Personaggi: Bill, David Jost
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo
Avvisi: Slash, Non-con
Rating: NC-17
Note: Vincitrice del PREMIO INTENSITA' del secondo contest della JostFiction. And proudly so.

Riassunto: Stanotte, nella sua doccia, avrei voluto lavarmi via lo schifo delle ultime settimane. Credevo di meritarmelo un po' di riposo, invece il burattinaio ha tirato i fili.
MASTER OF PUPPETS

"Bill, rimani."

Quelle due parole regolano la mia vita. Insieme alle loro varianti, "Bill, stai fermo" e "Bill, non muoverti."
Io non ho potere decisionale da quando ho compiuto quindici anni. Quando mi chiede di rimanere, non è mai per fare due chiacchiere.

David sembra adorabile.
Ha un sorriso delizioso ed è molto abile nei convenevoli. Quando lui fa gli onori di casa, non ti senti mai a disagio; è affabile, cortese, ben educato. Apparentemente timido, risponde a modo ad ogni domanda ed evita di discutere. Accomodante, dicono di lui. Sincero e schietto, lo definisce Saki che è amico suo da quando io ancora nemmeno ero nato eppure non ha mai visto niente. Mi fa da guardia del corpo, ma non mi guarda mai a sufficienza.

Non espiro come vorrei, perché uno sbuffo significherebbe noia.
E la noia significa che non gli dedico abbastanza attenzione. E' lui l'egocentrico, non io. Quando parlano di me, tutti sostengono che io sia una diva. Alcuni lo dicono con affetto, altri con fastidio. Sostengono che io sia viziato e presuntuoso, che mi dia delle arie; ma non è vero. Questa è la maschera che il burattinaio mi ha cucito addosso, perché se faccio un po' lo strafottente, la star che si nasconde dietro gli occhiali scuri, è più facile che la verità non salti fuori.

Il pubblico troppo impegnato a chiedersi se con tutte le mie stupide richieste non mi sono montato la testa, se sono gay, se me la faccio con mio fratello non si accorgerà di nient'altro e vedrà solo quello che vuole.
Non vedrà che se sono un maniaco perfezionista è solo perché ho una paura fottuta di sbagliare qualcosa, che ho paura di prenderle e ancora di più che non mi arrivi neanche un ceffone, perché in quel caso arriva di peggio.

Se mi muovo ondeggiando, se sono ambiguo, è solo perché mi è stato insegnato a farlo. Sono stato ammaestrato ogni giorno, per ore. Ogni mio movimento rispecchia la volontà di un uomo soltanto. Sono una bambola con cui si diverte a giocare.

L'altra bambola, quella bionda, neanche la pettina.
Di Tom non gli importa, non gli é mai importato. Quando è venuto a trovarci a casa, a far scema mia madre con uno dei suoi sorrisi e la faccia da bravo ragazzo, non le disse che ci voleva entrambi perché voleva sfruttare l'effetto gemellare. Le disse che ci voleva entrambi perché lo lesse nei miei occhi che non mi sarei mosso di un passo senza Tom.
E lui voleva me, ovviamente, mica lui.
Per averne uno ne ha mantenuti volentieri due.

D'altronde adesso, come allora, Tom è il mio supporto.
Non mi allontano da lui mai troppo a lungo, e lui da me praticamente mai.
Tom lo sa, lo ha saputo fin dall'inizio, fin da quando trovò David piegato come un animale sul suo fratellino. Non gli rimase che consolarmi e pulire il sangue che era uscito.
Parlare non potevamo perché avevamo paura. Quando sei piccolo ci credi se il tuo manager ti dice che è così che funziona il mondo dello spettacolo.

Non ho scelto io di essere quello che sono, nonostante il mio ufficio stampa mi metta in bocca esattamente il contrario. Bill a cui non importa cosa pensa la gente. Bill che lotta contro i pregiudizi. Bill un cazzo. Io non decido neanche se posso dormire o meno, la notte.

E' lui che mi dice se posso chiudere gli occhi e risposare, o se invece devo scivolare fra le sue lenzuola o fra quelle di qualcun altro. Non sono io che decido.

Come adesso. Bill, rimani.

Rimango e mi siedo mentre lui chiude la porta e mi osserva. Mentalmente prego di non avere neanche un capello fuori posto: l'ultima volta era molto deluso; ha detto che dovrei prendermi più cura di me stesso. Meno male che c’è lui, ha detto.

Meno male.

David parla con tutti, tranne che con me. Ha fatto della sua persona il centro del mio mondo senza dedicarmi veramente neanche una parola. Quando io resto, come stasera, non spreca il fiato a cercare di illudermi che sta facendo qualcosa per me. Io lo so a che cosa servo nella sua vita, è così che me l'ha sempre proposta: non sei qui perché canti bene, sei qui perché hai un bel visino. E delle belle mani. E una bella bocca.

A sentire lui sono perfetto, eppure nemmeno mi guarda quando mi tocca.
Io vedo solo le coperte, lui soltanto la mia schiena.

In ogni caso non parla.
Le uniche volte che pronuncia delle parole lo fa per dirmi dove devo mettermi e come. Mai perchè, ovviamente. Quello è sottinteso.

Piega le gambe alla Barbie, così può stare seduta dove vuole lui.
Non si diverte neanche a spogliarmi; lo faceva quando avevo quindici anni e gli sembrava di avere per le mani una bambola per davvero. Adesso che sono più alto di lui, devo farlo da solo mentre lui magari finisce di mandare un'e-mail.

Io dovrei essere con Tom adesso, seduto sul divano della sua stanza, con dei popcorn e magari due birre. A me non piace la partita ma va bene anche quella se posso stare con lui. Non dirò che Tom mi fa sentire protetto perché non è vero, sono perfettamente consapevole che non può fare niente per impedire che tutto questo accada, perché ormai ci sono così dentro fino al collo che non posso più uscirne senza uno scandalo tale da perdere tutto ciò che m'interessa.
Non mi sento protetto con Tom, ma mi sento amato. Mio fratello mi tiene sempre stretto a sé quando siamo soli, mi restituisce tutto il calore che David mi sottrae.

A volte lo sveglio di notte solo perché le sue mani calde e grandi tolgano dalla mia pelle le impronte di quelle di David. Mi sento sempre sporco, anche se mi lavo.
Ci sono giorni in cui rimango sotto la doccia per ore, a fissare le mattonelle, costretto a vederci dentro lo schifo in cui mi immergo per ordine suo. Tom mi recupera sempre, non importa quanto distante vaghi la mia mente, ed è a quello che serve lui.
A ripescarmi, quando da solo non ce la faccio a risalire.

Stanotte, nella sua doccia, avrei voluto lavarmi via lo schifo delle ultime settimane passate a compiacere il mio adorabile manager e quattro dei suoi adorabili colleghi americani.
Credevo di meritarmelo un po' di riposo, invece il burattinaio ha tirato i fili.

Il suo corpo sopra il mio non mi fa più effetto e forse è questo che mi spaventa di più.
Quando ero piccolo e quell'uomo ancora mi sembrava enorme, il suo peso caldo sulla schiena era qualcosa che mi toglieva il respiro. C'erano notti in cui credevo che non ce l'avrei mai fatta e ad ogni spinta affondavo ancora di più nei cuscini, cercando di soffocare.

Quando mi resi conto che non sarebbe mai successo e che avrei sempre avuto il suo sudore addosso, decisi che doveva diventare una routine o non l'avrei mai sopportato. Farsi sbattere sarebbe stato come lavarsi i denti o mettersi il pigiama prima di andare a dormire. Solo così avrebbe avuto un senso, anche se misero. Tutta la mia esistenza girava intorno alle voglie che David voleva soddisfare; iniziai a comprendere che se davo loro importanza, se permettevo loro di sopraffarmi, mi avrebbero divorato. Dovevo ignorarle e fingere che fossero sciocchezze di cui potevo anche non curarmi.

Solo che poi ho smesso di notarle del tutto.
Che io sia qui disteso sul suo letto oppure da qualche altra parte, ormai, non fa più differenza per me. Mi sono abituato al modo in cui mi spinge i fianchi e mi alita sul collo, la sua lingua che mi entra schifosamente nell'orecchio e mi bagna di saliva non è più una novità di cui prendere atto. Non è più niente che mi debba impensierire.

E' solo un'altra delle umidità di David nel mio corpo.
Accolta una, accolte tutte.

Mentre mi ansima in un orecchio cose che non vorrei sentirmi dire da nessuno, tanto meno da lui, cerco di capire il momento esatto in cui ho perso il controllo della mia vita e scopro, con orrore, di non averlo mai avuto davvero. All’inizio era mia madre a decidere per me quali serate potessi fare e quali no, poi arrivò David e toccò a lui prendere le decisioni, anche quelle che non gli spettavano; fu lui a scegliere il mio primo bacio, il mio primo uomo, la mia prima volta. E dal momento che era pericoloso, che eravamo quasi famosi, decise per tutti e due che la scelta migliore per entrambi era che si occupasse lui personalmente di tutte e tre le cose. Adorabile, vero?

Si spinge con tanta violenza che riesce ancora a farmi male.
Digrigno i denti, mordendomi il labbro a sangue per non gridare. Dice che la mia voce vuole sentirla solo sul palco, dove serve a qualcosa e può procurargli del denaro. Per tutto quanto il resto devo stare in silenzio.
La bambola è perfetta, dice Ciao Mamma solo se tiri la cordicella.

Mia madre non sa niente, non lo ha mai saputo.
Sarebbe perfettamente in tema dire che non la sento da anni e che si è disinteressata di me e di mio fratello nel momento esatto in cui ci ha consegnati al mostro sorridente che mi ha distrutto la vita, ma non è vero.
Lei ci adora, e noi adoriamo lei. Raccontargli quello che mi succede le spezzerebbe soltanto il cuore e la farebbe sentire in colpa. Finirebbe col pensare che non è stata una buona madre per noi, che se lo fosse stata avrebbe visto che dietro agli occhi cerulei di quel giovane manager c’era l’inferno che aspettava di mettere le mani sul più piccolo dei suoi figli.

In effetti, io lo penso ogni tanto.

A quindici anni io non potevo rendermi conto che la mano di David casualmente appoggiata sul mio ginocchio fosse un brutto segno ma lei, cazzo, avrebbe dovuto capire.
A volte penso questo e penso che se non fosse stata così ossessionata da sbattermi su un palco con un microfono in mano a undici anni, forse non sarei finito a quindici nella schifosa stanza di un motel tra Loitsche e Berlino a succhiarlo ad un uomo di trent’anni che le aveva appena promesso che si sarebbe preso cura di noi.

In quei momenti mi prende la rabbia e divento violento.
Ho bisogno di rompere qualcosa, di lacerare. Quando mi taglio o colpisco Tom così forte da farlo sanguinare mi sento meglio, è come se per una volta fossi io a controllare gli eventi. Sanguino perché io ho deciso di farlo, piango e quelle lacrime le ho cercate volontariamente. A volte ho bisogno che mio fratello gridi solo per sentire la mia stessa voce che soffre senza sentire anche il dolore. Almeno per una volta penso che sono stato io a fare del male.

Non importa quale sia il motivo, o quale sia il dolore.
L’importante è che David non c’entri niente.
Per qualche istante della mia vita devo tagliarlo fuori.
Non ho veri ricordi della mia persona senza la sua.
David ha cancellato tutto quello che è venuto prima di lui.

In tutto questo, mia madre diventa colpevole. Disgustosa quanto lui.
Poi però ricordo come sono andate davvero le cose e mi rendo conto che lei non c’entra un bel niente.
Ho avuto milioni di possibilità per raccontare a qualcuno quello che David mi stava facendo ma non l’ho mai fatto, perché se mia madre voleva per me un futuro sul palco, io ho sempre voluto esattamente la stessa cosa.

Se quando accadde avessi detto qualcosa, lo avrebbero arrestato e mi avrebbero rispedito a casa con mio fratello, a suonare nel mio garage e io questo non lo volevo. Le luci del palco mi piacevano allora, come mi piacciono adesso e non sarei mai stato capace di rinunciarci dopo che David me ne aveva dato un assaggio.
Ero il vocalist dei Tokio Hotel, per la miseria, ero famoso. C’erano ragazze che urlavano il mio nome e persone adulte pagate per portarmi ciò che volevo, anche le cazzate più stupide. E potevo cantare di fronte a persone venute lì per ascoltarmi. Se per compiacere il mio ego dovevo soltanto compiacere quello di David, avrei sopportato. E lo sapevo. Mia madre non ha colpa.

Sopporto anche adesso, ogni giorno.

Tutto quello che le mie fan adorano di me, l’ho ottenuto sopportando David.
Quando al concerto gridate il mio nome durante le presentazioni, quando le vostre voci mi travolgono e io salto al ritmo delle vostre urla, quando sorrido per i vostri regali, o nelle interviste, ecco in quei momenti sono felice e posso esserlo solo perché dietro le quinte David si è già preso la sua felicità.

Ecco perché sono ancora qui.

Sento il suo corpo che trema e so che manca poco.
Si allontana e affonda di nuovo dentro di me, riportando a galla altri ricordi.
Più a fondo si spinge, più ne riporta in superficie, non ho ancora deciso se si tratti di un meccanismo di difesa che mi permette di distrarmi o se invece è una tortura.

Forse è entrambe le cose.
Se mi torturo tra i ricordi, se cerco di trovare un senso fra le immagini che affiorano alla mia mente mentre prende il mio corpo ancora una volta, non sento lui che entra ed esce da me come si è abituato a fare; non sento più niente. E tutto mi sembra parte di un passato lontanissimo.

Viene con un mezzo grido soffocato.
La sua stanza nello studio di Amburgo non è insonorizzata ma tanto i Tokio Hotel lo sanno chi si sta scopando quindi può permettersi il lusso di grugnire come un maiale nelle mie orecchie e farsi sentire anche dagli altri, già che c'è. Faremo tutti quanti finta di niente, come al solito. Io, del resto, sono il primo. Si muove ancora un paio di volte, in due spinte pratiche più che necessarie, lo sento colare tra le mie gambe ma anche a quello non faccio più caso.

Ci metto un po' a muovermi, mi tremano le ginocchia e mi gira la testa. In questa stanza fa sempre troppo caldo, vorrei che aprisse almeno le finestre. Vorrei anche che non si aggirasse nudo mentre aspetta che il laptop si accenda del tutto: la visione della sua carne pallida mi disgusta e mi viene da vomitare. Non sono attratto dal suo corpo, trovo l'idea rivoltante.

"Ho delle cose da fare," annuncia. Nella sua lingua questo significa che il mio lavoro è finito e che devo rivestirmi, possibilmente in fretta. Non gli piace avermi fra i piedi se abbiamo già finito. David non è il tipo d'uomo che si è preso una cotta morbosa per un ragazzino.

A lui io non piaccio nel senso stretto del termine.

Non mi terrebbe mai nel suo letto, dimostrando un qualche tipo di amore malato.
Quello sarebbe inquietante e sbagliato, ma avrebbe un senso. Sarebbe una malattia condannabile.

Lui no, è solo stronzo.

Io sono una cosa gradevole ai suoi occhi e per questo degna di essere scopata.
Il suo interesse per me inizia e finisce tra le mie gambe, non ci sono sentimenti in mezzo a tutto questo. Neanche quelli malati.

In generale, se questo gli bastasse - avermi quando vuole, intendo -, avrei la possibilità di ritagliarmi uno spazio per me solo, con un'altra persona magari.
E invece no, io sono suo. Sono una bambola, di fatto. Ora che si è stufato di giocare, devo tornare nella mia scatola.

La mia vita è tutta qui: tra le sue mani, tra le sue cose.
Sono una forma di cera, plasmata da un Dio a cui non importa niente di me.

Non esisto, se non nella sua fantasia.

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