Fandom: !Originali
Personaggi: -
Genere: Introspettivo
Avvisi: Gen
Rating: G
Note: Questo è un esperimento, nel senso che ho preso la canzone, ho letto il testo, e la prima cosa che mi è venuta in mente ha dettato tutta la storia. L'identità della protagonista dovrebbe essere comprensibile, se non lo è vuol dire che la storia è venuta proprio malissimo x'D
Prompt: Scritta per 500themes (tema 55: Senza volto e senza nome) e per fare ambo alla maritombola di Maridichallenge (prompt 23: Oren Lavie - Her Morning Elegance). La mia cartella è qui.

Riassunto: La signora ha una casa come tutte le altre. Non è troppo piccola né troppo grande, ma per lei e il suo gatto è più che sufficiente. Ha un tetto e quattro mura, e un bel camino grande in sala da pranzo. Il camino è sempre acceso perché in casa fa molto freddo anche se fuori è estate.
HER MORNING ELEGANCE


La signora ha una casa come tutte le altre.
Non è troppo piccola né troppo grande, ma per lei e il suo gatto è più che sufficiente. Ha un tetto e quattro mura, e un bel camino grande in sala da pranzo. Il camino è sempre acceso perché in casa fa molto freddo anche se fuori è estate.

Ora però non lo è. Dicembre è iniziato da due settimane. C'è un sole basso che fa poca luce e quando riesce finalmente a illuminare un po' la distesa di neve sulle strade, è già ora che scenda e sparisca dietro la linea scura e appuntita delle montagne. Alla signora dicembre non piace perché fa freddo anche fuori, non solo in casa, e perché le persone si sentono inspiegabilmente più felici di quanto non facciano il resto dell'anno. Questo rende il suo lavoro molto difficile. Un tempo lontano, quando arrivava dicembre, desiderava sempre di andare in vacanza anche lei per quel mese soltanto. Non sapeva se fosse davvero possibile, però ci sperava. Come chiunque altro decorava un grosso abete con ghirlande colorate e, quando era arrivata la tradizione di fare il presepe, aveva adottato anche quella sebbene si sentisse un po' a disagio nel ricordare che cos'era avvenuto davvero alla nascita di quel bambino nella mangiatoia, quanto era stata costretta a fare. Certo, si era detta, se doveva essere triste per ogni ricordo che le riportava alla mente il proprio lavoro, non sarebbe mai stata felice. E così si era concentrata sulle cose belle, sulla mangiatoia, sulla donna così giovane e bella che guardava il bambino e sugli angeli dalle enormi ali bianche.

Ma poi col tempo si era resa conto che quello che voleva era impossibile e che mai, per nessuna ragione al mondo, lei avrebbe mai potuto smettere di fare il suo lavoro. Così la voglia di fare festa le era passata, le era passata la voglia di addobbare l'albero in giardino, il corrimano delle scale e di costruire la capanna in cui la statua di Maria potesse guardare amorevolmente la mangiatoia con le mani giunte. Da quel momento – era stato molto, molto, molto tempo fa – la sua casa era rimasta spoglia e vuota per tutto l'anno, inerte e sempre uguale a se stessa, com'era lei.

Adesso in salotto c'è solo un bel vaso con un fiore rosso che guarda verso il basso, le sue pantofole accanto al camino e il violoncello nella sua custodia, appoggiato con cura contro il muro vicino al pianoforte. Una volta le piaceva suonare. Di tanto in tanto le capitava che qualcuno le chiedesse di farlo e lei lo faceva volentieri. Era un bel modo di accompagnare le persone durante il viaggio più lungo, c'era un senso di pace nel modo in cui chiudevano gli occhi e si lasciavano andare. A volte ballavano. Durante la guerra i giovani soldati con l'uniforme le avevano chiesto di ballare con un inchino elegante e lei aveva dato loro la mano mentre la musica continuava a suonare. I bambini non avevano mai paura se c'era la musica e lei li prendeva in braccio, facendoli volteggiare. Ma poi si era andata formando nella coscienza delle persone l'idea che lei fosse crudele, distaccata, che non le importasse di ciò che faceva purché lo portasse a termine. Avevano cominciato a chiederle di giocare a scacchi – come se, vincendo, avessero mai potuto evitare di partire – , i soldati le intimavano di mostrare una falce che non aveva mai posseduto, la sfidavano a duello, la insultavano quando erano arrabbiati e la pregavano in ginocchio quando erano spaventati e tristi. I bambini, invece, che avevano sempre affrontato la sua ingiustizia con una calma che avrebbero perso se mai gli fosse stato concesso di diventare adulti, ora la guardavano piangendo e si stringevano alle loro bambole e ai loro orsetti, scuotendo la testa, e ci voleva così tanto tempo per convincerli ad andare con lei. Era un dolore inutile che nessuno avrebbe mai dovuto provare.

Ma nessuno si aspetta più che suoni, perciò lei non lo fa.

Ogni mattina, la signora fa un lungo bagno che la aiuta ad affrontare la giornata. Immersa nell'acqua quasi bollente, con la schiuma che lascia scoperti solo gli occhi scuri, si sente al sicuro, protetta, lontana dal mondo. Anche se è vero che nessuno può fermarla, non è vero che non può essere ferita. E' quasi una tortura lasciare la propria casa ogni giorno sapendo che là fuori nessuno ti accoglierà a braccia aperte. Anche chi, a causa della propria condizione disperata o di una scelta più o meno ragionata, viene a cercarla, non la rende certo felice. E' quello che rappresenta a non andare bene, e non poter smettere di farlo è una cosa frustrante.

Così, spesso chiude gli occhi e appoggia la testa al bordo della vasca, lasciando che il rumore dell'acqua che esce tiepida dal rubinetto la porti lontano. Il mondo che le piace immaginare è pieno di luce e profumi, è un mondo dove può godersi il panorama e gli abbracci della gente. E' un mondo dove c'è musica e bambini che ridono e corrono e la invitano a giocare con loro. Il cielo è sempre terso, il sole sempre alto e l'acqua di un fiume scorre limpida perché tutti quanti possano berla. E' un mondo, quello che immagina, che non è mai davvero esistito perché lei c'è sempre stata e, in qualche modo, la sua presenza lascia cadere su ogni cosa un velo scuro, come di fuliggine, che rende tutto un po' meno splendente.

Immersa nell'acqua, tra nubi di vapore che formano il cielo morbido dentro la sua testa, immagina un mondo dove lei non esiste, e si sente ancora più triste.

Esce dalla vasca e toglie il tappo. Il rumore che l'acqua fa sparendo giù per lo scarico la risveglia dal suo sogno ad occhi aperti. Quel poco che ne rimane lo versa in una tazza di porcellana insieme al caffè, sperando che un cucchiaio di zuccherò possa addolcire un po' la realtà.

A volte si domanda che strana creatura le è stato concesso di essere. Tutti se la immaginano distaccata e scostante, parte di un mondo che non è quello di chiunque altro. Pensano che veda e senta le cose in maniera diversa, come farebbe Dio, per esempio, ma non è così. Forse lei non può morire – ironia della sorte – ma non per questo, anzi proprio per questo, comprende perfettamente che effetto abbia la morte su tutti gli altri. Sa che è la consapevolezza di non essere eterne ad unire le persone, mentre lei se ne sta lì muta e immobile tra loro a vederle passare una dopo l'altra, consapevole che lei sarà sempre lì mentre loro non sono che di passaggio. La odiano perché questo è colpa sua, senza sapere che non è lei a decidere.

Tutti ignorano che non avere nessuno con cui condividere la propria esistenza è doloroso quanto poterlo fare solo per un limitato periodo di tempo. Non c'è in questo mondo una soluzione perfetta. Perfetto sarebbe trovare qualcuno e non doverlo mai abbandonare. Perfetto sarebbe non sentirsi responsabili per ciò che non si è mai chiesto di fare e che, nonostante questo, si dovrà fare per sempre.

Si alza lentamente dal tavolo e mette la tazza nel lavandino.
I residui di caffè formano un cerchio sul fondo e poi salgono a galla quando ci versa dentro l'acqua del rubinetto. Per un po' osserva la polvere di caffè galleggiare e poi affondare di nuovo, quindi spegne la luce e va verso la porta d'entrata. Il suo cappotto appeso all'attaccapanni sembra la sua ombra a riposo. E' così lungo che l'orlo tocca quasi per terra e il cappuccio si appoggia morbido lungo la schiena.

Lo indossa con cura, allacciando un bottone alla volta. Sotto porta un bell'abito nero dal taglio antico, con un'ampia gonna larga sui fianchi, l'unico dettaglio fuori dal tempo a cui non riesce a rinunciare. Ha provato ad indossare un paio di jeans, ma c'è qualcosa di poco romantico nel fare il suo lavoro vestita in quel modo e anche il tailleur, con la gonna al ginocchio che le fasciava le gambe magre e pallide, mancava della poesia necessaria pur essendo formale.

Ha scoperto, nel corso del tempo, che il suo lavoro non è questione di professionalità. Certo deve sempre fare un buon lavoro – ma chi non deve d'altronde? – e ci si aspetta da lei una certa compostezza, ma per quante volte l'abbia compiuto, il gesto di accompagnare qualcuno verso la meta successiva, quale che sia, non può e non deve essere meccanico, come apporre un timbro su un passaporto.
Lei non porta soltanto qualcuno da una parte all'altra, lei legge da cima a fondo la storia di una vita e vi mette un punto di fine. Non può farlo di fretta, e non può farlo sempre allo stesso modo perché ogni storia ha un finale diverso.

Una volta indossato il cappotto, si sistema il cappello sulla testa, lancia un ultimo sguardo alla casa buia ed esce. Chiusa la porta infila le mani in tasca e si avvia lungo la strada.

*
Alla stazione la gente si affretta.
La frenesia che la circonda non la tocca nemmeno un po'. Tutti corrono, si agitano, anche chi guarda il cartellone delle partenze lo fa con il corpo teso e pronto a raggiungere il proprio binario. Agli arrivi non c'è nessuno e questo la riempie di tristezza. Si ricorda in passato, quando il treno era ancora una novità, la gente assiepata sulle banchine ad attendere che l'enorme macchina fumante si fermasse e ne scendessero i viaggiatori. Nel rallentare uggiolante del treno, chi aspettava tratteneva il respiro e lo lasciava andare soltanto con l'ultimo sbuffo di vapore. Adesso non si parla che di ritardi, di scomodità, di affollamento. La gente è così abituata ad avere ogni mezzo per muoversi che ha dimenticato quanto sia miracoloso poterlo fare.

Alla signora il treno continua a piacere più di qualsiasi altra cosa, nonostante non sia più quella macchina imponente e sferragliante che era un tempo. Anche nella sua evoluzione, anche se ora è più aerodinamico, più moderno, più veloce, a mantenuto un aspetto romantico e veder scorrere il paesaggio dal finestrino le dà ancora la sensazione che il mondo non sia diventato qualcosa di troppo diverso da ciò che era. Se chiude gli occhi, può ancora pensare di essere altrove e che fare ciò che deve fare non sarà così doloroso.

La cerca fra la folla e la trova seduta sugli scalini del sottopassaggio.
Ha otto anni e vive con la madre in una casa da cui presto le butteranno fuori. Chiede l'elemosina perché non può fare nient'altro, è già un miracolo che non sia finita altrove. La signora l'ha osservata per giorni, mesi, anni con la consapevolezza di quello che sarebbe avvenuto. Era un peso immenso da sopportare e, nonostante questo, non ha mai alzato un dito per cambiare le cose, perché non spetta a lei farlo. Quello è il lavoro di qualcun altro.

Ma ora che ha davvero di fronte un'immagine che ha solo intravisto per anni nello scorrere del tempo, non riesce ad essere davvero così distaccata. Non è la prima bambina ad andarsene nella miseria, non sarà neanche l'ultima, ma forse questa non è la giornata giusta per essere professionali. Si è sempre chiesta se sarebbe arrivato il momento in cui non sarebbe più stata in grado di fare quello che doveva e che cosa, alla fine, sarebbe successo. Probabilmente adesso ha la sua risposta.

Si avvicina alla bambina lentamente. La gente di fretta non la vede, ma sembra non vedere neanche la bambina. La signora si siede lentamente accanto a lei e chiude con cura l'ombrello. Sullo scalino non è rimasto molto spazio, ma le persone frettolose sembrano sapere istintivamente di doverle scansare entrambe. Una lunga fila, simile a quella delle formiche, si forma alla sinistra della signora mentre i passeggeri dei treni in partenza scendono uno ad uno nel sottopassaggio per raggiungere il loro binario.

La bimba trema così forte che non le basta più stringersi nel cappotto. Il bicchiere di carta ai suoi piedi è vuoto a parte le poche monete che ci ha messo dentro lei. La signora si fruga in tasca e recupera qualche spicciolo che fa cadere nel bicchiere. Il suono è più chiaro di ogni altro suono, forte, come se fosse più vero degli altri e la bambina solleva lo sguardo. Sussulta, ma la signora sorride.

C'è sempre un momento, una frazione di attimo, in cui la persona capisce. La signora ha imparato a riconoscerlo, a scorgere quell'ombra scura che attraversa fugace gli occhi di chi deve accompagnare. Non sa perché accada – forse è la sua natura che appare improvvisamente evidente – ma sa che succede sempre. I bambini ci mettono meno. I bambini capiscono sempre prima di tutti gli altri.

Questa bambina non è diversa.

Lo sguardo che le lancia è così rassegnato da essere sbagliato. Non dovrebbe aspettarsi quello che sta per accadere, non dovrebbe nemmeno pensarci. Allunga una mano, e la vede chiudere gli occhi. Quando le avrà sfiorato la testa, potrà portarla con sé. Il luogo stesso in cui si trovano adesso si trasformerà per rispecchiare le sue fantasie, forse sarà un bel posto. I bambini sognano sempre luoghi felici.

Ma non la sfiora nemmeno.

La signora lascia ricadere la mano in grembo con un suono soffice che attira l'attenzione della bambina. Lei, spaesata, si guarda intorno ma la stazione è uguale a prima, il freddo è ugualmente pungente, nessuno continua a vederla come se rannicchiata lì contro il muro fosse invisibile. Per una frazione di secondo il suo sguardo è deluso, andarsene almeno avrebbe cambiato le cose.

La signora si alza, le porge l'ombrello. La bambina lo afferra e la segue ma guarda indietro.
Lo spazio che hanno occupato fino ad un istante prima si riempie di passi frettolosi, di ombrelli che si chiudono, di mani nelle tasche e belle scarpe inzaccherate di fango. Il vuoto che sono state ora non esiste più, inghiottito dalla marea umana che le aveva evitate. Andarsene significa veder riempito lo spazio che occupavi l'attimo esattamente successivo a quando non ci sei più.

La signora la guida attraverso la folla di adulti nella sala d'aspetto. Si muove veloce, l'ombrello teso dietro di lei perché la bambina possa restarvi attaccata. Non sa quanto tempo ha, non sa nemmeno se ha tempo. Non sa cosa sta per succedere o se succederà qualcosa. Percorre tutta la stazione con la stessa frettolosa preoccupazione, un nodo che le chiude la gola e la paura che da un momento all'altro il pavimento si apra, o il tetto crolli, che qualcosa, qualcuno la afferri e le tolga di mano ogni cosa. Non solo la bambina.

Ma niente succede.

Così quando raggiunge i negozi dall'altra parte della strada, non sa cosa fare. Dopo aver messo tutto il proprio coraggio in quell'unica azione, tutta la tensione accumulata svanisce, lasciandola bagnata sotto la pioggia, con una bambina al fianco che la osserva con la stessa disarmata curiosità con cui lei guarda il resto del mondo, chiedendosi perché non è collassato. Forse tutta l'importanza che credeva di avere se l'è data da sola. Forse non è come pensava. Forse impedire ad un evento di compiersi così com'era stato programmato non significa che ogni altra cosa al mondo si fermerà. Forse non solo nessuno la vuole, ma anche la sua assenza non verrebbe notata. Forse provare a cambiare le cose e scoprire di non poterlo fare era esattamente quello che ci si aspettava che facesse oggi, e ora c'è qualcuno nelle ineffabili sfere celesti che sorride compiaciuto, pensando di essere stato divertente. Qualunque sia la spiegazione per ciò che non è avvenuto, si sente sconfortata. E triste. E più sola di prima.

Sospira e compra alla bambina qualcosa da mangiare, quindi si allontana senza dire una parola.
Vorrebbe assicurarle che si rivedranno ma, a conti fatti, quello da parte sua non è mai stato un bel saluto.

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