Personaggi: Chakuza, OFC
Genere: Introspettivo
Avvisi: Gen
Rating: PG
Prompt: Scritta per la prima settimana del Warning Week Fest di fiumidiparole (prompt: letto)
Note: Io odio il gen. Sappiatelo. Qualunque cosa esso sia. Comunque mi hanno detto: togli il pairing e io l'ho tolto, mettendo Chakuza in una fanfiction con l'unica donna che non potrà mai... ma devono essere gen anche le note? Comunque sua sorella Clara. Chakuza non ha affatto una sorella - o se ce l'ha probabilmente non si chiama Clara e comunque noi non lo sappiamo - quella di questa storia gli viene dal Ghettodrama (novità, eh?) e io le voglio molto bene.

Riassunto: Nell'ambito dell'appropriazione indebita di letti non suoi, Clara è la più grande esperta che abbia mai calcato questa Terra.


Stavolta non sono qui per raccontarvi una storia romantica o una storia vietata ai bambini.
Con tutto quello che vi ho detto di me negli ultimi tempi, potreste scriverci un trattato ma, a conti fatti, di chi ero prima di arrivare a Berlino o di come sono diventato quel guazzabuglio di ragionamenti che sono ora, non sapete proprio niente. Ed è per questo che sono qui a colmare le vostre lacune parlandovi di letti.
Perché di letti? Direte voi. Perché il letto è fondamentale per il sottoscritto, e non per le ovvie motivazioni che vi sono già saltate in mente, ma perché – pur avendo bisogno di poche ore di sonno – devo dormire bene, anzi benissimo, altrimenti il mio primo istinto quando mi sveglio è quello di estinguere una vita umana nel modo più doloroso possibile. Per questo e altri cento motivi, io posso anche dormire quattro ore ma non posso – per nessuna ragione al mondo – lasciarmi cadere privo di sensi su qualunque superficie disponibile come invece fa certa gente che conosco, perché sennò le linee dei miei bioritmi si intrecciano e non mi si sopporta più. Va da sé che sulla questione letto sono sempre stato un uomo piuttosto serio e che le mie più grandi battaglie le ho fatte proprio per accaparrarmene uno degno di questo nome: in gran parte sul tourbus durante i tour, naturalmente, ma soprattutto con mia sorella che è – nell'ambito dell'appropriazione indebita di letti non suoi – la più grande esperta che abbia mai calcato questa Terra. Ma andiamo con ordine.
Io sono nato in Austria, per la precisione a Linz che è, come Wikipedia vi dirà se avete due minuti per controllare, la terza città della nazione per popolazione e il capoluogo dello stato federale dell'Alta Austria.
In realtà, però, io a Linz ci sono soltanto nato, appunto, nel senso che mio padre – quel 22 febbraio del 1981 - ha preso la macchina, ci ha caricato su mia madre che era incinta di me e l'ha portata nell'ospedale dove io ho potuto vedere la luce, dopodiché mio padre ha caricato di nuovo mia madre sulla stessa macchina e siamo tornati tutti e tre in montagna, dove effettivamente io ho vissuto fino all'età di vent'anni. Non ho per niente una mentalità cittadina, anzi – come Bushido si premura di ricordarmi ogni volta che faccio o dico qualcosa in netto contrasto con quello che pensa lui – sono proprio un montanaro di quelli peggiori. Ed è vero, anche se, quando lo dice, lui ride e sembra l'offesa peggiore del mondo.
Su in montagna abbiamo una casa tradizionale, di quelle di legno con i tronchi a vista passati col lucido e i balconi grandi e rustici. Mia madre fa il pane in casa e alle volte, se a mia nonna gira, insieme fanno pure il burro e il formaggio, insomma capite l'ambiente no? Io spacco la legna, volendo, e so mungere gli animali, tutte cose che se le dici a quelle bestie giù a Berlino, ridono per mezz'ora, però è così ed è pure una cosa che mi piace.
A casa mia c'è sempre stata gente, voglio dire non solo i parenti, ma anche i vicini del mio paese e quelli del paese a fianco. Gente che andava e veniva perché magari passava di lì con le pecore al pascolo e si fermava a fare due chiacchiere o magari qualcun altro aveva lasciato della roba per loro, perché succede sempre che essendo tutte baite staccate una dall'altra, se il postino passa da te e sa che ci sono lettere per il capraio e che il capraio passerà di lì, ti lascia anche la sua posta e tu fai le corse urlando quando poi lo vedi arrivare.
E' tutta un'altra storia dalle mie parti, capite? Nessuno si sognerebbe di farsi quattro chilometri a piedi, in salita, per venire a macchiare il muro della chiesa del paese con la bomboletta. Sarebbe anche un po' una fatica inutile, tra l'altro, perché chi vuoi che venga a leggere i tuoi sforzi in cima ad un monte?
Quando ho deciso di trasferirmi in una grande città, l'ho fatto perché non volevo passare tutta la mia vita nell'erba alta come mio nonno e, in gran parte, anche mio padre, senza prima aver visto altri posti, giusto per poi poter dire che casa mia era meglio di qualsiasi altra cosa. Ed è vero.
Io l'ho sempre detto che vivere in città non mi piace perché, aldilà delle comodità più ovvie – come i negozi a portata di mano, la linea internet che non cade quando c'è un po' di vento e la televisione che si prende tutta, non solo i canali il cui ripetitore non sta dietro un colle – qua non c'è niente che m'interessi davvero. Ovviamente a Vienna prima e Berlino poi ho avuto la possibilità di farmi pubblicità, di farmi una carriera nel mondo della musica e dei fan – difatti sarebbe stato un po' complesso per me e per il mio socio farsi conoscere cantando alle feste di paese tra una malga e l'altra – ma a parte questo, io qui non so cosa ci sto a fare perché a me andare per locali non piace, la ragazza ce l'ho ed è delle mie parti e, a conti fatti, se voglio cucinare posso farlo a casa mia e col burro di mia mamma i Canederli vengono anche molto meglio.
Di tutte le cose che mi sono lasciato alle spalle, però, quella che mi manca di più è la mia famiglia – oddio non tutta, di mio zio per esempio faccio volentieri a meno, visto che sono rare le volte che è abbastanza lucido da poter intrattenere una conversazione –, mi manca non averli vicino. E fra tutti, quella che mi manca di più è mia sorella Clara.
Questa cosa può suonare strana dal momento che mia madre ha avuto Clara molto tardi e fra me e lei corrono quasi dodici anni, che è un periodo troppo lungo perché due fratelli abbiano tra loro un certo tipo di complicità, soprattutto se sono un maschio e una femmina; ma mia madre dice sempre che i veri Pangerl sono tutti uguali ed evidentemente io e Clara dobbiamo essere Pangerl a denominazione di origine controllata perché siamo identici fino all'ultimo aspetto del carattere e per questo, forse, ci siamo trovati fin da subito, fin da quando lei giocava con le bambole sul tappeto di camera mia mentre io facevo i compiti di matematica. Non ci siamo mai dati fastidio e non siamo mai stati gelosi, forse perché mia madre ci trattava allo stesso modo e ha sempre fatto fare ad entrambi quello che volevamo, più o meno. E quando lei non voleva, ci spalleggiavamo a vicenda, così era più facile vincere.
Se Clara voleva andare in discoteca e tornare più tardi del solito, io mi offrivo di accompagnarla, stare con lei e riportarcela. In realtà entravo con lei, uscivo con lei ma nel tempo che passava fra l'una e l'altra cosa, nessuno dei due sapeva cosa facesse l'altro. Ci incrociavamo ogni tanto in modo che potessi vedere che stava bene e poi basta, tanto lei sapeva che se faceva casini le avrebbe prese prima da me e poi anche da mio padre e non le conveniva.
Se io volevo farmi un tatuaggio e mio padre minacciava di togliermelo con il trapano una volta che fossi tornato a casa, lei se ne usciva fuori con un'arringa difensiva – è sempre stata brava a confondere la gente a parole – e finiva che mio padre le dava quasi ragione. E io poi le dovevo dei soldi, per questo, ma sono dettagli irrilevanti con i quali non starò qui ad annoiarvi.
Io e Clara, come dicevo, siamo sempre andati molto d'accordo. Mai uno screzio, mai una litigata di quelle furiose con i cuscini, i dispetti e i soprammobili tirati vicendevolmente – anche perché quando lei era molto piccola, io ero già abbastanza grande per farle davvero male per cui non potevo – tranne che per una cosa: il letto. Le lotte per dormire succedevano in casa, come in vacanza, al campeggio o in casa dei parenti se magari rimanevamo a dormire. E ovviamente adesso. Soprattutto adesso.
Quando mia sorella viene a trovarmi a Berlino – per altro senza prima avvisarmi, rischiando di non trovarmi in casa o di trovarmi in situazioni che mi impediscono di farcela entrare – la sua prima domanda dopo i convenevoli e gli abbracci e i baci a stampo sulle guance è: “Io dove dormo?”
Io dove dormo? è una domanda che Clara fa solo per evidente convenzione sociale perché quello che intende in realtà con quelle tre parole è: qualunque sia la tua risposta, sappi che dormirò nel letto più comodo o in quello che si trova nel posto oggettivamente migliore. Ed è una specie di regola non scritta, questa, in vigore dal giorno stesso in cui lei ha deciso che il suo lettino con le sbarre non faceva più al caso suo e ha traslocato nel mio, costringendo me a trasferirmi, visto che era più facile muovere il sottoscritto che non tutto l'arredamento.
Secondo un cliché che si ripete da anni, io le propongo un letto, lei lo accetta e poi in quel letto ci finisco io, con un meccanismo così incomprensibile quanto collaudato e oliato che quasi mi stupirei se una volta non capitasse. Il miglior esempio di quanto vi sto raccontando risale a tre mesi fa quando per sbaglio, durante una telefonata, mi sono lasciato sfuggire che Bushido aveva intenzione di portare Bill Kaulitz a visitare gli studi dell'EGJ la settimana successiva. Ora si dà il caso che mia sorella sia una grande fan dei Tokio Hotel come quasi l'80% delle ragazzine della sua età e nutra per Bill questa sorta di adorazione mistica per cui non vede né sente nient'altro e quello che vede e che sente è naturalmente falsato dai suoi ormoni in tempesta, sebbene mi chiedo come faccia lei – a cui fino all'ultima cena di famiglia piacevano i maschi – a trovare appetibile lui che maschio non è.
Già nei mesi precedenti mi aveva insistentemente chiesto, giacché il mio capo – al quale lei attribuisce appellativi di ogni genere, nessuno di essi carino, e soprattutto tutti creati in difesa della virtù di Bill che Bushido ha, per l'appunto, minacciato in diretta televisiva – conosceva Bill, se per caso non lo conoscessi anch'io e io avevo atleticamente glissato sulla domanda perché sapevo che a dirle di sì poi avrei dovuto recuperare cd autografati, magliette usate e molto probabilmente capelli e frammenti di pelle dal quale ricavare del DNA per la clonazione. Solo che quella volta al telefono mi è proprio sfuggito di bocca e quindi lei il giorno dopo era davanti alla porta del mio appartamento – nel palazzo non c'è più il portone perché se lo sono portato via i teppisti, per questo nell'androne ora dormono due senza tetto polacchi –, seduta su un borsone rosso pieno fino a scoppiare che, fra le altre cose, era mio.
“Clara?” Chiedo. E' più alta di come me la ricordavo, con i capelli più corti e forse più neri. Mia sorella è bionda come me – si, sono biondo – quindi deve averli tinti.
“Ma dov'eri? Sono qui dalle sei!” Esclama, gettandomi le braccia al collo.
“A lavoro?” Commento io, anche se ho passato tutta la giornata all'Ersguterjunge ad aspettare sua maestà il re che mi ha poi chiamato all'ultimo minuto per dirmi che non ce la faceva a venire. “Cosa ci fai tu qui?”
“Sono venuta a trovarti!” Esclama, sollevando entrambe le braccia. E io penso: e questa dove la metto a dormire?
Poi penso che questa non è la prima casa che aveva quando sono arrivato a Berlino, che era un buco ancora più fatiscente di quella in cui vivo adesso, una specie di rifugio anti-atomico dopo che la bomba lo ha preso in pieno, per intenderci. Questo è un appartamento dignitoso e anche se c'è un po' di confusione il divano è buono e può dormire lì.
“Mamma lo sa che sei qui?” Chiedo, mentre le prendo il borsone e lo sistemo in salotto.
“Sì,” fa lei, guardandosi intorno. “O almeno lo saprà quando tornerà a casa e leggerà la nota che le ho lasciato.”
“Clara!”
“Che c'è? Mica sono scappata di casa,” protesta lei. “Guarda che poi torno, anche perché se dovessi vivere qui... ma con tutti i soldi che hai non potevi comprarti un appartamento come tutti gli altri esseri umani?”
“Questo è un appartamento,” le faccio notare mentre compongo il numero di casa dei miei e tento di evitare l'infarto a mia madre che prima vedrà che Clara è partita e solo dopo aver chiamato tutti i parenti forse vedrà la nota che lei ha lasciato. “E comunque non sono mica miliardario.”
Lei annuisce e mastica la gomma mentre analizza la mia collezione di cd, custodia per custodia: li tira fuori, legge il libretto e li rimette a posto, intanto che io rassicuro mia madre che Clara è qui con me, che è ancora intera, sì mamma ci penso io, no, no le sto dietro tranquilla. Ciao.
“Quanto hai intenzione di rimanere?”
Lei si stringe nelle spalle. “Vedremo. Io dove dormo?”
Appunto. Le dico che le preparerò il divano per la notte, e lei annuisce e dice: “Perfetto, sono stanca morta. Il viaggio è stato massacrante, una roba che non ti dico.”
Mentre io recupero le coperte e magari anche un cuscino e una federa, lei prende le misure della casa e intanto parla a ruota libera e mi racconta della nuova professoressa di tedesco che è la stronza definitiva e io le dico che è la stessa che avevo io. “Allora avevo ragione,” mi dice mentre insieme portiamo le sue coperte in salotto e cerco di rendergli il divano più comodo.
“Ragione su cosa?” m'informo.
“Quella mi odia,” fa lei. “E' palese che sia colpa tua.”
“O è palese che non studi un accidente,” dico.
Lei sorride. “Anche quella è una possibilità. Che c'è per cena?”
Sono le nove, potrei ordinare una pizza ma quando lo propongo lei mi guarda come se non prepararle qualcosa con le mie mani fosse un delitto punibile con l'ergastolo, così mi sento costretto a cucinare.
Clara quando mangia è un tritarifiuti, nel senso che qualunque cosa le servi la mangia e ne mangia in quantità industriale, forse perché a casa dei miei non si butta mai via niente e mio padre ci ha abituati che se non mangi quello che hai nel piatto allora si vede che non hai fame e quando ti ripresenti qualche ora dopo dicendo che ora ce l'hai, lui ti porta quello che non hai mangiato a pranzo o a cena, e te lo ripropone ora dopo ora finché, stremato, tu lo mangi pur di non rivederlo più. E se non c'è lui, c'è mia madre che ti dice che quando era piccola alla sua vicina di casa era morto il marito sotto una valanga e lei non aveva lavoro così i suoi bambini dovevano mangiare pane e cipolle. Pane e cipolle, Peter! Da piccolo me lo ripeteva così tanto che io ero arrivato ad aver paura delle valanghe non tanto perché mio padre poteva morire ma perché poi mi sarebbe toccato mangiare pane e cipolle.
“Visto che sono venuta a trovarti,” esordisce lei mentre le porto la frutta, “potremmo fare qualcosa di divertente.”
“Sempre che questo divertente non implichi uscire da questa casa alle...” guardo l'orologio “... undici meno dieci.”
“Andiamo Peter...”
“Domani lavoro,” chiudo il discorso. “Anzi, a tal proposito, non so dove metterti perché non ci sarò tutto il giorno.”
“Non ho bisogno della babysitter, sai?” Mi fa la linguaccia. “E comunque sono qui per vedere Bill Kaulitz, mica te.” E squittisce. Cioè, davvero, come un topo, non lo so è tipo un versetto ridicolo mentre strizza gli occhi e io sospiro, iniziando a caricare la lavastoviglie.
“Grazie, che carina. E' sempre bello sapere che mia sorella mi vuole bene sopra ogni cosa.”
“Certo che ti voglio bene, ma Bill Kaulitz è Bill Kaulitz,” commenta lei, come se stessimo parlando di Ghandi o del Papa o, non lo so, comunque di una qualunque persona che abbia contribuito a migliorare il mondo. “Comunque, visto che sono qui e tu non sei ancora così vecchio da andare a letto con le galline, potremmo pure vederci un film.”
E film sia, penso. Quando era piccola ed era uggiosa, le facevo scegliere un cartone animato e poi la portavo imbronciata in camera di mamma e papà dove lo guardavamo insieme, seduti sul lettone. Non è cambiato assolutamente niente perché lei sceglie un film a caso dalla mia collezione e poi ci trasferiamo in camera mia e lei si piazza a quattro di bastoni al centro del letto, mentre io devo inserire il film, cercare il menù, scegliere la lingua...
“Ah già, ti saluta la tua donna,” mi fa, mentre cerco il tasto giusto sul lettore dvd, visto che le pile del telecomando si sono scaricate mesi fa.
“L'ho sentita ieri per telefono. Spostati,” la spingo più in là, pizzicandole un fianco. “Non vorrai mica prendere tutto il posto tu.”
“Potresti fare il cavaliere e sederti per terra.”
“Potresti alzarti e andare a vedere la televisione di là”.
Alla fine io tiro su il cuscino e mi ci appoggio, guardando il film semi-disteso mentre lei prima sta seduta a gambe incrociate, poi si stende, poi si mette di fianco, e poi a pancia sotto, con la testa sulla mia pancia, con i piedi sulle mie ginocchia, mai più di cinque minuti nella stessa posizione, con il risultato che mi ansia a livelli indicibili e mi disfa il letto fino a creare una sorta di rosa di lenzuola proprio al centro. Io la osservo con disappunto ma lei non fa una piega, come se agitarsi come un'anguilla appena pescata e lasciata a morire sopra la barca a secco fosse perfettamente normale. Rimango a fissarla ancora un altro po', casomai sentisse il calore del mio sguardo che le perfora la testa, ma niente, lei è presa da Vin Diesel sullo schermo e non s'interessa minimamente a me o al buco che sto facendo nel suo cranio. Alla fine mi accomodo meglio contro il mio cuscino e Clara decide di girarsi ancora e di accomodarsi meglio su di me come quand'era piccolina. Una delle cose che mi mancano a vivere da solo è proprio lei che invade i miei spazi e li fa suoi senza che per questo a me venga voglia di ammazzarla. Una cosa che quando mi capita, anche in misura minore, con qualcun altro – tipo Eko che a tavola mi allunga un braccio davanti al viso per prendere il sale, per dire – vorrei bastonarlo finché non implora pietà, magari anche in turco, giusto per variare un po'.
Verso la fine del film, quando ormai Vin ha fracassato più macchine di quante una persona normale potrebbe comprarne in tutta una vita, siamo ormai compressi in una sola metà del letto, con tutte le lenzuola ammonticchiate da una parte e Clara che si tiene stretta al peluche che lei stessa mi ha regalato per Natale, e che non ho mai capito cosa sia, ma faccio finta di averlo capito quando ho aperto il pacco regalo e ora lo tengo con orgoglio fra un cuscino e l'altro e quando la gente mi chiede “Ma cos'è quel coso?” Io rispondo che me l'ha regalato Clara, che non è una risposta ma tutti a quel punto tacciono perché di mia sorella non devono parlare.
Quando arrivano i titoli di coda, so già che lei si è addormentata e mi sta un po' sbavando sulla canottiera, così sospiro e penso che adesso dovrò alzarmi, prenderla in braccio e portarla sul divano, quindi tornare qui, e rifare il letto perché se dormo in mezzo a quel lenzuolo stropicciato domattina avrò sul viso una ragnatela di linee. A scivolare via dalla morsa a tenaglia sono diventato bravissimo quando il letto era quello suo, a casa, e lei mi piangeva addosso tutte le sue lacrime perché si era lasciata col fidanzato e poi, sfinita, crollava secca che non la svegliavano nemmeno i bombardamenti. Sussulta solo un pochino, poi stringe quella cosa di peluche e si raggomitola diventando ancora più piccola – almeno lei può considerare una bella qualità quella di essere minuta e tascabile. Vado in cucina a bere con l'idea poi di tornare e toglierla dal mio letto ma quando torno lei è sempre arrotolata, ma al centro, con la testa appoggiata sul mio pigiama e io penso che non la sposto manco se entrano armati ad ordinarmelo – non vedo il motivo, ma insomma – perché mi fa tenerezza e perché probabilmente aveva progettato tutto, perfino di addormentarsi, anzi forse nemmeno dorme e io sono un uomo asservito di fronte al suo piccolo genio. Lo dice sempre mia mamma, quando parla con la nonna, con le vicine, con chiunque anche e soprattutto a chi non gliene frega niente: Clara, Peter, potrebbe farlo a pezzi e lui glielo lascerebbe fare. Mia madre è un sacco cruenta nelle metafore.
Torno in salotto dove il divano sembra guardarmi affranto come io guardo lui: d'altronde sono molto più pesante di mia sorella e per lui sarà più stancante sostenere me.
“E dove dorme Peter?” Chiedo ad alta voce, ripetendo quello che diceva Clara a tre anni, quando mi fregava il letto già allora. Sul divano dorme, ovviamente.
L'unica cosa bella dell'essere corto è che sto comodo anche qua sopra.

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).