo prima e da allora Tom aveva tenuto fede alle sue parole, limitandosi a salutarlo quando entrava e, soprattutto, quando usciva.
Dopo una lunga riflessione, durata quasi tutta la scena iniziale del film che stavano guardando e del quale gli era sfuggito pure il titolo – d’altronde Bill si era limitato a sventolargli davanti la custodia del DVD molto velocemente, per poi proseguire ancheggiando in un paio di pantaloni di pelle che, a detta di Bushido, erano di per sé un’autorizzazione per lui a fargli qualunque cosa – aveva deciso che per ottenere quello che voleva, doveva agire.
Tom aveva occupato ben più di metà divano con le gambe quasi distese. Bushido fece altrettanto. Allungò le gambe fin quasi a mettergli i piedi in bocca e, tanto perché non gli venisse in mente di calciarlo via, si tirò Bill in braccio, sfidando Tom a far cadere suo fratello.
Tom ringhiò per qualche minuto, poi allungò una mano e di scatto, come i prestigiatori con le tovaglie sui tavoli apparecchiati, tirò via da dietro la schiena di Bushido entrambi i cuscini.
Bushido recuperò il terzo che rimaneva e glielo tirò in faccia, nascondendo poi la mano quando Bill si girò sbattendo gli occhioni con aria interrogativa. “Non preoccuparti, amore, non è niente,” cinguettò, baciandolo sul naso. “Ti piace il film?”
“E’ stupendo!” Commentò Bill, tornando a guardare lo schermo un attimo prima che Tom sollevasse la sua lattina di coca cola e la posizionasse sopra la giacca di Bushido, adagiata sulla spalliera del divano. Il tunisino scosse la testa, Tom non avrebbe osato farlo.
Tom ghignò, quindi rovesciò il liquido che colò lungo l’abito di sartoria, sotto gli occhi sconvolti di Bushido.
“Vado in bagno!” Annunciò il moro, voltandosi verso entrambi. I due lo guardarono amorevolmente, nessuna traccia d’odio sui loro volti, che tornarono due maschere da incubo una volta che Bill fu sparito nel corridoio.
“Comincia a pregare,” sibilò Bushido.
Tom ghignò. “Prima le signore…”
L’attimo dopo, Tom lo aveva riempito di pop corn e Bushido aveva letteralmente divelto la visiera di uno dei cappellini del ragazzo, appoggiato sul pavimento.
“Tu sei un mostro!” Sbraitarono in coro.
“Questa me la paghi.” All’unisono.
“E piantala di ripetere.” In tandem.
Bushido rimase a guardare Tom incagnito per qualcosa come due minuti. Centoventi secondi di troppo, dal momento che aveva trent’anni e non poteva – culetto di Bill o meno – scendere al livello di un ragazzino di diciannove anni. Era umiliante. “Senti, Tom, ne ho abbastanza.”
“Anche io. Perché non ti alzi, prendi la tua giacca, la tua auto e non te ne torni a casa?”
“Non potremmo trovare una via di mezzo?”
“L’unica via di mezzo plausibile è che tu non poggi il culo su questo divano.”
Bushido sospirò. “E dove starebbe la via di mezzo?”
“Sta tra me che accetto che tu stia qui, assolutamente impossibile, e io che ti denuncio per pedofilia, aggravata da circonvenzione di incapace. La via di mezzo è che tu non poggi il culo su questo divano, ma te ne stai seduto che so, sulla poltrona. Nell’ingresso. Sulla tua auto… a casa tua?”
“Cos’ha di importante questo divano per te?”
“Niente, mi fa anche schifo.”
“E allora?!” Bushido sollevò entrambe le mani in preda all’isteria.
“Mio fratello ha deciso di non dartelo… non fare quella faccia, lo so che non te lo ha dato perché me lo ha detto. Mi dice tutto quello che fate, anzi, solo per questo il divano andrebbe cambiato,” puntualizzò il ragazzino. “Comunque, se lui non te lo dà e passa il tempo con te a guardare film, significa che l’unico luogo in cui tu tenterai di allungare le mani con lui è questo. Ergo non ti voglio su questo divano.”
“Io e tuo fratello stiamo insieme.”
“Lo so.Un problema alla volta.”
“Di che problema state parlando?” Chiese Bill di ritorno dal bagno, sbattendo gli occhioni ambrati.
Tom gli sorrise angelico. “Niente di grave, Bushido se ne stava andando.”
“Eh?” Gli occhi del tunisino divennero due scodelle.
“Ma si, non fare complimenti, Anis, se tua madre ha l’influenza sono certo che Bill non ti tratterrà qui,” continuò Tom.
“No, certo che no! Povera signora Louise Maria!”
“Già, povera signora Louise,” Tom si alzò e aiutò Bushido ad indossare la giacca umida, battendogli anche una mano sulla spalla con fare compassionevole mentre l’uomo tentava di nascondere i ringhi di fronte a Bill. “Vai pure a casa. Vi mettete sul divano, una bella coperta, un bel film…”
Bill, che era ormai tutto un chiocciare preoccupato, lo accompagnò fino alla porta, assicurandosi che Bushido avesse intenzione di prendersi cura della sua povera mamma malata, nemmeno fosse Cappuccetto Rosso e Bill stesse per spedirlo nella foresta con il lupo cattivo. Gli chiuse bene perfino il cappotto, tanto per essere sicuri. “E non preoccuparti, d’accordo? A me farà compagnia Tomi..”
“Già,” sibilò tra i denti Bushido.
“A tal proposito, Anis…” mormorò un po’ imbarazzato il ragazzino, lisciandogli distrattamente il risvolto della giacca.
“Sì.?”
“Non so se l’hai notato,” continuò abbassando la voce. “Ma credo che Tom si senta a disagio quando stiamo, sai, sul divano, ecco.”
“Si?” La giornata forse stava volgendo in meglio. Adesso Bill gli avrebbe detto che sarebbe stato più carino nei confronti di suo fratello trovarsi in un posto più appartato. Magari in camera sua.
“.. ecco. Magari sarebbe più carino, nei confronti di Tom, se quando vieni qui…”
“Sì?”
“… ti sedessi sulla poltrona.”
Personaggi: Eko Fresh, Bushido, Bill, Fler, Chakuza, Sido
Genere: Commedia
Avvisi: Slash, Het
Rating: PG 13
Note: Questo è il mio regalo di compleanno per Liz, che diventa legale in tutti gli stati.
E come ogni regalo doveva essere una Billshido e non lo è manco per niente. Perlomeno, stavolta, sono riuscita a non mandarla in Bikuza, il che è un miracolo, e per farlo ho dovuto fare di Chakuza un cretino. No dico, poi Liz, prova a dire che non ti voglio bene (L). Dunque, Eko narratore, è la mia nuova fissa, e l'ho amato moltissimo, perché è patato da morire. E sì, mi sono autocitata. Dovevo farlo, ci stava troppo bene. Se non sapete dov'è che mi sto citando, tanto meglio, vi sembrerò più simpatica :D Il titolo se l'è scelto Liz da sola.

Riassunto: In fondo Bill non era poi così difficile da accontentare.
LA CENA PER FARLI CONOSCERE


L’entrata del pub era lurida.
La porta di legno era ricoperta di un tale strato di morchia e di unto che c’era da aver paura a metterci anche sopra la mano. Questo significava grossi guai.
Eko Fresh aveva imparato molto tempo prima a distinguere le discussioni dai luoghi in cui si sarebbero svolte. Le persone avevano svariate abilità, quella era la sua. Certo ce n’erano di migliori, ma c’era poco che lui potesse fare a riguardo. La sottile arte di interpretare i luoghi pubblici l’aveva sviluppata con il tempo, e soprattutto con Bushido, il quale aveva il brutto vizio di scegliere la bettola in cui ubriacarsi a seconda di quanto forte, pesante e imbarazzante dovesse essere l’ubriacatura. C’era una bella differenza, infatti, tra sedersi in un bel bar elegante, di quelli che pretendevano da Eko un completo che doveva farsi prestare da suo fratello, e sorseggiare qualche bicchiere di un costosissimo vino francese che non sapeva nemmeno pronunciare, e ridursi uno straccio, in un locale di Templehof che per raggiungerlo rischiavi di venir derubato quattro volte.
Erano due stati mentali diversi. Nel primo caso non si trattava di una vera e propria ubriacatura, quanto del tentativo di allontanare i problemi con stile. Nel secondo caso era la volontà di annegare il problema sotto un litro di birra e poi rivomitarlo il più lontano possibile da casa.
Questo, ovviamente, era il secondo caso. Bushido lo aveva chiamato con la voce già un po’ impastata e già lamentandosi della piaga di turno, che poi non cambiava mai, da sei mesi a questa parte, ed era sempre Bill.
Eko Fresh era consapevole che il loro mondo di duri era stato ribaltato da un ragazzino, che aveva capovolto tutto senza nemmeno tanto sforzo, per altro. Giusto quel paio di occhioni languidi, la vocina e il suo modo di chiederti le cose come se gli dispiacesse disturbarti, che poi mica era vero ma ci cascavi sempre. La crew era tutta impazzita per Bill. Un branco di uomini adulti agli ordini di un diciannovenne sessualmente confuso che era entrato di prepotenza non solo nella vita di Bushido, ma anche nella loro, e non aveva chiesto il permesso a nessuno. Quando l’universo si era ribaltato per esaudire i suoi desideri, Eko Fresh aveva fatto in modo di trovarsi un posticino ai margini della galassia dal quale potesse vedere, ma dove nessuno sarebbe venuto a chiedergli niente. Non voleva finire come Chakuza, lui, che era ormai asservito a Bill senza ritegno. Gli faceva da autista e da accompagnatore, ogni volta che Bushido non c’era, tanto che avevano finito per prenderlo in giro. E le prese in giro erano state così allusive che Bushido e Bill ci avevano fatto due o tre litigate sull’argomento, perché il tunisino era diventato molto geloso, tanto da toglierglielo quell’autista, finché Bill non gli aveva dato del coglione deficiente – proprio così, coglione deficiente – e Bushido era stato costretto a scusarsi e a notare come Chakuza, per quanto con Bill ci si trovasse tanto bene, aveva un’agendina piena di donne e preferiva di gran lunga continuare a scoparsi quelle.
Non che fosse l’unico disgraziato della crew, comunque. D-Bo, per dire, non aveva più un minuto di pace da quando, una sera, per sbaglio, si era lasciato sfuggire che gli piaceva The Notebook. Adesso non c’era un mese che Bill gli risparmiasse la visione del film. La vita di Kay One era sostanzialmente finita quando Bill aveva scoperto che gli piacevano i giochi da tavolo. Sotto sua precisa richiesta, Saad e Nyze stavano tentando di insegnargli le regole del calcio da almeno quattro mesi, senza successo. L’unica cosa che Bill riuscisse ad imparare erano i nomi dei giocatori, e solo se erano belli, altrimenti nemmeno quello. In compenso conosceva per filo e per segno tutte le case di moda per le quali avevano posato.
Ecco perché Eko adorava il suo posticino ai margini della galassia, lì Bill non poteva raggiungerlo con le sue manine ungulate. Evidentemente questo non era sufficiente a stare fuori dai guai, dal momento che dove non arrivava la Principessa, arrivava il re.
E questo spiegava il bar lurido, Bushido buttato ad un tavolo con la faccia come uno straccio e lui che si sedeva con un sospiro e chiedeva cos’era successo stavolta.
- C’è che questa volta lo butto fuori di casa – rispose il tunisino, che non aveva bevuto tantissimo ancora, ma era come se lo avesse fatto, a giudicare dall’espressione.
Eko non si scompose. Da quando Bill era arrivato, Bushido aveva minacciato di buttarlo fuori di casa almeno quaranta volte, senza mai farlo. Non che in effetti Bill ci vivesse davvero nella Casa Gialla, ma ci passava una considerevole quantità di tempo, tanto che lo si poteva pure buttare fuori con cognizione di causa. Solo che Bushido non aveva mai il coraggio di farlo davvero.
- E perché? – Chiese Eko, facendosi portare una birra. Se proprio doveva stare a sentire, voleva ubriacarsi un po’ anche lui.
Bushido agitò la birra tenendola per il collo. – Ha passato il limite, - disse, con una certa convinzione. Eko conosceva quella convinzione così bene da sapere che era la stessa con la quale due mesi prima Bushido aveva giurato che non ne poteva più e che sarebbe andato con la prima che avesse trovato per strada, tanto non aveva certo bisogno di pregarle le donne, lui. Era finita che lui e Bill erano andati via in vacanza insieme per una settimana e Bill era tornato indietro con un sacco di storie non volute sulla loro vita sessuale.
- Certo, - annuì comunque Eko, dando un’occhiata nel locale fumoso, che era pieno di quel tipo di gente che non vorresti mai incontrare. La situazione doveva essere davvero, davvero grave. – E che cos’ha fatto di preciso? -
- Quello che non doveva fare, - fu la risposta. Molto esplicativa.
La birra arrivò con un bicchiere lurido che Eko decise di ignorare, dedicandosi alla bottiglia. Si tolse il cappuccio, quindi bevve un sorso. – Dal momento che non sei ancora così ubriaco da non comporre frasi coerenti, ti dispiacerebbe essere più chiaro? –
Bushido dovette trovarla una richiesta ammissibile, perché annuì. – Ricordi che la settimana scorsa si è messo in testa di rivoluzionare la mia vita perché, a detta sua, c’erano cose che andavano assolutamente sistemate pena le ritorsioni del karma, o qualche altra cazzata simile? –
Eko, sfortunatamente, ricordava. Non c’era stato niente che gli permettesse di dimenticare la settimana appena trascorsa, durante la quale Bill si era messo in testa di rivestirli tutti da capo a piedi, e di insegnare loro a non imprecare così tanto, e mille altre cose che li avrebbero portati alla pazzia se, da un giorno all’altro, Bill si fosse stancato di loro per dedicarsi - a quanto pareva – interamente a Bushido. – Ha di nuovo spostato tutti i mobili di casa tua secondo le leggi del Feng Shui? –
- No. -
- Ti ha di nuovo stirato il muscolo di una spalla, convinto di saper fare i massaggi? –
- No. –
- Ha tentato ancora di farti il Kebab, fondendoti il frigorifero? – Chiese Eko, quasi con orrore. La faccia da topo si contorse in una smorfia e gli occhi pallati divennero ancora più tondi.
Bushido aggrottò le sopracciglia. – Eko, Bill non ha mai tentato di preparare il Kebab per me, che diavolo vai dicendo? - Commentò guardandolo perplesso.
Eppure Eko era sicuro che fosse successo, comunque non gli sembrava il caso di insistere. Evidentemente non era questo il punto. – Ok, allora dimmelo tu che cos’ha combinato stavolta. Non è che posso passare tutta la serata a giocare agli indovinelli. –
- Hai altro da fare, Eko? -
Magari anche sì, benedetto iddio, pensò Eko. Magari voleva starsene a casa sua a guardare un film stupido. O magari era la volta buona che telefonava a Valezka. Erano mesi che si riprometteva di farlo. Gli occhi di Bushido, comunque, contenevano già la risposta giusta. – Ovviamente no, - rispose con un sospiro rassegnato. – Avanti, Atze, spiegati. –
- Ha chiamato Fler. -
Eko si ritrovò a sputare la birra appena ingerita. – Ha fatto cosa? –
Bushido bevve un secondo sorso per darsi coraggio, o per togliersi lucidità. – Dice che questa guerra è stupida, che è scoppiata per un motivo imbecille e che non risolverla è assolutamente da idioti, - spiegò. – Quindi ha deciso di prendere lui in mano la situazione. –
Dal momento che la rottura con l’Aggro Berlin lo riguardava, l’intera questione lo colse sul vivo e si ritrovò a pensare che forse Bill avrebbe dovuto limitarsi a prendere in mano altra roba, piuttosto che la questione in oggetto. La guerra non era scoppiata per un motivo imbecille, era scoppiata per Valezka. E Valezka non era affatto un motivo imbecille. – E quindi ha chiamato Fler , - ripeté, con voce apatica.
- Non solo, - continuò Bushido, preso bene dalla discussione. – Bill sostiene che basterebbe parlarsi. Parlarsi! No dico, ti pare che a furia di diss non ci siamo parlati abbastanza, io e Fler? -
- Infatti, - fu immediatamente d’accordo Eko Fresh, come l’amichetta del cuore che stava in effetti interpretando. Quella che ti dà ragione perché deve, non perché è così. – Non c’è un bel niente da dire, tranne ricoprirlo di merda. –
- Esattamente. –
- E quindi, che cosa pensi di fare? –
Bushido rimase in silenzio per qualche lungo istante, fissando un po’ di birra caduta sul tavolo. – Ci parlerò, - disse alla fine.
Eko sollevò un sopracciglio: non sapeva se fosse adeguato o meno fargli notare l’incoerenza delle sue scelte, per questo optò per un neutrale: - Ci parlerai? –
- Non ho molta scelta, - commentò Bushido, palesemente rassegnato. – Bill ha organizzato una cena.
- Tra te e Fler? –
- Tra noi e loro, - precisò il tunisino. – Non so da dove gli venga la convinzione che qualche chiacchiera a cena possa risolvere le cose. –
Eko sapeva da dove gli arrivasse, gli arrivava da quel coglione di Chakuza che venendo da una famiglia bene di Linz, Austria, e non dal ghetto come ci si sarebbe aspettato, non ne sapeva assolutamente niente di guerre tra bande. Eko, tra l’altro, questa cosa mica l’aveva mai capita. Se non doveva venire dal ghetto, che fosse extracomunitario, almeno, come lui e Saad per dire. E invece no, quello veniva da Linz, 736 km da Berlino. Uno scandalo.
Con ogni probabilità, doveva aver ripetuto per la milionesima volta – come faceva sempre, per altro – che qualunque questione ci fosse la potevano risolvere di fronte ad un piatto di crauti. Crauti, bah! Se c’era una cosa della Germania che a Eko non piaceva erano i crauti. La Turchia era un paese sufficientemente civilizzato per non mangiarli. Comunque, a parte questa cosa dei crauti, Bill doveva aver sentito Chakuza blaterare e doveva aver pensato che se una qualunque bega interna all’Ersguterjunge poteva essere risolta con del cavolo, allora lo stesso valeva per la guerra attualmente in corso. Di per sé l’intero ragionamento faceva acqua da tutte le parti, ma Bill era pure convinto che il futuro del mondo fossero i supermercati senza cassieri quindi, insomma, non è che Eko si stupisse tanto di questo modo di pensare.
- Io non cenerò con Fler, - fu la prima cosa che disse, comunque, tanto perché fosse chiaro che da chiunque fosse partita l’idea, lui non ci stava.
Bushido, naturalmente, era di tutt’altro avviso. – Fler e Sido hanno accettato l’invito, - sibilò. - Ti rendi conto, sì, che non posso rifiutare? E che, di conseguenza, nessuno di voi può? –
Eko, a differenza dell’Austriaco in trasferta, le sapeva bene queste cose. La loro unica possibilità di salvezza sarebbe stata che Fler e Sido fossero abbastanza seri da non accettare un invito del genere, ma ovviamente Fler e Sido non erano seri proprio per un cazzo e quindi lo avevano accettato. E ora non è che Bushido poteva dire, Ehi, non ci avrete creduto davvero? Scusate, il mio ragazzino quasi minorenne si diverte a fare scherzi telefonici. Scusatelo, sapete com’è, sono bambini!
Non poteva proprio. Doveva pure assecondarla, questa cosa folle, far vedere che i suoi sottoposti facevano esattamente cosa voleva lui, non che prendevano il telefono e chiamavano i nemici giurati a caso di loro spontanea iniziativa.
- Com’è che quei due hanno accettato? - Chiese Eko, finendo la birra per poi ordinarne subito un’altra. Adesso capiva il perché della bettola lurida. Voleva arrivare anche lui a casa così marcio da non capire nemmeno come si chiamava.
- Non lo so, perché, - sospirò. – Probabilmente intendono servirsene dopo. Vuoi mica che vengano lì a conversare amabilmente su un piatto di pasta. –
No, sarebbero venuti lì ad insultare alternativamente tutti quanti, con un interesse specifico per lui, Bushido e la Principessa, quindi uno di loro avrebbe perso la pazienza e ci sarebbe stata la rissa. Forse anche qualche coltellata. Magari il morto. Eko non ci poteva pensare.
- Quando e dove? – Chiese.
- Giovedì prossimo, - Rispose Bushido con voce tetra. – A casa mia. –

La convocazione per l’Ersguterjunge era fissata per mezz’ora prima dell’ora che Bill aveva detto a Fler questo perché Bushido voleva essere certo di averli già tutti in casa quando l’Aggro Berlin sarebbe arrivata. Eko, sulla porta di casa, con un dito sul campanello, era molto puntuale e molto se stesso, il che voleva dire che aveva il suo cappellino preferito, la sua maglia della fortuna e un paio di pantaloni nuovi di zecca con il cavallo che gli arrivava magnificamente alle ginocchia.
Ad aprirgli fu Bill che, tipo, riluceva di luce propria. Dal modo in cui sorrideva contento, saltellando un po’ mentre spalancava la porta, Eko dedusse che dovesse essersi fatto perdonare l’alzata di genio, a modo suo. Eko si impedì di pensare qualunque cosa, a quel punto.
- Eko! – Cinguettò Bill, scostandosi per lasciarlo passare. – Sei il primo sai? -
- Speriamo di non essere anche l’unico, - sospirò il turco, passando alla padrona di casa un vassoietto di Baklava, comprati all’ultimo minuto già che era di strada.
Bill ci sbirciò dentro all’istante. – Devo metterli nel frigo?
- Meglio, sì – Eko sospirò di nuovo. Non era davvero possibile che tutto questo stesse accadendo davvero, era … inadeguato.
- Se cerchi Anis, si è chiuso nello studio, - lo informò Bill, aprendo il frigorifero gigante della cucina. – Starà probabilmente borbottando attaccato al narghilè. –
- Non dovresti sorprenderti che lo stia facendo, Principessa, - si lasciò sfuggire Eko.
Bill riemerse dal frigorifero. – Ancora con questa storia? Prima di essere rapper siete persone, alcuni di voi, almeno. Sarà una cena piacevole. –
Eko preferì non commentare oltre, offendere la Principessa non si poteva. Decise che fra le tante cose che invece poteva fare, tipo tagliare la corda, uccidersi o ubriacarsi prima delle nove di sera, quella più importante era recuperare Bushido dal baratro di autocommiserazione in cui si era isolato, probabilmente in seguito al fatto che Bill se lo era girato di nuovo tra le mani come un calzino facendosi scopare. – Atze? – Chiamò. Dall’interno arrivavano i suoni tetri di una qualche ballata tunisina melensa e datata. Qualcuno avrebbe dovuto distruggere quei suoi vinili da mercatino delle pulci prima che la notizia si spargesse in giro.
- Entra. -
Eko lo trovò come Bill glielo aveva descritto: disteso sui cuscini rossi e dorati, per terra sotto la finestra, abbracciato al narghilè. – Atze, hai un aspetto tremendo. –
- Grazie, Eko. -
- No, dico davvero. Non esiste che ti fai trovare in questo modo, - il turco sospirò e quindi si apprestò a tirarlo su, tutti i settantaquattro chili di tunisino che era, e a spolverarlo un po’. – Quelli arriveranno e si attaccheranno ad ogni minimo particolare, non ti puoi mica far trovare con il colletto storto sotto al maglione, che poi, Dio mio, perché sei vestito in questo modo? –
- E’ stato Bill a scegliere i vestiti, - bofonchiò Bushido, sistemandosi i polsini.
Eko emise un sospiro talmente esasperato da fare quasi tenerezza. – Quel ragazzino dev’essere una bomba a letto per ridurti in questo stato. –
- Anche sul divano, la lavatrice, il tavolo della cucina e quello da biliardo giù in taverna, - asserì il tunisino, con fare un po’ trasognato. – Non so neanche se ho firmato qualcosa nel mentre. -
- Prega di non avergli comprato di nuovo qualcos’altro, - lo ammonì Eko. E poi, borbottando tra sé e sé aggiunse: - Prima o poi gli cederai l’etichetta e ci ritroveremo tutti a cantare canzoni d’amore pop insieme a Tarééc.–
Bushido rise.

Alle nove in punto, quasi spaccando il secondo, Bill aprì la porta a Sido e Fler, il primo con la maschera addosso, il secondo che sorrise infame l’attimo dopo che si fu ritrovato Bill davanti, nella sua scintillante versione Signora Ferchichi. L’Ersguterjunge tutta era alle spalle della Principessa, tesa e pronta a saltare alla gola. Più o meno, Chakuza per dire, era al telefono.
Bill fece evidentemente finta di non vedere niente di tutto ciò, e anzi li invitò ad entrare, chiedendo a Sido se la maschera voleva metterla insieme al cappotto o voleva tenerla su, che tanto per lui era uguale. Dietro di lui, l’EGJ ringhiava.
- Bushido, mi ricordavo che la cameriera fosse tunisina, - commentò Fler, guardando Anis dritto negli occhi. Eko avrebbe voluto strangolarlo anche lì, subito, ma si trattenne, principalmente perché c’erano regole da seguire e poi perché Losensky era alto, tipo, due metri e lui non aveva voglia di farsi ammazzare. Bill intanto, ignaro o finto tale, chiacchierava amabilmente con Sido che, no, non si era voluto togliere la maschera e ad Eko questa cosa non piaceva. In più, non poteva, quel benedetto ragazzino, smetterla di aggirarsi lontano da loro? Non si riusciva contemporaneamente a tenere d’occhio lui e anche Fler.
- Ricordavi bene, difatti ti ha aperto il mio ragazzo, - rispose Bushido. – Le diottrie che ti mancavano sono aumentate. –
- Così tante cazzate in così poche parole, Anis, - annuì Fler che aveva addosso una catena d’oro da un chilo e mezzo. – Alla fine non sei cambiato un granché. –
Bushido avrebbe voluto rispondere, Eko voleva che rispondesse, ma non ne ebbe il tempo. Bill passò tra di loro portando due vassoi, seguito da Chakuza con gli altri tre, entrambi felici come due pasque.
- Fler, potresti smetterla di fare battute sul mio conto e darmi una mano? Grazie, - Bill piazzò in mano alla punta di diamante dell’Aggro Berlin un vassoio pieno di cibo e quindi scaricò l’altro a Bushido. – Anis-tesoro, tu porta questo. –
Anis-tesoro avrebbe voluto cambiare nome, stato e lavoro ma prese il vassoio e lo portò in sala da pranzo, seguito da un Fler molto più basito di quanto avrebbe voluto.
Eko si era aspettato questo tipo di scenario: loro tutti seduti intorno ad un tavolo a guardarsi in cagnesco in un silenzio tesissimo durante il quale nessuno avrebbe mangiato nemmeno un’ oliva. Chakuza a parte, ovvio. E poi, come niente, coltelli a serramanico e offese pesanti. Se si perdeva troppo immaginava anche particolari truculenti come D-Bo in terra con una ferita alla gamba e la principessa con la matita tutta rovinata dalle lacrime. Niente di tutto questo, però, poteva avvenire se Bill continuava a parlare.
Eko aveva imparato a proprie spese – leggasi, con la caduta plurima dei propri timpani – che se Bill iniziava a parlare e decideva di non smetterla, era il male. In questo preciso caso specifico, aveva iniziato a parlare portando i vassoi e non aveva più smesso. Loro, tutti loro, perfino Sido dietro quella cazzo di maschera, avevano dovuto iniziare a mangiare, per lo meno per distrarsi, perché non è che ti venisse bene di guardare in cagnesco la gente con quel ciarlare continuo di sottofondo.
La tavolata era stata decisa da Bill in persona e, dal punto di vista di Eko, era tutto un amorevole disastro, per dirla come l’avrebbe detta Bill, appunto. Bushido era a capo tavola, con alla sua destra il consorte così scintillante da far paura, e alla sua sinistra Fler. Accanto a Fler Chakuza, a seguire tutto il resto dell’Ersguterjunge e quindi Sido, seduto preciso preciso di fronte a Eko che se lo guardava storto con grande impegno.
- C’è un modo per spegnerlo? – Chiese Sido, sembrando non notare tutta la buona volontà di Eko di interpretare la parte dell’acerrimo nemico cattivo.
- No, purtroppo, - rispose Eko sovrappensiero, perdendo il tono quasi subito. – Ce lo hanno dato senza il libretto di istruzioni. Tempo fa speravamo si scaricasse ma abbiamo raggiunto la conclusione che vada ad energia solare. –
Sido scoppiò in una fragorosa risata che interruppe perfino Bill. Il capo dell’Aggro Berlin sollevò una mano. – Scusa, Bill. – disse, - continua pure. –
Bill sorrise adorabile. – Di cosa ridevate? –
- Io ed Eko, qui, ci chiedevamo quando ti saresti fermato per respirare. -
Il moro divenne rosso.
- Eccole, le incredibili doti nascoste di Bill Kaulitz, - commentò Fler.
Il bello era che lo faceva senza guardare Bill, ma guardando altrove, nemmeno qualcuno lo avesse costretto a dirle queste cose. – Sono mesi che ci chiediamo com’è che voi due siate finiti insieme. -
- A me sembra, – lo apostrofò Bill, arricciando il naso, - che a questo tavolo siate tutti molto più bravi di me a trattenere il fiato, visto il genere di canzoni che fate. Devo forse pensare male? -
Fler sbiancò così di botto che divenne quasi verde. Sido scoppiò nella seconda risata della serata.
- Sei una sagoma, sai, ragazzino, - commentò. – Non ti facevo così. -
- Questo perché siete sempre troppo impegnati ad urlarvi tutti contro per vedere come stanno le cose davvero, - commentò Bill.
- Se ti stai riferendo a me, guarda che è stato il tuo principe marocchino a cominciare, chiaro? – Saltò su Fler, improvvisamente punto sul vivo.
Bushido appoggiò sul tavolo il bicchiere. – Sono tunisino, - precisò, come se fosse una cosa estremamente importante, al momento.
- Quello che è, - borbottò Fler.
- E io comunque non ho cominciato un bel niente, - precisò ancora Bushido. – Siete stati voi ad offendere Eko. –
- Ecco! - Esclamò il diretto interessato.
Fler lo indicò a braccio teso. – Quello si era fatto la donna di Kool Savas! – Sbraitò, col tono del ragazzino che si giustifica di fronte alla madre, facendole notare che il fratellino ha fatto un danno maggiore.
- Non mi ero mica fatto la tua! – Protestò Eko, con lo stesso tono, per altro.
- Ma che c’entra! – Fler si agitò tutto, come un’aragosta nell’acqua bollente. – E’ una questione di principio! –
- Quale principio? Quello di rompere le balle a me se mi faccio la donna di uno che nemmeno sta nella tua etichetta? –
Bill si pulì educatamente la bocca. – Scusate, ma di cosa stiamo parlando? Chi è questa donna? –
Bushido, che per altro non aveva mai smesso di mangiare come tutti gli altri presenti a tavolo, sospirò, allungandosi per servirsi di altra carne. – Allora, in due parole. Eko si innamora di Valezka, che è la donna di Kool Savas. All’Aggro Berlin li ricoprono di merda entrambi e io li difendo perché i due si amano. Quindi, di rimando, Fler insulta me. –
- No, no, un attimo! – Fler sollevò un dito, inghiottendo una forchettata di spezzatino e passandosi la lingua sulle labbra. – Tu hai insultato me, e quindi io mi sono difeso. -
- Il fatto è che non erano affari vostri! – Commentò Eko, tra un pezzo di pane e l’altro. – Dovevo vedermela con Saavas, non certo con voi. –
- E Bushido allora? – Insistette Fler, mentre Bill gli passava il vassoio con le verdure.
- Non sarà che eri un po’ geloso del fatto che Bushido si mettesse a difendere uno che conosceva da nemmeno sei mesi, invece che schierarsi dalla tua parte? – Esordì Chakuza, così dal nulla, dopo aver finalmente smesso di messaggiare al telefono.
Fler divenne istantaneamente rosso. – Cazzate, - sibilò.
- Il punto della questione, - iniziò Sido.
- Il punto della questione è che vi siete tutti fatti gli affari miei, - lo interruppe subito Eko, a cui questa cosa non andava giù per diversi motivi. Primo, perché lui ancora ci stava male per Valezka. Secondo perché quella doveva essere una cena per far ragionare Fler e Bushido che, per quanto avessero litigato in occasione della sua fuga d’amore, avevano ben altri motivi per discutere.
Fler sbuffò, alzandogli occhi al cielo. – Riesci a stare zitto un momento? –
- Riesci a farti un etto di cazzi tuoi? -
- Lo devi ripetere ancora per molto? –
- Ragazzi? –
- Fin quando non la smetterai. –
- Ragazzi. – Questa volta la Principessa si era fatta sentire un po’ più severa, così si erano girati tutti, sia i suoi uomini che Fler e Sido. – D’accordo, fatemi capire. Eko litiga per una donna, voi tutti vi ci mettete in mezzo e alla fine Bushido lascia l’Aggro Berlin? –
Messa così la cosa sembrava quantomeno stupida. In quattro finirono a grattarsi la nuca con aria molto imbarazzata.
- Non è proprio così.
- Le cose sono un po’ più complicate.
Bill però non sembrava del loro stesso parere. – Quindi voi avete continuato a litigare per anni, giocando a scarica barile su chi avesse iniziato per primo? Ma quanti anni avete? Quindici? –
I ragazzi rimasero tutti in silenzio, non sapendo cosa diavolo dire.
- E poi, scusami, Eko, Valezka che fine ha fatto?
- Abbiamo litigato, - annunciò Eko. – Ci siamo mollati.
- No, davvero? Fratello, mi dispiace, - questo era Fler.
- Grazie, - mormorò Eko.
Bill aprì la bocca, la richiuse e la riaprì di nuovo tre volte prima di dire qualcosa. – Come sarebbe a dire che ti dispiace? Ma se lo hai ricoperto di merda?
- Sì ma che c’entra? Quando le donne ti mollano è sempre uno sbattimento. Quelle fanno sempre le stronze.
- Ma era sempre la stessa, la donna di Kool Savas! – Bill era sconvolto.
- Sì ma vedi, piccolo, - tentò di spiegargli Bushido, - sono due questioni diverse. Eko che si fa una donna non sua. E quella donna che molla Eko.
- No che non sono due questioni diverse, - insistette il moro. – Com’è che lo hanno insultato perché ci stava insieme e adesso che quella lo ha mollato…
- Che ci siamo mollati, - precisò Eko.
-… che si sono mollati, a Fler dispiace? –
Fler si mise a sbucciare una mela. – Io non l’ho mai insultato perché si era messo con Valezka, ma perché Valezka era la donna di Savas.
- E non è la stessa cosa?
Bill tornò a sedersi su un coro di “No!” e quindi ognuno tornò alla propria cena come se niente fosse. Quattro ore dopo, sulla porta della Casa Gialla, Eko si ritrovò a pensare che alla fine la Principessa aveva avuto ragione, per quanto non c’avesse capito un granché, lei, di tutto quello che era successo. Quella cena era finita con lui che giocava alla playstation con Sido e insieme cercavano un modo per riprendersi Vale. Dal momento che adesso, a Kool, poco importava di lei – se mai l’aveva considerata davvero, cosa di cui Eko dubitava -, Sido e l’Aggro Berlin non avevano nessun problema a dargli una mano. Certo avrebbero dovuto farlo di nascosto, perché la pubblicità, e la politica di mercato, sai Eko… per Eko non c’era problema. A lui bastava riaverla.
Sorrise, salutando la principessa, annoiata, che si spalmava addosso a Bushido nel tentativo di staccarlo dal suo acerrimo nemico senza per altro riuscirci. Era evidente che quella cena gli si fosse ritorta contro ampiamente: Fler e Bushido non si erano più scollati l’uno dall’altro, sembravano due ragazzine, seduti sul divano a raccontarsi chissà quali segreti.
Salendo in macchina, diretto a casa, Eko non invidiò affatto il proprio capo per quello che avrebbe dovuto subire, di lì a qualche ora, quando Bill lo avrebbe costretto a farsi perdonare per averlo ignorato così impunemente. E lui non avrebbe preteso del sesso, no, avrebbe preteso scarpe da centinaia di euro. C’era un’altra bevuta in arrivo, pensò. Magari stavolta solo in un bel bar elegante. In fondo Bill non era poi così difficile da accontentare.
Personaggi: Chakuza, Bill, Bushido
Genere: Comico
Avvisi: Slash
Rating: PG 13
Note: Dunque, innanzi tutto questo è il regalo di Natale per la Liz. O meglio, è 1/3 del regalo di Natale per la Liz. L'idea originale era quella di scriverle una Billshido felice... e mi è uscita fuori Misplaced che di felice ha ben poco. E comunque non sarei mai riuscita a finirla per il 25 dicembre. Yulin mi ha quindi suggerito cinguettando: perché non scrivi delle drabble?
Buona idea, ho pensato. Questo è il risultato: quattro pagine. Di stronzate, per altro.
Anche questa doveva essere una Billshido felice e invece: a) ho rischiato di mandarla clamorosamente in Bikuza (il Chaku è partito in automatico alle prime due righe o.ò); b) è più un'allegra cavolata che è una Billshido. E' tutto quello che sono riuscita a fare, mi dispiace.
Piccolo appunto sul banner fatto da me stessa medesima. Io lo amo oltre ogni dire e senza un motivo giustificato, tra l'altro. Mi piace quella foto di Bushido e, dal momento che sono riuscita a blendarla, mi piace anche quella foto di Bill (la stavo odiando perché non stava appiccata manco a chiederglielo piangendo). E poi mi piace il rosso sul bianco e nero.
Credits per titolo e sottotitolo vanno alla Liz.

Riassunto: Di due uomini asserviti e di una guerra di vicinato.


"No, non credo che quello andrebbe bene," commentò Bill, da dietro una pila di scatole alta quanto lui. Chakuza espirò frustrato ma si guardò bene dal darlo a vedere e rimise la pallina in vetro di murano blu cobalto dove l'aveva presa. "Vedi se ce n'è una blu oltremare."
Gli occhi di Peter Pangerl divennero due noci rotonde con un puntino in mezzo. Cosa cazzo era il blu oltremare, adesso? Si voltò verso Bill con un sorriso stirato e annuì. "Ora vedo, Principessa," sibilò.
Bushido aveva detto: Chaky, accompagni Bill a comprare gli addobbi natalizi? Che era una domanda senza il per favore, ossia era un ordine. Chakuza aveva dunque annuito, prendendo il suo incarico molto sul serio: prendere in prestito la macchina del capo, caricarci sopra la dolce metà, portarla nel centro per la casa più costoso di tutta Berlino e quindi aiutarlo a selezionare, incartare e impilare quintali di palline, nastrini, fiocchetti e quant'altro.
Lo aveva fatto - Dio gli era testimone - ma erano lì da quattro ore! Quattro! E Bill si aggirava ancora tra gli scaffali. E tutto perché? Perchè aveva già in mente come, dove e in che modo sistemare le cose a casa... ma gli mancava una fottuta pallina blu. Oltremare, per altro.
Si passò le tre enormi buste di decorazioni da una mano all'altra, intanto che frugava tra i cestoni delle palline. Non poteva andarsene lasciandolo qui: uno, perché Bushido lo avrebbe pestato a sangue; due, perché erano mesi che scarrozzava Bill in giro in lungo e in largo e non c'era stata una volta in cui gli fosse riuscito di piantarlo in asso là dov'era.
"Chaku, l'hai trovata?"
"Si!" Ringhiò, tirando su una pallina a caso e mostrandogliela.
Bill storse il naso. "Hmm... sai cosa? Magari è meglio rosso," ragionò. "Un bel rosso tiziano, di quelli pieni."
"E se invece tornassimo a casa?" Propose Chakuza, giulivo come un topo morto.
"Ma è ancora presto!" Piagnucolò il moro, guardando fuori dalla vetrina dove, nel frattempo, era calata la notte e probabilmente era cambiato anche il millennio, pensò Chakuza.
"Atze ha chiamato," s'inventò, spingendolo frattanto verso le casse.
"Perché non me lo hai passato?" Si lamentò Bill con gli occhioni.
"Perchè eri indaffarato a scegliere gli unicorni per la slitta di babbo natale," proseguì Chakuza, prendendogli sacchetti dalle mani e spostandoli sul nastro trasportatore della cassa.
"Sono renne, Chaku," brontolò il ragazzino.
"E' lo stesso," lo liquidò in fretta, quindi tirò fuori la carta di credito che Bushido gli aveva fornito - "Fagli comprare quello che vuole!" - dalla tasca dei pantaloni e la passò alla deliziosa commessa con un sorriso.
"E cos'ha detto?"
"Che ti vuole a casa immediatamente," commentò Chakuza, recuperando carta e scontrino, e caricandosi di tutte le buste mentre Bill saltellava felice al suo fianco, senza un solo pensiero al mondo: soprattutto quello di trasportare a casa i suoi acquisti. Questa cosa degli uomini della crew al suo servizio cominciava a piacergli molto.
Chakuza decise che poteva ben infrangere qualche regola della strada se questo significava togliersi la donna del capo di torno per almeno qualche ora, prima che Bill o Bushido lo richiamassero di nuovo. Col fatto che Bill lo aveva preso in simpatia, il tunisino lo spediva sempre da lui quando c'era bisogno di accompagnarlo da qualche parte.
"Chaku, lo sai che sei passato con il rosso?" Gli fece notare Bill, distrattamente, guardando fuori dal finestrino.
"Non ti preoccupare, sono abituato."
"E perchè io non posso mai farlo?" Piagnucolò il moro. "Anis non me lo lascia mai fare."
C'erano volte in cui Chakuza era più che sicuro che, se fosse spettato a lui, lo avrebbe lasciato volentieri in mezzo ad un incrocio mentre scattava il verde.
Mezz'ora dopo, parcheggiarono sul vialetto della grande casa gialla e, mentre Chakuza rimetteva l'auto in garage, Bill afferrò due buste a caso ed entrò correndo in casa per far vedere i suoi acquisti. "Anis, tesoro! Sono a casa!"
Anis-tesoro si stava godendo gli ultimi dieci secondi di silenzio prima del loro ritorno, seduto tra i cuscini del suo studio, con in mano il narghilé. Completamente dimentico delle buone maniere e delle regole che vigevano non scritte tra lui e Bushido, Bill spalancò la porta con un tonfo e un broncino da manuale: "Anis, tesoro! Ma dove ti eri cacciato? Non ti trovavo più!"
"A dire il vero sono sempre stato qui," commentò l'uomo, riponendo con pazienza infinita il suo narghilé.
Bill non lo stava ascoltando. "Ho comprato un mucchio di cose."
"Non lo metto in dubbio."
"Vuoi vederle?"
"Posso forse esimermi?" Chiese il tunisino, con un briciolo - ma solo un briciolo - di speranza.
Bill gli lanciò un'occhiata infuocata. "Non credo proprio."
"Appunto."
"Dunque," cominciò Bill. E quando le sue frasi iniziavano con dunque significavano ore di monologhi su argomenti di cui a Bushido fregava meno di niente. "Volevo iniziare con le decorazioni dell'albero, ma sono nei sacchetti che sta portando dentro Chakuza, percui passerò alle decorazioni per la casa."
"Per la casa," annuì vago l'uomo.
"La scalinata centrale," illustrò Bill allargando le braccia, "sarà tuuuuuutta... no aspetta, vieni ti faccio vedere."
"Ma veramente..."
Bill lo prese per mano e se lo trascinò dietro fino all'atrio dove Chakuza stava facendo il mulo da soma e trasportando - da solo - le decine di sacchetti pesantissimi che Bill aveva magnanimamente lasciato in auto. "Dicevo..." ricominciò Bill, salendo sul primo gradino della scalinata e allargando le braccia a prenderla tutta, "metteremo dei festoni dorati tutt'intorno ai corrimano e i festoni saranno decorati con delle palline d'argento che ho trovato e che sono un amore. Poi..." saltellò fino alla finestra più vicina e la indicò. "Metteremo neve finta sui rientri delle finestre e anche sui vetri. Adoro la neve finta, ti piace la neve finta?"
"Suppongo di sì," rispose prontamente Bushido che aveva imparato in fretta che se a Bill piaceva qualcosa, allora doveva piacere anche a lui.
"Ma non è finita qui. Vieni!" Bill se lo trascinò dietro fino in giardino e fin sotto all'albero più grosso che c'era. "Ho deciso che questo è l'albero che faremo in esterno."
Ho deciso era un'altra di quelle meravigliose formule portatrici di arcano significato. Ho deciso significava Non puoi ribattere che non vuoi. Bushido poteva soltanto apprezzare la scelta fatta e soccombere di fronte alla follia del compagno. "Ma Bill, amore," iniziò pazientemente. "Quest'albero, che per altro non è un abete, è alto più di 12 metri. Come pensi di decorarlo? Non ho un branco di scimmie ammaestrate da farti usare!"
"Sciocco!" Cinguettò Bill, girando intorno all'albero che aveva un tronco così grosso che non sarebbero riusciti ad abbracciarlo in due. "Useremo un carrello elevatore!" concluse festante.
"Un cosa?"
"Uno di quegli affari che ci monti sopra e ti tirano su," spiegò diligentemente il moro. "L'ho prenotato l'altro giorno. Lo porteranno qui a momenti."
"Ma Bill, tesoro," tentò nuovamente il tunisino, che era ormai un uomo di un metro e novanta ridotto ad un mucchio di disperazione e fustrazione. "Non pensi che sia un tantino eccessivo come albero di natale? Non potremmo che ne so, farne uno in casa?"
"Oh ma faremo anche quello," annuì Bill con convinzione, aggirandosi per il giardino con la camminata decisa del folle. E Bushido dietro, quasi alle lacrime. "Questo è per il vicino."
"Il vicino, passerotto?"
"Quell'uomo è insopportabile!" Decretò Bill, con una luce omicida negli occhi.
Bushido sollevò un sopracciglio. "Ma non vi siete mai nemmeno visti," commentò un po' basito.
"Non ha importanza!" Esclamò ovviamente il cantante. "Non ho intenzione di sottostare al suo Babbo Natale da quattro soldi."
Bushido era un uomo molto paziente, era anche un uomo ragionevolmente disposto a lasciare che il suo ragazzo - carino, dolce, ma soprattutto appena uscito dall'adolescenza - gli riempisse la casa di festoni e neve finta se questo lo divertiva. Era disposto a cercare di capire che cosa gli passasse per il cervello, anche se a volte era del tutto impossibile; però in tutto questo proprio non comprendeva quale problema rappresentasse il babbo natale del suo vicino. "Vuoi spiegarti meglio, gioia mia?" Mormorò esausto.
"Quello!" Ringhiò Bill inviperito, indicando con malcelato sdegno il tetto della casetta del suo vcino - per altro amabile vecchietto prossimo alla novantina. Sul tetto, in effetti, troneggiava un babbo natale di dubbio gusto alto più o meno tre o quattro metri che salutava i passanti con un braccio lento e ondulante.
"Mi rendo conto che non sia il massimo del buon gusto, tesoro," iniziò cautamente l'uomo, ben sapendo che a dar torto a Bill non ci si guadagnava che crisi isteriche, "ma non posso veramente dirgli niente. E' casa sua, in fondo, può rovinarla un po' come vuole."
"No tu non capisci. Io non posso tollerare che quello abbia decorazioni più grandi delle mie! Non esiste proprio," sproloquiò il moro, arruffandosi tutto. "Io sto addobbando questa casa. Quindi questa casa non può essere superata da... da... da un babbo natale che fa ciao ciao con la manina!"
Bushido aprì la bocca, seriamente deciso a dire qualcosa ma fu costretto a richiuderla perché non sapeva cosa dire in effetti. Cosa potevi rispondere al tuo ragazzo in piena evidente crisi premestruale che voleva superare le decorazioni del vicino come una casalinga disperata qualsiasi? Niente. Stavi zitto. Stavi zitto e osservavi, anche con un certo interesse, uno degli uomini della tua crew che scaricava la tua macchina da quanto? Mezz'ora?
"Bill, angelo, ma cosa sta facendo Chaky?"
Bill smise di guardare il babbo natale del vicino in cagnesco e si voltò col musino arrossato dal freddo. "Oh," batté le mani tutto contento. "E' la mia soluzione."
Chakuza stava imprecando in lingue a lui sconosciute e dimenticate da tempo immemore. Più che una soluzione sembrava un uomo molto provato.
"E sarebbe, cucciolo?"
"Questo!" Esclamò trionfante Bill, con la manina protesa.
Solo a quel punto Bushido vide che aldilà di Chakuza e sotto degli immensi teli c'era un'enorme slitta - dieci volte una slitta normale - con sopra un babbo natale in proporzione e sei... no sette bestie inqualificabili ricoperte di glitter.
"Una slitta trainata da unicorni?" Chiese un po' basito prima di potersi fermare in tempo. Chakuza provò ad avvisarlo, ma non servi a nulla.
"Non sono unicorni!" Sbraitò Bill. "Vedi forse il corno?"
"Beh.. quello?" Chiese Anis, anche vagamente spaventato dallo scatto d'ira.
Bill indicò la testa dell'animale. "Anis, queste sono corna. Due. Plurale," replicò. "E' una renna. Sono tutte renne. E' la slitta di Babbo Natale. Chiaro?"
"Chiaro, pasticcino."
Ne seguì un silenzio pesante, durante il quale Bushido rimase in attesa di un possibile secondo scatto d'ira e Chakuza liberò le ultime renne dai propri teli, dichiarando finito il suo lavoro e dileguandosi in silenzio così com'era arrivato.
Alla fine, quando fu chiaro che Bill non avrebbe più parlato, Bushido si schiarì la voce, arrischiandosi a fare la domanda che andava fatta. "E, tesoro," tentò di blandirlo. "Che cosa pensavi di farci con questa slitta?"
"Metterla sul tetto, è ovvio," lo liquidò Bill con un gesto della mano, come se avesse detto una sciocchezza. Quindi strinse il pugno, infiammato dal sacro fuoco della vendetta. "Voglio vedere di chi è la decorazione migliore!"
Bushido sospirò, gli occhi al cielo. "Bill posso farti notare che il tetto non reggerà il peso della slitta e di babbo natale e delle renne? Ce lo ritroveremo in soffitta. E poi come avevi intenzione di portarcela lassù tutta questa roba pacchiana?"
"Col carrello elevatore, che domande fai!" Bill lo baciò di sfuggita e gli batté una mano sulla guancia con fare paternalistico.
"Il carrello elevatore sul tetto. Certo, cosa lo domando a fare," commentò l'uomo, ormai rassegnato al proprio destino.
Quattro ore e molte imprecazioni dopo, Bushido aveva decorato l'albero in giardino sotto le direttive di un Bill dispotico e in piena crisi artistica. Con molto sforzo, altre imprecazioni e un paio di telefonate urgenti ai ragazzi della crew, anche la slitta era stata montata sul tetto che ora scricchiolava in maniera preoccupante. Al momento Bushido era disteso nella vasca, l'acqua torbida per il bagnoschiuma gli lambiva lo stomaco, calda e rilassante. Appoggiò la testa contro il cuscino da vasca e pensò che poteva passare il resto delle vacanze di natale là dentro. Da solo, possibilmente.
La sua pace, manco a dirlo, durò si e no dieci minuti. Dopodiché, Bill entrò in bagno spalancando la porta con uno schianto devastante e gli si avvicinò con in mano una spina elettrica.
"B-bill?" Chiese preoccupato il tunisino. L'ultima cosa che si era aspettato era di morire per mano del fidanzato, elettrizzato in una vasca da bagno.
"Appena avrò attaccato questa," iniziò il moro con lo sguardo folle.
"Adesso mettila giù, d'accordo?"
Bill scosse la testa. "Quell'insulso vecchino saprà con chi ha a che fare! Ah!"
E detto questo, infilò la spina nella prima presa disponibile, accompagnato dall'urlo di Anis. "Bill aspetta!"
Un attimo dopo l'intera casa gialla divenne ancora più gialla, illuminandosi tutta. L'albero dentro casa, l'albero fuori casa, la slitta, le renne, tutto si accese in un'unica soluzione. La casa gialla brillò per un solo istante. E poi si spense tutto, perfino il generatore di emergenza.
"Anis?"
Bill sentì un sospiro nel buio, quindi il rumore dell'acqua che sgocciolava lungo il corpo dell'uomo appena fuori dalla vasca. Intuì che si stava avvolgendo nell'asciugamano, quindi se lo ritrovò addosso il secondo successivo. Anis lo avvolse in un abbraccio un po' umido, ma ancora tiepido dell'acqua del bagno, nel quale Bill si lasciò andare, anche se incerto. Bushido gli nascose il viso nel collo, con aria solenne; poi, lentamente, Bill lo sentì iniziare a ridacchiare.
"Anis?"
"Tutto..." sbuffò l'uomo in una risata, che si tradusse in brividi lungo il collo di Bill. "Hai fatto saltare l'intero impianto elettrico."
Bill si permise un mezzo sorriso confuso. Più che altro perché Anis sembrava ridere.
"Cosa dovrei fare con te?" Gli chiese l'uomo, scuotendo la testa.
A quel punto il sorriso di Bill si fece più furbo e sicuro. Si girò fra le braccia di Bushido e disegno col dito sulla pelle del suo petto. "Per quanto pensi che rimarrà così buio?"
"Hmm.. un bel po', temo."
"E come lo vogliamo passare questo tempo?"
Al buio, il sorriso di Anis era bianco perlaceo. E bello. "Io un'idea ce l'avrei."
"E sareb-"
In sequenza ci fu un CRACK. Poi un BANG. E infine qualcosa di simile ad un KATACRASH portò una delle renne di babbo natale a fare capolino dal soffitto del bagno.
Anis guardò la renna con estrema intensità, quindi tornò a guardare Bill che sfoderò un paio di occhioni così tondi, così acquosi, così schifosamente innocenti che Bushido riuscì a fissarlo male per dieci secondi. Poi scoppiò a ridere.
"Dio, se sei un danno," commentò, baciandolo dolcemente sul collo.
Personaggi: Bushido, Bill, La crew
Genere: Romantico
Avvisi: Slash, Fluff
Rating: PG 13
Note: Questa è una happy!Fic per Liz. Siccome si lamentava che Bushido e Bill non sono mai veramente felici perchè in ogni storia finiscono male e/o Bushido è stronzo e/o fato li coglie, eccone qua una in cui sono giuoiuosamente felici. Insieme.
Mi rendo conto che tendenzialmente:
a - sono quattro pagine di miele che cola sulla melassa spolverata di zucchero.
b - che non è questa gran meraviglia.
Ma volevo tirare su di morale la Liz e in ogni caso l'ho finita in un giorno (che per me è un gran miracolo). Quindi, criticate pure ma abbiate anche pietà.
Sono un essere umano anche io, a volte. E poi Bushido non muore.

Riassunto: "Dove sei?" "Sono qui."
CALLING ME, CALLING YOU


"Atze, ti squilla il telefono."

In effetti il telefono non sta semplicemente squillando, sta vibrando ed emette suoni estremamente stupidi. Bushido non ricorda di aver mai installato quella suoneria sul suo cellulare. Ne consegue che dev'essere stato Bill e, siccome Bill è egocentrico, dev'essere la suonera che ha messo per se stesso. Difatti il nome che compare sul display con un cuore accanto è il suo. E Bushido pensa che dovrà rinominare il contatto prima che uno qualsiasi dei suoi ragazzi lo veda o nemmeno l'aura da gran leader di cui si circonda lo proteggerà dalle prese per il culo che fioccheranno come banconote da dieci euro negli slip di una ballerina di lap dance.

"Ciao Principessa," esordisce, con un mezzo ghigno alla sua crew.

"Non chiamarmi così solo per farti bello con i tuoi amici," Lo ammonisce Bill, ridendo. Gli amici di Bushido, in realtà, sono anche i suoi. E' bastato che portasse la birra la prima sera che li ha conosciuti. Pensava di doversi imporre, di dover combattere, trovarsi un posto, quelle stronzate lì - come diceva Tom - e invece è bastato pagare da bere a tutti.

"E come dovrei chiamarti?"

"Prova con Bill," ride il moro.

"Nah, troppo banale," Bushido scuote la testa e si alza. Mentre si allontana gli altri ridono e sente Chakuza che lo prende in giro. "Tutti ti chiamano così."

"Non con la tua voce."

Bushido sorride. "Allora dimmi ... Bill," e quel nome glielo lascia scivolare attraverso la cornetta, in modo che goccioli dall'altra parte. E' bravo a farlo: la maggior parte del sesso fra di loro avviene con una cornetta in mano. "A cosa devo la chiamata?"

"Sai che giorno è oggi?"

"Come potrei dimenticarlo. Un anno fa ero ancora libero," risponde.

"Pensavo fossi un uomo che non ricorda gli anniversari," Bill ride nella cornetta. Ed è un suono allegro che ti lascia una bella sensazione addosso.

"Tu non hai fiducia in me."

"Dovrei?" Chiede il moro.

"No."

Sì, ovviamente. E ce l'ha. "Immagino che questi siano i problemi di aver dato il mio cuore ad un uomo del ghetto," sospira Bill, sognante. Poi ride ancora. "Ti manco?"

"Vediamo: ho un letto a due piazze, il dentifricio spremuto dal fondo e non ci sono tracce di fondotinta sulle mie federe da trecento euro. Tu cosa ne dici?"

"Stronzo."

"Mi manchi," pronuncia in un sussurro.

Bill si raggomitola tutto e sorride in maniera frivola. A lui piace essere frivolo e a Bushido piace che lui sia frivolo. Quindi va tutto bene. Bushido è l'unica persona che non abbia mai aperto bocca sul suo lato femminile estremamente palese. Bushido dice che se il suo cuore ha scelto Bill, tra tutte le persone che gli siano mai passate tra le mani, un motivo deve esserci; ma che non è necessario sapere quale sia.

Loro per quel motivo che nemmeno sanno quale sia si sono amati un sacco di volte.

"Se tornassi a casa oggi, cosa faresti?"

"Sei in America," gli fa notare Bushido.

"Ma se fossi qui?" Incalza Bill.

"Faremmo l'amore," risponde Bushido, che il sesso ha imparato a lasciarlo fuori dai discorsi che fa con Bill perché con Bill non è mai sesso. E' un esperienza un po' più complessa, che comprende un sacco di cose: non solo loro, ma quello che sono. Quello che li circonda e quello che significa veramente stare tra le gambe di Bill. Questo Bushido lo ha scoperto la prima volta, quando si è ritrovato un ragazzino sonnolento tra le braccia, un ragazzino che lo ha baciato sul naso e gli ha detto 'Grazie', come se lui gli avesse regalato qualcosa.

E poi ha capito che era il cuore.

E lui il cuore non lo aveva mai dato a nessuno. Così ha smesso di fare sesso per iniziare a fare l'amore, ed é stato una scelta saggia. Perché l'amore é molto meglio del sesso. Se ne fa persino di più

"Allora forse dovresti cominciare a mandare via i ragazzi," dice Bill in un soffio nella cornetta.

"Dove sei?"

"Dove mi vuoi?"

Bushido si guarda intorno. E' nel corridoio e sente ancora gli altri parlare e ridere sguaiati nell'altra stanza. Un brivido caldo gli percorre la schiena, è il brivido di quando sente la vicinanza di Bill anche quando non c'è. Basta la semplice voce, parole pronunciate in un certo modo. Anche se questa volta il brivido è più forte, è come se il retro della sua mente stesse cercando di dirgli qualcosa. "Se dipendesse da me, saresti qui."

"Magari dipende da te. Mandali via."

"Bill."

Ride di nuovo. "Andiamo, Anis, gioca con me."

Bushido resiste a tutto, tranne che a due cose. Una è Bill. L'altra è Bill che lo chiama per nome, chiedendogli di giocare. Quindi si alza in tutta fretta, irrompe in salotto ed esclama a gran voce di levarsi tutti dai coglioni. Un gruppo di occhioni rotondi lo guarda allibito, sotto un tripudio di visiere. "Andiamo, muoversi. Fuori di qui."

"Bravo," sospira Bill dalla cornetta.

"Hey Atze, ma che ti prende?" Chiede Saad, forse un po' confuso da questa reazione, forse anche un po' preoccupato. Un cugino ha dei doveri verso un altro cugino, anche se non c'è legame di sangue.

"Niente gli prende," ride Chakuza. "Ha solo bisogno della casa libera, vero?"

Chakuza gli regala un sorriso furbo, da ragazzino che ha messo le dita nel barattolo della marmellata. E' lo stesso sorriso di Bill quando lo trova a far qualcosa che non dovrebbe. Solo che poi Bill lo guarda da sotto quelle ciglia scure e a Bushido non importa più della marmellata, importa soltanto di lui.

Sono due ragazzini, comunque, Bill e Chakuza. Ecco perchè Chakuza capisce sempre tutto quanto al volo quando si tratta di Bill. Bushido sarebbe anche geloso se Bill non avesse uno spiccato senso estetico da dandy narcisista e Chakuza... beh, la natura lo ha dotato di simpatia. E basta.

La sua crew si dilegua, fra lamentele e borbottii. "In casa ci sono solo io," dice nel telefono.

"Ci sono anch'io," risponde Bill.

"Cosa?"

"Cerca, Anis," gli dice la voce morbida. "Vuoi un indizio?"

Bushido solleva entrambe le sopracciglia. "Direi di sì. Questa casa ha tre piani."

"Cerca quello in cui mi hai baciato la prima volta."

"Bill, eravamo in discoteca."

"Intendo un bacio vero. Quando hai sentito il mio sapore, Anis. E io ho sentito il tuo. Eravamo qui."

Bushido si sforza di ricordare. In discoteca ha sfiorato le sue labbra, ma è stato solo un istante. E' vero. Poi sono usciti, Bushido ha detto Ti va di bere qualcosa da me? Bill ha annuito, ha varcato la soglia e una volta chiusa la porta si sono baciati, così profondamente da stordirsi. "Era l'entrata. E tu eri fottutamente sexy con quei pantaloni di pelle," risponde euforico e si getta al piano di sotto.

L'entrata però è vuota. Ci sono solo gli stivali di Bill a terra.
"Bill?"

"Ricordi quando mi hai detto che mi amavi?"

"Lo faccio sempre," risponde lui.

"Io intendo una volta particolare. Quella che conta più di tutte."

Bushido ci pensa. E ricorda quando hanno detto ai loro amici che stavano insieme e Tom ha dato di matto. E David ha dato di matto, e tutti hanno detto a Bill che Bushido mentiva. Bill è corso a casa sua, sotto la pioggia e ha fatto le scale di corsa. Davanti alla vetrata che dà sul giardino si è fatto dire la verità. Ti amo, ti amo, ti amo.

"Ricordi?"

Bushido sale le scale. C'è una vetrata gigantesca, Bill si perde sempre a guardare la città. Davanti al vetro, però, Bill non c'è. Ci sono la maglietta e i suoi pantaloni. "Sento il tuo profumo," Bushido inspira. E' stato qui da poco. Molto poco.

Ancora quella risata. "Mi hai quasi visto. Sei veloce."

"Dove devo cercarti?"

"Dove mi hai preso la prima volta."

Cazzo. Gli indovinelli. Pensa, pensa Bushido. Ricordare l'anniversario è facile quando hai un palmare in tasca. Ma la prima volta? La prima fantastica volta in cui Bill si è sciolto tra le tue dita ed è stato tuo davvero. E di nessun altro. Ci sono così tante volte che si confondono, tutte ugualmente eccitanti, tutte ugualmente dolci come la prima.

E poi ricorda.

Bill e il suo corpo morbido sul tappeto del salotto. Il fuoco del camino che si riflette sulla sua pelle bianca come porcellana e il gemito sommesso che gli esce dalla gola mentre lo accarezza, mentre lo tocca. Bill gli si stringe addosso e gli mugola sul collo e si tende. Bill non ha mai avuto nessuno prima di lui, non avrà nessuno dopo di lui.
Bill è suo, come neanche suo fratello potrà mai averlo e Bushido lo ama per questo, come lo ama per tutto il resto. "Resta lì," ringhia al telefono. Non è un ringhio cattivo però, è deliziato.

E' pieno di desiderio.

"Non mi muovo," sussurra Bill.

Bushido si fa due rampe di scale praticamente di corsa, infila la porta del salotto come una furia e si guarda intorno senza trovarvi niente. Solo il camino spento e un milione di candele accese. "Dove sei?"

"Sono qui."

La voce è naturale. Bushido sente lo scatto del telefono e si volta. Bill è in piedi con addosso soltanto un lenzuolo nero come i suoi capelli. "Buon anniversario?" Mormora, chinando la testa di lato e poi lasciando andare la presa.

C'è un'altra cosa a cui Bushido non sa resistere.
Ed è il corpo di Bill, quando lo illuminano solo le candele.
Al corpo di Bill e basta.

"Buon anniversario."