Personaggi: Mario Gomez, Bastian Schweinsteiger
Genere: Humor
Avvisi: Gen
Rating: PG
Prompt: Storia scritta per la maritombola di maridichallenge (prompt nr.8: "Ombrello").
Note: Questa storia è iniziata senza sapere come andava a finire ed è finita senza tenere conto di come è iniziata, come conseguenza è tragicamente divisa in due pezzi netti che non comunicano tra loro perché hanno litigato. Pazienza. Considerando che ha seriamente rischiato di venir cestinata senza pietà, direi che è comunque un ottimo risultato.
Tutto nasce della partita di sabato (Bayern – St. Pauli) e dal fatto che Gomez era assente causa influenza. Il vago autismo di Schweinsteiger non era previsto, ma dal momento che lui stesso ha insistito per essere rappresentato così, chi sono io per impedirglielo?
Piccola nota nella nota. Di solito m'informo sui personaggi il minimo indispensabile a capire come si chiamano, come parlano e, in generale, che idea danno, anche vaga. Questa volta non ho fatto nemmeno questo, con buona pace del realismo. Sue me.

Riassunto: Mario è stato rispedito a stendersi sul divano, con una coperta di lana e una televisione al plasma sulla quale guardare i suoi compagni contro il St. Pauli come unica consolazione.
IT'S RAINING OUTSIDE AND I'VE GOT A FEVER


Mario è arrabbiato, con l'influenza che lo ha costretto a letto, tanto per cominciare, e con se stesso che non è stato capace di farsi bastare una tachipirina per scendere in campo. Ci ha provato, naturalmente, si è anche presentato in spogliatoio con la divisa, ma Schweinsteiger si è accorto subito degli occhi lucidi e delle guance rosse. "A meno che tu non ti sia truccato," gli ha detto ridendo, "sarà meglio per te che torni a riposarti."
"Sto benissimo," ha detto lui. "Dovrei essere in campo, oggi."
"Dovresti essere a letto, ecco cosa." E questo ha chiuso la discussione, perché Bastian non gliel'ha detto ridendo, ma guardandolo dritto negli occhi con la stessa espressione con la quale gli chiede di passargli la palla, o lo spedisce cento metri più avanti e lui non è che in campo stia lì a discutere, lo fa e basta, perché se Bastian gli chiede di fare una cosa ha le sue ragioni che sono quasi sempre molto valide.
In questo caso Mario avrebbe potuto fregarsene, naturalmente, perché Schweinsteiger non è certo sua madre e il suo medico gli ha lasciato la possibilità di scegliere da solo cosa fare o non fare con quell'influenza - è un uomo adulto, d'altronde, e se volesse rischiare di collassare sul campo con quaranta di febbre potrebbe anche farlo, ammesso che l'allenatore non sappia niente - però quell'ordine lo esegue comunque perché, che gli piaccia o no, gli ordini li esegue sempre quando escono dalla bocca di Schweinsteiger.
E' stato rispedito a stendersi sul divano, con una coperta di lana e una televisione al plasma sulla quale guardare i suoi compagni contro il St. Pauli come unica consolazione.
I ragazzi giocano bene, ma all'inizio non attaccano mai e Mario si ritrova ad urlare con la voce roca che si spostino dalla loro metà campo. Non possono cominciare col piede sbagliato e lasciare che gli avversari passino subito in vantaggio perché recuperare un gol è esattamente quello che non sanno fare. Quando le cose vanno tragicamente male fin dall'inizio, non c'è niente che risollevi la squadra, nemmeno l'ottimismo straripante di Schweinsteiger che ormai ha fatto una missione di tenerli motivati, anche se non è a lui che toccherebbe farlo.
Mario si scorda di bere e di prendere le sue medicine quando Altintop segna ed è contento del primo gol del compagno, in questa stagione. Un motivo in più per voler essere in campo. Non esserci gli fa salire la nausea. Tra l'altro, guardarli attraverso lo schermo di un televisore non è come essere a bordo campo, non gli dà la possibilità di farsi vedere, di dare supporto concreto, di sgridarli, incitarli o anche solo imprecare in un modo che possano vedere, come fa chiunque di loro quando resta in panchina.
Si accontenta di farlo a distanza, magari sgolandosi per fare ammenda della propria assenza. Più tardi potrà sempre dire che ci ha lasciato la voce per loro; è il minimo che può fare e purtroppo anche il massimo, visto che la febbre gli permette a malapena di concentrarsi sulle traiettorie della palla sullo schermo.
Come sempre, i minuti passano lentissimi quando sono in vantaggio, ma prima o poi la fine del primo tempo arriva e lui la pausa la passa cercando di andare in bagno senza sbattere contro gli stipiti delle porte.
Gli gira la testa e ha la gola secca, ma non ha intenzione di mettersi a dormire finché l'arbitro non avrà fischiato la fine, possibilmente sulla loro vittoria.
Riesce a trovare la tazza, non propriamente a centrarla, ma è un problema a cui penserà dopo, quando la stanza avrà smesso di girare e quel poco di riso in bianco che lo hanno praticamente costretto a mangiare con la forza avrà smesso di fargli visita. Faceva anche schifo, per inciso.
Quando torna sul divano, la partita è già cominciata, ma non fa le corse per sistemarsi sotto le coperte perché una parte di lui, nemmeno troppo piccola per altro, già si aspetta di veder precipitare la situazione. Non va fiero di se stesso per questo, naturalmente, ma sono le statistiche che parlano, non lui. Il tre a zero della settimana scorsa non basta a cambiare un'impostazione mentale che ormai si protrae dall'inizio del campionato.
Sprimaccia bene il piumone gigante con il quale lo hanno sepolto e beve anche un sorso di aranciata, già che c'è. Ignora sua madre che lo chiama per la terza volta sul cellulare per sapere come sta e dirgli quanto è arrabbiata di aver saputo dell'influenza dal cronista e non da lui. Le ha già ripetuto più volte che non ha la peste e non c'è bisogno che lei si preoccupi, ma sua madre insiste col dire che se lo hanno detto alla televisione allora dev'essere qualcosa di più grave di una semplice influenza; gli sta sicuramente nascondendo qualcosa. Ha provato a spiegarle che il cronista lo ha detto solo per giustificare la sua assenza in campo – sai mamma non è che posso non essere in campo senza un motivo – ma lei non vuole sentire ragioni, quindi molto probabilmente verrà a trovarlo non appena le sarà possibile, anche se magari sarà fra tre giorni e lui sarà già altrove.
Il secondo tempo inizia proprio come il primo, con loro che fondamentalmente non fanno nient'altro che difendere la loro porta e gli avversari che fanno venire a Gomez le palpitazioni. Si chiede se i suoi compagni si rendano conto che la porta in cui devono tirare è dall'altra parte del campo; gli viene da ridere quando si accorge di quello che sta pensando, si sente un po' un automobilista costretto per un guasto ad andare a piedi una settimana. Da pedone, tutti gli automobilisti diventano improvvisamente stronzi. Da casa, tutti i giocatori sono degli incapaci. Anche i suoi compagni di squadra.
Alla fine, comunque, quelli lo sorprendono infilando altre due reti, una delle quali subito dopo aver fatto espellere il portiere e la partita si chiude sul tre a zero. Gli viene un minimo di magone e si domanda se questa bella partita è avvenuta mentre lui era a casa malato o perché era a casa malato. E poi smette di pensare e si fa davvero una dormita perché è evidente che la febbre continua a salire e probabilmente gli ha fuso il cervello.
A svegliarlo due ore dopo ci pensa il bussare discreto alla porta, che inizialmente lui prende come il rumore prodotto dall'enorme picchio che sta trivellando i pali della porta di Butt nel suo sogno.
Quando si rende conto che nessun uccello gigante sta per mangiarsi vivo il suo portiere, sbatte le palpebre e si guarda intorno, riconoscendo la stanza e chiedendosi se la febbre sia passata o meno. Lui si sente uno schifo esattamente come prima, quindi suppone di no.
“Avanti, è aperto,” brontola, cercando di tirarsi su a sedere.
La porta si apre e compare il viso squadrato di Bastian Schweinsteiger, con un sorriso che gli tende la bocca da orecchio ad orecchio. "Le punizioni le danno solo le maestre ormai, o cosa?" Chiede subito Gomez, senza sprecare tempo a salutarlo. "Se quell'arbitro coglione non ne avesse ignorate la metà, chissà quanto avremmo vinto."
Bastian si mette a ridere. "Volevo chiederti come stavi, prima, ma vedo che non sei dell'umore per i convenevoli," commenta, sotto un ombrello a striscie bianche e rosse con lo stemma della squadra. Da quanto Mario riesce a vedere, dietro di lui piove a dirotto.
“Sto bene,” borbotta Gomez.
"E la febbre?"
Gomez alza gli occhi al cielo di fronte all'impossibilità di quest'uomo che fa la chioccia prima, durante e dopo le partite. E anche sotto il diluvio universale, pare. Ormai nessuno di loro si arrabbia davvero più, è come avere la propria madre in spogliatoio, solo che entra in campo con loro. "Sta bene anche lei, grazie," risponde ironico. “Ora vuoi entrare o preferisci prendere l'umido sullo zerbino?”
Schweinsteiger gli dà le spalle per scrollare educatamente l'ombrello e legarlo stretto con il proprio laccetto prima di mettere piede all'interno, dove cerca con lo sguardo un portaombrelli che non c'è.
“Mettilo dove ti pare,” Gomez agita la mano con noncuranza.
Bastian però rimane fermo dov'è e tiene l'ombrello un po' sollevato da terra, come se questo potesse ritardare in qualche modo le goccioline di pioggia che dalla tela scivolano lente e inesorabili verso il basso a formare una piccola pozzanghera sul parquet che ricopre il pavimento.
Gomez nel frattempo ha recuperato la scatola degli antibiotici, che era finita tra i cuscini del divano, per prendere la sua dose pomeridiana prima di saltare anche quella.
Bastian è perplesso e guarda la pozzanghera con disappunto, come se formandosi lo avesse tradito. Sa che se continua a stare fermo lì, l'acqua non sparirà, ma non gli sembra nemmeno il caso di appoggiare un ombrello dove capita.
“Beh, che ti prende?” Chiede l'altro che è in pigiama e in ginocchio sul divano, come un bambino di sei anni a casa con la varicella, stufo di rimanere parcheggiato davanti alla televisione. Sta combattendo contro il blister che non ne vuole sapere di rompersi a dovere e dargli la sua dannata pasticca.
“Non c'è il portaombrelli,” commenta Bastian.
Gomez smette di cercare di espugnare la fortezza degli antibiotici e ci rinuncia. La stagnola è probabilmente fatta di adamantio, o non si spiega il fatto che non si spezzi. La febbre non gli passerà mai più.
Riesce già ad immaginare il cronista che annuncia la presenza in campo di Muller fisso come unica punta centrale, perché lui è morto di influenza. “Sì, lo so,” ammette candido. “Per questo ti ho detto di metterlo dove vuoi.”
“Ma bagnerò per terra,” commenta Bastian, incurante del fatto che la pozzanghera si è già formata e che comunque lui non sta facendo niente per evitare che si allarghi ulteriormente.
Gomez potrebbe esplodere e annodarglielo al collo quell'ombrello, ma non può davvero farlo quando si rende conto che Bastian è genuinamente dispiaciuto di bagnare per terra e di essere un possessore di ombrello in un posto privo di ombrelliera. Così recupera l'asciugamano con il quale si è fatto le spugnature sul viso e lo fa volare vicino alla porta, con un tiro di precisione che gli apre un futuro come giocatore di basket. “Mettilo lì,” dice sbrigativo. “Va bene lì?”
Bastian sospira e fa come gli è stato detto, ma palesemente solo perché non può fare altrimenti. “Sarebbe tutto più facile con un'ombrelliera,” conclude di nuovo.
“Seh, ho capito, Bas, non c'è. Facciamocene una ragione.” Gomez si getta il blister alle spalle. “E comunque dove lo hai preso quell'affare?”
Alla fine Schweinsteiger si rassegna, si toglie il cappotto e lo appoggia con cura sullo schienale di una sedia, e questo non sorprende nessuno visto che anche in spogliatoio piega ogni indumento per bene una volta che se l'è tolto. A fare la doccia è lento come la morte, ma solo perché prima di entrarci impiega tre ore a mettere in ordine i suoi vestiti. “L'ho preso in prestito da Lahm.”
“Non voglio sapere perché Philipp ha un ombrello del Bayern.”
“Potrei trovare almeno dieci motivazioni,” risponde pacato Bastian. “Ad esempio, è un giocatore del Bayern. Oppure glielo ha regalato un tifoso del Bayern. O magari...”
“Era una frase come un'altra,” lo interrompe Gomez, prima che arrivi davvero a dieci motivazioni e gliene dia anche qualcosa in più per buona misura. Si dimentica sempre che Bastian è un tipo logico e meticoloso, di quelli che capiscono poco le domande retoriche. “Era solo strano che qualcuno, in generale, ce l'avesse. E' piuttosto ridicolo.”
“Ha i colori della maglia.”
Mario gli lancia un'occhiata esplicativa. “Appunto”, conclude. “Piuttosto, mi dispiace che a te e a Müller non sia andata bene nemmeno una volta. E dire che ci avete provato un casino.”
Il sorriso sempre perenne di Bastian un po' svanisce e il suo viso si fa dispiaciuto ma, siccome ha i lineamenti quadrati, di quelli così tipicamente tedeschi che non sbaglieresti le sue origini nemmeno se avesse un cognome totalmente depistante, tipo Gomez, l'espressione appare molto minacciosa. Mario quasi vorrebbe ritirare la domanda, perché non si sa mai, questo ora potrebbe alzarsi e prenderlo a ceffoni, o peggio. Lui è anche malato, non ne uscirebbe vivo. Chissà se il telecronista direbbe che Muller gioca al suo posto perché Schweinsteiger lo ha ammazzato a mani nude? Chissà se giocherebbe Schweinsteiger, a quel punto. E se non lo facesse, cosa direbbe il cronista? Gioca Muller come unica punta centrale al posto di Gomez, ucciso da Schweinsteiger che verrà sostituito da Ottl. E se da questo omicidio si scatenasse una spirale di violenza in squadra? Alcuni vendicherebbero la sua morte, altri prenderebbero le parti di Schweini – forse molti prenderebbero le parti di Schweini – finché il cronista starebbe costretto a dire che entrano in campo solo cinque riserve perché gli altri si sono ammazzati tra loro. A monte resterebbe comunque la storia della sua influenza, della visita di Bastian con l'ombrello del Bayern e la sua domanda inopportuna sui gol mancati.
“Mario?” Schweinsteiger lo chiama e lui si volta a guardarlo con aria interrogativa. “Stai fissando l'ombrello da almeno dieci minuti. Lo sapevo che ti dava fastidio che sgocciolasse sul pavimento.”
Per questo si alza e riprende in mano quell'affare, con tutto l'asciugamano, e gli cerca un altro posto.
“No, ma cosa fai? Non c'entra niente quello. Ti ho già detto che non m'interessa. Stavo solo pensando a che cosa sarebbe successo se metà della squadra fosse morta per colpa nostra.”
“Eh?” Bastian sbianca e si ferma mentre sta svuotando un porta penne per vedere se può appoggiarci dentro almeno la punta dell'ombrello e farlo sgocciolare lì. Questa cosa dell'ombrelliera mancante lo infastidisce nel profondo, come quando qualcuno rutta a tavola o non dice “Grazie” quando lui dice “Salute”. E' chiaro che mini le fondamenta del suo vivere civile.
“Seguimi. Mettiamo che ora tu mi ammazzi, qualcuno vorrà pure vendicarmi no? E ci sarà sicuramente qualcuno che invece sarà d'accordo con te. Secondo me entro un mese non ci sarebbe quasi più nessuno. Primo io, ultimo Ribery, ma Franck mica lo ammazza nessuno. Senti che nome da figo: Franck. Anche il tuo non è male, ma è chiaro che qualcuno ti fa fuori dopo di me, perché altrimenti la guerra non può iniziare.”
A quel punto Bastian decide che l'ombrello non è una priorità. Lo rimette dov'era, con l'asciugamano, il portapenne, tutto. “Credo che tu stia peggio di quel che pensavo,” dice alla fine con voce mesta, avvicinandosi a Gomez che indietreggia, perché quello avanza come se niente potesse fermarlo. “Fammi sentire, mi sa che hai la febbre.”
“No ma guarda io credo che sia scesa.”
Bastian gli pianta con forza una mano in fronte, stendendolo sul divano in un colpo solo. “Veramente ce l'hai,” decreta, impassibile come un terminator. Trova le pasticche e disfà il blister a mani nude, infilandogli in bocca tre o quattro pasticche, seguite dall'aranciata con la cannuccia. “Non avresti dovuto guardare la partita, ma dormire.”
Mario non può rispondere, perché ha le pasticche incastrate in gola e, pur volendo, non ha il tempo di pensare a cosa direbbe il cronista, in questo caso.
“Adesso dormi,” gli ordina Bastian, e lo fa con il tono di voce che userebbe se avesse in mano una falce e gli avesse ordinato di crepare. Immagino che dormirò, pensa Gomez, anche perché l'alternativa è cercare di convincere Schweinsteiger che non vuole farlo. E Bastian non si convince con niente. Basta pensare alla storia dell'ombrelliera, d'altronde. “Se non ti riposi e non ti fai passare quest'influenza, non potrai giocare nemmeno la prossima volta.”
Non ci sarà nessuna prossima volta, pensa, mentre lentamente il picchio plana di nuovo sulla porta di Butt;
ma questa volta la porta è nel suo salotto e il portiere è seduto accanto al televisore.
“Uccidilo con l'ombrello,” borbotta, tra il sonno e la viglia. “Presto, prima che se lo mangi.”
In lontananza sente Bastian dire che la febbre si sta alzando. Ma la febbre di chi? Non lo sa.
L'ultima cosa che vede prima di chiudere davvero gli occhi sono gli spicchi rossi e bianchi dell'ombrello vicino all'entrata. Sta sgocciolando.

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